Scrivo dopo aver letto la mail perfetta di "mazzociompi". Mr Tambourine,
almeno una volta, segui un buon consiglio! E soprattutto rileggi la mail di
"mazzociompi", perchè dalla tua risposta è evidente che non hai proprio
capito cosa ti suggeriva.
Francesco.
Caro Francesco, perdona la mia poca capacità di capire
i suggerimenti, e probabilmente non ho davvero capito, potresti essere tu,
per favore, così gentile a spiegarmi, dopo le feste naturalmente, il
messaggio di "mazzociompi"? Resto in attesa di tue nuove! Auguroni di buone
feste, Mr.Tambourine.
Ciao Mr. Tambourine.
Come va? Intanto complimenti per come stai portando avanti
maggiesfarm....divinamente!!
Intanto vorrei fare gli auguri a tutti voi della fattoria di un Sereno
Natale e un Felicissimo Anno Nuovo!
Con l'occasione volevo condividere con voi una delle mie ultime esperienze
musicali: nel mio ultimo singolo "I numeri primi" (in giro già da qualche
mese su iTunes, Amazon ecc.), ha suonato il chitarrista John JJ Jackson (con
Dylan dal 91 al 97...SupperClub, Woodstock 94, Mtv Unplugged ecc...). Ha
registrato sulla mia song, il suo splendido Dobro al The Audio Bunker Studio
di New York.
Scrivo questo perchè mi sento parte di maggiesfarm (partecipai anche al
bellissimo Maggiesfarm Folk Festival di qualche anno fa!) e quindi è una
modo per ringraziarvi per ciò che fate!
Cari saluti a Michele. Un abbraccio a tutti e rinnovo gli auguri.
Andrea Del Monte
X Mr. Tambourine: se vuoi, sarebbe mio grande piacere inviarti la canzone.
Carissimo Andrea, certo
che mi piacerebbe avere la tua canzone! Resto in attesa di riceverla ( se è
in formato MP3 puoi mandarmela anche via mail).
Pubblico l'indirizzo del tuo sito così anche chi non ti conosce ancora potrà
dare uno sguardo ed aggiornarsi:
http://www.myspace.com/andreadelmonte
Ricordo anche la tua
bellissima partecipazione a Sezze Latina nello spettacolo "Positively Bob
Dylan" (clicca
qui per la rece dell'evento) accompagnato dalla
Hat Band, di quella sera ricordo la tua versione DeAndreiana di "Romance in
Durango", davvero grande!
Son felice che tu abbia
potuto godere della partecipazione di John JJ Jackson, sono certo che te lo
meritavi, altrimenti gente di quel calibro difficilmente si muove. Sono
ancora più contento che, sebbene sia passato molto tempo, tu ti senta ancora
parte della Fattoria, e poi, oltre che ricambiare gli auguri per le feste,
vorrei anche ringraziarti per le belle parole. Allora alla prossima
occasione, OK? Ciao, Mr.Tambourine.
Il 23 Dicembre 2011 l’amico Carlo se n’è andato
per bussare alle porte del paradiso. Promoter per passione, di razza pura,
ha portato in Italia tantissimi artisti americani che senza il suo tramite
probabilmente non avremmo mai avuto il piacere di vedere. Carlo, con in
testa il suo inseparabile baschetto alla “Che Guevara” organizzava
spettacoli e tour per questi artisti perchè il primo a credere di fare una
cosa bella e giusta era proprio lui. Allo scopo aveva creato la “Only a
Hobo” production in quel di Sesto Calende dove abitava, dove ospitava sempre
tutti gli artisti che venivano in tournee da noi. Ricordo che molti anni fa
davo una mano a Marcello Redaelli, titolare del negozio di strumenti
musicali “Musica vera” di Erba, quando, attraverso amici comuni, Marcello fu
contattato da Carlo per fare il service per Ruth Gerson e la sua band. Ruth
fu veramente entusista del nostro lavoro e questo ci fece lavorare qualche
annetto per Carlo e per i suoi artisti. Bob Neuwhirt, si, proprio quello di
Bob Dylan, Gli Yardbirds, Gli Animals, Billy Joe Shaver accompagnato da quel
fenomenale chitarrista che era suo figlio Eddy proprio un anno prima
dell’incidente nel quale Eddy resterà vittima, poi Ruth Gerson, Willie Nile,
Bocephus King, Tom Pacheco, Greg Trooper, Paul Page, Darden Smith, Donna the
Buffalo, Lucy Kaplansky. Savoy Brown, John Prine, Jason Reed, Say Zuzu, e
chissà quanti altri ne ho dimenticati. Credo che il buon Carlo ci abbia
messo tante volte del suo per portare qualcuno di questi artisti ad esibirsi
da noi, ma Carlo era un tipo che non si lamentava mai, se vedeva la gente
intorno a lui felice lui aveva centrato il suo target, aveva realizzato uno
dei suoi tanti sogni.
Il suo cantante preferito: Bob Dylan naturalmente, la sua canzone preferita
“Desolation Raw”, si lamentava sempre che non era mai riuscito a sentire una
cover di Desolation da tutti quegli artisti, fino a quando una bella sera un
“Mick Dylan - pre Blackstones” al Parco Barni di Canzo, aprendo lo show di
Ruth Gerson gliela dedicò facendolo felice.
Ora Carlo ha dovuto andarsene, alla chiamata di monna morte nessuno di noi
può rimanere sordo, quando la putrida signora chiama bisogna andare, giovani
o vecchi, volenti o nolenti. Ma quello che la schifosa signora non può
portare con se è il ricordo della persona, quello è rimasto con noi, grando
e piccoli amici, ugualmente conquistati dalla simpatia e dalla squisitezza
di Carlo. Ciao Carlo, bussa alle porte del paradiso, te lo sei più che
meritato, il tuo spirito resta sempre con noi, è solo il tuo corpo che ci ha
lasciato. Chissà quante volte ripeteremo il tuo nome nelle varie serate “ti
ricordi quando.......”, qualche volta rideremo e qualche volta ci scapperà
una lacrima vagabonda, e tu griderai ancora com’eri solito fare
“UANMORRRRRRRRRRRRRRRR!!!
Di lui ha detto Paolo Vites:
- Ha fatto diventare carne e sangue quei volti che per noi erano solo
fotografie su di un vinile. Per poco, ha reso reale e possibile quello che
era irreale e lontano. E' stato il padre che non avevamo mai avuto, ci ha
insegnato quello che valeva la pena sapere. Grazie Carlo, non stare via
troppo. Dobbiamo ancora far venire Bob Dylan a Sesto Calende -.
Il giornalista Alessio Brunialti ha voluto ricordarlo così:
- Carlo Carlini amava la musica. Si sarebbe dannato per portare un artista
purché il suo disco non fosse in classifica, benché mai nessuno l'avesse
sentito, pure se questo tizio era sempre in ritardo e tutti se la prendevano
con Carlo Carlini. Ma voi, voi che andavate ai concerti e avete saputo la
triste notizia, frenate per un pò la vostra commozione: non è tempo di
piangere ancora.
Carlo Carlini non aveva un'età, aveva cent'anni, o venti, o tutti, perché a
vivere in corsa il vento ti consuma, bevendo e fumando, gustando ogni
giorno, senza mai un pensiero per le conseguenze, ridendo e scherzando anche
sugli acciacchi, contando gli anni sulle label dei dischi. Ma voi, voi che
avete saputo e magari vorreste una morale, frenate per un pò la vostra
commozione: non è tempo di piangere ancora.
Carlo Carlini mi ha venduto dei dischi che dopo dieci anni sanno ancora di
posacenere, naturalmente tutti album di cantautori, naturalmente,
rigorosamente tutti americani, naturalmente ovviamente lui li aveva portati
a suonare in concerto nei posti più assurdi, ma tutti si divertivano e
cantavano senza risparmio e lui urlava "UANMÒR" in fondo alla sala e i
dischi di Dylan mica te li rivendeva. Ma voi, voi che lo avete conosciuto e
sapete già tutto questo, frenate per un pò la vostra commozione: non è tempo
di piangere ancora.
Carlo Carlini per tutti gli altri, forse è un nome che non dice e non ha mai
detto niente, professione "promoter" non gli fa onore, i promoter sono gente
con i macchinoni, che punta ad artisti pieni di milioni, e milioni e milioni
e poi altri milioni, i milioni che mancavano a Carlo Carlini, se no li
avrebbe spesi per assumere Dylan e tenerselo in casa come jukebox vivente.
Di Carlo Carlini ci sono racconti che vivranno per sempre perché ce li ha
detti, di come ubriacava quasi tutti gli artisti, appena erano discesi a
Malpensa, di come avevano suonato meglio la volta prima, di come "sto qua è
anche meglio di Springsteen", di come "il disco nuovo fa schifo, ma lui è
forte", di quando lo chiamavano "il pirata del Verbano", ma tutto è finito
con Carlo Carlini. E voi, voi che avete capito che non tornerà mai più,
accompagnate con Dylan la vostra commozione, oggi è il giorno delle lacrime.
Ciao Carlo, non credevo di doverti dedicare un brano acconcio, alla vigilia
di Natale, poi... Non il tuo Dylan, che pure te ne sei andato ascoltandolo,
ma qualcosa per il tuo grande amore americano e noi sappiamo che death is
not the end:
http://www.youtube.com/watch?v=dbk-hXjSTgM
Le parole di Marcello Redaelli:
- è proprio un Natale triste senza il Carlo ed il suo basco
chevariano.....mi sono commosso leggendo il suo profilo...un abbraccio a lui
e tanti auguri per il prossimo anno perchè Carlo sarà sempre con noi, perchè
Carlo non può andarsene e lasciarci qui come quelli della Mascherpa........
Marcello -
Lungi da me criticare lo splendido lavoro di Mr.Tambourine e degli altri
amici della Farm, ma credo che ultimamente gli articoli pubblicati tra le
news siano eccessivamente lunghi. Sarà che ho pochi minuti per "navigare" a
causa del lavoro, sarà che sto seduto al PC su una sedia scomoda, sarà che
sono vagabondo, ma purtroppo quando noto la lunghezza dell'articolo desisto
dal leggerlo. Credo dovreste provare, come vedo su altri siti, a pubblicare
un' ampia sintesi (mettiamo sulle 10 righe), poi se uno vuole approfondire la
cosa clicca e apre la pagina per leggersi tutto. Così com'è oggi anche
l'impatto visivo del sito ne risente molto. Scusate il disturbo e buon
natale a tutti!
P.S. Sono stato a Firenze. Concerto sublime......... ora tocca al Boss e a
tom Petty a giugno. OLE'!
Caro Mazzociompi, ti chiamo
così perchè non avendo tu firmato la mail col tuo nome sono costretto ad
usare il nikename della tua mail, cercherò di spiegarti. Forse una parte di
ragione ce l'hai anche tu, ma in questo periodo, diciamo pure dalla fine del
tour 2011, di news su Bob Dylan non ce ne sono state più, a parte la
compilation "Chimes of Freedom" per Amnesty che tra l'altro è un tributo a
Dylan per il quale siamo stati tutti felici, ma certo non si tratta di un
lavoro di Dylan. Dicevo dunque che di news non ce ne sono, tutti i siti
vanno un pò a riperscare nel passato cose già pubblicate molto tempo fa,
cose che molte persone potrebbero aver dimenticato o non ricordarsi di aver
letto, quindi possono trovare piacere nel leggere cose che magari erano
sfuggite alla loro attenzione, anche perchè col tempo anche i visitatori
cambiano, alcuni se ne vanno e alcuni arrivano, com'è nel corso delle umane
cose. Così fa anche la Fattoria, rispolvera cose che forse molti di voi non
hanno letto, cose che giacciono negli immensi archivi di Maggiesfarm e che
val sempre la pena di rinfrescare. Il tuo suggerimento è valido, ma se
l'adottassi non farei che creare dei doppioni di roba che è già in archivio,
quindi sii paziente, leggi le prime righe poi, se l'argomento non ti
interessa, se lo conosci già o se semplicemente non hai abbastanza tempo,
saltalo, non è un delitto :o) ! Il Boss è molto bravo ma a parte
"Born to run" non mi ha più "tenuto" nella sua rete, forse i troppi anni di
stop in attesa che gli scadesse il contratto discografico per poter
finalmente fare quello che voleva lui. Tom invece è un mito, un grande
musicista ed artista arrivato per sua sfortuna 10 anni troppo tardi, almeno
così la penso io, mi sarebbe piaciuto vedere Tom all'epoca d'oro dei Byrds,
certo avrebbe fatto il doppio di quanto ha fatto finora, in quegli anni gli
stimoli erano maggiori, ma comunque la controprova non l'avremo mai, ma
credo che si possa essere più che soddisfatti anche di questo Tom Petty!!!
Buon Natale anche a te, alla prossima, :o)
di Enrico Bernard
pubblicato: dicembre 2007 su
http://www.amnesiavivace.it/sommario/rivista/brani/pezzo.asp?id=360
Al di là delle questioni ideologiche che
vorrei focalizzare brevemente, non si può trascurare il fatto che il '68 non
è stato solo un fenomeno cieco di protesta, violenza e rivolta tutto "sesso,
droga e rock'n roll", ma soprattutto un tentativo di costruire un mondo
nuovo, un'alternativa esistenziale basata sull'arte, sulla musica, sulla
poesia. Così, se qualcuno oggi mi chiedesse provocatoriamente ("sai chi
erano i Beatles?" canta Gianni Morandi che al '68 ha dato pure un brano, un
inno politico come C'era un ragazzo) quali siano i prodotti culturali più
significativi della Contestazione, oltre al Libretto Rosso di Mao e alla
leggendaria figura del Che, potrei rispondere con una lunga lista definendo
l'eredità spirituale del '68 come un nuovo Rinascimento. Stiamo infatti
parlando di un fenomeno che non partì - si ricordi - dagli stadi e dalle
borgate sottoproletarie, cui peraltro Pasolini ha dato nobile voce; ma fu
innanzitutto un atto di rivolta culturale e di poesia.
«La nostra era una rivolta che si richiamava più a Camus e
all'esistenzialismo che a Marx» ha spiegato lo scrittore Uwe Timm , uno dei
protagonisti del '68 tedesco, sul "Corriere della Sera" del 28 giugno 2007
(pag. 43).
Fra i tanti, grandi nomi che mi vengono subito in mente (il cantore del '68
fu in Italia indubbiamente De André con la sua ballata contro la guerra La
guerra di Piero) ce n'è uno in particolare che rappresenta non solo la
testimonianza vivente del '68, ma anche l'attualità e la necessità di un
nuovo Rinascimento e magari di una nuova contestazione: Bob Dylan. Ecco, Bob
Dylan è da solo un buon motivo per giustificare, assolvere e tramandare il
fenomeno della Contestazione alle future generazioni, come cura contro ogni
forma di malessere sociale e per favorire la rigenerazione di una società
vecchia e repressiva attraverso la poesia e la musica. La verità è che se
non ci fossero stati il '68 e Bob Dylan, oggi saremmo culturalmente più
poveri e totalmente asserviti ad un consumismo feroce che tollera la libertà
"usa e getta" ma mette in discussione i principi di libertà sociali e
individuali faticosamente conquistati. E forse saremmo già stati ridotti in
cenere dalle "loro" bombe atomiche. Grazie anche, e forse soprattutto, a
Dylan abbiamo per ora fermato la distruzione del mondo, anche se il
ticchettio dell'orologio della fine nucleare continua ad allarmarci. Questo
è il risultato del '68 con cui gli occhialuti critici devono fare i conti
prima di criticare la Contestazione: la momentanea salvezza dell'umanità che
quei milioni di giovani in piazza a Parigi, Washington, Berlino, Roma e -
insisto - Praga resero miracolosamente possibile dando poderose spallate
all'imperialismo occidentale e alla prigione comunista. Risultati? La fine
della guerra e del massacro in Indocina e la caduta del comunismo sovietico,
avvenuta venti anni dopo, ma sempre come effetto ritardato della
contestazione che portò un forte desiderio di libertà.
È pure comprensibile che la protesta abbia assunto toni, simboli (il
comunismo combattuto a Praga in nome della libertà era il simbolo dei
giovani occidentali che chiedevano più libertà) e significati spesso
contraddittori. In fin dei conti quelli che scendevano in piazza erano in
gran parte studenti liceali influenzabili ideologicamente e portatori di un
"vissuto" individuale, di bisogni e sogni, speranze ed illusioni
apparentemente antitetici al collettivismo e al mito della "massa"
manifestante. Ma io considero questo innesto del privato nel "collettivismo
politico" non come una contraddizione, bensì come un arricchimento del
movimento.
Allora, emblematica della feconda commistione di impegno ed evasione,
cultura e politica, ricerca di libertà individuale e lotta per i diritti di
tutti è certamente la frase "storica" che Dylan, appena ragazzo in cerca di
se stesso e dei suoi ideali, scrive sul fodero della sua chitarra: «L'unica
arma che ammazza i fascisti». E giustamente il bel film appena uscito in
sala, Io non sono qui di Tod Haynes, con una superlativa Cate Blanchett che
(con Christian Bale, Richard Gere e Heath Ledger) interpreta la
sfaccettatura femminile di un personaggio poliedrico come Bob, mette in
evidenza l'importanza storica di un principio di libertà e di cultura che,
naturalmente, non vuole ammazzare nessuno (parliamo di chitarre e non di
pistole), ma convincere e commuovere - anche i fascisti - con la forza della
poesia, cioè della verità.
Ma oltre a consigliare la visione di questo film, in cui l'ansia, anche
sessuale, di libertà assume una dimensione intellettuale e politica
(l'individuo Dylan si impegna nel pubblico senza trascurare i propri bisogni
e pulsioni, ecco le apparenti contraddizioni del "Menestrello" sempre in
bilico tra politica e culto dell'Io), voglio parlare di un evento
editoriale. Mi riferisco alla monumentale e splendida monografia pubblicata
da Feltrinelli: Bob Dylan Lyrics 1962-2001, traduzione e cura di Alessandro
Carrera, 1250 pagine - ripeto in lettere milleduecentocinquanta -, 60 Euro,
una edizione ricchissima anche di materiali fotografici. Il volume, che
consiglio a tutti di non perdere assolutamente (perché, come dichiara Bruce
Springsteen, «Bob Dylan ci ha liberato la mente così come Elvis Presley ci
aveva liberato il corpo»), presenta due sezioni. La prima, oceanica, è
dedicata ai testi di tutte - dico, tutte! - le canzoni di Dylan scritte nel
corso di un quarantennio, cioè dagli esordi fino ai primi anni 2000. I testi
sono in lingua originale con traduzione italiana a fronte, una traduzione
curata da un poeta in proprio come Alessandro Carrera, del quale parlerò tra
poco. La seconda sezione più "contenuta" - si fa per dire, 200 pagine! - è
una bellissima biografia del "Menestrello" raccontata però attraverso la
storia cronologica delle sue canzoni. Una scelta molto felice in quanto è
impossibile anche dal profilo biografico distinguere vita e opera artistica
di questo geniale cantore del nostro secolo. Un po' come Omero e l'Odissea:
dove finisce la storia del poeta comincia quella della sua poesia.
Dicevo del traduttore Alessandro Carrera, nato a Lodi nel 1954, trasferitosi
negli Usa da molti anni dove attualmente insegna letteratura italiana presso
l'università del Texas. Parlo diffusamente di Carrera perché sono convinto
che il lavoro di un traduttore sia di per sé una forma di reinvenzione
dell'opera originale: una trasformazione che va ben oltre la trasposizione
da una lingua all'altra. Carrera è un poeta e un cantastorie, compone e
canta ballate accompagnandosi alla chitarra e all'armonica con vero e
proprio spirito "dylaniano". Nessuno meglio di lui poteva dunque entrare nel
contesto artistico di un genio a volte anche oscuro come quello di Bob. È
utile però ripetere che Carrera lega l'attività artistica a quella di
docente di letteratura, il che comporta un grande rispetto filologico per il
testo originale. In questo caso il traduttore Carrera sceglie una strada
felice evitando la sovrapposizione artistica e limitandosi ad una funzione
di chiarificazione e mediazione linguistica.
«Alessandro Carrera conosce la pazienza e la misura che, ben oltre il gesto,
giungono a fare della scrittura un evento significativo... In tale universo
l'energia semantica è in perenne attività, in atto cioè di continua e
sorprendente capacità di trasformazione del senso nelle parole...» Alberto
Cappi, "Poesia", Anno X, n. 110, ottobre 1997
Questa «capacità di trasformazione del senso nelle parole» chiaramente non
si riferisce esclusivamente all'opera poetica originale di Alessandro
Carrera (recente la pubblicazione della sua raccolta di liriche La stella
del mattino e della sera, edita da Il Filo), ma anche alla sua attività di
traduttore, in questo caso dei testi delle ballate di Bob Dylan. Se è vero
come è vero che tradurre è un po' tradire, Carrera riesce a tradire il suo
mito Dylan ma restandogli paradossalmente fedele. Mi spiego: i testi del
"Menestrello" presentano una struttura fatta di assonanze fonetiche e
semantiche, di rime baciate, talvolta ripeto oscure, ancorché spiegate dalla
voce o dalla performance live dell'artista, ma di un'oscurità che
improvvisamente s'irrora di una luce misteriosa, interiore. È la luce di
un'anima poetica che vaga nei meandri della mente fino a trovare la via
d'uscita, il senso, ossia l'illuminazione. Carrera fa allora una scelta
drastica, rinuncia a tradire poeticamente l'originale evitando di
ripristinare in italiano la struttura metrica e fonetica. A lui interessa
più che altro il senso narrativo del testo e di conseguenza non
strumentalizza Dylan per far la sua di poesia, bensì è come se
"novellizzasse" l'originale inglese in un italiano senza fronzoli, senza
tentativi lirici, insomma cercando di far capire la canzone trasmettendone
il senso "filosofico", anche a costo di andare a scapito della forma lirica.
Faccio un esempio pratico sulla base della celeberrima ballata Knockin' on
Heaven's Door confrontando testo originale inglese (in rima) e traduzione
italiana in versi liberi:
Mama, take this badge off of me
J can't use it anymore
It's gettin' dark, too dark for me to see
J feel like J'm knockin' on heaven's door
Knock, knock, knockin' on heaven's door
Mama, put my guns in the grond
J can't shoot them anymore
That long black cloud is comin' down
J feel like J' m knockin' on heaven's door
Knock, knock, knockin' on heaven's door
Carrera traduce in un italiano comprensibile anche se poco cantabile:
Toglimi il distintivo, mama,
non mi serve più.
Si fa buio, troppo buio, non ci vedo più.
sento che sto per bussare alle porte del cielo.
Sto per bussare alle porte del cielo
Seppellisci le pistole, mama,
non le userò mai più.
C'è una lunga nuvola nera che arriva,
sento che sto per bussare alle porte del cielo.
Sto per bussare alle porte del cielo
Ho detto del verso e della rima che non corrispondono nelle due versioni, ma
c'è altro da notare in questo breve esempio. In primo luogo la
punteggiatura. Nell'originale inglese essa è totalmente assente, mentre
invece compare nella versione italiana. Viceversa, mentre tutti i versi
inglesi cominciano con la maiuscola, quelli italiani alternano minuscola e
maiuscola. Perché? A mio avviso perché l'intento del traduttore, che ha,
dicevo, tutto il bagaglio lirico ed espressivo nonché la necessaria
esperienza e sensibilità poetica per tentare la versione cantabile,
giustamente si astiene e si eclissa dietro il senso, la semantica del testo
che vuole rendere con estrema chiarezza, costi quel che costi.
Le problematiche legate alla traduzione di Dylan in italiano sono state del
resto spiegate da Carrera in un saggio Del tradurre Bob Dylan in italiano
che qui cito in ampia sintesi (l'edizione integrale è comparsa sulla rivista
"Il Filo"). Mi scuso per la lunga citazione, ma ritengo che questo
intervento di Carrera sia molto importante per qualsiasi traduttore poiché
fa capire tutte le difficoltà da affrontare e risolvere prima di mettersi al
lavoro.
Per chi traduce poesia l’esilio peggiore è quello dal paradiso della rima.
Lì non c’è ritorno o riconquista possibile. Non ci sarà modo di dare a
un’altra cassa armonica le stesse risonanze di quel liuto che era stato
messo insieme con il legno dell’albero edenico. Peggio ancora, poi, se il
Testo da tradurre era originariamente parte di una canzone. Perché in questo
caso il traduttore non dovrà tradurre solo il verso rimato, ma anche la voce
del cantante, la sua intonazione, le sue idiosincrasie vocali, i suoi
silenzi e le sue debolezze, perché tutto concorre al significato di una
canzone, non solo quel che c’è scritto, ma ancor di più quello che nemmeno
si può scrivere.
Bob Dylan, del quale ho tradotto 355 canzoni dall’estate del 2002 all’inizio
del 2006 (ora raccolte in Lyrics 1962-2001, Feltrinelli 2006) è appunto
l’incarnazione dell’incubo peggiore che possa assillare un traduttore: un
autore nel quale tutta la scrittura è riassunta nella voce, anzi nelle voci,
perché Dylan ne ha molte, una per ogni fase della sua carriera, al punto che
spesso sembra mutare scrittura solo per rincorrere le metamorfosi della sua
voce. E se una voce non si può mai adeguatamente trascrivere (autorevoli
filosofi hanno così argomentato, in anni recenti), come si potrà addirittura
tradurre?
Il criterio che ho seguito nella traduzione delle Lyrics dylaniane è stato
quello di attenermi contemporaneamente a molti criteri, senza privilegiarne
nessuno e cercando di evitare il più possibile ostinazioni o partiti presi.
Soprattutto, ho cercato "to get it right", di tradurre cioè con la maggior
precisione possibile le espressioni idiomatiche che, data la loro
appartenenza a una lingua così mutevole come l’americano parlato, sono
sfuggite ai traduttori che si sono fermati ai testi degli anni sessanta o
che non hanno potuto spingersi oltre gli ottanta. Al loro occasionale
surrealismo traduttoriale ho spesso sostituito significati che non erano poi
così oscuri, a patto di conoscere l’espressione idiomatica di riferimento.
Non che fosse facile (a volte si tratta di espressioni poco note anche agli
americani), e ammetto di avere lavorato in condizioni migliori delle loro,
se non altro perché avevo a disposizione più passato, più letteratura
critica, più banche dati su carta e in internet, nonché amici competenti e
volonterosi. La preoccupazione di tradurre veramente, e non di inventarmi
una traduzione, mi ha costretto però a ridurre talvolta le mie ambizioni.
Dove ho sentito che potevo osare senza stravolgere il verso, ho osato. Ma se
il prezzo da pagare per una traduzione più poetica e cantante era, un’altra
volta, l’incomprensione di ciò che Dylan effettivamente dice, allora ho
preferito non pagarlo. A traduttori futuri che vorranno riscrivere Dylan
secondo i loro criteri e per i loro fini passo volentieri la mano. Nel corso
di questo lavoro mi sono reso conto che un traduttore può riscrivere,
rimodellare, ricreare, ri-soffrire il páthos del testo originale, renderlo
più fluido nella propria lingua, a volte perfino migliorarlo, ma che spesso
deve abbassare la cresta e limitarsi a tradurre.
La prima decisione che dovevo prendere riguardava le allocuzioni affettive
come "baby”, "mama”, "daddy”, "honey”, "love”. Ho scartato subito ogni
variante di "bambina”, "bimba”, "dolcezza, "cara” o "tesoro” (a queste
ultime due ho riservato solo un contesto ironico). In inglese si tratta di
termini che non hanno età, non richiamano nessuna classe sociale e a volte
non hanno nemmeno sesso, ma in italiano appartengono unicamente alla lingua
della piccola borghesia o al lessico fortemente codificato del libretto
d’opera primo Novecento e della canzone di consumo. "Bimba dagli occhi pieni
di malia” si ascolta nella Madama Butterfly ma, visto che il personaggio che
canta è un americano, non è detto che non sia un traduzione di "baby”.
"Ciao, ciao, bambina, un bacio ancora” è stato il tentativo di Dino Verde e
Domenico Modugno di tradurre "Bye, bye, baby” ma, nonostante il successo,
l’espressione non ha avuto presa. In effetti non era nuova, e gli italiani
avevano ancora nelle orecchie alcuni versi di canzoni degli anni trenta come
"Bambina innamorata, stanotte ti ho sognata”. "Tesoro”, "cara” e "dolcezza”,
poi, se non sono ironici (come in "cara mia”) sono semplicemente orribili,
sanno di sceneggiato televisivo mal tradotto. "Amore” va usato con molta
parsimonia, perché in inglese uno può dire indifferentemente che ama Dio,
ama il suo cane o ama la crostata di mele di sua zia, ma in italiano bisogna
andarci piano con l’amore (meglio "amore mio”). La lingua di Dylan, poi, non
è quella della piccola borghesia americana, e in italiano necessita di uno
strato più profondo, popolare senza essere per forza populista; quello che,
se vogliamo restare nell’ambito della canzone, appartiene magari a Paolo
Conte o a Enzo Jannacci.
In realtà la corrispondenza quasi perfetta con "baby” si avrebbe con le
espressioni napoletane "nenna” o "nennella”, purtroppo inutilizzabili perché
non diffuse su tutto il territorio nazionale (e sulla questione dei
possibili apporti dialettali mi dilungherò più avanti). "Ragazza mia” si può
usare se il tono non è troppo dolce. Quanto al maschile, "ragazzi” o "salve
ragazzi” sa di oratorio e di trasmissioni per giovani alla radio negli anni
sessanta, ed è quasi sempre meglio tradurlo con "amici” o "amici miei”. In
definitiva, per trovare l’equivalente di "baby” mi sono letto l’antologia
della poesia popolare italiana curata da Pier Paolo Pasolini nonché la
raccolta di canti italiani curata da Roberto Leydi. L’unico possibile
equivalente italiano, comune a tutti i dialetti e a tutte le tradizioni, è
"bella” o "bella mia”. Ma anche "bella” non va inflazionato. Dylan canta, ha
bisogno di riempire il verso e a questo scopo "baby” va sempre bene. Ma una
volta che il suo testo viene letto, e letto in un’altra lingua, di simili
riempitivi non c’è bisogno. Sulla pagina danno solo fastidio. Da qui la
decisione di compiere un massacro degli innocenti e di eliminare quanti più
"babies” possibile. Ho lasciato "bella”, "bella mia” o "ragazza mia” solo
quando il verso e il senso lo richiedevano. Non l’ho usata neanche una volta
in canzoni piene di "babies” come It Ain’t Me, Babe o Baby, Stop Crying. Ho
lasciato l’espressione in inglese, invece, quando aveva un effetto fonetico
che non si poteva alterare, come in It’s All Over Now, Baby Blue o in Sugar
Baby, perché "Baby Blue” non si può tradurre con "bambina triste” o "bambina
blu”. Può avere il senso, se si vuole, di "perla dei miei occhi”, ma in
realtà non vuol dire niente di preciso, è semplicemente un effetto della
tavolozza fonetica dell’inglese. Cercare di tradurlo in italiano sarebbe
come voler tradurre in inglese "c’era una volta un bambino piccino picciò”.
E una "sugar baby” non è necessariamente una "zuccherina”.
Certo, qualcosa nel passaggio si perde. Data l’ambiguità di "babe”, It Ain’t
Me, Babe è una canzone rivolta da un uomo a una donna solo perché la canta
Dylan. In realtà può anche essere indirizzata da una donna a un uomo (così
infatti, senza cambiare una virgola, la canta Joan Baez). Per lasciare la
stessa ambiguità in italiano avrei però dovuto concludere ogni strofa con un
verso che non mi piaceva. Invece di "l’uomo che cerchi tu non sono io” avrei
dovuto dire "chi cerchi tu non sono io” con un effetto di chiusura troppo
brusco e dal suono troppo secco. Pazienza per l’ambiguità.
Il secondo problema consisteva nel rendere le espressioni di movimento come
"I am walking”, "down the road”, "down the highway” o "along the line”.
L’archetipo dylaniano è quello di un uomo che cammina lungo il ciglio di una
strada di campagna. È così da I’m Walking Down the Line del 1962 a Love Sick
del 1997, fino alla Ain’t Talking del recentissimo Modern Times ("Ain’t
talking, just walking”; come a dire: "Parlare non parlo, cammino e basta”),
perché è uno degli archetipi del blues e del country. Ma non è un archetipo
italiano, e non è neanche una forma del moto che la lingua italiana abbia
mai dovuto esprimere in quel modo. L’inglese pone un’enfasi tutta
preposizionale (spero si possa dire così) su movimenti anche minimi che in
italiano non può essere resa in parallelo. Non c’è modo di rendere
letteralmente un verso come questo di Jim Morrison in The End: "And he
walked on down the hall”. Bisogna ricorrere a "proseguì”, "mosse i suoi
passi”, "avanzò”, "attraversò”, ma certo non si può tradurre "continuò a
camminare lungo il salone” (per quanto ci siano esimi traduttori di testi
rock perfettamente convinti che se tu non traduci così vuol dire che non sai
l’inglese). Ma torniamo a Dylan e prendiamo un verso di Black Diamond Bay:
"She walks across the marble floor”. Certo, si può tradurre: "Cammina sul
marmo del pavimento”, ma si sente che non funziona, che in italiano
l’espressione suona troppo generica, troppo meccanica, e che non dà nessun
senso di direzione o di scopo. Diremo allora "attraversa la stanza dal
pavimento di marmo” o, più concisamente, "attraversa la stanza di marmo”?
Sì, pur di non usare "cammina”, perché in italiano non si cammina, si va a
piedi. "È mezz’ora che cammino” va benissimo, perché descrive l’azione
fisica e non la destinazione. Ma "si va a piedi” da Lodi a Milano, come dice
la canzone della bella Gigogin. In italiano si "prende” una strada, si "fa”
un certo tratto di strada, si "percorre una via”, anche, ma non fa parte del
nostro bagaglio storico e linguistico dire di qualcuno che "camminava giù
per l’autostrada”.
Anche perché (a parte il "giù” come traduzione sbrigativa di "down”), mentre
il termine "highway” significa prima di tutto "strada maestra”, in Italia
l’autostrada comincia ad esistere negli anni sessanta e corrisponde a
"motorway”, "freeway” o "tollway” (autostrada a pedaggio). Quando Dylan
parla di "highway” a volte si riferisce alla moderna autostrada, altre volte
alla più antica strada maestra. Quello che Dylan ha in mente, in effetti, è
la nostra "statale” (cosa che Guccini aveva capito benissimo quando ha
scritto Statale 17, la sua canzone di autostop chiaramente ispirata a Down
the Highway), e ancora di più il nostro "stradone”, dove mi viene in
soccorso l’autorità del Bartali di Paolo Conte: "mi piace restar qui sullo
stradone / impolverato, se tu vuoi andare vai” (Dirty Road Blues, a tutti
gli effetti). Oppure, cambiando registro, l’autorità del Canzoniere di
Petrarca. Mi sono scervellato per ore su come rendere in un italiano vero,
non posticcio, non inglesizzato, il primo verso di Standing in the Doorway:
"I’m walking through the summer nights”, finché mi è venuto in mente che
Petrarca aveva già risolto il problema per me: "Solo e pensoso i più deserti
campi / vo misurando a passi tardi e lenti”. Da cui la traduzione che infine
ho adottato: "Misuro coi passi le sere d’estate”. Ma, proprio perché non
dovevo irrigidirmi su nessuna soluzione, mi sono accorto che il primo verso
di Love Sick, "I’m walking through streets that are dead” doveva risultare
il più possibile ricalcato sull’inglese: "Cammino su strade che sono morte”.
Non per come il verso è scritto, ma per come Dylan lo canta. Nessuna
traduzione può trascurare il modo in cui la voce di Dylan scandisce le
parole: "I’m walking - through streets that are DEAD”. E, giusto perché il
richiamo alla poesia "alta” non è mai fuori luogo quando parliamo di Dylan,
aggiungerò che ho tradotto All Along the Watchtower con Dalla torre di
vedetta (e non, pigramente, con "Lungo la torre di guardia” o simili) perché
una poesia di Mario Luzi raccolta in Onore del vero termina con il verso:
"Tanto afferra l’occhio da questa torre di vedetta”.
Il terzo tormento consisteva nel decidere che soluzioni adottare riguardo
alla rima e alla metrica. Come impostazione generale, ho cercato di
resistere all’ossessione della rima a tutti i costi, e di usarla solo con
prudenza, nei punti chiave, o quando il testo mi urlava nelle orecchie che
la voleva assolutamente. Gli italiani sono stranamente convinti che la loro
lingua abbia meno rime dell’inglese. T. S. Eliot (lo scrive nei suoi saggi
su Dante) era convinto dell’esatto contrario. Certamente una volta
l’italiano era una lingua straordinariamente flessibile, dato il grande
numero di troncamenti e inversioni sintattiche che permetteva (altrimenti
non sarebbe rimasto per due secoli la lingua franca dell’opera). Da quando
però l’italiano si è slatinizzato, modernizzato e linearizzato, queste
libertà si sono molto ridotte, e anzi oggi già troncare un infinito (come
facevano ancora impunemente Mogol e Battisti alla fine degli anni sessanta)
ci sembra una cosa vecchio stile, polverosa se non proprio brutta (De
Gregori ha scritto Sotto le stelle del Messico a trapanar proprio per
prendere in giro la scorciatoia dei troncamenti, e anzi voleva intitolare la
canzone Infiniti tronchi). Io non so se l’inglese abbia o non abbia più rime
dell’italiano. Certamente ha più rime tronche, ossitone, monosillabiche, e
poiché la canzone rock è in gran parte modellata sul fraseggio dell’inglese,
un testo italiano che voglia adattarsi al rock, evitando troncamenti ormai
demodé, finisce per usare quelle poche parole ossitone che possono essere
ficcate in fondo a un verso, oppure le solite rime morfologiche ottenute con
i futuri e i passati remoti dei verbi. Per carità, è una soluzione alla
quale ho fatto ricorso anch’io, e anche spesso, ma so che è una scorciatoia,
un cavarsela con poco (più o meno l’equivalente delle quinte parallele in
musica), e l’ho usata solo se mi sembrava che non disturbasse troppo, e anzi
che si notasse il meno possibile.
La rima è un orologio interno. È un aiuto per l’ascoltatore che, non avendo
il testo sottomano, sa quando aspettarsi la fine della strofa e, posto che
l’autore del testo abbia lasciato cadere i segnali giusti, anche la fine
della canzone. Ma una canzone resta una canzone anche alla lettura. A meno
di non eliminare la divisione in strofe e spezzare la simmetria dei versi
(come ha fatto ad esempio Giovanni Raboni nella sua traduzione dei Fiori del
male, con un coraggio che non tutti hanno apprezzato), la stessa forma delle
strofe, allineate come tante scatolette, sembra richiedere a gran voce che
l’orologio interno non venga lasciato a scaricarsi.
La soluzione, almeno per me , è consistita nel lavorare più sulla musica
interna del verso che sulla stampella della rima. Quindi ho utilizzato i
seguenti criteri:
1) Prosa versificata, all’occorrenza ritmata, quando la canzone ha versi
lunghi e una forte spinta narrativa. Non ha senso tradurre in rima e metrica
canzoni come Hurricane o Brownsville Girl. Sono racconti che bisogna rendere
leggibili e scorrevoli, senza l’impaccio di una struttura verbale
appesantita da continui ritorni.
2) Verso libero, in canzoni dove ogni verso ha un’autonomia forte e non ha
bisogno della rima per stare in piedi, come in A Hard Rain’s A-Gonna Fall o
nelle ultime canzoni che sono essenzialmente composte di one-liners, vale a
dire versi singoli di significato compiuto e che potrebbero essere spostati
da una canzone all’altra. Più il verso si fa aforistico e meno ha bisogno
della rima – anche se a volte, se non suonava sforzata, l’ho utilizzata.
3) Blank verse o versi sciolti, senza rima ma con una precisa struttura
metrica. Dando una struttura metricamente omogenea alla canzone il bisogno
della rima spariva, o si faceva sentire molto meno. Come esempio posso
citare il ritornello di Tomorrow Is a Long Time: "E solo se il mio amore mi
aspettasse, / se sentissi il suo cuore batter piano, / se solo si stendesse
qui al mio fianco, / tornerei a dormire nel mio letto”. Sono quattro
endecasillabi precisi, e l’unico modo di infilarci una rima consisteva
nell’aggiungere una zeppa: "se sentissi il suo cuore batter piano nel mio
petto”, giusto per far rima con "letto”. Per due canzoni narrative molto
vivaci come Bob Dylan’s New Orleans Rag e Motorpsycho Nightmare ho usato
l’ottonario o il settenario tronco, versi che in italiano hanno una storia
illustre (Rolli, Metastasio, Carducci) ma che dopo Sergio Tofano e il suo
Signor Bonaventura ("Qui comincia l’avventura / del signor Bonaventura”)
sanno di vecchiotto e di comico, e quindi andavano benissimo per il tono di
quelle canzoni. Del resto, Signor Bonaventura a parte, l’ottonario è una
formidabile macchina metrica, molto facile da combinare e molto trascinante
se si riesce a superare l’effetto cantilena. Ecco la prima strofa di
Motorpsycho Nightmare: "Ho bussato a un podere / per un posto dove stare. /
Ero stanco, stanco morto, / e venivo da lontano. / ‘Ehi, ehi’ dico, ‘voi lì
dentro, c’è nessuno in questa casa?’ / Me ne stavo sui gradini / a sentirmi
giù da cani. Poi arriva un contadino / che credeva fossi pazzo, / che mi
guarda e che mi pianta / il fucile nei calzoni”.
4) Rime occasionali o strategiche, che danno coesione al testo senza doverlo
gravare con consonanze cercate a tutti i costi. Desolation Row, ad esempio,
ha cominciato a funzionare solo quando per ogni strofa ho inserito almeno
una rima con "desolazione”, che è sempre la parola conclusiva. Per lo stesso
motivo, ho consapevolmente inserito una zeppa nell’ultima strofa di Boots of
Spanish Leather. Poiché la rima "weather / leather”, con l’anticipazione in
"—eather” del suono della parola che è nel titolo, avverte l’ascoltatore che
la canzone sta per finire, un segnale ci doveva essere anche nella
traduzione. Dunque ho tradotto "Take heed of the stormy weather” con "dunque
attenta alla tempesta che ti bagna”, per lasciare la rima con "Spanish boots
of Spanish leather”, cioè "stivali spagnoli, di cuoio di Spagna”. È chiaro
che la tempesta "ti bagna”, non c’è bisogno di dirlo, e infatti Dylan non lo
dice, ma lo dice Paolo Conte, ancora lui, in "Genova per noi, che stiamo in
fondo alla campagna / e abbiamo il sole in piazza rare volte e il resto è
pioggia che ci bagna”.
5) Rime "naturali”, cioè senza inversioni, all’occorrenza servendomi di
infiniti, futuri e participi passati, ma solo se non sforzavano il verso, se
non alteravano la linearità sintattica. Le ho usate soprattutto nei blues e
nelle canzoni con versi brevi e molto ritmati, vicine alla filastrocca
infantile, in particolare nell’ultima strofa giusto per chiudere in
bellezza.
6) Rima e metrica in struttura rigorosa, quasi a specchio dell’originale. Mi
ci sono avventurato solo poche volte, e proprio perché ero spinto
dall’impulso all’autodistruzione che mi ha fatto passare notti su My Back
Pages e Love Minus Zero / No Limit. Perché proprio quelle canzoni? Non lo
so, l’hanno voluto loro. Nel caso di Mozambique, invece, l’unica canzone che
mi sono permesso di riscrivere, l’ho voluto io. Non mi è mai piaciuta e me
ne sono voluto vendicare, finendo per metterci molto più tempo a tradurla di
quanto probabilmente Bob Dylan e Jacques Levy abbiano impiegato a scriverla.
Ma era anche inevitabile. Qualunque traduzione che evitasse il gioco delle
rime faceva l‘effetto di un dépliant da agenzia di viaggio.
La quarta necessità consisteva nell’essere più fedeli possibile a quei
momenti in cui Dylan forza, consapevolmente o no, la lingua inglese, in
senso grammaticale e per raggiungere inedite combinazioni di significato.
Gli esempi, numerosissimi, coprono tutta la produzione degli anni sessanta e
la prima degli anni settanta. A partire da Blood on the Tracks, che esce nel
gennaio del 1975, la lingua di Dylan diviene più regolare, più "scritta”, il
che non significa che non riservi sorprese, ma solo che non è più al limite
del non-grammaticale come accade ad esempio nei Basement Tapes (il cui
eloquio è talmente folle che in italiano li potrebbe cantare solo Jannacci,
previa riscrittura nel suo milanese o nel suo italiano più lunatico).
In Ballad of Hollis Brown troviamo ad esempio I versi "Your baby’s eyes look
crazy / They’re a-tuggin’ at your sleeve”, dove non si capisce se sono gli
occhi del bambino a tirare la manica del padre oppure, per ellissi
narrativa, tutti i cinque figli, anche se in quella strofa non sono
nominati. Per cui ho tradotto: "Il più piccolo ha occhi da pazzo, ti tirano
la manica”, senza pretendere di risolvere un’ambiguità che deve rimanere
tale. Allo stesso modo, in One Too Many Mornings troviamo costruzioni
grammaticalmente ardite come "An’ the silent night will shatter / From the
sounds inside my mind” o "From the crossroads of my doorstep / My eyes start
to fade”. Difficile qui stabilire se Dylan avesse il controllo della lingua
o se fosse la lingua ad avere il controllo di lui. Non è facile rendere la
stranezza di questi versi, ma qui stranezza e bellezza sono alleate (non
sempre è così) e un tentativo andava fatto, da cui: "E la sera silenziosa
andrà in frantumi / per i suoni che avrò in testa”, nonché: "Dagli incroci
della soglia / i miei suoni si fanno più fiochi”. Una corrispondenza più
precisa si può ottenere in un verso di Boots of Spanish Leather, nel quale
"from the place that I’ll be landing” sta per "where I’ll be landing”, "quel
luogo dove io sbarcherò”. Ma "that” e "che” possono essere polivalenti tanto
in inglese quanto in italiano, per cui è possibile tradurre "quel luogo che
io sbarcherò”. Non è corretto in nessuna lingua ma rende molto bene
l’effetto di possesso fisico della terra "che” si sta sbarcando.
Il quinto rompicapo era dato dal livello parallelo dell’American English che
è costituito dallo slang. Prendiamo ad esempio due versi di Hurricane: "If
you're black you might as well not show up on the street / 'Less you wanna
draw the heat”. Io ho tradotto: "se sei nero è meglio che neanche ti fai
vedere in giro / se non vuoi tirarti addosso la questura”. Qui qualunque
traduzione è discutibile, perché "less you wanna draw the heat” potrebbe
voler dire "se non vuoi attirare l’attenzione” o addirittura "se non vuoi
tirare fuori la pistola”. Ho scartato l’ipotesi della pistola perché, se
l’idea è quella di non farsi notare visto che sei nero, allora non è il caso
di pensare a tirar fuori la pistola. Ma rimaneva il problema di "heat”
[calore] che in senso slang significa ”situazione scomoda o rischiosa”
(conosciamo tutti i western o i polizieschi tradotti alla carlona nei quali
poco prima di una sparatoria c’è sempre qualcuno che dice: "Qui tra poco
comincerà a far caldo”) ma quando è con l’articolo ("the heat”) significa
"la polizia”. Dylan usa il termine con lo stesso senso in Subterranean
Homesick Blues, dove "Maggie comes… / Talkin' that the heat put / Plants in
the bed” non vuol dire "Maggie arriva... / dice che il caldo le ha messo /
piante nel letto”, come più o meno hanno tradotto tutti, bensì: "Ecco
Maggie... / dice che la pula le ha messo / gli spioni nel letto” ("plants” è
slang per "informatori della polizia”). Visto che tre versi prima avevo
concluso un verso con un "ancora”, mi sono permesso un’italianizzazione
("questura” invece di "polizia”) per poter finire la strofa con
un’assonanza. Quindi ho tradotto: "se non vuoi tirarti addosso la questura”.
Altre traduzioni hanno: "a meno che tu non vada in cerca di guai”, chè è
senz’altro accettabile, oppure: "se sei nero meglio che non ti si veda
neanche per strada / o ti rifilano la patata”, intendendo probabilmente
"heat” come "patata bollente”. Ma "trovarsi tra le mani una patata bollente”
ha solo una vaghissima parentela con il non cercare guai o non voler
attirare l’attenzione della polizia.
La sesta incognita era costituita dai livelli stilistici. In inglese io
posso dire "I made a grievous mistake” oppure "I screwed up”. La prima frase
è di tono più alto, la seconda è un colloquialismo. Ma dicono tutt’e due la
stessa cosa: "Ho fatto un grave errore”, oppure: "Ho proprio fatto uno
sbaglio”. Il problema è che "I screwed up” è molto più colloquiale di: "Ho
proprio fatto uno sbaglio”, e anzi corrisponde anche a: "Ho incasinato
tutto”. Solo che se in italiano dico: "Ho incasinato tutto” faccio ricorso a
un registro che in molte circostanze sarebbe considerato eccessivamente
basso, mentre in inglese "I screwed up” è accettabile anche in occasioni
semi-ufficiali. L'American English ha la grande forza di essere una lingua
dove un livello costamente colloquiale e gergale non è visto come "basso
stile”. L’italiano ha perso in parte quel livello diciamo così "americano”
diventando lingua standard e lasciandolo ai dialetti. Ad esempio, io ho
tradotto "Miss Lonely” di Like a Rolling Stone con "Miss Malinconia” perché
volevo che ci fosse un’allitterazione in italiano (Mi-ma-li), visto che c’è
in inglese (Mi-lo-ly), e perché una di quelle canzoni degli anni trenta che
una volta potevano far piangere le signorine comincia con "Buongiorno
tristezza, amica della mia malinconia”. Il termine poteva giocare da
controcanto ironico alla "Miss Lonely” della canzone, che è una borghese di
buona famiglia ignara del destino al quale sta per andare incontro. La "Miss
Liceo” degli Articolo 31, nella loro versione rap di Like a Rolling Stone,
va altrettanto bene. Ma quando ho letto sul sito dylaniano
www.maggiesfarm.it la traduzione in romanesco di Michele Murino, nella quale
Miss Lonely diventa "Miss-puzza-al-naso” l’ho trovata formidabile, al punto
di rivedere l’intera mia traduzione in chiave più colloquiale di quanto non
fosse all’inizio (è da lì, per esempio, che mi è venuta l’idea di tradurre
"thinkin’ that they got it made” con "gente convinta di andare alla
grande”).
Però non avrei potuto appropriarmi di una soluzione come "Miss
puzza-al-naso”. L’espressione è accettabile, anzi è perfetta, nel contesto
di una parlata regionale e gergale, ma è troppo bassa per l’italiano
standard, dove apparirebbe stonata. A meno, naturalmente, di non prendere il
coraggio a due mani e riscrivere tutto Dylan in chiave di italiano il più
possibile "basso”. Ma a queste operazioni bisogna avvicinarsi con molta
cautela, perché l’italiano è una lingua che ha troppa storia e troppe
storie. Eduardo De Filippo ha tradotto la Tempesta di Shakespeare nel
napoletano del Seicento con un risultato straordinario, ma il napoletano del
Seicento non era un dialetto, era una grande lingua, che possedeva tutti i
livelli e li poteva giocare tutti assieme. Un tentativo di "abbassare”
costantemente la lingua dylaniana ci porterebbe verso un linguaggio in
ultima analisi povero e costretto a sostituire con un continuo ammiccare la
complessità di significati che in realtà non sa dire.
Nemmeno Pasolini riusciva a mantenere un tono basso costantemente credibile
nei suoi romanzi romani, e Gadda ci riusciva solo perché lo colorava di
sarcasmo e di sapienza multilinguistica. Una fiducia eccessiva nel tono
unicamente "basso” finisce con il tradurre il nome "Georgia Sam”, che
compare in Highway 61 Revisited, con un orrendo "Bingo-Bongo” (l’esempio non
è inventato). Per chiarire: "Georgia Sam” è un nome probabilmente ispirato a
due cantanti blues che in alcune occasioni si erano fatti chiamare "Georgia
Bill” (Blind Willie McTell) e "Georgia Tom” (Thomas A. Dorsey), e non ha
nessuna delle connotazioni offensive e perfino razziste che invece si
ricavano da quel personaggio di una canzonetta dell’epoca coloniale che
parla con gli infiniti come una volta parlava la mamie di Via col vento:
"Bingo Bango Bongo stare bene solo al Congo non mi muovo no no…”).
E poi, Dylan non è solo un imitatore degli imitatori di François Villon. In
Lay Down Your Weary Tune circolano R. W. Emerson e la grande innodia
protestante, Chimes of Freedom risuona di passaggi alla Walt Whitman, Mr.
Tambourine Man riporta precisi echi di John Keats, All Along the Watchtower
è fatta del libro di Isaia più T. S. Eliot più Wallace Stevens, Every Grain
of Sand sarebbe impensabile senza William Blake alle spalle, Angelina,
Jokerman e I and I sono ardite costruzioni intertestuali tenute insieme
dall’intero tessuto della Bibbia e scritte nell’inglese più "alto” che il
genere della canzone abbia mai potuto reggere. Del resto, se così non fosse,
se Dylan non fosse anche questo, non esisterebbero le decine e decine di
libri scritti su di lui, né i traduttori di mezzo mondo sarebbero così
ansiosi di spaccarsi la testa per trovare, nella loro lingua, la resa
migliore dei suoi versi."
Condivido in gran parte la nota del traduttore Carrera che spiega bene le
ragioni e i presupposti del suo lavoro sui versi di Dylan. Non sono però
certo della validità degli stessi criteri in generale. Penso che la
struttura, la forma di un'opera vada sempre e comunque rispettata. Al
contrario di Carrera, che la cita a mo' di buon esempio, ritengo pessima la
traduzione de Le fleur du mal di Giovanni Raboni che ha mistificato e
ridotto in cenere il genio poetico di Baudelaire che si esprime in versi
metrici e in rime per un preciso scopo lirico. La forma, diceva Pirandello,
è tutto e - parafrasando il Siracusano - chi non rispetta la forma di
un'opera non fa traduzione ma distruzione dell'originale. Che cosa diremmo
di una Divina Commedia tradotta in inglese in prosa? Come minimo che è
un'altra cosa e che il povero Dante non c'entra niente. E, se mi si permette
la sfrontatezza, tra Baudelaire e Raboni preferisco il primo e pretendo da
lettore italiano una traduzione felice e fedele.
Non è naturalmente questo il caso di Dylan-Carrera, perché qui la traduzione
serve a farci entrare nel background anche psichico del geniale
"Menestrello" con un rispetto semantico - ripeto - che mette il senso del
verso al riparo della forma. Senza considerare il fatto che continueremo
sempre a cantare i testi di Dylan nella versione originale, magari
reinterpretando col tono di voce, il canto e l'accompagnamento musicale, le
emozioni indicibili e soggettive di una canzone che al di là di ogni lirismo
resta espressione di un'esperienza unica e sempre soggettivamente mutevole.
Mentre la mia personale congettura al
riguardo era che con Chronicles, Volume Uno, Dylan avesse soddisfatto
l'impulso a scrivere (o come canta in Modern Times: "I've already confessed
/ No need to confess again"), di fatto sembra che invece egli sia già al
lavoro ed in fase avanzata per progettare un Chronicles, Volume Due. "Penso
che andrò indietro nel tempo fino all'album Blonde on Blonde - e
probabilmente non andrò più indietro di quel periodo nel prossimo libro. Da
quel punto probabilmente andrò solo in avanti. Ho pensato in particolare ad
un periodo di tempo interessante. Avevo realizzato
questo disco, Under the Red Sky, insieme a Don Was, ma nello stesso tempo
stavo anche registrando un disco dei Traveling Wilburys. Non so com'è che è
successo che mi fossi trovato al lavoro su due album contemporaneamente.
Lavoravo con George [Harrison] e Jeff [Lynne] durante il giorno - tutto
doveva essere fatto in un giorno, la musica e le parole dovevano essere
scritte in un solo giorno, e poi andavo da Don Was, e mi sentivo come se
stessi camminando attraverso un muro. Don aveva per me un gruppo di
musicisti differente con il quale suonavo ogni giorno, un gruppo composto
tutto da stelle, anche se non per un motivo particolare. A quel tempo ero
completamente disilluso per quanto riguardava il lavoro in studio e lasciavo
che qualcun altro prendesse il controllo di tutto ed io arrivavo
semplicemente con le parole adatte alla melodia di una canzone. Don mi
chiedeva: 'Che cosa vuoi registrare?' - beh, io non avrei voluto registrare
niente, ma ero così abbattuto perchè ero stato così bene con i Wilburys che
semplicemente arrivavo con qualche traccia e tutti si mettevano in riga
dietro quella traccia, oh mio Dio." Ride. "Era un po' il contrario della
scena dei Wilburys, che si svolgeva in una casa sulle colline. Poi scendevo
giù in città per queste altre sedute di registrazione che si svolgevano in
uno studio che era un po' come una caverna, giù ad Hollywood, dove passavo
il resto della notte e cercavo di dormire un po'. Entrambi i progetti ne
hanno sofferto. Troppa gente nella stanza, troppi musicisti, troppi ego,
musicisti spinti dall'ego che volevano suonare solo la loro parte, e di
certo non era il mio modo di fare..."
Ora, questo potrebbe essere il momento buono per dire che trovo il secondo
lato di Under the Red Sky uno dei tesori nascosti dell'intero catalogo di
Dylan. La canzone che chiude l'album, un garrulo ma misterioso jump-blues
intitolato "Cat's in the Well," in particolar modo, non avrebbe sfigurato su
"Love and Theft" o Modern Times. Ma, come mi ha detto, Dylan non ascolta i
suoi dischi. E a differenza di me non ha familiarità con la Bob Dylan
Encyclopedia. ("Non sono quelli i circoli in cui mi muovo,
davvero," ridacchia quando glielo chiedo. "Non è qualcosa che ha a che fare
con la mia vita.") Ma quando Dylan loda la sua band attuale come la sua
migliore in assoluto - una valutazione fatta dagli ammiratori di Mike
Bloomfield ed Al Kooper, per non menzionare Garth Hudson, Rick Danko ed
altri potrebbe mettere in discussione la cosa - sento che le rapide
semplificazioni di Dylan della propria carriera sono eminentemente robuste.
Punzecchiare i miti, boicottare le analisi e ignorare la cronologia
sono parte di una campagna lunga (e che di recente ha avuto abbastanza
successo) per non essere incarcerato dentro la sua stessa leggenda.
La conclusione più grande a proposito di Dylan fin dall'apoteosi degli anni
Sessanta potrebbe semplicemente essere che egli ha reclamato che la propria
storia fosse solo sua (pensate a come ulula il primo verso di "Most Likely
You'll Go Your Way and I'll Go Mine" al suo ritorno sul palco durante il
tour del 1974: "You say you love me and you're thinkin' of me / But you know
you could be wroooonngg!").
Personalmente prendo la nostra conversazione di oggi come ho preso
Chronicles, e come ho preso la lunga canzone-giornale "Highlands": come il
resconto vivido e generoso sullo stato di Bob Dylan e sui suoi sentimenti al
momento attuale.
In altre parole, non importa che io pensi che Under the Red Sky sia un buon
disco.
Dopo quella disillusione dei primi anni Novanta, com'è che Dylan ha deciso
di registrare Time Out of Mind?
"Mi hanno fatto un altro contratto, che io in realtà non volevo. Non volevo
registrare più, non ne vedevo lo scopo, ma - meraviglia delle meraviglie -
mi hanno fatto un'offerta che era difficile rifiutare. Avevo lavorato in
precedenza con [Daniel] Lanois, e credevo che sarebbe stato capace di dare
magia al disco. Pensavo 'Proviamoci'. Ma c'era un qualcosa come dodici o
quindici musicisti in quella stanza, con quattro batteristi. Veramente non
lo so come sia venuto fuori qualcosa da tutto quello."
Fa una pausa per riflettere sull'accoglienza ricevuta dal disco. Pubblicato
subito dopo un problema di salute iper-pubblicizzato, l'album aveva dei
testi che sono stati unanimemente letti come se parlassero di un uomo che
lotta contro l'angelo della morte.
"Voglio dire, sono stati percepiti come se io fossi una sorta di malato
terminale o se strisciassi con le ginocchia sanguinanti. Ma non è mai stato
il mio caso."
Menziono a Dylan il fatto che già qualcuno descrive il nuovo album come il
terzo di una trilogia iniziata con Time Out of Mind.
Dylan obietta: "Time Out of Mind mi vedeva tornare in pista e combattere per
uscire dall'angolo. Ma quando ho fatto "Love and Theft" invece ero fuori
dall'angolo. E su questo disco non vado da nessuna parte, non puoi trovarmi
da nessuna parte perchè sono già lontano dall'angolo. Piuttosto penso a
"Love and Theft" come all'inizio di una trilogia, se una trilogia ci sarà.
Se deciderò di ritornare in studio di registrazione."
In una giornata di conversazione continua in cui si tornava sugli argomenti,
siamo tornati a parlare del nuovo album e gli ho chiesto nuovamente a
proposito di alcuni motivi. Modern Times oscura il tono scherzoso ed
affettuoso di "Love and Theft" e lo porta in un territorio più sinistro, il
linguaggio delle "murder ballads" ("ballate di assassinio") ed in quello di
Edgar Allan Poe:
nemici e carneficine, giardini infestati e fantasmi. I vecchi blues e le
vecchie ballate sono citate liberamente, come una seconda natura.
"Questa volta non mi sono sentito limitato, o mi sono sentito limitato in
una maniera tale da volere che ogni verso fosse chiaro e che avesse uno
scopo, senza che le cose si complicassero inutilmente. E' così che mi sento,
nella mia genealogia - un sacco di gente non ha istinti omicidi ma non si
preoccuperebbe di possedere una licenza di uccidere. Lascio semplicemente
che le liriche vadano e quando le canto sembra che abbiano una presenza
antica."
Dylan sembra provare la sensazione di dimorare in un corpo che è posseduto
come una casa dai fantasmi dei suoi precursori musicali. "Queste canzoni
sono nei miei geni, e non posso impedire che vengano fuori. Forse in una
maniera legata in qualche modo alla reincarnazione. Le canzoni hanno una
sorta di lignaggio."
Gli dico che, a dispetto del fatto che parla di nemici, ho trovato in questo
nuovo disco una generosità di spirito, persino un senso di accettazione. Ne
conviene apertamente. "Già. Devi accettarlo da solo prima di aspettarti che
lo accetti qualcun altro. E poi in fin dei conti è solo un disco. I testi
passano velocemente."
Quando tutto è stato detto e fatto, Bob Dylan è interessato ad assicurarsi
che io abbia capito da dove viene. E, perchè io lo capisca, devo riuscire ad
afferrare quel che lui ha visto negli artisti che sono venuti prima di lui.
"Se pensi a tutti gli artisti che hanno inciso dischi negli anni Quaranta e
negli anni Trenta, e negli anni Cinquanta... certo trovi grandi gruppi ma
erano tutti la visione di un solo uomo. Voglio dire, la band di Duke
Ellington era la visione di un solo uomo, la band di Louis Armstrong era la
voce individuale di Louis Armstrong. E passando a tutta la musica rhythm &
blues, o a quella rockabilly, tutta quella musica che mi ha spinto a fare
quello che faccio, era basata tutta su singoli individui. Era quella la
cosa che tu sentivi, il grido individuale nel deserto. Ed in qualche modo
questo si è perduto. Voglio dire, chi è l'ultimo artista individuale al
quale puoi pensare? Forse Elton John? Sto parlando di artisti che hanno la
forza di volontà di non conformarsi alla realtà di qualcun altro, ma solo
alla propria. Patsy Cline e Billy Lee Riley. Platone e Socrate, Whitman ed
Emerson. Slim Harpo e Donald Trump. E' una forma d'arte che è andata
perduta. Ad essere sincero non saprei proprio chi altri la pratica ancora, a
parte me."
E' soddisfatto? "Ho sempre voluto fermarmi quando ero al top. Non volevo
scomparire pian piano. Non volevo essere una vecchia gloria, volevo essere
qualcuno che non sarebbe mai stato dimenticato. Sento che, in un modo o in
un altro, adesso è OK, ho fatto quel che volevo per me stesso."
Queste osservazioni, va notato, sono ancora un'altra occasione per ridere.
"Penso che potrei smettere di andare in tour ad ogni momento ma poi in
realtà non sento che questo debba avvenire ora."
La promessa di una terza parte di una trilogia "in progress" è una notizia
che per me è sufficiente.
Possa il Tour Senza Fine non avere mai una fine. "Credo di essere nei miei
anni di mezzo, ora", mi dice Bob Dylan. "Non ho progetti per ritirarmi dalle
scene."
*NOTA A MARGINE: Allora, qual è la squadra di baseball preferita di Bob
Dylan, comunque? "Il problema con le squadre di baseball è che tutti i
giocatori cambiano divisa, per cui magari ti piace una squadra perchè ami un
paio di giocatori ma poi quei due all'improvviso non sono più nella tua
squadra e quindi non riesci più a pensare a quella squadra come la tua
favorita. E' più una cosa di divisa preferita. E allora... sì... mi piace
Detroit. Anche se mi piace Ozzie [Guillen] come manager. E non so come a
qualcuno possa non piacere Derek [Jeter]. Vorrei avere lui nella mia squadra
piuttosto che chiunque altro."
traduzione di Michele Murino
Martedi 20 Dicembre
2011
SCRIVEVANO......
L'intervista di Rolling Stone (Seconda parte)
di Jonathan Lethem - settembre 2006
Concedetemi un minuto per presentare di nuovo
il vostro intervistatore e la vostra guida in questo articolo. Ho
quarantadue anni e sono uno scrittore di romanzi, oltre ad essere un fan di
Dylan da una vita, ma sono uno che, è giusto rimarcarlo, non ha memoria
degli anni Sessanta. Non sono più giovane ma sono giovane per il lavoro che
sto facendo qui. I miei genitori erano fans di Dylan ed il mio primo
assaggio della sua musica è venuto attraverso i LP che appartenevano a loro.
Scelsi di ascoltare per primo Nashville Skyline perchè aveva un aspetto
"amichevole". Il primo disco di Dylan che sono stato in grado di acquistare
appena arrivò nei negozi e di cui fui testimone "diretto" leggendo le
critiche sui giornali, fu Slow Train Coming, del 1979. A poco più di venti
anni avevo digerito tutto il catalogo di Dylan ed ero giunto alla
conclusione che la sua panoplia di stili e di atteggiamenti era essa stessa
la più sincera misura del suo genio. Chiamateci la generazione di Biograph,
se volete.
In altre parole, lo sforzo di catturare Dylan e la sua arte come fumo in una
particolare bottiglia o in un'altra mi è sempre sembrato risibile,
un'erronea schermaglia combattuta prima che fosse chiaro che quella
sensibilità mercuriale - ancorata soltanto all'impegno esistenziale
nell'atto di connessione al momento presente - era il dono di libertà che le
sue canzoni promettevano. Negare ciò in presenza dell'uomo in questione
sarebbe assurdo.
Quando arrivai al punto che avevo richiesto tutto da Bob Dylan eravamo alla
metà degli anni Ottanta ed a quel punto io semplicemente gli chiedevo di
realizzare buone cose. Il che, alla metà degli anni Ottanta, in un certo
senso Dylan non realizzava. Ricordo quando tornai a casa con Empire
Burlesque sotto il braccio e mi sforzai di discernere la grandezza della sua
arte di songwriter sotto la patina luccicante della produzione di Arthur
Baker, una battaglia che persi. La prima volta che vidi Dylan in concerto
fu, sì, in uno stadio di football ad Oakland, e Dylan era insieme ai
Grateful Dead. A quell'epoca, la peggior canzone dell'album del 1988, Down
in the Groove, sembrava descrivere bene il mio impegno come fan: infatti "I
was in love with the ugliest girl in the world" ("Ero innamorato della più
brutta ragazza al mondo", un verso della canzone "Ugliest girl in the
world", dall'album citato, ndt).
Nondimeno fu il Dylan degli anni Ottanta il mio Dylan e al contrario di
quanto potreste aver letto ad esempio in Chronicles, Volume Uno, o in altri
scritti di detrattori, in quel periodo c'era acqua in quel deserto. A
partire da canzoni sparse quali "Rank Strangers to Me," "The Groom's Still
Waiting at the Altar" e "Brownsville Girl," a miracoli da audiocassette come
"Lord Protect My Child" e "Foot of Pride" (entrambi brani che sarebbero
riaffiorati in seguito in The Bootleg Series), fino ad una versione di "San
Francisco Bay Blues" che ero stato abbastanza fortunato da catturare dal
vivo a Berkeley, e ancora ad una ustionante versione della canzone di Sonny
Boy Williamson, "Don't Start Me to Talkin' ", eseguita da Dylan nel corso
del programma "Late Night With David Letterman". E l'ironia non consiste
solo nel fatto che il "pessimo" Dylan era spesso stupefacentemente ottimo.
Consiste anche nel fatto che la sua esplorazione della musica delle radici
che a quel tempo sembrava apparentemente casuale e senza una rotta precisa,
oggi può essere vista chiaramente condurre infallibilmente ai trionfi di là
da venire, intendo
cioè i trionfi attuali. Ma questo non vuol dire che allo stesso Dylan
importi di ripercorrere i propri passi. Infatti quando gli ho ricordato con
tenerezza quel momento dedicato a Sonny Boy Williamson al Letterman, ha
aperto la bocca chiaramente sorpreso e mi ha detto "L'ho suonata davvero?"
Perciò in quegli anni il dramma del mio rapporto con il mio eroe, per quanto
possa sembrare un dramma di poco conto agli occhi di coloro che rimasero
impregnati dalla sensazione di ascoltatori pluri-traditi negli anni Sessanta
e Settanta (Dylan era diventato Elettrico! Country-Domestico-Non
Disponibile! Cristiano!) era il solo dramma descritto da Dylan a David Gates
sulla rivista Newsweek nel 1997, e nel capitolo dal titolo "Oh Mercy"
contenuto nella sua autobiografia, Chronicles Vol. 1, ovvero il ricollocare
ed il reimpossessarsi della sua voce e della sua volontà di comporre e di
esibirsi, cosa che è avvenuta gradualmente nel corso degli anni Novanta.
All'inizio di quel decennio si poteva quasi avere la sensazione che Dylan
avesse mollato, o quanto meno che trovasse rifugio e conforto nei dischi
acustici da solista che aveva cominciato a realizzare nel suo garage: Good
As I Been to You e World Gone Wrong.
Gli spettacoli dal vivo, in quello che sarebbe poi diventato noto come "The
Never Ending Tour", erano sempre più potenti in quegli anni, ma le nuove
canzoni erano scarse. Poi è arrivato Time Out of Mind, un album unitario e
ricco come qualsiasi altro avesse registrato in precedenza.
Quando poi ad esso fece seguito "Love and Theft", e poi Chronicles, un
ragionevole fan di Dylan avrebbe potuto concludere di star vivendo nel
migliore dei mondi possibile. Infatti, con lo spettacolo radiofonico via
satellite irradiato nelle nostre case - Dylan ha promesso di farne cinquanta
puntate! - si può ben dire che nell'ultimo decennio Dylan abbia concesso al
suo pubblico, della sua voce e del suo cuore, più di quanto abbia mai fatto
prima, e più di quanto chiunque avrebbe mai osato ragionevolmente sperare.
"Beh, non è buffo?" sbuffa Dylan quando gli menziono il "mito
dell'inaccessibilità". "Ho appena visto un libro pubblicato da Wenner Books,
un libro che pubblica mie interviste, ed è enorme." Allunga le mani per
mostrarmelo. "Cosa è successo a questa inaccessibilità? Non ti sembra che ci
sia una dicotomia qui?"
Tuttavia è terribilmente facile, indossando i panni dell'intervistatore di
Dylan, cadere nella tentazione di sentirsi portavoce di un pubblico che non
ha mai mollato, costringendo il suo eroe a mantenere un impossibile livello:
più Dylan ci dà, più ne vogliamo. Il più grande artista della mia epoca mi
ha dato tutto quello che mai avrei potuto chiedergli e tuttavia io sono
seduto qui, a fare in qualche modo da mediatore tra lui e le aspettative che
nessuno di noi due può fingere che non esistano.
"Se mai io avessi una sorta di posizione riguardo me stesso - o quello che
faccio, o come mi esibisco sul palco, o quello che canto, a qualsiasi
livello - la mia posizione è quella di paragonare tutto ciò a qualcun altro!
Non lo paragono a me stesso. Forse che tu paragoneresti Neil Young a Neil
Young? Lo paragoni invece a qualcun altro, lo paragoni a Beck - che mi piace
- o a chiunque altro sia al suo livello. Questo disco dovrebbe essere
paragonato ad artisti che lavorano sullo stesso terreno. E' questo il modo
in cui qualsiasi disco di qualunque artista dovrebbe essere analizzato, se
gli artisti in questione hanno fatto con serietà quel che hanno fatto.
Ammettiamolo, o fai con serietà quel che fai, o non lo fai con serietà. Le
due cose insieme sono impossibili. E la vita è breve."
Non posso fare a meno di chiedere a Dylan se di recente sia stato
condizionato dal successo del documentario No Direction Home di Martin
Scorsese, e se non sia stato spinto a provare di nuovo il vivido disagio
determinato dal suo non voluto ruolo di redentore. "Sai, tutti fanno un gran
parlare degli anni Sessanta. Gli anni Sessanta sono come i giorni della
Guerra Civile. Ma, capisci, tu stai parlando con una persona che possiede
gli anni Sessanta. Forse che ho mai voluto comprarli? No. Ma li posseggo,
chi ne vuole discutere con me?"
Mi incanta con un'altra battuta: "Se li vuoi te li regalo. Sono tuoi." Per
Dylan, come sempre, quel che conta è il lavoro, non nel senso di una cosa
d'archivio ma nella sua vita presente. "Le mie vecchie canzoni, certo
posseggono qualcosa - sono d'accordo, qualcosa posseggono. Credo che le mie
canzoni siano state cantate da altri artisti... beh, forse non come 'White
Christmas' o 'Stardust'... ma c'è una lista lunga almeno 5000 versioni. E'
un sacco la gente che canta le mie canzoni, allora devono possedere davvero
qualcosa. Fosse per me, anche io canterei cover delle mie canzoni. Un sacco
di queste canzoni che ho scritto nel 1961 e nel 1962 e nel 1964, e nel 1973,
o nel 1985, le posso ancora suonare... Beh, quanti altri artisti hanno fatto
canzoni durante tutti quegli anni? Eppure quante ne senti ancora oggi di
quelle canzoni? Io adoro Marvin Gaye, amo tutto quel materiale, ma quanto
spesso ti capita di sentire 'What's Going On'? Voglio dire, chi la canta?
Chi canta 'Tracks of My Tears'? Dov'è che la cantano stasera?"
Prova ancora a scandagliare la piena verità a proposito delle sue avventure
in studio di registrazione.
"Ho avuto periodi duri in studio. Riuscivo a scrivere le canzoni ma poi
avevo periodi duri in studio di registrazione. Ma forse era così che doveva
andare, perchè di altre canzoni fatte da altri artisti, tutta roba che
suonava incredibilmente bene, roba che ti commuoveva fino alle lacrime, beh,
quante di quelle canzoni erano davvero buone? O non era piuttosto solo la
registrazione del disco che era grande? Beh, la registrazione era grande,
era una forma d'arte e, sai, forse io non ho mai fatto parte di quella forma
d'arte perchè i miei dischi non erano per niente artistici. Erano solo
documentazione forse realizzata con cattivi musicisti eppure qualcosa veniva
fuori. E quel qualcosa che veniva fuori, per me oggi, era il fatto che si
trattava di roba reale, che ti mostrava davvero com'era realmente."
Dylan medita sul fato dell'arte nella posterità. "Quanta gente guarda Monna
Lisa? Ci sei mai stato? Voglio dire, forse possono vederla tre persone per
volta... Eppure da quanto tempo è in giro quel dipinto? C'è più gente che ha
visto quel quadro di quanta abbia mai ascoltato... dimmi un nome... non
voglio dire Alicia Keys... diciamo Michael Jackson. C'è più gente che ha
visto Monna Lisa di quanta mai abbia ascoltato Michael Jackson. E la possono
vedere solo tre persone per volta. A proposito di impatto..."
La discussione a proposito dei quadri porta il discorso su altre forme
d'arte. "Quello che mi piace dei libri è che sono silenziosi. Qualsiasi cosa
tu metta su pagina è come realizzare un quadro. Nessuno lo può cambiare.
Scrivere un libro è uguale, è scritto nella pietra, non cambierà mai. Uno
non avrà un tono differente dall'altro, non devi alzare il volume per
leggerlo."
Dylan si gusta l'accoglienza avuta da Chronicles. "Gran parte della gente
che scrive di musica non ha idea di cosa sia suonare. Ma per quanto riguarda
il libro che ho scritto, ho pensato 'La gente che ha scritto recensioni di
questo libro, Dio, sanno davvero di cosa stanno parlando.' Sanno come si
scrive un libro. Ne sanno più di me. Le recensioni di questo libro, alcune
mi hanno fatto piangere, in senso positivo. Non ho mai sentito qualcosa di
simile leggendo le recensioni di un critico musicale."
(Fonte: archivi maggiesfarm.it)
Lunedi 19 Dicembre
2011
L’uomo giusto per
essere il braccio destro di Bob Dylan
da News Steelesque, Pittsburgh PA, 29 Nov 2011
L’addetto stampa di Dylan Victor Maymudes è stato uno degli uomini più
mondani e coinvolgenti che io abbia mai incontrato. Nel 1994, ho avuto la
fortuna di lavorare come runner (il runner è una persona del luogo assunta
per un paio di giorni per procurare cibi, bevande, letture e cose varie nel
posto dove la carovana si ferma per il concerto) di Bob Dylan. Victor
Maymudes allora era il migliore amico di Bob Dylan.
22 gennaio 1965, Sheridan Square Park, New York.
A sinistra Jack Goddard - giornalista del Village Voice - al centro Bob
Dylan, a destra Victor Maymudes.
Avevo appena finito un grande spettacolo al
Nectar di Burlington nel Vermont. Tutti i numeri importanti, i piccoli,
neofiti ed eclettici artisti venivano ad esibirsi lì. Gli Spring Heeled Jack
ed The Phish sono stati i principali concerti a metà degli anni '90. Ho
lavorato per le Jacks, e dopo lo spettacolo sono stato avvicinato da Gary
Lemieux. Gary è il direttore di produzione presso il Teatro Flynn a
Burlington, e un buon amico di mio padre. Gary ha detto che avevano bisogno
di un "runner” per lo spettacolo di Dylan del giorno successivo. Un “runner”
è la persona che gestisce tutte le piccole commissioni varie che possono
diventare necessarie prima o dopo il concerto. Dylan non può semplicemente
scendere velocemente in un bar per comprare sigarette o per bere un caffè.
Nella maggior parte dei casi sarebbe stato inondato di domande, foto-ricordo
e richieste di autografi. Inutile dire che ho detto di si per fare il runner
al concerto di Bob, mi hanno pagato $ 100.
La mattina dopo ho preso le mie credenziali e mi sono diretto verso il luogo
del concerto. Dovevo fare riferimento alla struttura locale in cui Bob si
trovava. Sono entrato nella suite penthouse allo Sheraton. Il momento di
trepidazione era surreale quando ho bussato alla porta. Un grande uomo dai
capelli scuri venne ad aprire e mi fissò e mi chiese che cosa volevo. Una
volta conosciuto il motivo della mia presenza mi strinse la mano e mi ha
diede una grande pacca sulla spalla. Victor Maymudes aveva occhi che avevano
visto il mondo, vagabondava con Ramblin' Jack Elliot e Woody Guthrie. La
storia dice che fu Ramblin' Jack Elliot che lo presentò a New York al
"ragazzino" che era in realtà era l’astro nascente Bob Dylan.
Victor ha continuato a lavorare con e per Dylan per due decenni, ed oltre
che fare da tour manager svolgeva moltre altre mansioni personali per Bob
Dylan. E' stato tour manager di alcuni dei più grandi tour come la “Rolling
Thunder Revue”, o quando Dylan cominciò a girare con la Band. Era al
Festival di Monterey Pop, era con Dylan alle Piramidi in Egitto, iniziò il
“Never Ending Tour”, era lì quando Dylan ha posato per Andy Warhol, ha fatto
costruire il Tour-bus di Bob (ed anche quelli di Neil Young e Waylon
Jenning). Victor ha lavorato ed era amico di gente come Paul McCartney, Will
Geere, Johnny Cash, Al Kooper, Aldous Huxley, William Borrows, Waylon
Jennings, Hugh Romney (Wavy Gravy), George Harrison, Tom Petty, Joan Baez, i
Mamas and the Papas, i Grateful Dead, The Beatles, The Band, Neil Young,
Willie Nelson, Paul Simon, Pete Seeger, Harry Dean Stanton per citarne solo
alcuni. I suoi racconti dei suoi trascorsi con Woody Guthrie, Will Geere e
Ramblin' Jack Elliott, che per primo lo aveva presentato a Bob Dylan, sono
il tipo di storia che non solo i filmmaker cercano...sono le cose di cui è
fatta la storia.
Victor mi ha presentato a Bob Dylan. Ci siamo scambiati un semplice saluto e
mi ha offerto il posto mentre sedeva al tavolo. Bob stava leggendo il
depliant omaggio di Burlington. Mi ha chiesto come era stata la mia
mattinata. Victor poi mi ha chiesto di fare 3 cose: 1) andare a comprare del
tabacco marca “Drum” e due scatole di cartine), 2) prendere un menu nel
miglior ristorante indiano e, 3) trovare un grammo della migliore erba del
Vermont. Lui mi ha dato tre biglietti da cento dollari e mi ha accompagnato
alla porta. Prima di andarmene, ha detto, "Tu sei un uomo onesto?". Ho
risposto assolutamente si. Sono tornato con tutte e tre le cose che mi
avevano chiesto. Al mio ritorno Victor mi ha chiesto di iniziare a rotolare
il Joint e fare in modo che non assomigliasse ad uno "stuzzicadenti".
Fondamentalmente, non essedo un moralista, ho fatto del mio meglio per
fornire quanto mi avevano richiesto.
Nei seguenti 90 minuti mi sono seduto in silenzio ad ascoltare questi uomini
parlare di argomenti che andavano dal Marocco a Jimmy Page. Ero affascinato
dalla loro conversazione. Di tanto in tanto mi facevano qualche domanda in
relazione alla zona. Ho fornito risposte succinte molto brevi. Ero molto
intimidito e intimorito e così ho scelto le mie parole con cura. Ricordo che
non avevo un telefono “intelligente” come quelli di oggi, per non parlare di
Internet, per fare qualche ricerca sul lavoro di base di Victor Maymudes.
Non avevo idea di chi fosse o quale fosse il suo vero ruolo. Avevo però
intuito che sembrava essere il braccio destro di Bob. Tornavamo dal Flynn
Theater in un furgone-van dove c’era stata una specie di incontro con alcune
persone del luogo che probabilmente Dylan aveva conosciuto nel corso degli
anni. Io ero alle dipendenze del tour manager, non mi ricordo il suo nome ma
ricordo che era uno stronzo. Ho portato i panni sporchi dei roadies alla
lavanderia e mentre aspettavo pensavo che dovevo tornare da Bob Dylan e
Victor Maymudes. Tornato al Flynn Theater mi è stato ordinato, piuttosto
bruscamente, di aiutare gli altri ragazzi nel trovare cibo e bevande
soddisfacenti per la band e per la stampa.
Dopo che avevo finito mi sono diretto verso il pullman per trovare Bob e
Victor. Ho bussato alla porta ed ho salito la scaletta , Bob e Victor erano
rilassati ed entrambi mi hanno fissato. Ho chiesto se c'era qualcosa di cui
avevano bisogno. A giudicare dall'odore di marijuana erano tutti fatti.
Victor mi ha chiesto di sedermi. Come mi sono seduto, il tour manager è
entrato e mi ha ordinato di andare a prendere alcune pizze per i roadies e
per il personale. Mentre ero in piedi Victor mi afferrò per il braccio e
disse al direttore di "chiamare gli altri" perché aveva bisogno di me per
fare alcune commissioni. A quel punto ho capito che Victor era l'uomo che
comandava tutto dopo Bob. Ancora una volta sono stato seduto ad ascoltare le
loro discussioni. A volte, entrava qualcuno per una foto o per dire qualche
parola a Dylan. Mi sentivo come un membro della band e Victor mi ha offerto
una birra. Alla fine ho trovato il coraggio di fare a Bob Dylan alcune
domande. Qualcosa sulla falsariga di ... Deve essere in forma per fare un
tour in giro per il mondo? Qual' è stato il miglior spettacolo che hai
suonato? Domande tipiche da uno di 23 anni che è incapace di trasformare il
pensiero in parole sensate. Ripensandoci mi sono sentito come un idiota. Bob
Dylan ha risposto molto eloquentemente dicendo che era appena tornato
dall'Asia dove le persone sono molto curiose e fanno un sacco di domande. Ha
anche detto che le risposte più importanti si fanno a domande che non
chiedono qualcosa in particolare. L’ho preso come un suggerimento per
sedermi e non rompere più le palle con domande cretine, ma in tutto ciò
vorrei sottolineare che Dylan era molto gentile e rilassato. Lui ha risposto
a me ma non era così condiscendente con tutti. Lui è molto piccolo di
statura ma la sua presenza iconica riempie una stanza. La prima volta che lo
vidi in hotel sembrava essere non reale. Ho incontrato persone famose prima,
ma Dylan è un uomo di divina sagacia. Mi ricordo che lo fissavo per un sacco
di tempo con la coda dell'occhio, ma era Victor Maymudes che si è preso la
maggior attenzione.
Mi sono seduto con Victor durante il soundcheck. Ci siamo seduti sul palco
per i primi 5-10 minuti e poi siamo usciti negli ultimi minuti del
soundcheck per sentire com’era la risonanza fuori. Ricordo che ho parlato
con Victor circa la lavorazione del legno e l’arredamento del Teatro Flynn.
Egli sembrava molto interessato alla bellezza del luogo. Mi ha fatto sentire
ben accolto e parte di qualcosa che era ben al di là della mia persona. Ho
portato Dylan e Victor in albergo e sono tornato al teatro. Ho finito per
prendere le pizze durante il tragitto, poi mi sono messo ad aspettare mentre
stavo dietro le quinte a parlare con tecnici del suono e gli ingegneri.
Lo spettacolo è stato brillante! Ho chiacchierato un paio di volte con
Victor di passaggio. Stava con due persone che non ho mai conosciuto. Mi ha
sempre accolto con un sorriso e una pacca sulla spalla. Lui mi ha fatto
sentire speciale.
Ero con Bob Dylan, quel giorno, ma la mia memoria ricorda ancora il tempo
trascorso con Maymudes. Le nostre strade si sono incrociate di nuovo ad un
Grateful Dead - show con Dylan a Highgate Springs, Vermont. Ho presentato
Dylan a mio padre quella volta, credo che abbia raccontato questa storia
almeno un migliaio di volte. Lui è un grande fan di Dylan. Victor ci ha
portato a fare un giro sul suo golf-kart e ci lasciò fuori dal backstage.
Non lo vidi più , ma non dimenticherò mai questo uomo. Egli fu veramente
..... un figo.
Soprattutto Victor apprezzava il valore della musica, la poesia in una frase
ben riuscita. "La canzone è il rifugio ultimo della civiltà umana", ha
detto, "è un luogo di riposo per un cuore solo e traduce l'anima della
cultura per tutti".
Victor Maymudes il filosofo del "Village", che come mentore, manager e amico
di Bob Dylan l’ha guidato lungo la strada da nullità a icona nei primi anni
Sessanta, è morto serenamente il 27 gennaio 2001 all’ UCLA Hospital di Santa
Monica, California. Per quel viaggio era confortato e protetto dalla
presenza e dal coraggio dei suoi figli Aerie Victoria e Jacob. Aveva 65
anni. (New York Times)
"Davvero, non è che io abbia un branco di astrologi che mi dicono quello che
succederà. Faccio semplicemente un passo dopo l'altro, per cui questo porta
a quello."
Vi è familiare questa voce? Sono seduto in una suite di un albergo di Santa
Monica, di fronte al mare, ignorando un vassoio con fette di ananas e dei
biscotti con zucchero a velo, mentre Bob Dylan se ne sta seduto di fronte al
mio registratore, facendo del proprio meglio per rispondere alle mie
domande.
L'uomo che ho davanti è spasmodico nella sua poltrona, non impaziente, ma
pungentemente vivo, e pronto a farmi ridere e per ridere egli stesso. Le
espressioni sul volto di Dylan sembrano comprimere e racchiudere versioni
della sua persona attraverso gli anni, un sessantacinquenne con una vivacità
di un diciannovenne celato da qualche parte dentro di sè. Soprattutto, però,
è il tono della sua voce che sembra un caleidoscopio che si muove attraverso
il tempo: ora il guaito del cucciolo folk, ora il sarcastico tamburellare a
tempo dell' idolo hip, ora il tono seducente del sex symbol degli anni
Settanta, ora - e sempre - la voce ghiaiosa del vecchio 'statesman', con
quella voce da bluesman antidiluviano, quello così leggendariamente invocato
dal giovane aspirante all'inizio della propria carriera e nel quale egli si
è gradualmente trasformato con l'età.
E' quella voce, la voce di un vagabondo senza età in decrepitezza, che è
alla base del paradosso della realizzazione di Modern Times, il suo
trentunesimo album in studio. Questi sono i nostri "tempi moderni," oppure
un qualche vecchio sogno di un film muto, una fuga musicale in bianco e
nero? Modern Times, come "Love and Theft" e Time Out of Mind prima di lui,
sembra contemplare un mondo distrutto attraverso il prisma di un cuore che è
consumato e mondano, ancora decisamente non
spezzato. "I been sitting down studying the art of love/I think it will fit
me like a glove," afferma Dylan in "Thunder on the Mountain," la canzone di
apertura, un blues allegro e fracassone che avete sentito un milione di
volte in passato e che ancora magicamente sembra annunciare un ennesimo
"nuovo" Dylan.
"I feel like my soul is beginning to expand," dice la canzone."Look into my
heart and you will sort of understand."
Quello che è chiaro, se ascoltiamo attentamente, è che gli ultimi tre album
fanno parte di un rinascimento di Dylan che sempre più risulta come un
periodo da porre al fianco di qualsiasi dei suoi periodi del passato.
Come fece con Bringing it all back home quando Dylan rivestì le sue visioni
all'anfetamina nei panni gloriosamente grunge del blues elettrico e del
primo rock and roll, le glorie musicali di questi ultimi tre album affondano
le proprie radici nel retaggio del blues che include il fatto che i primi
blues, così come i primi musicisti di questo genere, erano più strani di
qualsiasi purista, e difficilmente si autorelegavano a lamenti in dodici
battute ma presentavano recitazioni narrative, spiritual, canzoncine porno,
ballate popolari ed altro. Dylan ci offre un nutrimento che viene dalla
cantina delle radici della vita culturale Americana. Perchè la società
soffre di amnesia.
E con il passare del tempo e dei dischi pubblicati la convergenza di Dylan
con le proprie muse cresce sempre più in maniera naturale e senza sforzo.
Come fa Dylan a richiamare a sè una tale eterna autorità? "Ho realizzato
Modern Times senza tenere conto di quello che succede nel mondo", mi dice
Dylan. "Ho scritto queste canzoni in uno stato niente affatto meditativo, ma
piuttosto come se fossi in trance, in uno stato ipnotico. Sono queste le
cose che provo? E perchè? E chi è il me stesso che prova queste cose? Non
potrei risponderti a queste domande. Ma so che queste canzoni sono nel mio
patrimonio genetico e non potevo impedire che venissero fuori".
Ma questo non vuole dire che Modern Times o Dylan siano immemori del momento
attuale. Il disco è fornito o dovrei dire tormentato con riferimenti ad
eventi mondiali come la tragedia dell'11 settembre e l'Uragano Katrina,
sebbene a chiunque cerchi una morale, per parafrasare Mark Twain,
bisognerebbe sparare. Ma per rassicurare l'ascoltatore contemporaneo che la
deriva musicale di Dylan nelle forme musicali pre-rock and roll - blues,
ragtime, rockabilly - non è il marchio di un nostalgico, "Thunder on the
Mountain" annovera nei suoi versi anche il nome di una certa cantante
contemporanea: "I was thinking 'bout Alicia Keys, I couldn't keep from
crying / When she was born in Hell's Kitchen, I was livin' down the line."
Quando ho chiesto a Dylan come mai Alicia Keys fosse entrata "nel suo
pantheon," si è limitato a ridere tra sè alla mia preziosa domanda. "Ricordo
di avere visto Alicia alla serata dei Grammy. Credo che fossi con lei in
quello show, non l'ho però incontrata o cose del genere. Ma mi sono detto
'Non c'è niente di quella ragazza che non mi piaccia'"
Piuttosto che analizzare i testi, Dylan preferisce indugiare sulle canzoni
in quanto prodotti musicali e descrive il processo che lo porta a realizzare
tali prodotti. Come è successo nel caso di altri esempi del passato, per
citare dischi come quello del 1974, Planet Waves, o quello del 1978, Street
Legal e quello del 2001 "Love and Theft", il cantante ed artista noto per il
suo rapporto di odio-amore con lo studio di registrazione ("Non mi piace
fare dischi," mi dice con semplicità. "Li faccio con riluttanza") ha inciso
il suo nuovo album con la band che lo accompagna attualmente in tour.
E Dylan stesso è il produttore del disco, accreditato con il nome fittizio
di Jack Frost. "Non volevo più avere qualcuno che sovraproducesse le mie
canzoni," mi dice. "Ho come la sensazione di aver sempre prodotto da solo i
miei dischi, solo che avevo qualcuno tra i piedi. Sento che nessuno sa come
dovrei suonare io, tranne me stesso; nessuno tranne me stesso sa quel che
bisogna ottenere dai musicisti, nessuno tranne me può dire ad un musicista
cosa sta facendo di sbagliato, nessuno come me è in grado di trovare un
musicista capace di suonare. Io sono in grado di farlo anche nel sonno."
Come sempre, Dylan gira intorno all'argomento, definendo quel che è
separandolo da quel che non è, da quel che non vuole, da quel che non ama,
da quel che non gli serve, con un processo di eliminazione.
Tale strategia retorica risale almeno ai tempi di "It Ain't Me, Babe" e di
"All I Really Want to Do" ("I ain't looking to compete with you," etc.), e
possiede ancora un sacco di vero succo.
E quando Dylan giunge ad un'asserzione positiva dalle distese desolate di
così tanti dubbi, raggiunge la forza di una giubilante vanteria. "Questa è
la band migliore che io abbia mai avuto ed in cui io sia mai stato, membro
per membro. Quando suoni con delle persone un centinaio di volte ogni anno,
sai quello che puoi fare e quello che non puoi fare, come utilizzarle, se ne
hai bisogno. Ci vuole un sacco di tempo per trovare un gruppo composto da
musicisti individuali. La maggior parte dei gruppi sono delle gang. Sia che
si tratti di un gruppo "metal" o di un gruppo "pop" o "rock", c'è sempre
quella mentalità da gang. Ma per quelli tra noi che c'erano tanti anni fa,
le gang erano i delinquenti. Nessuno di noi aspirava a diventare una gang.
In questo ultimo disco non avevo bisogno di insegnare niente a nessuno. Ora
ho nel mio gruppo delle persone che sono in grado di afferrare qualsiasi
cosa, tanto che sorprendono persino me." La cadenza di Dylan assume la
qualità di una recitazione all'impronta, piena di schemi interni fatti di
rime, tanto che quando più tardi trascriverò questo nastro mi troverò
tentato di metter giù le frasi in forma di testo di canzone. "Stavolta
sapevo che non sarebbe stato inutile scrivere qualcosa che davvero amavo ed
a cui pensavo con tenerezza, e poi andare in studio di registrazione e venir
fuori con una sorta di cosa incoerente che non avesse alcuna risonanza. Di
questo ero consapevole. Sentivo di essere libero di fare praticamente
qualsiasi cosa mi piacesse fare."
Ma l'avere il gruppo dei suoi sogni in studio di registrazione è solo la
metà dell'opera. "I dischi che ero solito ascoltare e che ancora amo, beh
non puoi più fare un disco che suoni come quelli," spiega. E' come se aver
registrato il suo nuovo materiale in studio di registrazione non abbia reso
sicuro Dylan che fare questo sforzo ne sia valsa la pena.
"Brian Wilson ha realizzato tutti i suoi dischi con un quattro piste, ma non
sei più in grado di fare dischi come i suoi oggi anche se hai cento piste. A
tutti noi piacciono i dischi che facevamo suonare sui giradischi ma
ammettiamolo, quei giorni sono an-da-ti. Fai il meglio che puoi, combatti
quella tecnologia in tutti i modi, ma non conosco nessuno che abbia
realizzato un disco che suoni in maniera decente negli ultimi venti anni,
davvero. Ascolti questi dischi moderni e ti accorgi che sono atroci, hanno
il suono dappertutto, non c'è definizione di nulla, nè della voce, nè di
niente, sono come statici. Anche queste canzoni di Modern Times
probabilmente erano dieci volte meglio quando le abbiamo registrate in
studio. I compact disc sono piccoli. Non hanno spessore. Ricordo quando è
venuto fuori quel tipo di Napster a dire una roba tipo "Tutti possono avere
la musica gratis". Io pensai "Beh, perchè no? Non vale comunque niente..."
Ascoltare la parola "napster" dalla bocca di Bob Dylan mi fa azzardare una
domanda a proposito dei "bootleg". Per me The Bootleg Series, una superba
sequenza di materiale d'archivio autorizzato da Dylan e pubblicato dalla
Columbia, rappresenta una sorta di tacito assenso alla tradizione pirata, un
riconoscimento del fatto che le takes escluse, le versioni alternative, le
canzoni bocciate e le performance dal vivo di Dylan costituiscono da sole
un'opera che gli ascoltatori fedeli meritano di ascoltare. Come dice Michael
Gray nel volume The Bob Dylan Encyclopedia, i primi tre dischi di outtakes
pubblicati "potrebbero anche da soli conferire a Dylan il posto di miglior
autore ed artista della sua epoca ed uno dei più grandi artisti del
ventesimo secolo." Sull'album "Love and Theft" c'è una canzone, "Sugar Baby"
in cui un verso recita: "Some of these bootleggers, they make pretty good
stuff" che qualcuno ha interpretato come una conferma di questo punto di
vista. Oggi per lo più quel verso sembra avere come soggetto soltanto i
distillatori clandestini di whiskey. "Non mi piacciono i dischi pirata. C'è
stato un periodo in cui la gente piratava tutto quello che mi riguardava
perchè non c'era nessuno che si occupava di controllare il materiale delle
sedute di registrazione. Tutto quel che ho fatto è stato piratato in tutte
le forme in lungo ed in largo. Si trattava di canzoni che non erano state
registrate per essere pubblicate ma tutti le compravano. E allora la mia
etichetta discografica si è detta: "Beh, tutti stanno comprando questi
dischi allora perchè non li pubblichiamo direttamente noi?".
Ma Dylan non può essere dispiaciuto se il mondo ha avuto il beneficio di
ascoltare - ad esempio - "Blind Willie McTell" - una canzone scartata dal
disco del 1983 Infidels, un brano che è salito ai primi posti nel pantheon
delle canzoni di Dylan e che egli stesso ha suonato dal vivo molte volte. O
sì? "Ho iniziato a suonare quella canzone dal vivo perchè ho sentito The
Band che la
faceva. La mia era solo un nastro dimostrativo, probabilmente serviva ai
musicisti per mostrare loro com'era il brano. Non è mai stata sviluppata
pienamente e non l'ho mai completata. Non ci sarebbe stato nessun motivo
altrimenti per lasciarla fuori dall'album. E' come prendere un dipinto di
Manet o Picasso - andare a casa loro e trovare un dipinto a metà e
impossessarsene e venderlo ai fans di Picasso. I soli fans che so di avere
sono le persone del mio pubblico, sera dopo sera."
Dylan e la sua band preferita di sempre solo tra pochi giorni inizieranno un
nuovo tour, un tour che cade a fagiolo visto che Modern Times è stato
pubblicato a fine agosto. Avevo sempre voluto chiedergli: quando una canzone
improvvisamente fa la propria comparsa in una scaletta di un concerto già
consolidata, ripescata tra centinaia di canzoni del suo catalogo, ciò
avviene perchè Dylan ha riascoltato un suo vecchio disco? "Non ascolto
nessuno dei miei vecchi dischi, sarebbe come ascoltare una
replica... Non so perchè qualcuno dovrebbe ad esempio rivedere i film che ha
fatto - tu ad esempio non rileggi i libri che hai pubblicato, giusto?" Un
punto a favore. Dylan amplia la spiegazione che ha offerto per "Blind Willie
McTell": "Abbastanza stranamente capita che ascoltiamo una cover di una
canzone e pensiamo di essere in grado di farla altrettanto bene. Pensiamo:
'Se qualcuno è in grado di farla così bene allora perchè non io?'.
Semplicemente io riprendo alcuni di questi arrangiamenti. I Dead hanno fatto
un sacco di canzoni mie e noi semplicemente riprendiamo l'intero
arrangiamento, perchè i Dead le
hanno fatte meglio di quanto le avevo fatte io. Jerry Garcia aveva ascoltato
le canzoni in tutte quelle mie brutte registrazioni, dove le canzoni erano
sepolte. Perciò se voglio cantare qualcosa di diverso tiro semplicemente
fuori uno dei dischi dei Dead per vedere quale ho voglia di fare. Ma questo
non lo faccio mai con i miei dischi."
E a questo proposito: "Ho sentito dire, anche tu probabilmente lo hai
sentito, che tutti gli arrangiamenti cambiano sera dopo sera. Beh, queste
sono un mucchio di cazzate, non sanno di che stanno parlando. Gli
arrangiamenti non cambiano sera dopo sera. Sono le strutture ritmiche ad
essere differenti, questo è tutto. Non puoi cambiare gli arrangiamenti sera
dopo sera, è impossibile."
Dylan sottolinea che a volte una canzone viene fuori una determinata sera
per un determinato pubblico a seconda del luogo.
"Non sopporto di suonare nelle grandi arene, ma lo faccio. Ma so che non
sono quelli i luoghi in cui si suppone che la musica debba essere suonata.
La musica non è fatta per essere ascoltata negli stadi di football, non è
una cosa del tipo 'Ehi, come va stasera, Cleveland?' A nessuno importa un
cazzo come va stasera a Cleveland." Poi si tuffa più in profondità. "Dicono
'Dylan non parla mai'. Che accidenti c'è da dire? Non è quella la ragione
per cui un artista sta di fronte alla gente."
Le parole sembrano insolenti ma il tono è quasi supplicante. "Un artista ha
uno scopo differente. Forse che un gruppo "self-help" - magari un Dr. Phil -
direbbe 'Come state'? Io non voglio essere insensibile e dire che non me ne
importa niente. Ti importa, ti importa molto altrimenti non saresti lì. Ma
c'è un diverso tipo di connessione. Non è una cosa leggera." Poi fa
un'ulteriore considerazione. "E' vivere ogni sera, o sentirsi vivi ogni
sera." Pausa. "Diventa rischioso. Voglio dire, rischi la tua vita suonando
musica, se lo fai nella maniera giusta."
Gli chiedo degli stadi di baseball in cui suonerà in questo nuovo tour:
forniranno il sound che cercate? "No, affatto, non lo ottieni all'aria
aperta. Il suono migliore che puoi ottenere è in un piccolo locale quando
hai quattro mura intorno ed il suono rimbalza. E' questo il modo in cui si
dovrebbe ascoltare questo tipo di musica."
Poi Dylan diventa nuovamente un comico, il tipo recentemente familiare agli
ascoltatori del suo programma radiofonico satellitare per la stazione XM, i
cui occasionali giochi verbali culminano in battute da vaudeville. "Certo
non mi piacerebbe suonare in un locale troppo piccolo, tipo di dieci
persone. A meno che non si vendessero biglietti da 50.000 dollari o giù di
lì..."
L'influenza avuta da Bob Dylan sui Beatles è
stata più volte ammessa e ribadita da tutti e quattro i componenti del più
celebre gruppo musicale di tutti i tempi. Ecco qui sotto una serie di
dichiarazioni, tra cui una di Paul McCartney che addirittura dichiara di
aver capito il significato della vita il giorno che conobbe Dylan. Segue una
serie di aneddoti che legano i "baronetti di Liverpool" a Bob...
Le dichiarazioni sono estratte dalla serie di videocassette della "Beatles
Anthology".
Paul McCartney: I miei idoli erano Elvis... L'Elvis pre-esercito... Sono
ancora convinto che quella fosse la cosa più eccitante. Little Richard - ero
un suo fan - ma l'avevamo incontrato ad Amburgo e non c'era bisogno di
andare in America solo per lui. Era un idolo. Chuck Berry, Jerry Lee Lewis,
Fats Domino. Incontrammo Fats a New Orleans. Portava un orologio di diamanti
a forma di stella. Faceva un gran colpo. Cominciammo ad incontrare gente
apparsa sui giornali o in film. Vivevamo fianco a fianco con loro... Ringo
Starr: Bob Dylan era uno di loro... Paul McCartney: Dylan era il nostro
idolo. Ringo Starr: Bob era il nostro eroe. George Harrison: Ascoltavamo la
sua musica, i suoi dischi... Ringo Starr: Fu John (Lennon) a farmi conoscere
Bob. Mi faceva ascoltare i suoi dischi. Era assolutamente grande. George
Harrison (con riferimento ad uno dei dischi di Dylan che i Beatles
ascoltavano in continuazione): Penso fosse "The Freewheelin' Bob Dylan"...
John Lennon: Ci piaceva Bob Dylan. George Harrison: Quando lo incontrammo
sapevamo già molto di lui...
Paul McCartney: Fu un grande onore conoscere Bob Dylan. Ci fu una festa
quasi selvaggia quando lo incontrammo. Quella notte mi convinsi di aver
capito il significato della vita. Dissi al nostro autista: "Mal, dammi carta
e penna. L'ho scoperto!". Mal guardò dappertutto senza molto successo. Alla
fine le trovò e io scrissi il mio messaggio per l'universo. Gli dissi
"Mettitelo in tasca!". La mattina dopo mi chiese se volevo quel pezzo di
carta. "Oh Sì", risposi. Lo aprii e c'era scritto: "Ci sono sette livelli!"
Ringo Starr: C'erano due tizi nella stanza e Bob Dylan era quello
conosciuto... Paul McCartney: C'era Al Aronowitz, un giornalista che è anche
un amico...
Ringo Starr: Quella fu la mia iniziazione alla marijuana. Ridevo e ridevo e
ridevo. Fu fantastico.
John Lennon raccontò - nella sua biografia - che all'uscita del singolo di
Dylan "Subterranean Homesick Blues" egli corse a comprarlo, esaltatissimo, e
lo ascoltò insieme ad un suo amico per un intero pomeriggio cercando di
trascrivere il testo del brano di Bob, di cui molti versi risultavano
incomprensibili.
John è stato molto influenzato da Dylan anche e soprattutto dal punto di
vista delle liriche.
Paul McCartney, sempre in "Beatles Anthology", dichiara che ad un certo
punto i testi delle canzoni dei Beatles subirono una netta modifica ed
abbandonarono le tematiche giovanilistiche legate all'amore (sul modello di
canzoni come "She loves you", "Love me do", "I wanna hold your hand" e tante
altre di quel filone) per diventare molto più "impegnati", surreali,
ermetici. Paul dichiara che questo avvenne perchè intorno a loro molti altri
artisti scrivevano quel tipo di testi e cita Bob Dylan come fautore di
questo loro cambiamento.
Ringo Starr a proposito del nuovo stile di canzoni dei Beatles: Noi
suonavamo in modo diverso perchè John e Paul scrivevano cose diverse... Ci
stavamo espandendo in ogni area della nostra vita... Eravamo più aperti a
tanti atteggiamenti diversi...
Paul (continuando il discorso di Ringo): ...Dai tempi di Thank you girl la
strada stava cambiando rotta... Dalle prime canzoni From me to you, She
loves you... Tutta quella prima roba parlava direttamente ai fans... Era
come se dicesse: "Per piacere, comprate questo disco"... Avevamo raggiunto
il limite e dovevamo diversificare... con delle canzoni più surreali, più
divertenti...
Fu allora che sulla scena apparvero altri artisti che avevano una certa
influenza... Non so se ci siamo davvero fatti influenzare da loro... Dylan
cominciò ad avere una certa influenza a quel punto... Quando diventò
contemporaneo... Cioè un'influenza contemporanea...
John Lennon e Paul Mc Cartney avevano sentito il singolo di Bob Dylan "Like
a rolling stone" un giorno in cui si erano incontrati per scrivere dei
brani. "Sembrava immensa, infinita. Era bellissima", ricorda Mc Cartney,
"Bob ha fatto vedere a tutti che ci si poteva spingere un po' più in là"
A Londra nel 1966 ci fu un secondo incontro tra Dylan e i Beatles (dopo
quello ricordato da Paul Mc Cartney e Ringo Starr citato più su in questa
pagina). Dylan incontrò Dana Gillespie e i Beatles al Mayfair Hotel. Bob
Johnston, che era arrivato in aereo dall'America per partecipare alla
registrazione dei concerti inglesi di Dylan e che fu presente per quasi
tutto il tempo la notte in cui Dylan parlò con i Beatles, sostiene che
quell'esperienza abbia cambiato i destini del gruppo inglese: "C'erano tutti
e quattro i Beatles in quella camera dell'albergo e Bob parlò per tutta la
notte. Loro non hanno neanche aperto bocca", racconta Johnston. "E la
mattina dopo erano John Lennon, George Harrison, Ringo Starr e Paul Mc
Cartney. Non erano più i Beatles".
Nel 1969, un paio di giorni prima del concerto dell'Isola di Wight, cui
Dylan partecipava, salì a Forelands Farm (Bembridge), il luogo in cui erano
alloggiati Dylan e la sua famiglia, la Daimler del road manager dei Beatles,
Mal Evans, il quale balzò fuori dall'auto e disegnò una croce sul prato. Poi
scese un elicottero con a bordo Ringo Starr, John Lennon e Yoko Ono. I
Beatles fecero sentire a Bob gli acetati del loro nuovo disco, "Abbey Road",
e George Harrison si lamentò che solo due sue composizioni fossero state
inserite nel disco. Quella sera Bob, i Beatles e The Band (Robbie Robertson
e soci) suonarono insieme lasciando un ricordo incancellabile nella memoria
dei presenti: Dylan, Harrison e Lennon cantarono insieme su canzoni dei
Beatles ma soprattutto eseguirono vecchi pezzi di rock'n'roll.
John Lennon cita direttamente Bob Dylan in tre sue canzoni. La prima è "Yer
Blues" in cui canta "Non penso che al suicidio, proprio come il Mr. Jones di
Dylan". La seconda è "God" (scritta quando i Beatles si erano già sciolti)
in cui Lennon "rinnega" tutti coloro in cui aveva creduto ed elenca una
serie infinita di personaggi preceduti dalla frase "Io non credo in..." (I
don't believe in...): "I don't believe in Jesus, I don't believe in Hitler ,
I don't believe in Zimmerman" ... (e in una versione diversa della canzone,
più esplicitamente "I don't believe in Dylan").
John Lennon cita "Bobby Dylan" anche in "Give Peace a Chance".
Secondo alcuni il celebre brano dei Beatles "Hey Jude" (scritto da
McCartney) nasconderebbe riferimenti a Dylan (che sarebbe appunto "Jude",
con riferimento al termine "giudeo", ovvero "ebreo", quale Dylan è).
Secondo molti altri invece non ci sarebbe nessun riferimento a Dylan e
"Jude" (così mutato da un precedente "Jules" ispirato a McCartney dal nome
del figlio di John Lennon e Cinthya Powell, Julian) sarebbe in realtà lo
stesso Paul "in uno dei suoi autoritratti più veri e sinceri" (dal volume
"Beatles" di Marco Pastonesi - Gammalibri)
"Nowhere man" viene indicata come esempio di canzone di John Lennon
influenzata da Dylan. Lo stesso dicasi per "I'm a loser" e "Help".
Altra canzone che alcuni critici collocano nella sfera di influenza
dylaniana è "And your bird can sing" dall'album dei Beatles "Revolver".
Bob Dylan appare sulla copertina del celebre album dei Beatles (forse il più
famoso della Storia del Rock): Sergeant Pepper's Lonely Hearts Club Band.
John Lennon a proposito del suo brano "You've got to hide your love away":
"L'ho scritta nei miei giorni dylaniani per il film Help!"
John Lennon: "Quando ero un ragazzo, scrivevo poesie, ma sempre per tentare
di nascondere le mie vere sensazioni. Ero a Kenwood e volevo solo comporre
canzoni e così ogni giorno provavo a scrivere una canzone e questa è una di
quelle che si cantano con un pò di tristezza, "Sono qui ora, la testa nelle
mani...". Cominciai a pensare alle mie emozioni - non so esattamente quando
cominciò come I'm a loser o Hide your love away o qualcosa del genere -
invece di proiettarmi in una situazione esterna volevo tentare di scrivere
quel che mi sentivo di aver scritto nei miei libri. Credo che sia stato Bob
Dylan ad aiutarmi a capire..."
La leggenda vuole che la melodia di "Norwegian wood" fosse stata rubata da
Lennon a Dylan che poi per "vendicarsi" la riutilizzò per la sua "4th time
around" dall'album "Blonde on blonde" in una sorta di canzone parodia di
"Norwegian wood".
Lennon cita ancora Dylan nei ripetitivi versi "I want you - I want you so
bad" della sua "I want you" dall'album dei Beatles "Abbey Road", chiaro
rimando alla celebre "I want you" di Dylan dall'album "Blonde on blonde" I
Beatles sono nascosti tra il pubblico durante l'esibizione di Dylan
all'Isola di Wight nel 1969 ed assistono all'esibizione di Bob.
Dylan a proposito della morte di George Harrison: George Harrison era "un
gigante, un'anima grande, grandissima", ha "ispirato amore e la forza di un
centinaio di uomini. George era come il sole, i fiori e la luna, e mi
mancherà enormemente".
Da un'intervista a George Harrison:
- Adesso sei in rapporti amichevoli con Bob Dylan e mi sembra di capire che
fra i Beatles eri quello più vicino a Bob Dylan. Dico bene?
- "Sì. Tutti noi Beatles abbiamo conosciuto Bob nel lontano 1964, ma negli
anni l'ho rivisto qualche volta. John lo conosceva un po', ma io lo vedevo
una volta ogni 2 anni e ormai è un bel pezzo che lo conosco. Naturalmente ha
fatto il concerto per il Bangladesh con me e inoltre ho scritto un paio di
motivi insieme a lui negli anni '60".
Altro brano dylaniano è Apple Scruffs dall'album di George Harrison "All
things must pass" in cui Harrison canta tra l'altro anche due pezzi scritti
da Dylan: I'd have you anytime e If not for you. In Apple Scruffs ("i
rifiuti della mela") Harrison usa tra l'altro in via del tutto eccezionale
l'armonica.
A livello di leggenda metropolitana gira la voce mai confermata anzi
piuttosto improbabile di una versione di Help cantata dai Beatles con Bob in
non si sa bene quale occasione di incontro privato. Dubito fortemente
dell'esistenza di tale versione ma se qualcuno ce l'ha naturalmente non ha
che da mandarmela.
Una vera e propria collaborazione tra Beatles e Dylan non c'è mai stata
almeno direttamente.
Il gruppo di Liverpool, tuttavia, fu enormemente influenzato da Dylan.
Già nei primi anni sessanta i Beatles si dichiararono grandi fans di Bob e
le loro canzoni cominciarono a mutare radicalmente proprio dopo il successo
di Dylan. "Le nostre canzoni da un punto di vista soprattutto dei testi
cambiarono anche perchè ci guardavamo intorno e vedevamo nuove cose. Dylan
ebbe sicuramente una grande importanza in tutto ciò!" (Paul Mc Cartney)
Paul McCartney dichiarò a proposito dell'album Blonde on Blonde di Bob Dylan
che mai sarebbe stato possibile in futuro fare un disco di quel livello.
Lennon fu certamente quello che dei Beatles ammirò di più Dylan.
Addirittura in una celebre intervista dichiarò: "Dylan mostra la strada!".
John ad un certo punto cominciò ad indossare persino un cappellino stile
Dylan prima maniera ed a suonare l'armonica in alcuni pezzi dei Beatles
oltre naturalmente a comporre e cantare canzoni in stile Dylan (Norwegian
wood ed altre).
Purtroppo Lennon e Dylan, pur avendo instaurato un'ottima amicizia, non
composero o cantarono mai nulla insieme anche se in realtà sembra che
qualcosa esista ma si sia persa chissà dove. Lo stesso Dylan ricorda nel
booklet di "Biograph" che un giorno lui e Lennon cantarono qualcosa insieme
mentre il registratore era acceso ma quei nastri non sono mai stati trovati.
Il Beatle che ha collaborato in maniera più proficua e continua con Dylan è
senza dubbio George Harrison.
Anch'egli come Lennon, affascinato dall'amico americano, già nel 1970 diede
vita con lui ad alcune sessions ai tempi dell'album "New Morning" dalle
quali scaturì un pò di materiale che si può trovare nel bootleg "Possum
Belly Overalls" e tra cui una versione dylaniana del classico di Paul Mc
Cartney "Yesterday".
Dalla collaborazione tra Bob e George nacque anche la canzone "I'd have you
any time". Negli anni ottanta, poi, i due addirittura misero insieme un
gruppo, "The Traveling Wilburys" in compagnia di Tom Petty, Roy Orbison e
Jeff Lynne (questi ultimi due si avvicendarono), che incise due album ed
alcuni singoli che ebbero un enorme successo ed arrivarono al primo posto
della Hit Parade. I dischi sono "The Traveling Wilburys vol.1" e "The
Traveling Wilburys vol.3".
Alla morte di Roy Orbison per qualche tempo girò la voce che Paul McCartney
potesse prendere il suo posto nei Traveling Wilburys accanto a Dylan a Petty
ed al suo vecchio compagno Harrison.
Dylan partecipò al concerto di beneficenza per le popolazioni del Bangladesh
organizzato da George negli anni '70.
Dopo una serie di disastri naturali e una sanguinosa guerra civile il
neonato stato del Bangladesh, nel 1971, si trovava ad avere necessità di
aiuti umanitari. Il musicista indiano Ravi Shankar parlò delle difficoltà in
cui versava il popolo del Bangladesh a George Harrison nella speranza che
potesse trovare il modo di aiutarli. Sull'onda del successo del suo disco
"All things must pass" e del singolo "My sweet Lord", entrambi arrivati al
primo posto in classifica, l'ex Beatle organizzò in breve tempo due grandi
concerti di beneficenza al Madison Square Garden che avrebbero avuto luogo
il 1° agosto, uno al pomeriggio e l'altro alla sera. I concerti sarebbero
stati registrati per la realizzazione di un disco dal vivo e di un film i
cui profitti sarebbero andati all 'UNICEF . Sarebbe stata anche l' occasione
per il ritorno di Bob Dylan dopo il Festival all'isola di Wight.
Harrison annunciò lo special guest: " Vorrei presentarvi un amico di tutti
noi: il signor Bob Dylan! " Bob si presentò in scena trotterellando, vestito
di jeans, con una chitarra acustica Martin in spalla e un reggi armonica al
collo. Sembrava proprio il cantante folk dei vecchi tempi, e ricevette una
calda accoglienza, anche perchè in America era comparso dal vivo soltanto in
tre occasioni dopo il1966. Lo accompagnavano alla chitarra elettrica
Harrison e al basso Leon Russel, che aveva registrato da poco dei pezzi con
Bob, tra cui Watching the River Flow. Ringo Starr suonava il tamburello, Bob
cantò cinque canzoni sia durante il concerto pomeridiano sia in quello
serale e si divertì molto a provare il brivido del palcoscenico dopo una
sosta così lunga. Just Like a Woman gli era riuscita particolarmente bene:
l'aveva rallentata e aveva cantato il ritornello armonizzando con Harrison e
Russell. Il fatto che per la prima volta Bob cantasse dal vivo con un ex
Beatle rendeva tutto ancor più interessante. " L'impatto sul pubblico era
incredibile " ricorda Jim Horn, che guidava la sezione fiati durante il
concerto.
(Howard Sounes - "Bob Dylan") Anche Ringo Starr ha in varie occasioni
suonato con Bob Dylan, al concerto d'addio di "The band" (vedi il film "The
last waltz") ed in varie sessions negli anni ottanta.
Dal vivo Bob non ha cantato molto del repertorio dei Beatles tranne "Nowhere
Man" ed un accenno di "Here Comes The Sun". Sembra che Dylan iniziò a
cantare questo brano ma dopo pochi versi, visto che non ne ricordava le
parole, passò direttamente a "Girl from the north country" senza
interruzione.
Il 13 Novembre 2002 a New York City Bob ha cantato "Something", canzone dei
Beatles scritta da George Harrison, come omaggio all'amico scomparso.
In studio esiste una bellissima versione di Yesterday che si trova tra
l'altro nel boot "Possum Belly Overalls".
La leggenda vuole che Dylan rispose alla citazione dei Beatles che misero il
suo viso sulla copertina di Sgt. Pepper's nascondendo a sua volta le facce
dei quattro scarafaggi di Liverpool sulla copertina del suo John Wesley
Harding, ma - dice ancora la leggenda - solo sulla versione distribuita sul
mercato britannico. C'è chi - possedendo quella edizione - giura che
capovolgendo la copertina dell'album e guardando bene con una lente
d'ingrandimento si notano i visi dei Beatles nascosti tra i rami degli
alberi sullo sfondo dietro Dylan e gli altri personaggi della foto...
A proposito di Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band, è un album
universalmente considerato un capolavoro e da alcuni ritenuto il miglior
album del Rock, ma a Dylan non piaceva. Ecco quanto dichiarato da Bob a
proposito di questo album (Dal volume "Jokerman" di Clinton Heylin):
(...) Nel frattempo, i Beatles avevano pubblicato Sgt. Pepper's Lonely
Hearts Club Band, un tripudio di effetti sonori che mascherava una pletora
di canzonette e un notevole passo indietro rispetto all'ispirato Revolver.
Nondimeno, le cosiddette innovazioni provocarono una vera e propria
migrazione degli hippie di tutto il mondo verso la West Coast, allo scopo di
registrare su nastro o mettere su vinile una versione musicale del loro più
recente sballo da acido. L'estate del 1967 venne ricordata come la "Summer
of Love", l'Estate dell' Amore, e i media, da sempre fin troppo pronti a
capire dove stava il business, colsero al volo l' occasione.
Dylan, invece, sapeva bene che non c'era bisogno di sintonizzarsi e sballare
per mollare tutto (Si fa riferimento alla celebre esortazione di Timothy
Leary "Tune In, Turn On, Drop Out", N.d.T .). In effetti, era stato proprio
spegnendo tutto e staccando i contatti che era riuscito ad avere un po' di
requie. Mentre, all'epoca, tutti si chiedevano se e come Dylan avrebbe
tentato di "superare" Sgt. Pepper, lo stesso Dylan non sembrava minimamente
interessato a
compiere un' operazione del genere. Aveva ascoltato i più recenti prodotti
musicali provenienti dalla California e dall'Inghilterra, e non ne era
rimasto per nulla impressionato.
Bob Dylan: "Non sapevo come fare per realizzare quel genere di dischi che
stavano registrando gli altri, e neanche mi interessava. I Beatles avevano
appena pubblicato Sgt. Pepper che non mi piaceva proprio per niente...
Pensavo che fosse un album oltremodo autoindulgente anche se le canzoni in
esso contenute erano valide. Mi sembrava che ci fosse un eccesso di
produzione, forse perchè i Beatles non avevano mai fatto niente del genere
prima" [1978].
I wanna be your lover di Dylan (dall'album "Biograph") è un chiaro omaggio
alle canzoni dei Beatles... Il rimando è alla beatlesiana I wanna be your
man che la leggenda vuole Lennon e McCartney avessero scritto direttamente
in studio in cinque minuti per i Rolling Stones durante le sessions di
registrazione di un disco di questi ultimi.
Il 33 giri che i Beatles fecero uscire nel dicembre del 1965, "Rubber Soul",
fu, fino a quel momento, il loro album più sonoro ed elaborato, che non
tradì la stanchezza che essi indubbiamente avvertivano dopo due anni
vorticosi. In esso, sotto l'influsso di Bob Dylan e dei Byrds e l'avvento
del folk-rock, si trovavano testi introspettivi e grande importanza agli
strumenti acustici, tra cui il sitar, in canzoni come "Drive My Car", "In My
Life", "Michelle" e soprattutto "Norwegian Wood (This Bird Has Flown)".
Alcuni brani di Dylan furono registrati dai Beatles ai Twickenham Film
Studios nel gennaio 1969.
Il volume di Roy Carr e Tony Tyler "I favolosi Beatles" (Sonzogno 1979), a
p.128, riporta in un elenco di "Rock 'n' roll oldies recorded during the
'Let it Be' sessions" i brani "Blowin' in the Wind", "I shall
be released", "All along the Watchtower", oltre a "The House of the Rising
Sun".
Nel volume "Beatles" dei Manuali Rock dell'Arcana (1984) viene riportato (p.135) "Momma you've been on my Mind", oltre alla "House of the Rising Sun", e
(p.136) "I shall be released", "Blowin' in the Wind", uscite, pare, su
diversi bootlegs.
Esiste anche un un bootleg dalle famose sessions del gennaio 1969 ("Bits and
Pieces"), in cui è segnalata "I threw it all away" (ma non è quella di
Dylan); il bootleg contiene invece un accenno (39 secondi!) di "Frere Jac"
(!!) che sfocia nel ritornello di "It ain't me Babe", con, probabilmente,
Harrison alla chitarra elettrica e lo stesso George più McCartney alle voci.
Tratto dal volume "Jokerman", dal capitolo "1965: Sulla tua spalla" - Maggio
1965. Dylan era in tour in Inghilterra. La suite del Savoy Hotel, dove Dylan
alloggiava, era costantemente affollata di persone, e se non c'era un
cocktail party organizzato da Grossman, manager di Dylan, allora c'erano dei
giornalisti che volevano un'intervista in esclusiva; se non si trattava dei
giornalisti, allora erano Allen Ginsberg e i suoi amici beat; se non si
trattava di Allen Ginsberg allora c'erano i componenti di qualche gruppo
facente parte della prospera scena beat inglese venuto a porgere i propri
omaggi a Dylan.
I Beatles erano una presenza costante. Un articolo apparso nel Melody Maker,
nel quale si annunciava "Ai Beatles piace Dylan" aveva costituito un
ulteriore stimolo alle vendite dei suoi dischi nel Regno Unito. Dylan aveva
conosciuto i Beatles il precedente Agosto, a New York, quando i quattro di
Liverpool gli erano stati presentati da Al Aronowitz; in quella occasione
pare che Dylan e Aronowitz avessero suggerito di farsi tutti quanti una
bella canna, tanto per rilassarsi un pò: la prima esperienza dei Beatles con
il fumo. Quando però Dylan li incontrò nuovamente nel maggio del 1965,
scoprì che i loro esperimenti con le sostanze allucinogene erano andati
parecchio oltre.
John Lennon: "Ricordo soltanto... che avevamo entrambi gli occhiali da sole,
ed eravamo entrambi fatti persi, e c'erano tutti questi freak intorno a noi,
e Ginsberg, e un sacco di altra gente. Ero ansioso quanto una merda..."
Nonostante il proprio status di superstar i Beatles nutrivano per Dylan un
sentimento di timoroso rispetto. Lennon aveva già cominciato a sentirsi
profondamente influenzato dalla sua musica, sebbene le loro canzoni avessero
solo da poco cominciato ad esplorare altri temi che non fossero quelli
sentimentali. Anche i Rolling Stones erano dei frequentatori abituali della
suite di Dylan al Savoy Hotel, sebbene fosse Brian Jones quello che sembrava
nutrire la maggiore ammirazione per Dylan.
Dana Gillespie: "Ogni sera i Beatles e i Rolling Stones erano soliti venire
al Savoy Hotel dove facevano ascoltare gli uni agli altri le loro ultime
registrazioni, e si poteva vedere che erano in competizione per decidere chi
dovesse essere la band più famosa d'Inghilterra, ma... Dylan era l'unica
persona per la quale sia gli Stones che i Beatles nutrivano una grande
ammirazione, così quando egli teneva corte in una delle stanze dell'hotel,
tutti gli si sedevano attorno e lo stavano ad ascoltare".
John Lennon appare con Dylan nel film "Eat the document".
Una delle sequenze più indicative di "Eat the document", il
film/documentario di D.A.Pennebaker e Dylan sulla tourneè europea del '66
era uno scambio di battute tra Bob e John Lennon scarrozzati per Londra a
bordo di una limousine. Lennon, come in seguito lui stesso ha dichiarato,
era "su di giri e fumato", ma aveva l'aria più sana di Bob, magro come un
chiodo e pallidissimo. Per un pò il dialogo era coinvolgente: sembrava una
scena di un film dei Beatles. Lennon sparava battute e Bob ridacchiava.
"Soffrite di gonfiore agli occhi, rughe sulla fronte e capelli ricci?"
chiedeva Lennon con una vocina buffa. "Prendete lo Zimdon". Quando la
macchina oltrepassò una coppia che si baciava per strada, Bob li fece
inquadrare dalla cinepresa: "Ehi! Ehi! Riprendi quei due innamorati" aveva
detto, allegro. Ma poi cominciò ad incespicare sulle parole. Verso la fine
della sequenza pregò l'autista Tom Keylock di sbrigarsi ad arrivare in
albergo perchè gli veniva da vomitare.
Tratta dalle pagine di Talkin' Bob Dylan Blues, la posta di Maggie's Farm
ecco di seguito una mail con argomento George Harrison e Bob Dylan:
Ho appena terminato di leggere il volume "I Me Mine" di George Harrison, che
mi hanno regalato a Natale. Il libro è molto bello, ed è concepito un po'
come il booklet di Biograph. La prima parte consiste in un breve racconto
autobiografico in forma di conversazione tra George e il giornalista Derek
Taylor: la sua infanzia a Liverpool, i Beatles, l'India, la passione per
l'automobilismo..., segue la raccolta completa di tutti i testi integrali
delle canzoni (sono più di ottanta) accompagnate dai suoi commenti ironici e
intelligenti, e spesso dal manoscritto originale. Il volume è completato da
una cinquantina di belle foto in bianco e nero. Leggendo il libro ci si
rende conto di quanto George Harrison fosse "speciale". Era una persona
dolce e schiva, semplice e onesta, ... non una rock star e neppure un genio
alla Dylan, ma un artista profondo e pieno di spiritualità. Mi piace pensare
che sia stato molto amico di Bob.
A pag 205 ho trovato una canzone che Harrison ha scritto e dedicato a Dylan
dopo il concerto all'Isola di Wight. Non la conoscevo e mi ha colpito: credo
che sia una tra le più belle poesie sull'amicizia che mi sia capitato di
leggere.
A me piace moltissimo. George riesce ad esprimere in modo semplice ma
straordinariamente intenso i suoi sentimenti di profonda amicizia per Bob,
il suo voler bene all'amico, il suo volergli stare vicino. E da amico riesce
a mettere a fuoco la caratteristica più vera e più bella di Dylan,
concentrandola in un paio di versi: "The love you are blessed with/This
world's waiting for" (L'amore dal quale tu sei benedetto/il mondo lo sta
aspettando)
Ed è molto divertente il racconto di come nacque I'd Have You Any Time.
George era andato a trovare Dylan a Woodstock ed era ospite a casa sua, nel
periodo successivo all'incidente di moto. Secondo quanto racconta George,
Bob sembrava nervoso e a disagio... Un giorno si misero a suonare insieme e
George gli disse "scrivi qualche testo per me". Si aspettava qualcosa di
surreale, tipo Subterranean Homesick Blues... Bob gli disse "fammi vedere
qualche accordo, come fai a scrivere queste melodie?" George allora cominciò
a suonare qualche accordo e le prime parole che gli vennero in mente furono:
"Let me in here/I know I've been here/Let me into your heart..." E allora
Bob proseguì scrivendo il bridge: "All I have is yours/All you see is
mine/And I'm glade to hold you in my arms/I'd have you anytime" George
conclude il suo commento: "Meraviglioso! E questo è tutto. La calligrafia di
Bob è riprodotta in questa pagina per sua gentile concessione". E infatti il
libro riporta il manoscritto "pasticciato" di Dylan, accaccanto a quello più
ordinato e preciso di Harrison.
(Fonte: archivi maggiesfarm.it)
Venerdi 16 Dicembre
2011
La mail di Luciano
Ciao Mr.Tambourine,
sono da anni un fedele lettore di Maggie anche se è la prima volta che
scrivo. Il motivo è questo, considerando le recensioni dei concerti di
quest’anno (che tu pazientemente hai tradotto per tutti noi) ed avendo
partecipato quest’anno a due concerti (Alcatraz e Assago), ho notato, non
senza un certo stupore, che buona parte dei tradizionali “vecchi” ed
inossidabili fans del Nostro hanno cominciato a disertare, cioè se ne vedono
sempre meno ai concerti. Dico questo in quanto nelle due occasioni milanesi
la maggior parte del pubblico era composto da gente giovane e di mezza/età,
ossia da generazioni non contemporanee ma successive a quella di Bob che
potremmo tranquillamente definire nuovi adepti. Vorrei sentire la tua
campana sull’argomento, pensi anche tu che quanto affermo possa essere vero?
Lo zoccolo duro di Bob sta davvero passando la mano?
Un riconoscente grazie per quanto continui a fare,
Luciano Soldat
Caro Luciano,
Ecco quanto dichiarò Bob Dylan in una intervista di qualche anno fa:
Quelli più vecchi, quelli della mia
generazione, non vengono più a sentirmi (Bob Dylan)
Molti negli ultimi anni sono venuti ai miei concerti solo per curiosità, ma
non hanno trovato quello che cercavano: non ritrovavano l'atmosfera degli
anni '60 e restavano delusi. Il concerto non diceva loro nulla, né loro
avevano alcun significato per me. Era una cosa che prima o poi doveva
finire, e finalmente è finita. Troppi venivano a vedere il mito, mentre da
parte mia c'era solo voglia di fare musica e basta. Parecchia gente sostiene
che la generazione che ha vissuto gli anni '60 ha fallito, non è stata
all'altezza dei propri sogni e non ha concluso nulla. Forse hanno ragione.
Eppure si sono fatte cose che nessuno è stato più capace di ripetere. Oggi
si vive ancora a rimorchio di ciò che è stato fatto a quei tempi, e la
musica e le idee di allora sono sempre valide. Guardatevi attorno adesso:
mentre una volta si condividevano miti e ideali adesso i giovani hanno come
punti di riferimento McDonald o Disneyland.
Sostanzialmente sono d’accordo con la tua impressione, al di là del fatto
che io, avendo visto il Bob degli anni migliori diverse volte, ho delle
difficoltà a ritrovarmi nei concerti odierni che per me rappresentano un Bob
sostanzialmente diverso a quello al quale ero legato ed affezionato.
Con questo non sto dicendo che il Bob attuale non valga la pena del costo
del biglietto, anche se i prezzi si stanno vertiginosamente alzando ed hanno
raggiunto livelli difficili per molte persone. Consideriamo che molti di
quelli che affettuosamente chiamiamo “vecchi” fans, ed anch’io mi conto in
questo gruppo, sono in pensione già da qualche anno, e non essendo tutti
ex-onorevoli o ex-parlamentari, debbano fare i conti anche col portafogli.
Consideriamo anche il fattore età, e te lo dico per esperienza, che quando
si raggiungono o si passano i “60” si diventa molto più pigri, ci si muove
molto meno, i viaggi e gli spostamenti cominciano ad essere pesanti e
fastidiosi anche fisicamente ed a volte, se non ci si sente proprio più che
in perfetta forma, si tende a rinunciare al concerto anche se si avrebbe
voglia di andare. Questi “vecchi” hanno la scusante di averne visti tanti di
concerti, e magari non solo di Bob, e col passare del tempo si perde lo
sprint, manca lo spunto, le motivazioni lasciano il posto agli acciacchi,
voglio dire che quelli che erano la generazione contemporanea di Bob non
sono più le stesse persone di allora, come lo stesso Bob non è più quello
della sua età dell'oro, anche se ha sempre la capacità di attirare ed
imprigionare nella sua rete milioni di nuove persone di altre generazioni
grazie alla magia ed alla bellezza delle sue canzoni. Poi ci sono quelli che
non “capiscono più” e non “apprezzano più” il Bob contemporaneo, il suo modo
di interpretare e stravolgere le sue canzoni, il suono a volte strano e
lontano di certi arrangiamenti, e allora volontariamente si allontanano dai
concerti pur continuando ad amare Bob, ma per motivi personali e forse
diversi da quelli delle generazioni seguenti. Come disse Bob, a molte di
queste persone il concerto non interessava più, e per Bob non avevano più
alcun significato o valore.
Forse, sempre come dice Bob, la “’60 generation” ha fallito in pieno,
facendosi riassorbire da quella società che tanto ha contestato e detestato,
ma questi sono stati i fatti che nessuno può cambiare. Si potrebbero
raccontare forse da un altro punto di vista ed arrivare alle stesse
conclusioni con motivazioni diverse, ma la sostanza delle cose non
cambierebbe. Quegli anni diedero il grande impulso musicale, spinsero musica
ed artisti su nuove strade, e quando quella spinta cominciò ad esaurirsi
venne sostituita da una generazione di artisti validi nel campo
dell’inventiva ma non altrettanto in quello musicale. Ricordo la musica
bianca di quegli anni che scopiazzava spudoratamente il blues ed il rhythm &
blues del tempo, artisti di immenso talento e capacità, potrei citare Ray
Charles, Otis Redding ed un centinaio d’altri “colored” performers e
songwriters che hanno fatto impallidire e messo in grande difficoltà gli
artisti venuti dopo di loro, stendendo un velo pietoso sulle esibizioni
degli attuali rapper neri che stanno facendo tremare di vergogna l’urne di
quei forti.
E’ vero, oggi si vive ancora a rimorchio della musica e delle idee di
quell’ormai tempo passato, memorabile e degno delle miglior nostalgia,
alcuni miti di allora (cito Beatles, Dylan, Morrison, Hendrix, Stones) sono
entrati nella leggenda conquistandosi l’immortalità generazionale, mentre
molti divi odierni durano solo lo spazio di uno sbadiglio.
Fortunatamente molti hanno saputo mettere il vecchio su un piatto della
bilancia ed il nuovo sull’altro, ed hanno saputo sciegliere, per questo il
Nostro Bob può fare ancora oltre un centinaio di concerti all’anno, e,
perdona la mia ignoranza, ma non conosco nessun altro che possa fare
altrettanto.
Alla prossima, :o)
Il Tuono sulla montagna, lo Spirito sulle
acque, il Mistico giardino abbandonato...
Una lettura di "Modern Times" in chiave dantesca
di Michele Murino
Quella che segue è un'interpretazione di alcune canzoni di "Modern Times"
basata su una serie di connessioni con l'opera di Dante Alighieri, ed in
particolare 'La Divina Commedia' (Paradiso).
Tutto prende le mosse dall'impressione, che avevo ricevuto dopo svariati
ascolti dell'album, in base alla quale la Alicia Keys nominata da Dylan in
"Thunder on the mountain" (primo brano del disco) potesse in qualche modo
rappresentare per lui una sorta di Beatrice dantesca.
Partendo da questa sensazione, ho sviluppato così una mia teoria tra il
serio ed il faceto mettendo insieme una serie di corrispondenze/coincidenze
che vado a commentare.
La mia "investigazione" era nata dalla domanda che continuavo a farmi:
perchè proprio Alicia Keys?
Perchè proprio una popstar alla quale nessuno avrebbe mai pensato
lontanamente che Dylan potesse dedicare dei versi?
I was thinkin' 'bout Alicia Keys, couldn't keep from crying
When she was born in Hell's Kitchen, I was living down the line
I'm wondering where in the world Alicia Keys could be
I been looking for her even clear through Tennessee
Stavo pensando ad Alicia Keys, e non ho potuto fare a meno di piangere
Quando lei è nata ad Hell's Kitchen, io vivevo a sud
Mi chiedo dove potrebbe essere ora Alicia Keys
L'ho cercata persino in tutto il Tennessee
Tra migliaia di persone, perchè proprio lei?
Dal momento che sono da sempre convinto che Dylan non inserisca a caso nei
suoi versi questa o quella parola, questo o quel personaggio, ho
incominciato a fantasticare sul motivo di quella strana scelta... E ad
annotarmi tutta una serie di coincidenze...
Chissà...?
Magari Dylan non ha scelto Alicia a caso, ma per un preciso motivo evidente
nel suo cognome e nel suo luogo di nascita...
Magari Alicia, che - come canta Dylan nel brano - "è nata ad Hell's Kitchen"
(Hell = Inferno), proprio come la Beatrice di Dante, ha per Dylan le chiavi
(in inglese "keys") del Paradiso... e dunque nominandola Dylan ha voluto
operare uno dei suoi geniali giochetti "semantici" fatti di allusioni e di
codici da interpretare, quelle acrobazie linguistiche alle quali ci ha
abituati.
E per di più, la scelta di Alicia (che Dylan ha incontrato alla serata dei
Grammy Awards di qualche anno fa e a proposito della quale ha dichiarato:
"Non c'è niente di quella ragazza che non mi piaccia"), coincidenza nella
coincidenza, si andava a sposare perfettamente con la fascinazione che Dylan
ha sempre dimostrato per le donne nere, almeno dal 1977 circa in avanti, e
dunque la ragazza si prestava benissimo ad essere presa come esempio per
rappresentare una sua ideale "Beatrice".
Poi, altra coincidenza, nel Canto I del Paradiso, Dante scrive (parlando de
"l'etterno valore", ovvero il potere divino)
Questi ne porta il foco inver’ la luna;
questi ne’ cor mortali è permotore;
questi la terra in sé stringe e aduna;
che tradotto in inglese è
This bears away the fire towards the moon;
This is in mortal hearts the motive power
This binds together and unites the earth.
e guarda caso nella prima strofa anche Bob parla di "fires on the moon":
Thunder on the mountain and there's fires on the moon...
Tuono sulla montagna, fuochi sulla luna...
Inoltre, sarà un caso, ma "Alicia" in fondo non è altro che "Alice". E
"Alice" e "Beatrice" hanno una notevole "assonanza" in quanto a grafia.
Tra l'altro, chissà se è anche questa una coincidenza, se Dante sceglie
Virgilio come sua guida, Bob dice invece di aver studiato l'Ars Amatoria di
Ovidio (I've been sitting down studying The Art Of Love) altro poeta punto
di riferimento di Dante per la Divina Commedia.
Oltre tutto Beatrice viene da Dante definita, nel sonetto "Tanto gentile e
tanto onesta pare":
"...cosa venuta da cielo in terra a miracol mostrare"
Ed in "When the deal goes down", altro brano di "Modern Times", Dylan canta:
"Sei giunta ai miei occhi come una visione dai cieli"
E sempre nello stesso sonetto dalla Vita Nova, Dante scrive, parlando ancora
di Beatrice:
Mostrasi sì piacente a chi la mira,
che dà per li occhi una dolcezza al core,
che 'ntender no la può chi no la prova
Cioè: La bellezza di Beatrice dà attraverso lo sguardo una dolcezza al cuore
che chi non la prova non la può capire.
E Dylan ancora in "Thunder on the mountain", proprio nella strofa successiva
a quella in cui ha detto di aver cercato in tutto il Tennessee la sua
Alicia/Beatrice, sembra ribaltare il concetto:
"Mi sento come se la mia anima stesse cominciando ad espandersi
Se guardi nel mio cuore forse capirai"
(la dolcezza che non può capire "chi no la prova" la capirai se guardi nel
mio cuore).
Dunque cerca Alicia/Beatrice perchè è l'unica che riesce a far sì che "la
sua anima si espanda" (dunque l'unica che l'avvicini a Dio proprio come
Beatrice vi condusse Dante)? L'unica che gli infonde nel cuore la dolcezza
che "non può capirla chi non la prova" (ma che invece "se guardi nel mio
cuore capirai")?
Tra l'altro nella Divina Commedia spesso Dante si rivolge a Beatrice
chiamandola "Madonna" (che resta "Madonna" anche per quelli di lingua
inglese) e magari Dylan si è divertito anche a fare un ulteriore
cervellotico e decisamente ardito gioco di parole. Dante si rivolge a
"Madonna" e Bob invece ad Alicia Keys (cioè un'altra popstar come Veronica
Ciccone). Certo, in questo caso, il senso dell'umorismo e dell'ironia di Bob
sarebbe ai massimi livelli ma, trattandosi di Dylan, mai escludere alcuna
possibilità :o)
Tra l'altro in tutto il brano Dylan canta altre frasi facilmente associabili
ad elementi divini e paradisiaci:
Il tuono sulla montagna, non a caso messo proprio come prima frase del
disco, potrebbe annunciare l'arrivo del Signore
The sun will be here soon = The Son will be here soon
"Data la quasi identica pronuncia e la frequenza con la quale l'assonanza
compare nella letteratura religiosa di lingua inglese, "Sun" può anche
essere inteso come "Son", cioè Figlio, Gesù Cristo" (Alessandro Carrera
nella nota a 'Precious Angel' in "Lyrics 1962-2001", pag. 1193)
E nel secondo brano di Modern Times, infatti, appare "the spirit on the
water", lo spirito sulle acque (lo spirito di Dio?) che vaga sull'abisso
("on the face of the deep").
Genesi, 1, 1-2 : In principio Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era
informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio
aleggiava sulle acque.
E tra l'altro, altra coincidenza, anche Beatrice, nel canto 29mo del
Paradiso, nel suo discorso a Dante, spiegandogli la creazione degli Angeli e
la caduta di Lucifero, parla di Dio utilizzando un'immagine che lo raffigura
sulle acque:
Non per aver a sé di bene acquisto,
ch'esser non può, ma perché suo splendore
potesse, risplendendo, dir "Subsisto",
in sua etternità di tempo fore,
fuor d'ogne altro comprender, come i piacque,
s'aperse in nuovi amor l'etterno amore.
Né prima quasi torpente si giacque;
ché né prima né poscia procedette
lo discorrer di Dio sovra quest' acque.
Dylan dice che "quello è il giorno" (il giorno del giudizio?), prende il
trombone e suona (le trombe che annunciano la "end's world" che citerà alla
fine di Modern Times, "la fine del mondo"?)
Oltretutto in Nettie Moore Dylan canta:
The judge's coming in, everybody rise
Lift up your eyes
Sta arrivando il giudice, tutti si alzano
Solleva il tuo sguardo
...ovvero un altra allusione all'arrivo del Signore (il giudice). Un verso
che tra l'altro fa il paio con quello di Sugar Baby da "Love and theft" che
recita: "Look up, look up - seek your Maker - 'fore Gabriel blows his horn"
(Solleva lo sguardo - cerca il tuo Creatore - prima che Gabriele suoni il
suo corno).
Dylan ha cercato la sua Beatrice/Alicia fino in Tennessee. La sua Beatrice
che è stata all'Inferno (Hell's Kitchen) ma che possiede le "keys", le
chiavi, per farlo accedere al Paradiso? The keys to the Kingdom (per citare
sempre Bob).
Infatti dice che sente la propria anima espandersi...
E poco dopo canta: "Vieni a leggere la scritta sul muro, vieni a vedere cosa
dice".
"La scritta sul muro preannunciante guai rimanda a "Mane, Tekel, Fares" (o
"Mene, Tekel, Upharsin"), profezia della caduta di Babilonia, decifrata dal
profeta Daniele in Daniele 5, 5:28" (Alessandro Carrera in riferimento alla
canzone "Trouble", in "Lyrics", p. 1199)
Poco dopo però afferma di non aver bisogno di guide (Beatrice/Alicia ?
Virgilio/Ovidio ?), perchè "conosce già la strada". Basta "seguire la
musica" (la musica della tradizione? la musica delle sfere? quella in cui
Dylan ha sempre affermato di credere come e più di una fede?)
Canta infatti:
"Dormirò lassù, è da lì che viene la musica
Non ho bisogno di guide, la strada la conosco già"
Ed afferma di essere sempre il servitore di Dio ("Ricordati che io sono il
tuo servitore sia di notte che di giorno")
"Il sole continua a splendere ed il Vento del Nord continua a prendere
velocità"
The Sun = The Son ?
Il vento del Nord è forse un riferimento al Diavolo? Come in 'Sweetheart
like you' cantava che "il padrone (il diavolo) non c'è, se n'è andato a
Nord, si è lasciato sopraffare dalla vanità"
Geremia 1, 14: "Dal Nord si diffonderanno i mali su tutti gli abitanti della
Terra" (il "vento del Nord che continua a prendere velocità" i cui effetti
vedremo nella finale Ain't Talkin' con quelle scene di desolazione e morte?)
I'll recruit my army from the orphanages / Recluterò i miei soldati negli
orfanotrofi (un esercito per la battaglia dell'Armageddon?)
"Mi alzerò domani mattina per percorrere quella difficile strada
Un bel giorno sarò a fianco del mio Re
Non tradirei mai il tuo amore nè nessun'altra cosa"
A fianco del mio Re = Al fianco del Signore?
La città citata in Thunder on the mountain (I'd like to try somethin' but
I'm so far from town - Vorrei provare qualcosa ma sono così lontano dalla
città) potrebbe essere la città di Dio come ipotizzato per la canzone 'Under
the red sky' dove tra l'altro si parlava ancora della "Key to the Kingdom",
la chiave del regno.
Nel secondo brano, "Spirit on the water", dice:
"You got the key to my brain" (un altro riferimento ad Alicia/Beatrice che
ha le "keys" della sua mente? Una donna, quindi l'amore, la salvezza?)
I versi:
I've been trampling through mud
Praying to the powers above
I'm sweating blood
You got a face that begs for love
sono una chiara allusione a Cristo e al suo Calvario (mi sono trascinato nel
fango = Cristo che porta la croce e cade lungo la strada per il Calvario ;
pregando i poteri in alto = pregando il Padre, Dio ; sudo sangue = come
Cristo nel Getsemani).
Però Dylan afferma anche di non poter accedere al Paradiso perchè ha ucciso
un uomo lì. Forse un riferimento a Caino?
Caino che Dylan aveva già "citato" in Not dark yet (Sometimes my burden
seems more than I can bear)
I wanna be with you in paradise
And it seems so unfair
I can't go to paradise no more
I killed a man back there
Vorrei essere con te in paradiso
e sembra così ingiusto
Non posso più tornare in paradiso,
ho ucciso un uomo lì
"with you" (con Alicia/Beatrice? la donna salvifica? con Dio ?)
Molti versi di "Spirit on the water" tra l'altro sono ambigui e potrebbero
anche non riferirsi ad una donna ma a Dio (Alessandro Carrera parlando di 'I
believe in you': "Come altre canzoni del periodo cristiano, potrebbe essere
indirizzata sia a Gesù Cristo sia a una donna"; sempre in Lyrics, p. 1193).
In particolare:
Attraverso paesi,
viaggio nel crepuscolo del giorno
Sei sempre nei miei pensieri,
non riesco a starti lontano
Non riesco a spiegare
le fonti di questo dolore nascosto
Hai aperto un varco nel mio cuore,
hai le chiavi della mia mente
La vita senza di te
non significa niente per me
Lo dico chiaramente
questi nodi sono stretti abbastanza da tenere
Ora la tua dolce voce
grida da qualche vecchio tempio familiare
Da Est ad Ovest,
sin da quando è cominciato il mondo
Lo dico davvero,
voglio solo stare con te in ogni modo possibile
Ed anche l'intera "When the deal goes down" può essere letta in questa
chiave.
Anche in Rollin' and tumblin' c'è un verso ambiguo se si dà per buona la
lettura Sun = Son
I got up this mornin', saw the rising sun return
Well, I got up this mornin', see the rising sun return
Sooner or later, you too shall burn
Mi sono svegliato ed ho visto il sol levante ritornare
Mi sono svegliato ed ho visto il sol levante ritornare
Prima o poi anche tu brucerai
Rising Sun = Sole Nascente ; Rising Son = Il Figlio Risorto ?
Anche Beyond the horizon ha molti versi che sembrano una descrizione
paradisiaca:
Oltre l'orizzonte, al di là del sole
alla fine dell'arcobaleno dove la vita è solo all'inizio
Nelle lunghe ore del crepuscolo, più in basso della polvere stellare
Oltre l'orizzonte è facile amare
Corre e corre il mio cuore infelice
sento il bacio dell'angelo
mentre le mie memorie annegano
nella beatitudine dei mortali
Tra l'altro "il bacio dell'angelo" potrebbe essere un riferimento di Dylan
all'Arcangelo Michele il quale con il suo esercito nel giorno
dell'Armageddon separerà il bene dal male.
"La luce trionferà sulle tenebre: è stato predetto e così sarà. Perchè non
partecipare a quell'evento? I figli di Dio che saranno iscritti nel numero
di coloro che avranno partecipato al combattimento dell'Arcangelo Michele,
il Genio del Sole, questa potenza di Dio tra le più luminose, riceveranno il
bacio dell'Angelo del fuoco. Tale bacio non li brucerà ma li illuminerà"
(Omraam Mikhaël Aïvanhov).
Nell'ultima canzone Dylan, nella prima e nell'ultima strofa, è nel mistico
giardino (il Paradiso?), si rivolge ad una "madam" (Alicia/Beatrice le cui
"keys" gli hanno permesso l'accesso?), ma "il Giardiniere se n'è andato"
(Dio? Dio che ha abbandonato l'umanità in "questo stanco mondo di dolore",
"tra la pestilenza delle città", in questo "intero mondo colmo di
speculazione"? ).
Il giardiniere che ha abbandonato il giardino, proprio come qualcuno ha
voluto interpretare (sul sito "A lily among thorns") la figura del "man in
the moon" in Under the red sky e che un bel giorno se n'era andato?
"E c'era un vecchio (Dio?) che viveva nella luna e che un giorno d'estate
passò lì vicino... Un giorno l'uomo nella luna tornò a casa ed il fiume
seccò" ?
Bob Dylan e la canzone di protesta: breve
storia di un equivoco
di Edoardo Tacchi
Portavoce di una generazione, icona della protesta pacifista, coscienza
della controcultura giovanile, simbolo della contestazione studentesca,
profeta del movimento hippy; la pletora di attribuzioni che accompagna da
ormai più di quarant’anni il nome e l’immagine di Bob Dylan presso i canali
d’informazione gravita sempre intorno al medesimo centro: gli anni sessanta
e le battaglie per la pace e i diritti civili. Allo stesso tempo sarà quasi
impossibile per il critico musicale come per il biografo, per gli esegeti
dei suoi versi o i cacciatori di citazioni, rintracciare una conferma o
anche solo un atteggiamento accondiscendente verso queste definizioni nelle
parole dell’autore che, al contrario, è ricorso spesso al silenzio e
talvolta anche al depistaggio pur di evitare l’impegno di una dichiarazione
su queste tematiche.
Così va più o meno da sempre, o meglio, così andava perché, tra la messe di
pubblicazioni dedicate al cantante che sono uscite negli ultimi tempi, sono
ormai disponibili anche al pubblico italiano due opere che gettano
finalmente una luce di verità su quegli anni e sul ruolo che Bob Dylan vi ha
giocato, consentendoci di fare il punto su quella che, comunque, è soltanto
una fase della carriera di questo artista: senz’altro rilevante e di
clamorosa esposizione pubblica ma, almeno per chi scrive, non esaustiva
delle problematiche interpretative legate al suo nome. La prima è il
fortunato volume autobiografico Chronicles (1), sorta di memoire piuttosto
atipico in quanto a struttura e linguaggio, in cui l’autore dismette i panni
del sabotatore del proprio passato e parla in modo franco e talvolta anche
severo degli episodi che ritiene decisivi per comprendere il corso tortuoso
dell’ispirazione lungo la sua carriera artistica; l’altra è il recente film
documentario realizzato con successo da Martin Scorsese (2) che traccia,
seguendo un approccio ricostruttivo ed esauriente, il percorso umano e
artistico compiuto da Dylan fino al luglio del 1966, data spartiacque per il
cantante allorché un serio incidente di moto lo costrinse a un provvisorio
ritiro dalle scene che egli volle poi prolungare, almeno per quanto riguarda
le esibizioni pubbliche, fino al 1974.
Conviene allora cercare di fare chiarezza sulla natura dell’impegno o del
disimpegno politico di Dylan attraverso l’angolatura privilegiata che ci
offrono alcuni degli episodi illustrati o raccontati in queste opere
recenti, sperando così di ricomporre in parte la dicotomia tra la realtà,
complessa se non idiosincratica, della personalità del cantante e la sua
immagine pubblica, modellata sullo stereotipo del “cavaliere senza macchia”
secondo quella prassi che attribuisce agli artisti e in particolar modo ai
musicisti il ruolo di maître à penser.
Il primo fotogramma è offerto dal film di Scorsese e ci porta al 13 dicembre
1963 nell’ampia e affollata sala per ricevimenti dell’Hotel Americana di New
York dove si tiene, organizzata come ogni anno dall’Emergency Civil
Liberties Committee in occasione della ricorrenza del “Bill of Rights”, una
cena con raccolta di fondi durante la quale viene onorata con il “Tom Payne
Award” una personalità che si è distinta nella lotta (la promozione, diremmo
oggi) per la libertà e l’uguaglianza. L’anno prima il destinatario del
premio è stato Bertrand Russell, per il ’63 il prescelto è proprio Bob
Dylan, che si presenta al microfono barcollante e con le facoltà mentali
pesantemente compromesse dall’abbondante quantità di alcool che si è scolato
in precedenza. È un episodio conosciuto e riportato anche dai biografi, sul
quale tuttavia anche gli apologeti più incalliti preferiscono glissare
perché ogni parola del farfugliante discorso tenuto a braccio per
ringraziare il prestigioso comitato dell’onorificenza ricevuta appare
insensata e l’evento si ricorda come l’intervento pubblico forse più
inopportuno e imbarazzante di un’intera carriera. Che aria tirasse in realtà
si sarebbe dovuto capire già dall’inizio, quando, con un nonsense di pessimo
gusto, Dylan si disse dispiaciuto di trovarsi di fronte a tante persone
calve e anziane visto che lui ci aveva messo così tanto tempo a diventare
giovane, ma fu solo poco prima di essere costretto a cedere il microfono che
questo oratore improvvisato e maldestro piazzò la provocazione più grossa,
suscitando il risentimento della platea attonita: «[…] l’uomo che ha sparato
al presidente Kennedy, Lee Oswald, non so esattamente dove - che cosa
pensava di fare - ma devo ammettere onestamente che anch’io ho visto
qualcosa di me in lui. Non credo che la cosa si sarebbe spinta […] così
avanti ma devo anche dirlo che in me ho sentito qualcosa come sentiva lui…
non di arrivare al punto di sparare» . (3)
Erano passate appena tre settimane dai fatti di Dallas, le immagini filmate
da Abraham Zapruder non erano ancora di dominio pubblico ma l’intera nazione
americana era fortemente scossa da ciò che era successo e questo giovanotto
ignorante e maleducato si permetteva di offendere così profondamente
militanti della Sinistra americana che gli apparivano ora sì, imborghesiti
ed edulcorati nel loro radicalismo, ma che erano da molto tempo coinvolti
nelle battaglie per i diritti civili e avevano superato anche gli anni
terribili del maccartismo. L’episodio scatenò polemiche che furono
rintuzzate a fatica dall’artista, con una lettera pubblica di scuse al
comitato e promesse reiterate (ma sembra non mantenute) di rifonderlo dei
contributi che erano venuti a mancare per via del suo intervento.
L’interpretazione più comune vuole che sia stata la sbronza a far uscire
dalla bocca di Dylan quelle frasi tanto insolenti e fuori luogo, ma credo
che proprio l’alcool fosse ciò di cui egli aveva bisogno per sputare fuori
qualcosa che altrimenti non sarebbe riuscito a dire, ma che voleva e doveva
comunque far sapere e che la sua condotta successiva avrebbe reso esplicito:
l’artista non era più disponibile a farsi portavoce di nessuno, tanto meno
di un movimento politico, ed era impossibile catalogarlo sotto alcuna
etichetta ideologica; in sostanza, non ci si potevano aspettare da lui
risposte di alcun tipo perché le sue canzoni e soltanto esse parlavano per
lui.
Comunque si interpreti questo episodio, dopo l’omicidio Kennedy per Dylan
gli equivoci che avevano tenuto in equilibrio il rapporto con il suo
pubblico di allora dovevano ormai sciogliersi, l’incantesimo che aveva visto
il cantante partecipare a manifestazioni di carattere politico e duettare
con Joan Baez, Pete Seeger e gli altri campioni dell’impegno sociale si era
definitivamente spezzato. In effetti nel corso dei mesi precedenti Dylan,
che solo dall’anno prima aveva cominciato a comporre testi con regolarità,
aveva tenuto un profilo molto alto sotto l’aspetto artistico, realizzando
due album e scrivendo almeno una trentina di canzoni, delle quali quasi la
metà erano riconducibili al filone delle topical songs, “canzoni
d’attualità”, come venivano chiamate in quegli anni con un termine appena
più accettabile dell’espressione “canzoni di protesta”, sempre rifiutata
dall’autore: fra tutte, si ricordano almeno The times, they are a-changin’ e
When the ship comes in, che utilizzavano un immaginario biblico apocalittico
per prefigurare imminenti rivolgimenti sociali grazie ai quali ciascun torto
sarebbe stato vendicato e ogni ingiustizia riparata; The lonesome death of
Hattie Carroll e Only a pawn in their game (originariamente The Ballad of
Medgar Evers, dal nome del leader per i diritti civili appena assassinato),
immediatamente adottate dal movimento contro la segregazione razziale;
Masters of war e With God on our side, assurte negli anni a venire al ruolo
di inni nelle campagne contro la guerra in Vietnam (4) .
Alle parole erano seguiti anche i fatti: Dylan si era infatti esposto nel
campo dell’impegno civile e politico concedendo interviste a quotidiani e
periodici della sinistra più radicale, accettando l’invito di programmi
radiofonici e televisivi dedicati alle questioni delle libertà civili,
partecipando a importanti manifestazioni politiche come il rally del 6
luglio a Greenwood in favore dell’uguaglianza razziale e, il 28 agosto,
l’oceanica marcia per i diritti civili di Washington, dove si era esibito a
margine del celebre comizio di Martin Luther King. Soprattutto, sempre in
quell’estate, era stato l’attrazione principale del prestigioso Folk
Festival di Newport dal quale era uscito con l’investitura praticamente
universale di nuovo principe della musica folk, erede designato di Woody
Guthrie e degno compagno della “regina” Joan Baez, come risulta dalle
interviste ai protagonisti dell’epoca, preziosamente contenute nel
documentario di Scorsese: «Se davvero esiste un subconscio collettivo
americano, se credete in una cosa del genere, allora Bobby l’aveva colpito
in pieno, c’era sempre una certa risonanza [di lui] in tutti», ricorda il
folksinger Dave Van Ronk, esponente allora tra i più brillanti della canzone
impegnata. Sembrava davvero che stesse per cominciare un’altra storia, che
potesse realizzarsi il desiderio non nascosto di quella comunità di
intellettuali ed artisti della sinistra americana, appena riemersa dalle
persecuzioni e dalle umiliazioni sopportate durante la “caccia alle
streghe”, che aveva trovato proprio nel festival di Newport (nato nel ’59)
un luogo ideale per confrontarsi e ricostruire un’identità intellettuale e
morale (5): quello di affidare la testimonianza dei propri sentimenti e del
proprio impegno sociale al talento di un nuovo portavoce, il giovane bardo
che compone su misura inni di protesta per ogni nuova battaglia . (6)
Invece no: tutto l’impeto politico che aveva animato Bob Dylan nell’estate
di quell’anno si esaurisce nel giro di poco tempo e cessa definitivamente
con l’uccisione del presidente. Per tutto l’inverno il cantante sembra
andare in ritiro, evita accuratamente le manifestazioni per le cause civili,
si sottrae a numerose interviste, dirada le esibizioni, non scrive nuove
canzoni fino alla primavera successiva; quando poi ricomincia a comporre, i
nuovi testi sono più intimistici e poetici, decisamente lontani dalle
tematiche sociali che lo avevano reso una celebrità. Si ripresenta infine a
Newport nel luglio del ’64 con il nuovo repertorio ma si ritaglia un profilo
inferiore, non ottiene l’acclamazione dell’anno precedente, alcuni dei
vecchi compagni non capiscono, storcono il naso e alla fine non nascondono
la loro delusione: il flirt dell’artista con la sinistra sembrava finito,
c’era il timore che l’antico sodale si fosse staccato dalla protesta e
stesse imboccando una strada diversa. Era vero. Dylan si era spinto molto in
avanti ma era determinato a non fermarsi, aveva scritto in brevissimo tempo
una manciata di canzoni impegnate sbalorditive ed aveva ottenuto con
relativa facilità il plauso della comunità folk, ma non si sentiva proprio
coinvolto dalla politica e in fondo non era a una musica di sola
testimonianza che voleva approdare (7) : anche le canzoni d’attualità non
erano altro per lui che uno stadio verso la propria maturazione artistica.
Un performer, un musicista e uno sperimentatore, questo si considerava, solo
questo voleva essere e non sarebbe ritornato sui suoi passi, come confida
oggi alla telecamera del regista: «Stare dalla parte di chi lotta per
qualcosa non significa necessariamente essere un politico […] Volevano farmi
diventare un cantautore specializzato […] non lo sono mai stato […] non era
il mio caso. Io ero una specie di outsider. Ero arrivato in città da
outsider […] Volevano farmi diventare uno di loro, convertirmi al loro
pensiero. Niente da fare».
Questione finita? Manco a dirlo, perché il passo compiuto da Dylan entra in
conflitto con il comune sentire dell’epoca e il suo impegno verso le
tematiche politiche decresce in misura inversamente proporzionale
all’importanza che esse vanno ad assumere nel panorama americano: basta uno
sguardo distratto agli USA della metà degli anni sessanta per capire che le
tensioni sociali che avevano fatto da sfondo al movimento del folk revival
negli anni precedenti, non solo non si sono allentate, ma aprono ferite
sempre più profonde nelle coscienze degli intellettuali, riversando sugli
artisti aspettative sempre maggiori. E’ questo il clima in cui va in scena
il “tradimento” di Dylan: c’è ancora Newport sulla strada del cantante e ci
sono ancora, per fortuna, le immagini del recente documentario a
testimoniarci la sua partecipazione all’edizione del festival del 1965 e le
polemiche che ne nacquero. È un evento molto conosciuto nella letteratura
musicale e sul quale ognuno che vi ha preso parte ha una propria opinione. È
ormai appurato che l’artista venne pesantemente contestato dalla maggioranza
del pubblico a causa del suono elettrificato della sua chitarra e
dell’impianto rock della sua esibizione, durante la quale propose un set
brevissimo, concentrato orgogliosamente sulle nuove, enigmatiche canzoni,
tra le quali spiccava l’allora sconosciuta Like a rolling stone (pubblicata
appena cinque giorni prima); rimane ancora un alone di leggenda
sull’aneddoto che vuole gli organizzatori della manifestazione furenti e uno
di essi, il vecchio amico Pete Seeger, agitare per aria un’ascia con
l’intento di recidere i cavi dell’amplificazione e sabotare l’esibizione.
Newport ’65 segna l’inizio delle numerose contestazioni subite dal cantante,
il primo e il più famoso di una lunga serie di episodi nei quali l’artista
non offrirà al suo pubblico ciò che esso si aspetta e lo indurrà a reagire
con feroci proteste perché non riconoscerà in quello che si trova davanti il
“vero Dylan”, indelebilmente associato alla veste solitaria della
performance, al profilo acustico dell’accompagnamento musicale e,
soprattutto, alle tematiche della protesta. Le contestazioni più clamorose
smetteranno solo con l’incidente di moto dell’estate del ’66, ma nel
frattempo il cantante dovrà sopportare ancora un anno di “martirio” lungo il
faticoso e snervante tour mondiale della primavera, contraddistinto dai
fischi e dalle offese come ben documentano i filmati d’archivio recuperati
da Scorsese. Gli equivoci legati al suo impegno invece si trascineranno
ancora per molto tempo, se è vero che nell’epopea del ’68 e negli anni a
venire le canzoni di Dylan faranno da colonna sonora alla contestazione
studentesca e ancora oggi Joan Baez si sente ripetere la solita, petulante
domanda a ogni happening in cui è chiamata a suonare: «Viene Bobby?» (8).
Bobby non viene mai, come la Baez ben sa ed è ormai ovvio da più di
quarant’anni, durante i quali ha evitato con cura non solo ogni circostanza
politica ma anche la maggior parte degli eventi musicali in cui l’enfasi per
la causa trascende i contenuti artistici; tanto che nel ’69, pur abitando
con la famiglia nella campagna intorno a Woodstock, si guardò bene dal
partecipare al mega-raduno ispirato alla filosofia peace, love and music.
Per Dylan quelli erano gli anni del ritiro dalle scene, di cui il cantante
parla diffusamente nel suo libro, dipingendo con abbondanza di aneddoti ed
iperboli un quadro schizofrenico nel quale egli cercava con tutti i mezzi di
fuggire dalla responsabilità smisurata di cui veniva fatto carico
dall’intera comunità di giornalisti, artisti, vecchi amici e nuovi radicali
che si appellava a lui affinché riprendesse la strada dell’impegno. Non che
mancassero le occasioni per chi avesse voluto cimentarsi in questa arena,
visto che la seconda metà degli anni sessanta rappresentò in effetti il
momento più delicato per gli equilibri sociali negli USA. Le lotte per i
diritti civili si erano radicalizzate e avevano innescato dinamiche di
violenza che avrebbero condotto agli omicidi, mai fino in fondo chiariti,
dei loro, diversissimi, leader politici riconosciuti, Malcom X e Martin
Luther King; l’omicidio nel 1968 di un altro Kennedy, Robert, sembrava, come
già cinque anni prima, stroncare le speranze per una politica compiutamente
riformatrice; nei campus universitari esplodevano nuove ribellioni legate
soprattutto alle questioni del pacifismo; la guerra in Vietnam, in
particolare, con la controffensiva dei Vietcong, conosceva un’escalation che
avrebbe costretto gli USA nel maggio del 1968 ad avviare le prime trattative
di pace e cominciava a dividere l’opinione pubblica mondiale sollevando seri
interrogativi sul ruolo di gendarme del mondo che la nazione americana si
era attribuita.
Tutto ciò non era abbastanza per stanare Dylan dall’isolamento e recuperarlo
a una dimensione impegnata della quale non ne voleva più sapere. Non si
ricorda alcuna dichiarazione pubblica su questi eventi, né una canzone che
si presti ad essere interpretata sotto quest’ottica, bisognerà aspettare
quasi quarant’anni per conoscere il suo punto di vista, contenuto in poche
parole laconiche e indifferenti: «Gli eventi di quei tempi, tutta la babele
culturale, mi stavano imprigionando l’anima, mi nauseavano. Capi del
movimento per i diritti civili e leader politici abbattuti a fucilate, chi
montava sulle barricate, la repressione governativa, studenti radicali e
dimostranti contro poliziotti e sindacati, le strade che esplodevano […]
Avevo le più serie intenzioni di stare alla larga da tutto ciò. Ora ero un
padre di famiglia e in quella foto di gruppo non avevo intenzione di
comparire» (9). È difficile riconoscere in questo autoritratto l’immagine
battagliera che fu attribuita a Bob Dylan e che egli ha suo malgrado
incarnato presso il grande pubblico nel corso di tutto questo tempo? Forse,
così l’autore ribadisce con insistenza il concetto: «Io non so che cosa gli
altri avessero per la testa, ma quello di cui stavo fantasticando io era una
vita con un lavoro dalle nove alle cinque, una casa … con una staccionata
bianca e le rose nel cortile sul retro» (10) . Il cantante «aveva poco in
comune, e ne sapeva ancora meno, di una generazione della quale avrebbe
dovuto essere la voce» (11), eppure neanche la riluttanza a esibirsi e il
rifiuto di impegnarsi gli furono sufficienti a evitare quel ruolo di
portavoce della protesta, coscienza della sua generazione, del quale ricorda
ancora tutto il fastidio: «I giornalisti mi mitragliavano di domande e io
gli ripetevo di non essere un portavoce di niente e di nessuno e che ero
solo un musicista. Mi guardavano negli occhi come per trovare tracce di
bourbon e manciate di anfetamine… Poi un articolo avrebbe fatto il giro
delle strade con il titolo: “Il portavoce nega di essere un portavoce”. Mi
sembrava di essere un pezzo di carne gettato ai cani» (12) . Ci vorranno
ancora alcuni anni di lontananza dalle scene, uscite commerciali incerte e,
soprattutto, l’affievolirsi delle tensioni sociali che avevano messo tanto
in evidenza la sua figura, affinché l’immagine pubblica dell’artista assuma
forme più simili a quelle attuali: quando nel ’74 il cantante ritorna a
comporre con frequenza e a esibirsi dal vivo, un grande pubblico si recherà
ai suoi concerti per vedere e ascoltare da vicino un testimone dei sixties,
certamente, ma non con l’ossessione e le richieste di qualche anno prima.
Nessuno chiederà più a Bob Dylan di cambiare il mondo.
L’indirizzo sostanzialmente agnostico del suo impegno non è dunque in
discussione almeno dal ’64 ed è velleitario tastargli il polso per coglierne
i battiti rivoluzionari; tuttavia, se la persona non è più cooptabile per le
nuove battaglie, ciò che rimane a disposizione di tutti è, naturalmente, il
suo canzoniere “politico”, prodotto nel biennio 1962-63, ma in gran parte
ancora attuale e frequentemente saccheggiato da artisti di ogni paese e
lingua: un arsenale di composizioni con le quali, se vogliamo, si può
tuttora andare a “combattere” Bush, come ha fatto un paio d’anni fa Michael
Moore, inserendone ben tre nella soundtrack del suo battagliero Fahrenheit
9/11 (due di esse erano, guarda caso, Masters of war e With God on our side,
l’altra Chimes of freedom).
Per quanto riguarda Dylan, il suo interesse è dirottato altrove e si rimane
delusi se ci si aspettano esplicite rivelazioni sul suo pensiero politico o
sulla sua visione del mondo: l’artista è portatore di un punto di vista
senza dubbio penetrante e originale sugli uomini e sulle cose, ma certo non
coerente e non organico con niente che non sia riconducibile all’arte
rappresentativa e performativa dello scrivere canzoni e del cantarle. Anche
i suoi testi più ispirati non sono funzionali a esprimere un pensiero
strutturato, sostanzialmente omogeneo, preesistente alle canzoni e coerente
negli anni; egli non costruisce melodie per sostenere concetti, casomai sono
questi che si sviluppano attorno alle forme musicali che esplora con
quotidiana perseveranza. Per questo Bob Dylan non solo non è un politico, ma
non è neanche un filosofo prestato alla canzone, i suoi modelli non sono Che
Guevara o Jack Kerouac, rivoluzionari o visionari, e nemmeno gli amici Allen
Ginsberg e William Burroughs, poeti e scrittori, ma il “padre del country”
Jimmie Rodgers o il “bluesman del diavolo” Robert Johnson; questa è la
cultura “alta” per Dylan, una cultura in cui trovano posto solo canzoni e
interpreti, così da perseguire quello che sembra essere il suo obiettivo
artistico principale: «chi canta deve farti credere in quello che ascolti»
(13). Considerata la sua vicenda, sembra che l’abbia realizzato.
Soltanto dalla comprensione di tanti aspetti possiamo dunque dare una
spiegazione alla questione del “disimpegno” di Dylan, un nodo inestricabile
in cui convergono la spigolosità del suo carattere, certamente, ma anche
l’orgogliosa consapevolezza del proprio talento musicale, il disincanto
verso la capacità di incidere nei processi sociali e, soprattutto, la difesa
ostentata e fiera del proprio irriducibile individualismo. Che poi anche
questi aspetti contribuiscano a descrivere un’altra parabola americana,
questa è davvero un’altra storia.
1 Bob Dylan, Chronicles, Volume 1, Feltrinelli, 2005. D’ora in poi
Chronicles.
2 No direction home, Bob Dylan, dvd di Martin Scorsese, Paramount, 2005.
3 Cito dalla trascrizione del discorso di Dylan riportata integralmente da
Robert Shelton, Vita e musica di Bob Dylan, Feltrinelli, 1987, p. 147.
4 Conviene ricordare che il movimento per i diritti civili, in un certo
senso anticipando quella che sarà poi la mobilitazione degli artisti
americani contro l’intervento in Vietnam, «fu un singing movement, che si
servì in modo organizzato della musica e delle canzoni» (Alessandro
Portelli, Canzone politica e cultura popolare in America. Il mito di Woody
Guthrie, Derive Approdi, 2004, p. 274, ed. or. De Donato, 1975).
5 Per un inquadramento generale sul rapporto tra la cultura politica della
sinistra americana negli anni cinquanta-sessanta e il movimento del
cosiddetto folk-revival, cfr. il volume tuttora fondamentale di A. Portelli,
Canzone politica e cultura popolare in America, cit.
6 Il messaggio artistico di Guthrie «era stato raccolto e rinnovato da una
nuova generazione di interpreti; tra cui il più dotato apparve subito Bob
Dylan, che nei primi anni Sessanta lo andò a trovare diverse volte
stigmatizzando un’ideale consegna del testimone» (V. Castronovo, L’età
dell’oro, prefazione ad A. Portelli, Canzone politica e cultura popolare in
America, cit., p. 8).
7 Ci sono del resto fondati dubbi sul fatto che, perseguendo tale obiettivo,
la sua visione politica sarebbe riuscita a varcare certi limiti propri
dell’intellettuale americano, dato che «[…] anche le sue canzoni di più
aspra protesta mancano sempre di una prospettiva, di una possibile fonte
collettiva di nuovi rapporti umani, […] di nuova organizzazione della
società. […] Dylan non riesce, come invece Guthrie, a superare la prigione
americana dell’individualismo, a sentirsi parte di un tutto più grande del
suo io.» (A. Portelli, Canzone politica e cultura popolare in America, cit.,
p. 285)
8 E’ solo uno dei tanti aneddoti che la cantante americana riferisce nella
bella intervista concessa al regista newyorchese per il suo documentario.
9 Chronicles, cit. pp. 99-100.
10 Ivi, p. 107.
11 Ivi, p. 105.
12 Ivi, p. 109.
13 La frase di Dylan è riferita da Greil Marcus, studioso di cultura
popolare americana, nel suo articolo Una vita da Dylan, “Rolling Stone”, n.
16, 2005, p. 107.
L'identità ambigua del personaggio Jude
Quinn in I'm not There
clicca qui
Mercoledi 14 Dicembre
2011
La maill di Simone
"Cancio"
Caro Mr T., ho appena letto, come tutte le mattine prima di andare a
lavorare, le news di Maggie. Scrutando la lista di canzoni per Amnesty, non
ho potuto non notare quali concerti verrebbero fuori dal repertorio di Bob e
sono
maledettamente incazzato per questo.
Ma non voglio riaprire altre discussioni, sappiamo tutti com'è fatto il
vecchio Zimmy...o forse non lo sa nessuno!
Ciao e buone feste! Visto che di Simone ne girano tanti per la tua fattoria,
ci metto dell'altro.
Simone "Cancio".
Buone feste anche a te caro
Simone "Cancio" (che significa "Cancio"?), e non incazzarti, nessuno sa come
è fatto Bob, anche quelli che sono convinti di saperlo! :o)
Bob Dylan si presentò al Greenwich Village nel 1960 dissimulando in modo
efficace chi era, un tipo a cavallo fra il mistico, il mitico, fuori dalla
American West, uno dei figli di Woody, derivato da Bessie Smith o Mother
Goose, nato in un dustbowl o sulla Burlington Northern, un caleidoscopio
infinito di biografica mascherata.
E tuttavia, nessun grande cantante-songwriter americano era un figlio del
20° secolo ebraico. Egli potrebbe essere stato figlio di Woody, ma era lo
scontroso fratello di Anna Frank, che dava fastidio alla gente: "You've got
a lot of nerve, to say you are my friend". Uscì con il canto strascicato di
"Talkin' Hava Negilah Blues" (presentato da Dylan come "una canzone
straniera che aveva imparato nello Utah"), facendo una mezza dozzina di
canzoni e poesie con riferimenti a Hitler e all'Olocausto, cantando:
"Abbiamo perdonato i Tedeschi ... anche se ne hanno assassinato sei milioni
nei forni, ", diventando una stella nel mondo della musica. Questa non era
roba da Tin Pan Alley, figuriamoci per i Top 40; l’olocausto non era mai
stato cantato in pubblico, tanto meno venduto dalla Columbia Records.
Dylan successivamente ha studiato arte con il figlio di Sholom Aleichem,
Norman Raeben, che influenzò Dylan con la sua poesia. Dylan ha chiamato la
sua casa editrice musicale "Ram's Horn Music", e disse: "Io sono un Ebreo.
Questo si riflette nella mia poesia, nella mia vita, in modi che non riesco
a descrivere". Eppure , sull’ ebraicità di Dylan si è raramente, se mai,
scritto a lungo.
Anche nella sua autobiografia "Chronicles Volume 1" (il nome di un libro
della Bibbia ebraica), Dylan dedica diverse pagine a come egli sia stato
influenzato da Woody Guthrie e Robert Johnson, ma quasi nulla su come la sua
poesia e le sue immagini siano state influenzate dal Giudaismo e dai testi
ebraici. Ora, però, ammette che la politica e le interpretazioni della
controcultura delle sue canzoni l’avevano infastidito: "Quale che sia stata
la controcultura , avevo visto abbastanza. Ero stufo del modo col quale il
testo di una mia canzone veniva estrapolato, il suo significato convertito
in polemiche, ed il fatto di essere stato consacrato come il Big Bubba della
ribellione, l’Alto sacerdote della protesta. ... dovevo inviare segnali
devianti ... creare alcune impressioni diverse. ... Sono andato a
Gerusalemme, mi son fatto fotografare al “Muro” indossando un copricapo
ebraico, l'immagine è stata trasmessa in tutto il mondo all'istante e
rapidamente, nel giro di una notte ero diventato un sionista. Questo mi ha
aiutato un pò ". E questo era quello che diceva a tutti. Desiderava una
sensazione di protezione, si sentiva ferito, quando si era ritirato dalle
scene si era dedicato a ciò che amava di più, la sua famiglia , ma senza
dire una parola sui suoi figli, i suoi genitori, la sua religione e le sue
credenze ed aspirazioni religiose.
Ora , dopo quasi 50 anni di carriera , qualcuno esplora infine queste cose
di Dylan.
Seth Rogovoy nel suo affascinante nuovo libro, "Bob Dylan: Prophet, Mystic,
Poet" (Scribner), Rogovoy analizza i documenti di ispirazioni ebraica di
Dylan, i testi delle canzoni che direttamente riecheggiano Isaia ( "All
Along the Watchtower "); Levitico (" I Pity the Poor Immigrant "), la
Tabella Shabbat ( "Forever Young" è basata sulla benedizione del Venerdì
sera somministrata ai bambini), a "New Morning", basata sul servizio di
giorno; "Time Out of Mind" (il servizio di Yom Kippur), il Talmud ( "Idiot
Wind ) che si basa su un riff pronunciato da Resh Laqìsh sul peccato e
"ruach shtuss ", ruach significa sia il vento sia la respirazione," Idiot
wind , mi chiedo come sappiamo ancora respirare").
Altri autori hanno parlato dalle influenze ebraiche Dylan prima, in piccoli
articoli. Allen Ginsberg ha descritto la tecnica vocale di Dylan in "One
More Cup of Coffee", definendola simile ad un ascensore, "voce in cantilena
ebraica mai sentita prima nelle canzoni negli Stati Uniti" e, anzi, dice che
suona come se Dylan stesse declamando la Torah.
Quando Ronnie Gilbert dei The Weavers, una volta lo presentò a un Festival
pop", ed eccolo ... prendetelo, lui è vostro" , Dylan si ritrasse, ha
scritto nelle sue memorie, "Che cosa pazzesca da dire. Per quanto ne sapevo,
io non appartenevo a nessuno, né allora né adesso. ... Ho avuto molto poco
in comune con loro e sapevo ancora meno della generazione della quale avrei
dovuto essere la voce. Avevo lasciato la mia città natale solo dieci anni
prima ... "
Nella sua città natale, Hibbing, Minnesota, i suoi genitori avevano un
negozio, sua madre era presidente della locale Hadassah, suo padre è stato
presidente del locale B'nai Brith, il suo bisnonno era membro del tefillin;
Dylan ha vissuto l’ebraicità nella Casa della Fraternità presso l'Università
del Minnesota, e ha trascorso le estati a Camp Herzl, un campo religioso
sionista, appena due anni prima di venire a cantare a New York.
Quando Dylan ha vissuto a Woodstock, nel nord dello stato, sua madre ha
detto che teneva sempre una Bibbia nel comodino, la parola yiddish sul suo
leggio personale, cosa comune nei vecchi shuls , usati per tenere il Siddur
e la Bibbia. In quella città natale Dylan passò anni bui con diversi amici
ortodossi , che a volte sono andati in tour con lui, e una madre ebrea che
ha contribuito a portarlo alla ricerca delle sue radici, dopo i due album
della svolta al cristianesimo 30 anni fa. L' interesse cristiano di Dylan
era apparentemente guidato da una relazione romantica con una delle sue
afro-americane-cristiane cantanti del coro di back-up, dopo che Dylan aveva
divorziato dalla moglie ebrea con la quale aveva avuto cinque figli, alcuni
dei quali hanno avuto il loro bar mitzvah, con una figlia, nota per essere
diventata ortodossa da adulta.
Rogovoy racconta come la madre di Dylan lo ha persuaso a visitare il suo
amico d'infanzia, Howard Rutman, un dentista, con la scusa di aver bisogno
di fgare una pulizia dei denti. Come vecchio amico dei giorni di Camp Herzl,
Rutman era una delle poche persone al mondo in grado di confrontarsi
direttamente con Dylan....Mentre esaminava la bocca di Dylan ha notato che
Dylan portava al collo una croce , e gli ha chiesto, 'Bob, what's up with
this? .... Bob, tu sei ebreo ". Rutman, scrive Rogovoy, che è ortodosso, era
stato invitato da Dylan . Dylan gli ha presentato la sua fidanzata e la cosa
è stata incredibilmente imbarazzante per il modo in cui questa donna parlava
di Gesù a Rutman e sua moglie, che erano privi di esperienza su questi
argomenti".
Il periodo cristiano Dylan si è chiaramente concluso con "Infidels",
senz’altro l'album che parlava più della questione ebraica mai inciso dal
popolare cantante. E' stato un album che ha fatto in modo, scrive Rogovoy,
che il "Village Voice" chiamasse Dylan "il William F. Buckley del rock and
roll".
Dylan stesso, ha scritto in "Chronicles", "Il mio politico preferito era Il
senatore dell'Arizona Barry Goldwater, che mi ricordava Tom Mix, e non avevo
alcun modo di spiegarlo a nessuno ".
Rogovoy dice che il fulcro di "Infidels", era il brano intitolato
"Neighborhood Bully", una rassegna drammaticamente sarcastica sulla storia
della persecuzione subita dagli ebrei vista attraverso la lente del sionismo
moderno, segno fortemente nazionalista e di identificazione con il popolo
ebraico. La canzone diceva che l'ebraismo e il nazionalismo ebraico sono una
sola cosa, che è un punto molto sofisticato di vista ".
Dice Dylan nella canzone: “Ha evitato il linciaggio di una folla ed è stato
criticato, vecchie donne lo hanno condannato, dicendo che avrebbe dovuto
scusarsi, poi ha distrutto una fabbrica di bombe, e nessuno ne fu lieto, le
bombe erano per lui, il cattivo, il bullo del quartiere”.
In altre parti di questo album, Dylan ha bacchettato chi aveva criticato
Israele: "Lo sai che a volte Satana si presenta come un uomo di pace".
Per un pò di tempo, scrive Rogovoy, i chitarristi della sua touring-band
introducevano "All Along The Watchtower", con "un frammento" tratto dal tema
musicale del film "Exodus", in tal modo associando ulteriormente la canzone
di Dylan "con il contemporaneo nazionalismo ebraico."
Dylan è apparso al Telethon di Chabad, chiamando Chabad "La mia
organizzazione preferita in tutto il mondo. "Egli può aver cambiato il suo
nome da Zimmerman in Dylan, ma non ha mai cambiato il suo nome ebraico
Shabtai Zisel Ben-Avraham con il quale viene chiamato alla Torah in shuls
Chabad.
Non tutte le tesi di Rogovoy sono del tutto convincenti. In "Tombstone
Blues", Dylan fa riferimento a Sansone e alla mascella , come se fosse un
"riff a ruota libera sui 15 giudici", senza menzionare che "Sansone e
Delilah, "era già una canzone classica dal reverendo Gary Davis, e da "If I
Had My Way (I Would Tear This Old Building Down)" di Blind Willie Johnson
nel 1920. Uno non deve essere necessariamente ebreo per essere influenzato
dalla Bibbia.
Tuttavia, Rogovoy sottolinea questa gemma: Dylan fa un riferimento in
"Tombstone Blues" al film del 1949 "Sansone e Dalila" che era basato sul
romanzo del 1930, "Giudici e Pazzi", conosciuto anche come "Samson The
Nazarite", che era stata scritta dal leader sionista Vladimir Jabotinsky,
fondatore della Irgun, e mentore politico di Menachem Begin, e quello che
oggi è il Likud, guidato dal primo ministro Benjamin Netanyahu.
"Jabotinsky", osserva Rogovoy ", ha anche co-scritto la stesura della bozza
che è stata tramutata in sceneggiatura. "Solo una storia di Dylan può
mettere insieme Jabotinsky con Blind Willie Johnson, e questo dice tutto.
CD1
1.Johnny Cash Featuring The Avett Brothers - One Too Many Mornings
2.Raphael Saadiq - Leopard-Skin Pill-Box Hat
3.Patti Smith - Drifter's Escape
4.Rise Against - Ballad of Hollis Brown
5.Tom Morello The Nightwatchman - Blind Willie McTell
6.Pete Townshend - Corrina, Corrina
7.Bettye LaVette - Most of the Time
8.Charlie Winston - This Wheel's On Fire
9.Diana Krall - Simple Twist of Fate
10.Brett Dennen - You Ain't Goin' Nowhere
11.Mariachi El Bronx - Love Sick
12.Ziggy Marley - Blowin' in the Wind
13.The Gaslight Anthem - Changing of the Guards
14.Silversun Pickups - Not Dark Yet
15.My Morning Jacket - You're A Big Girl Now
16.The Airborne Toxic Event - Boots of Spanish Leather
17.Sting - Girl from the North Country
18.Mark Knopfler - Restless Farewell
CD2
1.Queens Of The Stone Age - Outlaw Blues
2.Lenny Kravitz - Rainy Day Woman # 12 & 35
3.Steve Earle & Lucia Micarelli - One More Cup of Coffee (Valley Below)
4.Blake Mills- Heart Of Mine
5.Miley Cyrus - You're Gonna Make Me Lonesome When You Go
6.Billy Bragg - Lay Down Your Weary Tune
7.Elvis Costello - License to Kill
8.Angelique Kidjo - Lay, Lady, Lay
9.Natasha Bedingfield - Ring Them Bells
10.Jackson Browne - Love Minus Zero/No Limit
11.Joan Baez - Seven Curses (Live)
12.The Belle Brigade - No Time To Think
13.Sugarland Tonight - I'll Be Staying Here With You (Live)
14.Jack's Mannequin - Mr. Tambourine Man
15.Oren Lavie - 4th Time Around
16.Sussan Deyhim - All I Really Want To Do
17.Adele - Make You Feel My Love (Recorded Live at WXPN)
CD3
1.K'NAAN - With God On Our Side
2.Ximena Sariñana - I Want You
3.Neil Finn with Pajama Club - She Belongs to Me
4.Bryan Ferry - Bob Dylan's Dream
5.Zee Avi - Tomorrow Is A Long Time
6.Carly Simon - Just Like a Woman
7.Flogging Molly - The Times They Are A-Changin'
8.Fistful Of Mercy - Buckets Of Rain
9.Joe Perry - Man Of Peace
10.Bad Religion - It's All Over Now, Baby Blue
11.My Chemical Romance - Desolation Row (Live)
12.RedOne featuring Nabil Khayat - Knockin' on Heaven's Door
13.Paul Rodgers & Nils Lofgren - Abandoned Love
14.Darren Criss featuring Chuck Criss and Freelance Whales - New Morning
15.Cage the Elephant - The Lonesome Death of Hattie Carroll
16.Band of Skulls - It Ain't Me, Babe
17.Sinéad O'Connor - Property of Jesus
18.Ed Roland and The Sweet Tea Project - Shelter From The Storm
19.Ke$ha - Don't Think Twice, It's All Right
20.Kronos Quartet - Don't Think Twice, It's All Right
CD4
1.Maroon 5 - I Shall Be Released
2.Carolina Chocolate Drops - Political World
3.Seal & Jeff Beck - Like A Rolling Stone
4.Taj Mahal - Bob Dylan's 115th Dream
5.Dierks Bentley - Senor (Tales of Yankee Power) (Live)
6.Mick Hucknall - One Of Us Must Know (Sooner Or Later)
7.Thea Gilmore - I'll Remember You
8.State Radio - John Brown
9.Dave Matthews Band - All Along the Watchtower (Live)
10.Michael Franti - Subterranean Homesick Blues
11.We Are Augustines - Mama You Been On My Mind
12.Lucinda Williams - Tryin' To Get To Heaven
13.Kris Kristofferson - Quinn The Eskimo (The Mighty Quinn)
14.Eric Burdon - Gotta Serve Somebody
15.Evan Rachel Wood - I'd Have You Anytime
16.Marianne Faithfull - Baby Let Me Follow You Down (Live)
17.Pete Seeger - Forever Young
18.Bob Dylan - Chimes Of Freedom
Bob Dylan e Mark Knopfler trent’anni dopo
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Lunedi 12 Dicembre
2011
La mail di Simone
Invio alla Fattoria questo video dell'istituto luce di roma (clicca
qui per vedere il video). Uno dei tanti multiformi modi in cui dylan è
stato interpretato, re-interpretato, confuso, fuso, approcciato
appropriato...ciao a tutti
ps. cominciano a trovarsi in giro per la rete le cover dell'album dedicato
all'anniversario di amnesty, cerco disperatamente tom morello e la sua, del
nostro, blind willie mctell (insomma, se qualuno la trova mi invia un link
su queste pagine? grazie :) )
di nuovo ciao e rinnovati complimenti al sito...è sempre la grande fattoria
George Harrison: Living In The Material
World
clicca qui
Sabato 10 Dicembre
2011
Uno scritto a mano di
Dylan sul primo disco di Bruce Langhorne
"Se avevi Bruce che suonava con te, era tutto
quello di cui avevi bisogno per suonare qualsiasi cosa." Bob Dylan.
Dopo 50 anni in panchina, Bruce Langhorne, ex compagno di Bob Dylan e
ispirazione per la canzone "Mr. Tambourine Man", ha pubblicato il suo primo
album da solista il mese scorso, chiamato – e come poteva chiamarsi in altro
modo? - "Tambourine Man".
La front cover del disco è caratterizzata da una fotografia di Langhorne con
il suo gigantesco tamburello turco, mentre sul CD c’è una nota scritta a
mano da Bob Dylan a Langhorne sulla sua personale copia di Chronicles Volume
One:
Per Bruce, "Mr Tambourine Man"
Alle spalle c'era qualcos'altro!
Come si suol dire, meglio essere in catene con un amico che in un giardino
con un estraneo. Non è vero, eh?
Stammi bene + Tutto il meglio
Bob Dylan '04
Langhorne non ha avuto la conferma di essere stato lui l'ispirazione per
"Mr. Tambourine Man" fino a quando Dylan non ne parlò nel set del box del
1985 “Biograph”:
"Ho pensato che potevo essere come Fratello John Sellars, perché suonavo il
tamburello. Ho suonato un tamburello ma era enorme, di tipo turco e aveva
tutti i jingle intorno sul bordo. Bob può avermi visto suonare quel
tamburello nel Village, quando l’usavo per fare il pifferaio magico, a
piedi, per le strade, con le persone che mi seguivano e ballavano, come gli
Hare Krishna prima della venuta degli Hare Krishna. Mi piaceva portarlo con
me ogni volta che andavo per la strada, con me c’era sempre gente che
ballava e roba del genere ... "
Langhorne l’ha detto anche a Richie Unterberger:
(Dylan) ha detto, c'era questo ragazzo che suonava questo tamburello
gigante. Era grande come la ruota di carro, ed è stato una sorta di
ispirazione per la canzone. Quindi sono Mr.Tambourine Man (ride) ... Lui non
mi ha mai detto niente a tale proposito. E probabilmente non lo ho detto a
nessuno, e se qualcuno glielo avesse chiesto molto probabilmente l’avrebbe
negato (ride). Perché ... non lo so, però sò che lo avrebbe fatto. Penso che
Bob abbia un meraviglioso senso dell'umorismo. E penso che ha una
meravigliosa capacità di lasciare abbastanza corda alla gente perchè si
impicchi da sola. E penso che avrebbe probabilmente ftato lo stesso con me,
credo, se lui pensava che io mi fossi messo in testa di essere il Mr.
Tambourine Man... (ride duro).
Dylan ha suonato la prima volta con Langhorne nel settembre 1961, durante
una seduta di registrazione di Carolyn Hester che aveva avuto un contratto
con la Columbia Records. Per il secondo album di Dylan, “The Freewheelin Bob
Dylan”, Langhorne ha suonato la chitarra in tre sessioni nel 1962, e ritornò
poi nel 1965 per “Bringing It All Back Home”, poi per una apparizione al Les
Crane Show , e per la prima sessione di Blonde On Blonde. Langhorne è
presente con Dylan sulla terza ed ultima sessione di Pat Garrett & Billy The
Kid (secondo Olof). E' anche apparso nel documentario di Scorsese, No
Direction Home.
Langhorne ha suonato con molti artisti, dai The Clancy Brothers & Tommy
Makem, Chad Mitchell Trio, con Richard & Mimi Farina alla Hugh Masakela, con
Richie Havens, con Mickey Hart dei Grateful Dead.
Secondo quanto dichiarato in un post da by Jeff Gold alla Record Mecca,
tutti i proventi dalle vendite dell'album andranno direttamente a Langhorne,
che recentemente "ha alcuni gravi problemi di salute". È possibile
acquistare il CD da Amazon. E sì, suona anche il tamburello su una traccia.
Uno dei motivi della crescente freddezza di Bob nei confronti di Joan Baez
era la modella Sara Lownds, della cui esistenza la Baez non sapeva nulla in
quel momento. Sara Lownds sarebbe ben presto diventata la donna più
importante della vita di Bob e alla fine anche la sua prima moglie, la madre
dei suoi figli e la fonte di ispirazione per alcune delle sue canzoni più
belle. Nonostante i modi quasi aristocratici, Sara era di umili origini.
Aveva avuto una infanzia molto difficile e sembrava proprio che volesse
dimenticare quasi tutto il suo passato; la cosa, unita al rifiuto di
concedere interviste, ha fatto sì che la sua vita sia rimasta misteriosa
almeno fino a oggi. (...) Al Chelsea Hotel, la vita di Bob e Sara scorreva in modo
molto tranquillo. In camera avevano un pianoforte su cui Bob componeva le
sue canzoni, ma erano in pochi a sapere che abitava lì. «Era un tipo
piuttosto timido e tranquillo», ricorda il direttore del Chelsea, Stanley
Bard. Quando aveva voglia di emozioni Bob se ne andava a bere al Kettle of
Fish, al Village. Sara lo accompagnava raramente in queste occasioni.
Invece non mancava mai Bobby Neuwirth, e talvolta c' erano anche Al
Aronowitz e il cantante David Cohen. (...) Il capo dei buffoni era Bobby
Neuwirth: rideva quando rideva Bob e gli teneva bordone nell' umiliare la
Baez, che oltretutto era amica sua. Una volta Joan si aggirava leggiadra con
una camicetta trasparente e Neuwirth fece pesanti allusioni all' evidente
disinteresse di Bob (che anche davanti alla cinepresa la guardava appena e
quasi evitava di parlarle). Della camicetta trasparente della Baez, Neuwirth
aveva detto che era «una di quelle camicette vedo-non-vedo che nessuno
vorrebbe vedere» e lei, sforzandosi di ridere con la sua consueta
spavalderia, disse che stava per crollare dal sonno. «Ti dirò una cosa,
sorella», replicò Neuwirth a quel punto. «È da un bel pò che sei crollata.
Sei crollata prima ancora di poter pensare che stavi crollando». Quando fu
spenta la cinepresa, la Baez si mise a piangere. «Se penso all' affetto con
il quale Joan lo aveva portato sul palco con sé» ha detto Mimi. «Bob è
decollato grazie a Joan, ma avevo capito che lui voleva soltanto
approfittare della situazione per poi levare le tende. Di qui il mio
disagio. Purtroppo Joan non ha mai voluto aprire gli occhi sulla realtà,
perché era troppo coinvolta in quella storia. È così che la penso io».
Secondo Pennebaker, Bob stava attraversando un periodo di transizione:
quando lui e la Baez erano stati in tournée negli Stati Uniti, a marzo,
formavano una squadra affiatata. Adesso invece lui «stava cercando di uscire
dal ruolo di suo compagno, nella vita e nei duetti». Così la Baez non salì
mai sul palco con lui e non avrebbe più cantato in pubblico con lui fino
alla metà degli anni settanta. Bob non la invitò nemmeno ad andare con lui a
Sintra, in Portogallo, durante la pausa della tournée nel Regno Unito.
Invece, dagli Stati Uniti arrivò Sara. La Baez non sapeva ancora dell'
esistenza della ragazza e durante una delle sue ultime visite a casa di
Grossman si era persino messa una camicia da notte di Sara non immaginando a
chi appartenesse. Quando Bob tornò a Londra e fu costretto da un malanno
passeggero a stare chiuso nella sua suite, la Baez passò a trovarlo per
vedere come stava e fu Sara ad aprirle la porta. Così Joan scoprì
finalmente la donna che Bob vedeva di nascosto da lei da tanti mesi. Era la
fine della loro relazione, e lei se ne andò immediatamente per proseguire la
sua carriera, visto che al momento teneva anche concerti solisti in Gran
Bretagna. Ne fu sconvolta, ma aveva una personalità forte e superò il
rifiuto di Bob, del quale rimase amica; in seguito riuscì persino a ridere
dell' accaduto. Come ha detto l' amica Nancy Carlen: «La sua forza sta nella
capacità di ridere di sé e del mondo». Negli anni a venire, lei e Bob
avranno dei ritorni di fiamma. Ma lui rimaneva il dongiovanni di sempre. A
Londra cercò di sedurre la cantante Marianne Faithfull, cacciandola via
quando lei rifiutò le sue avance, e, in assenza di Sara, frequentò la
sedicenne cantante pop Dana Gillespie che aveva conosciuto a una festa a
Londra. «Credo che passasse continuamente da una donna all' altra, come
fanno in genere i musicisti», ammette la Gillespie con filosofia. Lei gli
portava la chitarra e quando Bob aveva tempo libero gironzolava nella sua
suite. Una volta Bob aveva preso in prestito i pantaloni della Gillespie,
ornati di rose rosa e arancione. «E io me ne stavo lì, in mutande, senza
poter uscire perché i miei pantaloni li aveva lui. Bob si infilava i miei,
ma i suoi non mi stavano. Sono dovuta rimanere in albergo ad aspettare che
tornasse. Mi aveva detto: "Torno fra un paio d' ore". Si è ripresentato
quasi quindici ore dopo».
Quella vendetta lunga
una canzone, così Bob Dylan creò «Like a Rolling Stone»
Una biografia. Nel corso delle contrattazioni per l' acquisto della casa a
Hi Lo Ha, Bob stava lavorando a New York a quella che sarebbe diventata
forse la sua canzone più famosa, Like a Rolling Stone. «Vomito» è la parola
più usata da Dylan quando parla della canzone. Quell' esplosione di
disprezzo, dice, gli uscì come «un lungo getto di vomito»: ne risultò un
testo alla Kerouac con «una struttura assai vomitosa», «...un pezzo ritmico
su carta tutto incentrato sul mio odio e - sono ancora le sue enigmatiche
parole - diretto a un fine onesto. Perciò non era odio, ma dire a qualcuno
una cosa che non sapeva, dirgli che era fortunato. Rivincita, forse, è un
termine più corretto». Insomma, era una canzone che nasceva da quella
riserva di rabbia che era una parte importante dell' insolita personalità di
Bob. Certo, Like a Rolling Stone poteva essere interpretata come una canzone
misogina. Il bersaglio designato era evidentemente un bersaglio femminile e
a ispirarla possono essere state molte delle donne di Bob, compresa la Baez.
Ma è più probabile che il pezzo fosse diretto a quelle persone che Bob
considerava «finte», e il suo successo dipese in buona parte dalla empatia
che crea nell' ascoltatore l' idea della rivalsa. Per ironia della sorte,
una delle più famose canzoni dell' epoca del folk-rock - che predicò gli
ideali di pace e armonia - parla di vendetta. Like a Rolling Stone venne
registrata a New York durante un acquazzone estivo il 16 giugno 1965. Bob
era arrivato allo studio della Columbia insieme al giovane Mike Bloomfield,
che doveva suonare la chitarra come solista. Musicista blues di Chicago dal
talento prodigioso, Bloomfield aveva un ottimo rapporto con Bob, con il
quale non era facilissimo lavorare: nessuno dei due amava le prove né
spiegare prima quel che aveva in mente di realizzare. (...) Il singolo Like
a Rolli ng Stone uscì il 20 giugno. Benché durasse quasi il doppio dei
singoli dell' epoca, con i suoi cinque minuti e cinquantanove secondi, e
fosse poco adatto ai passaggi radiofonici, scalò inesorabile le classifiche
e, soprattutto, ebbe grande influenza sugli altri musicisti. «Era la voce
più potente che avessi mai sentito», ricorda Bruce Springsteen, che all'
epoca era un ragazzo e viveva a Freehold, nel New Jersey. John Lennon e Paul
McCartney avevano sentito il disco un giorno in cui si erano incontrati per
scrivere dei brani. «Sembrava immensa, infinita. Era bellissima», dice
McCartney. «Bob ha fatto vedere a tutti che ci si poteva spingere ancora un
pò più in là». Quattro giorni dopo l' uscita di Like a Rolling Stone Bob
andò al Newport Folk Festival. I ritmi, di solito piuttosto tranquilli e
prevedibili della manifestazione, in quel 1965 furono sconvolti dalla
decisione di Bob di eseguire amplificati i suoi nuovi brani. Non era
arrivato a Newport con quell' idea in mente: gli era venuta così, per caso.
Nel pomeriggio di sabato 24 luglio Bob aveva suonato All I Really Want to Do
da solista, alla chitarra acustica come sempre. Quello stesso pomeriggio la
band blues elettrica di Paul Butterfield - c' era anche Mike Bloomfield - suonava all' interno del Bluesville Workshop. Alan Lomax, che
nutriva lo sdegno del purista nei confronti dei ragazzi bianchi
medioborghesi che suonavano il blues, schernì il gruppo al momento della
presentazione. Albert Grossman, che pensava di proporsi come loro agente, si
sentì oltraggiato: affrontò Lomax e i due vennero alle mani. «Si rotolavano
per terra», ricorda divertita Sally Grossman. «Era uno scontro tra l' élite
e il popolo». Bob a quel punto prese una decisione epocale: avrebbe
eseguito le sue canzoni nuove con l' amplificatore, per dimostrare a Lomax e
agli altri che quel tipo di musica esisteva e non si poteva liquidare così.
Aveva già inciso un disco composto in parte di brani rock, ma esibirsi sul
palco di Newport era un insulto ai tradizionalisti che consideravano il
rock musica commerciale. «Stavolta Dylan si era proprio rotto: "Be' , che
vadano affanculo. Se pensano di poter tenere fuori di qui la musica
elettrica, se ne accorgeranno", disse», racconta Jonathan Taplin, roadie e
in seguito road manager dei gruppi di Grossman. «Di punto in bianco decise
che voleva suonare con strumenti elettrici».
E l'ebreo errante
cantò per il Papa, Bologna 1997: Bob Dylan davanti a Wojtyla
Alcuni pensavano che Bob avesse abbracciato il cristianesimo per ragioni
commerciali. Keith Richards dei Rolling Stones, per esempio, aveva parlato
di Bob come del «profeta del profitto». Anche Ronnie Hawkins aveva
ironizzato sul suo spirito cristiano quando il 20 aprile 1980 la tournée di
Dylan era arrivata a Toronto e i due avevano parlato per un pò. «Dopo che
questo disco avrà venduto un pò diventerai ateo, così potrai vendere a
quelli che non credono in niente» gli aveva detto Hawkins, con una risata
sardonica. A Bob non era piaciuta la battuta: «Non ha riso. Mi ha guardato e
basta. Ma io sapevo qual era il suo piano. E lui sapeva che io sapevo:
vendere dischi. È il suo mestiere». (...) Gli spettatori dovevano sorbirsi
lo spettacolo insolito di lui che faceva sermoni da predicatore televisivo.
«In questo periodo non si sente parlare molto di Dio. Bè, noi ne
parleremo tutta la sera», aveva detto al pubblico di Hartford, nel
Connecticut, il 7 maggio 1980. Poche sere dopo ad Akron, nell' Ohio, Bob fu
contento dell' accoglienza abbastanza amichevole riservatagli dal pubblico .
Ringraziò dicendo che era abituato a «ogni tipo di malizia operata dal
demonio», tra il pubblico. Satana doveva aver messo lo zampino anche al
botteghino, visto che il concerto finale della tournée venne annullato a
causa della scarsità delle vendite. Bob subì altri colpi di sfortuna nei
mesi seguenti, e sia la sua vita professionale sia quella privata vennero
colpite dalle avversità e, infine, anche dalla tragedia. (...) Dopo tre mesi
fra malattia e convalescenza, e dopo la causa con Victor Maymudes, Bob
riprese le tournée il 3 agosto 1997, tenendo un concerto a Lincoln, nel New
Hampshire. Era ancora gonfio in viso, sudava abbondantemente e chiazze scure
gli macchiavano gli abiti di scena. «Prendo ancora medicine tre volte al
giorno. A volte mi gira un pò la testa e ho un pò di nausea» ha
dichiarato a Usa Today. «E ho bisogno di dormire parecchio, ma credo che ce
la farò». Un mese dopo suonò per Giovanni Paolo II al Congresso eucaristico
mondiale di Bologna. Sembrava impossibile: un ebreo errante che cantava
Knockin' on Heaven' s Door davanti a un Pontefice in là con gli anni che
sembrava mezzo addormentato. A Bob piacque il concerto, ma lo seccò il fatto
di doversi fermare dopo due canzoni per salire la predella e omaggiare Sua
Santità con lo Stetson in mano. Oltretutto non aveva idea di cosa dire: il
Papa sembrava molto più a suo agio e tenne l' omelia a una platea di
duecentomila persone, usando le parole del cantante. «Tu dici che la
risposta è nel vento, amico mio. È vero: ma non è un vento che spazza via le
cose. Questo vento è il respiro e la vita dello Spirito Santo, la voce che
ti chiama e ti dice: "Vieni!"». Nemmeno Bob avrebbe saputo dire di meglio.
Bob era in Europa quando Time Out of Mind uscì negli Stati Uniti il 30
settembre 1997. Servendosi dei missaggi provvisori, Daniel Lanois era
riuscito a mantenere il sound naturale di quelle straordinarie registrazioni
di Miami. «Sembrava di stare di nuovo lì» dice Cindy Cashdollar. Gli amici
erano sorpresi dal carattere intimo dei testi e Jacques Levy ha detto: «Si
sente dentro la ricchezza emozionale della sua vita». Le canzoni, come
diceva Bob, avevano a che fare con «la terribile realtà della esistenza
piuttosto che con quell' idealismo tutto rose e fiori che va di moda
adesso». Il disco era, perciò, una provocazione: Greil Marcus, su Mojo,
scrisse di averlo trovato «scioccante per la sua amarezza e il rifiuto di
ogni conforto, di ogni gentilezza». C' erano, però, molte cose da apprezzare. Elvis Costello, magari esagerando, aveva salutato Time Out of Mind come
il miglior disco di Bob in assoluto, ma tutta la critica era d' accordo
sulla qualità di quest' album, che ridestò l' interesse per il cantante.
Dylan tutt' a un tratto tornava di moda e, anzi, veniva celebrato come un
grande esponente della cultura americana: in ottobre, ebbe l' onore di
ricomparire sulla copertina di Newsweek. Non accadeva dal 1974: allora aveva
trentadue anni e girava per il Paese con la Band. Adesso , nel 1997,
ricompariva, invecchiato e con un' aria gufesca, in una fotografia di
Richard Avedon. Il titolo diceva: DYLAN È VIVO. Era come se fosse risorto.
«È un disco pieno di ombre, perché è così che mi sento» ha dichiarato a
Newsweek. «Non sono in sintonia con niente».
Fu quando venne a Roma per seguire Suze, ma lei era già ripartita, la stessa
occasione in cui suonò da sconosciuto al Folkstudio. Dovrebbe essere una
cartolina di Piazza Navona, si intravede la scritta, e decifrando la
scrittura
possiamo leggere:
“E' anche qui che sto a volte – è nevicato la scorsa settimana (ndt
controllato le statistiche, è vero) e le mie guardie (?) sono tutte coperte
di neve – bella ragatza ovunque – se non apro bocca in questa città pensano
tutti che sono italiano (incredibile ma vero lo giuro) Vado a Toreno –
domani - bella ragatza dappertutto – per le strade, che nuotano nell'aria –
incredibile (oh, tu sei così Italiana) (?) pensavo che le italiane fossero
tutte Mama Rosa e Anna Manani – ma sono
tutte Sophia Loren – Sto imparando una canzone che si chiama “Se Dio Vorrà”
(ndt di Modugno, chissà se l'ha scopiazzata) – Devo andare, ho un incontro
con il Papa con tutta la gente colorata che viene qui Amore, Bob”
Notare l'interesse del giovane Bob per le “belle ragatze”, nonché
l'indirizzo 4th Street (positively)...
(Mr Tamburi', vedi se puoi aggiustarla meglio... non so se è il caso di
copiare l'immagine, la metto in allegato, se è già presente in archivio
pazienza...)
Ramona
Cara Ramona, la foto era
stata segnalata dall'amico Alexan Wolf e pubblicata sulla Fattoria il giorno
12 Marzo 2011, ma non importa, meglio due
volte che nessuna, ma grazie alla tua segnalazione questa volta ho notato
che Bob la chiamava Sue e non Suze! Grazie, :o) alla prossima.
Bravo. Bellissimo paragone, perfetto. In
queste poche parole, c’è dentro tutto. Bravissimo. Si caro Mr.Tamborine,
anch’io, seppur di riflesso, sono stato colpito, in pieno, al cuore, da
questo “Full Metal Jacket”… Il riflesso per la precisione, lo devo a una
splendida “It’s All Over Now, Baby Blue” , cantata da Joan Baez intorno agli
anni ’80… (come ti avevo scritto in una email diversi anni fa..) Mi ha
lasciato una scheggia nel cuore che ancora adesso, si fa sentire. Eccome!
Una ferita che brucia ogni giorno, un fuoco dentro, che non c’è verso di
spegnerlo, alimentato dal vento lasciato dopo ogni concerto! Con un colpo
solo, sono stato dilaniato, proprio come la Dinamite, anzi, la “Dylanite”!
Che magnifica sensazione!!!
Ciao Mr. Tambourine, fossero tutti così i “Full Metal Jacket” , metteremo i
fiori, nei fucili…
E sarebbe molto
meglio...........................!!!!!!!!!!!! :o)
Ciao carissimo, ti invio in allegato l'ultima locandina del mio "Bob Dylan
Tribute Tour 2011": una location davvero speciale questa volta, un viaggio
lungo , spero non troppo faticoso, che mi porterà fino in Australia.
Questo è il mio modo di festeggiare il mio 50° compleanno e lo faccio da
viaggiatore, così come Bob stesso ama viaggiare e visitare luoghi diversi,
lontani, sempre con la passione per la musica nel sangue, nella mente e nel
cuore.
Ci vediamo presto, ma non troppo...!!
Ok caro vecchio Al, sono
davvero contento per te, la tua bravura merita di essere vista ed applaudita
in tutto il mondo, spero farai un bel resoconto del viaggio per tutti gli
amici della Fattoria, see you asap, Mr.Tambourine
La TV del Bangla Desh ha invitato il leggendario
musicista, compositore, produttore, artista visivo, poeta, scrittore,
regista e sceneggiatore ad andare in Bangladesh. E' stato confermato dalle
autorità della Desh TV che Bob Dylan ha accettato l'invito in primo luogo, e
se tutto andrà secondo i piani, sarà in Bangladesh nel 2012. Desh TV ha
contattato Bob Dylan attraverso il suo segretario, l' invito era di andare
in Bangladesh nel marzo 2012, ma pare che i programmi di Dylan per quel
periodo siano già fissati, quindi, la data e l'ora del suo arrivo in
Bangladesh è ancora da confermare e definire.
Le autorità della Desh TV autorità hanno in programma di tenere un concerto
al suo arrivo, il luogo più probabile è lo Stadio Nazionale Bangabandhu. Gli
organizzatori hanno anche confermato che il concerto sarà trasmesso in
diretta.
Bob Dylan ha partecipato al "'Concert for Bangladesh" organizzato da George
Harrison e Pandit Ravi Shankar nel 1971, che si è tenuto al Maddison Square
Garden di New York. Il concerto è stato organizzato per finanziare le
attività di soccorso per i rifugiati dal Pakistan orientale in seguito al
ciclone Bhola del 1970 in Bangladesh e le atrocità durante la guerra di
liberazione.
Quando Joan Baez invitò Bob a seguirla nella sua tournée estiva come guest
star, Suze cadde in una crisi profonda. Le circostanze non sono mai state
chiarite, ma qualche tempo dopo il festival di Newport, e forse dopo che era
venuta a sapere della prossima partenza di Bob per la tournée, Suze cercò
di togliersi la vita col gas nell’appartamento della West 4th Street. «Bob
mi telefonò per chiedermi di andare là: aveva bisogno di aiuto. Poi lei è
venuta a stare da me», ricorda Carla Rotolo, secondo la quale la sorella non
intendeva davvero togliersi la vita ma solo richiamare l’attenzione su di
sé. Sta di fatto che Suze non tornò a vivere con Bob dopo l’accaduto ma si
trasferì definitivamente a casa di Carla nel Lower East Side di Manhattan.
«Bob ha lasciato dietro di sé un bel pò di vittime», dice Carla. «A
quell’epoca Bobby era un tipo molto incasinato». Sembra, insomma, che la
voglia di Bob di arrivare al successo fosse diventata più importante di ogni
altra cosa. È impossibile sapere cosa provasse davvero per ciò che era
successo perché non ne parlava, ma Bob non era un insensibile e sicuramente
dev’essere rimasto sconvolto. Certo non rinunciò alla tournée .
Oltre alla sofferenza che provocava a Suze, la relazione tra Dylan e la Baez
non piaceva a quelli della comunità del folk, che la vedevano soprattutto
come una mossa strategica. Sembrava che i due si usassero l’un l’altro per
dare una spinta alle rispettive carriere: alla Baez faceva gioco presentare
al pubblico un nuovo grande talento, e per Bob era un’occasione per stare
sotto i riflettori. A confermarlo è Oscar Brand: «Lui aveva una tale
bramosia di successo che forse ha fatto parecchie cose... a mio avviso
spaventose... e sono convinto che stesse con Joan perché lei cantava le sue
canzoni». Non molto diverso era il parere dell’ambiente del folk quando
iniziò la tournée nel New Jersey, il 3 agosto 1963. Arrivati a Lenox, nel
Massachusetts, a distanza di soltanto un mese dall’inizio della tournée i
due recitavano già le parti di copione più o meno fisso: lei cantava Blowin’
in the Wind , poi chiedeva con nonchalance al pubblico: «Volete conoscere
l’autore di questa canzone?». La gente gridava di sì e allora appariva Bob
accompagnato da uno scroscio di applausi a scena aperta. Albert Grossman era
riuscito a ottenere, per ogni apparizione di Dylan, un cachet persino più
alto di quello della Baez, che d’altra parte aveva sempre esibito il più
completo disinteresse per le questioni finanziarie. «Non appena si iniziava
a discutere di soldi, lei staccava la spina», ricorda Nancy Carlen, amica e
produttrice dei suoi dischi. «Era una donna di spettacolo che non era mai
andata a caccia di successo. Il successo le è piovuto addosso, e ne parlava
come chi non aveva dovuto fare alcuna fatica per conquistarselo». Per quanto
i concerti potessero essere studiati a tavolino e nonostante la generale
impressione che lei e Bob si stessero usando reciprocamente, c’era qualcuno
che, come Eve Baer, trovava la loro coppia affiatata e piena di fascino. Eve
era al concerto di Lenox e si innamorò subito di quel tipo dall’aria
«modesta e timida».
Alcuni concerti si tenevano in grandi spazi, come lo stadio del tennis di
Forest Hills nel Queens, a New York. Lì la Baez presentò Bob a un pubblico
di quasi quindicimila persone, più o meno come l’intera popolazione di
Hibbing. «C’è un ragazzo che si aggira per New York e si chiama Bob Dylan»,
disse la cantante. «E guarda caso Bob Dylan è qui con me stasera». Per la
Baez era gratificante presentare al mondo un genio e i suoi amici e
familiari pensavano che lei avesse giocato un ruolo importante nella
carriera di Bob, lasciando così intendere che lui non le era mai stato
abbastanza riconoscente. Di fatto non lo fu per niente.
«Per quanto si tenda a sottovalutare l’importanza che ebbero i concerti con
Joan», sostiene la sorella Mimi, «Joan ce la mise tutta per lanciare Bob». E
forse Bob era irritato per la condiscendenza con cui talvolta lei lo
trattava. Nella sua autobiografia, la Baez scrive infatti, con una certa
aria di superiorità, di «aver trascinato» il suo «piccolo vagabondo fin sul
palco», come chi si accinge a un «grande esperimento». Era cosciente, in
quel momento, di fare un favore a un collega, ma è innegabile che fosse
anche affascinata dall’energia, dal senso dello humour e dall’intelligenza
di Bob.
L’aiuto della Baez fu solo in parte determinante per il successo di Bob, che
già nell’estate del 1963 cominciava a camminare con le sue gambe. L’album
The Freewheelin’ Bob Dylan aveva venduto diecimila copie alla settimana e
parecchi artisti volevano eseguire e incidere cover delle sue canzoni.
Alcuni erano anche molto bravi, ma quando Hamilton Camp gli fece sentire la
sua versione di Girl from the North Country , Bob si mise le mani sulle
orecchie.
Bob, uno spinello
insieme ai Beatles Dylan incontra il gruppo in tour negli Usa
Nelle nuove canzoni di Bob qualcuno trovò che ci fosse una punta di
autocompiacimento, anche se la prima esecuzione di Mr. Tambourine Man venne
accolta a Newport da scroscianti applausi. Dopo il festival, il direttore di
Sing Out! pubblicò una lettera aperta in cui rimproverava a Bob il carattere
introspettivo delle sue nuove canzoni e lo accusava di aver ceduto alle
lusinghe del divismo. Giudizi della critica a parte, il festival fu un
momento importante per Bob che poté finalmente conoscere il cantante country
Johnny Cash, con il quale aveva tenuto una fitta corrispondenza e che
ammirava da tempo. Bob e Johnny erano così contenti di conoscersi che Joan
Baez e June Carter Cash si misero a saltare sul letto della stanza del motel
dove Cash alloggiava, «proprio come bambini» racconta Cash. Qualche giorno
dopo il festival, Bob andò in Cali fornia e, tra gli ultimi giorni di luglio
e l' inizio di agosto, ebbe una breve parentesi romantica con la sua vecchia
fidanzata Bonnie Beecher. «L' ho accompagnato all' aeroporto ed è finita che
sono salita sull' aereo e ho passato una settimana all e Hawaii insieme a
lui», ricorda Bonnie. Bob tenne un concerto a Waikiki, poi risalutò Bonnie e
tornò a est per andare a casa di Albert Grossman a Bearsville insieme a Joan
Baez, a sua sorella Mimi e Richard Fariña, il quale aveva da poco divorziato
da Carolyn Hester e sposato Mimi. Mimi non era un osso meno duro di Carla.
Una volta, pensando che Bob non trattasse Joan con il rispetto dovuto, lo
aveva preso per i capelli e glieli aveva tirati con forza. Aveva capito -
visto che Bob corteggiava quasi tutte le donne che incontrava - che non era
innamorato di Joan quanto lei lo era di lui. Ma Joan sembrava non
accorgersene ed era più presa che mai. Durante la permanenza a Bearsville
venne organizzato un incontro tra Bob e i Beatles, che erano a New York
nell' estate del 1964 al termine del loro secondo viaggio negli Stati Uniti
e stavano per tenere un concerto di beneficenza al Paramount Theater. Bob
quindi scese da Bearsville e lui e il suo entourage vennero introdotti nella
suite dei Beatles all' Hotel Delmonico, dove una falange di poliziotti li
avrebbe protetti dall' assedio dei fan. I Beatles avevano appena finito di
cenare con il loro manager Brian Epstein, quando entrò Bob. Il giornalista
Aronowitz, orgogliosissimo, fece le presentazioni. Era uno dei momenti più
alti dell' esistenza di Bob e quell' incontro cambiò il corso della storia
della musica: Bob da allora riadattò in senso «beatlesiano» il suo modo di
fare rock' n' roll, mentre i Beatles cominciarono a scrivere testi seri e
profondi come quelli delle canzoni di Dylan. Gli ospiti americani proposero
uno spinello. I Beatles preferivano bere piuttosto che assumere droghe, e il
loro drink preferito era Coca-Cola e scotch; però, anche se i libri che
parlano di quel periodo dicono che la band non aveva mai fumato marijuana
prima d' allora, è sicuro che almeno Harrison e Lennon avevano già provato
l' erba. Il punto era, però, che nessuno dei Beatles aveva mai fumato
marijuana di ottima qualità. Bob iniziò goffamente a rollare il primo
spinello, facendo cadere un pò di marijuana. Visto che avevano la polizia
proprio fuori della porta, si trasferirono in una stanza interna prima di
accendere. Bob passò il primo spinello a Lennon che disse a Ringo Starr di provarlo, affermando per ridere che Ringo era il suo assaggiatore. Il
batterista iniziò a fumarlo come una sigaretta senza passarlo agli altri,
perciò Aronowitz suggerì a Victor Maymudes di rollarne un altro. Non ci
volle molto perché fossero tutti fumati persi. McCartney disse di aver
scoperto il significato dell' esistenza e cercava una matita per scriverlo.
Starr ridacchiava. Brian Epstein diceva che si sentiva alto fino al
soffitto. Il giorno dopo, alla luce fioca del mattino, McCartney guardò i
suoi appunti a matita per scoprire il significato della vita distillato in
una sola frase: «Ci sono sette livelli». Nei giorni successivi Bob e i
Beatles si videro spesso, in albergo e in giro per New York. Da allora
nacque un legame d' amicizia particolarmente stretto tra Dylan, Lennon e
Harrison. Quando i Beatles suonarono al Paramount Theater, il 20 settembre,
Bob andò a vedere i suoi nuovi amici in azione. Era un pandemonio, con un
pubblico di ragazzine scatenate che strillavano così forte che era
praticamente impossibile riuscire a sentire il gruppo. Bob, che era
piccoletto, stava in piedi su una sedia in uno dei corridoi laterali per
riuscire a vedere meglio. Notò con soddisfazione che il concerto era l'
opposto dei suoi, in cui i l pubblico ascoltava in silenzio ogni parola e
applaudiva alla fine. «Ne fu orgoglioso», sostiene Aronowitz.
Mercoledi 7 Dicembre
2011
"Full Metal Jacket"
Che significa più precisamente? “Full Metal
Jacket” è il nome che gli americani danno ai proiettili “corazzati”, quelli
che hanno il potere di devastare il corpo che colpiscono, proiettili quasi
sicuramente mortali se colpiscono un uomo, difficilmente si riesce a
rimediare o a “rattoppare” un corpo bucato da un “Full Metal Jacket”.
Facendo una facile similitudine potrei dire, almeno per quanto riguarda me,
che Bob Dylan è stato il mio “Full Metal Jacket”, mi ha trapassato e non
sono più guarito,”Eh già” direbbe Vasco, punto e morta là!
Non credo di essere stato l’unico, anzi, con me sono state parecchi milioni
le persone colpite da questo “strano” proiettile, ieri, oggi, domani, non
c’è tempo o età, non c’è giorno, non c’è ora, non c’è luogo definito per
essere colpiti, può succedere ovunque e per le ragioni più semplici, ma
quando si viene colpiti non ce n’è più per nessuno. La devastazione è
totale, difficilmente si riesce ad ammirare o “amare” un altro artista dopo
che il “Full Metal Bob” ti ha colpito, difficilmente la ferita si richiude,
normalmente resta sempre aperta e tende ad allargarsi fino a quando non c’è
più rimedio, inutile ogni tipo di sutura o azione diversiva, tutto è
destinato a svanire nel nulla, come se tu non avessi mai tentato niente per
guarire da quella piacevole ferita, Eh già, direbbe ancora Vasco, sembrava
la fine del mondo, ma sono qua, e non c’è niente che non va, non c’è niente
da cambiare, poi l’anima che si arrende, alla malinconia, poi piango, poi
rido, poi non mi decido, cosa succederà? Niente, non succede più niente,
quando sei preso sei preso e tutto sembra finito, ma il proiettile dopo
averti scavato il corpo continua nella sua opera, comincia a scavarti
l’anima, la mente, il pensiero, le emozioni, le sensazioni. Le parole che
hai imparato a memoria assumono sempre significati diversi, sempre più veri
e reali, perchè i problemi di 50 anni fa sono ancora i problemi di oggi, è
cambiato solo il mondo che avevamo intorno a noi, ma l’amore, l’odio, la
pazzia e le guerre sono rimaste le stesse, la bramosia di potere delle
persone è ancora tale e quale, l’importante è comandare, tirare i fili, fare
io modo che gli altri siano solo pedine nel tuo gioco.
Guariremo mai? Credo proprio di no, come credo che in reltà nessuno voglia
più guarire dopo essere stato colpito, si sta bene con quello squarcio
addosso, si guarda compiaciuti la ferita, con la mente si dice grazie a Bob
per essere stati colpiti, ma che ci vogliamo fà? Niente, in fondo è bello
essere “dylaniati”!
Joan Baez aveva solo sei mesi più di Bob, ma era già una star in America: i
suoi concerti facevano il tutto esaurito. Nonostante apparisse sul palco a
piedi nudi come una contadina e cantasse canzoni folk con voce verginale, la
Baez era altezzosa, egocentrica e intelligente e nessuno aveva saputo
tenerle testa. Il suo primo incontro con Bob avvenne al Gerde' s Folk City,
una sera in cui lui suonava con Mark Spoelstra. Casualmente, Mark era stato
con la Baez per un breve periodo di tempo nel 1956, in California, quando
erano ragazzi: «Joanie, gli uomini se li prendeva e così aveva fatto con me
quando avevo sedici anni. Si prendeva tutti quelli che voleva, li
controllava. Sua madre una volta mi ha detto: "Non so, ma Joanie gli uomini
li mastica e poi li sputa"». Nella sua autobiografia "E una voce per
cantare", la Baez descrive la prima impressione - pessima - che ebbe di Bob,
l' uomo di cui si sarebbe innamorata e al quale il suo nome sarebbe rimasto
legato per il resto della vita, anche se la loro relazione fu di breve
durata.
«Sembrava uno zoticone venuto in città dalla
campagna, con quei capelli corti intorno alle orecchie e ricci sopra. Mentre
si dondolava sui piedi, suonando, sembrava che scomparisse dietro la
chitarra. Portava una giacca di pelle sgualcita e di due taglie più piccola.
Aveva ancora le guanciotte da bambino, ma una bocca incredibile: morbida,
sensuale, infantile, nervosa e reticente. Pronunciava con grinta le parole
delle sue canzoni... Era assurdo, era una cosa mai vista ed era sudicio al
di là dell' immaginabile». Nonostante fosse sporco, la Baez decise che lo
voleva conoscere meglio e perciò fu un pò più che irritata quando, al loro
secondo incontro, di lì a non molto, Bob mostrò più interesse per sua
sorella Mimi, che aveva quindici anni. Il padre di Joan e Mimi, Albert, era
di origine messicana e le ragazze avevano entrambe la carnagione scura e
lunghi capelli neri. Mimi era più slanciata della sorella e, probabilmente,
un pò più carina. La sera in cui conobbe Bob portava un semplice abito
bianco che le stava particolarmente bene. «Trovai Bob affascinante. Non
doveva essere lui il centro dell' attenzione quella sera, ma in effetti lo
era, perché già allora era una personalità carismatica» racconta Mimi. Bob
corteggiò Mimi, anche se stava con Suze, e la invitò a una festa, ma Joan
ricordò alla sorellina che si doveva alzare presto la mattina dopo ed era
meglio tornare a casa. La grande storia d' amore tra Bob e Joan Baez era
ancora di là da venire. E questo valeva anche per la carriera discografica
di Bob, che trovò divers e porte chiuse prima di ottenere un contratto.
Izzy Young del Folklore Center portò Bob alla
Folkways Records, ma il proprietario Moses «Moe» Asch non si mostrò molto
interessato a lui. «Lo hanno cacciato via» ricorda Young. «Bob non era
vestito in modo adeguato, dissero, o qualcosa del genere». Lui allora andò
all' Elektra, dove non fece una bella impressione al presidente della
società Jack Holzman, poi parlò con Manny Solomon della Vanguard Records, la
casa discografica della Baez. Solomon sembrava interessato, ma non firmarono
nessun accordo. Bob e Mark Spoelstra fecero una registrazione di prova, come
duo, per un' altra casa discografica: Spoelstra cantava canzoni come "Sister
Kate" e "Dryland Blues" e Bob lo accompagnava all' armonica, ma era
demoralizzato quando uscirono dallo studio. «Ho fatto schifo» disse. «Che
roba brutta». «Cosa? Sei stato grande!». «No, non ho suonato per niente
bene. Non avevo il giusto feeling».
E probabilmente aveva ragione, visto che
quella session non portò a niente. Nell' ottobre del 1961, però, i contatti
che Bob si era creato e aveva coltivato durante i primi dieci mesi a New
York cominciarono a funzionare e John Hammond, un responsabile della
Columbia Records, la più grossa casa discografica degli Stati Uniti, firmò
un contratto con Bob. All' epoca, Hammond era forse il discografico più
famoso di New York. Nato in una famiglia dell' alta società - suo padre era
un banchiere e sua madre una Vanderbilt - aveva frequentato Yale e studiato
musica alla Julliard. Aveva scritto per le rubriche musicali dei giornali,
era stato impresario teatrale ed era diventato famoso per aver scoperto
Billie Holiday e aver lanciato Benny Goodman. Adesso era un distinto
gentiluomo sui cinquant' anni, alto e sempre in giacca e cravatta. Stava
mettendo sotto contratto con la Columbia artisti del folk revival, ma voleva
solo i migliori e perciò si aggirava per il Greenwich Village, ascoltando i
musicisti e consultando le persone di cui aveva stima, come Paddy Clancy.
Nella sua stessa famiglia aveva, con suo rammarico, un altro consigliere: il
figlio diciottenne John Hammond jr, che aveva intrapreso la carriera di
musicista blues. «Non riusciva a digerire il fatto che volessi fare il
cantante blues o il musicista, forse perché sapeva che era un mondo pieno di
insidie e che si faceva una vita dura» racconta John. Il rapporto tra padre
e figlio era difficile, ma quando ne aveva l' occasione, il ragazzo parlava
al padre dei musicisti di talento che conosceva al Village e tra questi c'
era anche Bob Dylan.
E in tre minuti Dylan
creò il mito «Blowin' in the wind», il successo nato in un caffè
Bob compose Blowin' in the Wind in pochi minuti, in un caffè di fronte al
Gaslight Club. Che fosse una canzone un pò particolare l' aveva capito, ma
non che lo fosse fino a quel punto. «In fondo era una delle tante canzoni
che avevo scritto», dice. La melodia era straordinariamente simile a quella
dello spiritual "No More Auction Block", ma - lo si è detto - prendere in
prestito melodie e persino testi rientrava nella tradizione del folk. È
difficile, però, non essere d'accordo con chi trova un pò retorico il testo
di Blowin' in the Wind. Molti dei più noti artisti folk di New York non si
entusiasmarono affatto quando sentirono per la prima volta la canzone: tre
strofe di frasi interrogative destinate a non trovare altra risposta se non
in questo: che la risposta è nel vento; un' idea talmente vaga da non
significare nulla. A Pete Seeger la canzone non parve un granché. «Blowin'
in the Wind non è una delle canzoni che preferisco», dice. «È un po' troppo
facile». Tom Paxton la trovava quasi impossibile da imparare: «Io la odio. È
una canzone-lista della spesa, in cui un verso non ha nessun nesso con
quello dopo», e Dave Van Ronk pensava, francamente, che fosse una canzone
stupida. Comunque, dopo un paio di mesi che Bob suonava Blowin' in the Wind
al Gerde' s Folk City, Van Ronk si accorse con sorpresa che i musicisti che
si trovavano nei pressi del Washington Square Park avevano inventato parodie
irriverenti del pezzo, tipo: «The answer, my friend, is blowin' out your end
(La risposta, amico bello, ti vien fuori dal pisello, ndt)». «Se la canzone
è tanto buona da cominciar e a essere parodiata, senza che sia neppure stata
incisa», si disse però Van Ronk, «allora è migliore di quanto pensassi».
Intanto Roy Silver si era reso conto del fatto che Bob aveva creato qualcosa
di straordinario. «Blowin' in the Wind è stata la chiave di volta», afferma.
«È stata quella canzone a far scattare qualcosa»; entusiasmo a parte,
sentiva anche che Bob gli stava scivolando dalle mani. Da quando aveva
scoperto le potenzialità di quel musicista, Grossman si era mostrato sempre
più interessato a lui; lo stesso Bob ormai parlava della sua carriera più
spesso con Grossman che con Silver. Non che Bob si fosse dato tanto
facilmente a Grossman. All' inizio, anzi, aveva chiesto a Harold Leventhal
di fargli da agente, ma pur apprezzandolo per la serietà e la
professionalità, e nonostante avesse fatto lui il primo passo, non si decise
mai a firmare un accordo. «Lo chiamavo, ma lui non si faceva trovare, e di
certo io non avevo intenzione di rincorrerlo». Solo nel giugno del 1962
Silver decise di cedere il suo contratto con Bob a Grossman per una modesta
somma di denaro e il diritto all' uso di uno spazio nell' ufficio di quest'
ultimo a New York. «Sapevo che Albert si sarebbe comportato da bastardo. Lui
aveva i soldi che io non avevo», racconta Silver. «Perciò ho venduto il
contratto per circa diecimila dollari ed è finita lì. Albert ha preso in
mano la cosa». Fu il miglior contratto di tutta la vita di Grossman. Per
diecimila dollari e lo spazio per una scrivania si era assicurato un cliente
che lo avrebbe reso milionario. Albert Grossman è una figura chiave della
carriera di Dylan. Alcuni ritengono che senza di lui Bob non avrebbe mai
potuto avere tanto successo. «Nonostante i suoi difetti, Albert credeva in
Bob, ci credeva sul serio», afferma Van Ronk. «E lo ha sempre sostenuto: il
primo disco non aveva venduto e neanche il secondo era andato granché bene,
Ma Albert era convinto che Bob sarebbe andato molto lontano e non si è mai
arreso». L' uno aveva un talento sconfinato, l' altro una grande esperienza
e un innato senso degli affari. Musicista e agente insieme sortirono, come
dice Odetta, «una combinazione potente». E Bob aveva più di un motivo per
essere soddisfatto, dato che, anche nei momenti in cui i loro rapporti si
fecero più tesi e difficili, dovette riconoscere a malincuore che Grossman
aveva sempre lavorato nel suo interesse. Il vero e proprio conflitto nacque
solo nel 1981, dodici anni dopo la fine del loro sodalizio, quando Grossman
fece causa a Bob per delle royalty mai percepite. Bob, a sua volta, gli fece
ben diciotto querele accusandolo di sfruttamento e di raggiro e negando che
fosse stato lui a «scoprirlo» visto che aveva già un agente e un contratto
discografico prima di conoscerlo. «Non avevo neanche idea di cosa fosse il
mondo degli affari», ha ammesso, e Grossman aveva avuto buon gioco
approfittando della sua ingenuità. Ma l' amarezza di Bob non nasceva solo
dal denaro perso: si sentiva ferito per essere stato tradito da qualcuno di
cui si fidava. Anno dopo anno, aveva visto Grossman appropriarsi di più di 7
milioni di dollari; e quando gli chiesero da quanto tempo si conoscevano,
Bob ci pensò un pò e disse: «Beh, non credo di aver mai conosciuto davvero
quest' uomo, il signor Grossman». In un' altra occasione dichiarò
apertamente: «Grossman prima si è guadagnato la mia fiducia e la mia
amicizia per poi approfittarne e guadagnarci su».
Nell' estate del 1960 Bob andò in autostop fino a Denver, nel Colorado. Era
un viaggio di più di millequattrocento chilometri e fu una delle più grandi
avventure della sua giovinezza, sulle orme del Kerouac di "On the road", il
cui protagonista, l'anticonformista Dean Moriarty, si ferma spesso a Denver
nel corso dei suoi viaggi avanti e indietro per
il paese. Bob conosceva il libro ed era affascinato dal personaggio di
Moriarty. A spingerlo a Denver fu però, soprattutto, la vivacità
dell'ambiente musicale della città, che contava diversi locali tra cui il
Satire e l'Exodus.
Una conoscente di Bob gli suggerì di presentarsi a Walt Conley, il cantante
che gestiva il Satire e nel quale si esibiva. Il gruppo di punta di Conley
erano Dick e Tommy Smothers. Gli Smothers Brothers suonavano musica folk per
un pubblico più vasto e meno esperto.
Si presentavano in giacca e cravatta. Come afferma Conley, appartenevano a
quel filone della musica folk che «cercava di darsi una ripulita». Bob,
invece, apparteneva a quel filone del folk che si rotolava nella polvere.
Bob suonava ballate hillbilly e si vestiva con abiti logori di cotone e
jeans: sembrava un personaggio uscito da "Furore" e non profumava
esattamente di lavanda, visto che non era scrupolosissimo in fatto di
igiene. Comunque, Conley
gli lasciò fare una breve apparizione prima degli Smothers Brothers.
Walt Conley viveva in una casetta di legno con tre stanze, sulla via del suo
club, e la divideva con i musicisti che passavano in città. Quando arrivò
Bob, Dick Smothers e sua moglie dormivano nella stanza degli ospiti e Tommy
Smothers si era sistemato sul divano. «Bob non sapeva dove dormire» ricorda
Conley. «Mi chiese se poteva sdraiarsi per terra e io gli dissi di sì. Credo
che sia rimasto lì per una notte e poi abbia cominciato a girare per la
città in cerca di
un posto dove stare». All'Exodus Bob conobbe Jesse
Fuller, l'autore di "San Francisco Bay Blues" , che allora aveva
sessantaquattro anni. Fuller era stato uno dei primi modelli per Bob: era
entrato nella sua vita dopo Odetta e prima della travolgente, quasi
religiosa scoperta di Woody Guthrie. Fuller si esibiva nel seminterrato
dell'Exodus. Era uno one man band : suonava contemporaneamente la chitarra,
l'armonica, la grancassa e cantava il blues. Purtroppo per Fuller, il blues
non era molto apprezzato dal grande pubblico bianco all'epoca e gli affari
non gli andavano bene.
«Se penso a quello che è il blues oggi!» dice Conley.
«Ma allora non interessava. E non interessava a nessuno neanche Bob Dylan».
Gli Smothers Brothers fecero chiaramente capire che Bob, trasandato finto
vagabondo, non andava loro a genio e ben presto lui perse il lavoro al
Satire. «Bob iniziò a girare per Denver cercando qualcosa da fare.
Si offrì di suonare nei locali, ma non lo voleva nessuno», racconta Conley.
«Confronta la fama di cui gode adesso e quello che era allora: lo evitavano
proprio».
Bob non era arrivato da molto in città, quando Conley ricevette una
telefonata da Sophia St. John, che gestiva un saloon in stile western nella
vicina città di Central City, nata all'epoca della corsa all'oro.
La città cercava di ricreare per i turisti l'atmosfera del selvaggio West. I
visitatori potevano setacciare l'oro e i saloon e gli hotel sembravano
usciti da un western: pagavano gli attori per barcollare su e giù per la
Main Street con boccali di birra incollati a un vassoio. Il locale di Sophia
St. John si fregiava del nome Gilded Garter, anche se non era uno strip club
come andrà raccontando in seguito Bob.
«Mi serve un cantante» disse la St. John a Walt. «Ho una ragazza che si
chiama Judy Collins ed è brava».
Judy Collins, che allora aveva ventun anni, era agli inizi di una carriera
che l'avrebbe presto portata a diventare una delle stelle del folk revival.
«Ma se conosci qualcun altro, mandamelo». «Ho un tizio che si chiama Bob
Dylan» rispose Conley. «È disoccupato e mi sta tra i piedi, perciò vorrei
mandarlo via».
Il Gilded Garter era un posto tremendo. Era rumorosissimo e i turisti
pensavano più a bere e a mangiare. Bob cercava di intrattenerli suonando il
piano e cantando ma non ebbe successo; non ci volle molto perché tornasse a
Denver con le pive nel sacco e si fermasse in un alberguccio vicino
all'Exodus.
Dylan, l’altra faccia
della passione
Due anni dopo il suo arrivo a New York, nel bel mezzo di un inverno
particolarmente freddo, Bob avrebbe visto la propria vita cambiare in modo
radicale. Qui fece conoscenze destinate ad avere un peso decisivo sulla sua
carriera e maturò in fretta come artista.
In parte anche grazie al fatto che erano in pochi a suonare l’armonica, Bob
veniva a volte invitato, da solo o con Mark, ad accompagnare altri
musicisti. Uno di questi era Fred Neil, un tipo scorbutico che veniva dalla
Florida, con i capelli rossicci e una profonda voce baritonale. Cosa
insolita, Neil era autore delle canzoni che cantava; in seguito diventerà
famoso per aver composto "Everybody’s Talkin’" , tema del film " Un uomo da
marciapiede" . Neil dava a Bob e Spoelstra un paio di dollari per
accompagnarlo dal vivo. Spoelstra sostiene che avesse anche l’abitudine di
dare qualche pizzicotto sul sedere ai due ragazzi ogni volta che li
incontrava; ma mentre Spoelstra, infastidito, gli diceva di piantarla, Bob
si metteva a ridere. «Era disponibile nei confronti di chiunque» ricorda
Spoelstra. «Era molto tollerante nei confronti delle persone più diverse».
Era un tratto del carattere di Bob. Molti dei suoi più cari amici erano
omosessuali - il più noto è il poeta Allen Ginsberg - ma lui non aveva mai
manifestato pregiudizi o imbarazzo. Nei primi anni a New York Bob e
Spoelstra, che passavano quasi tutte le sere nei bar di Downtown e nei
locali del Greenwich Village, conobbero persone di ogni tipo. In una
intervista del 1966, Bob non solo lasciò intendere di aver ricevuto anche le
avance di uomini, ma addirittura dichiarò che quand’era appena arrivato a
New York lui e un amico si erano dati da fare nei dintorni di Times Square.
«Guadagnavamo centocinquanta o duecentocinquanta dollari a notte tra tutti e
due. Facevamo base nei bar: ci rimorchiavano uomini e donne». Spoelstra dice
che questa è una delle sue tante invenzioni e nega che Bob abbia mai avuto
tendenze omosessuali: «Ci dovevamo dar da fare, dovevamo preoccuparci di
trovare un posto per dormire, ma non sono mai stato costretto a vendermi.
Bob non mi ha mai fatto delle avance e io non l’ho mai visto farne ad altri
uomini. In compenso siamo stati in competizione per una donna. Nessuno dei
due rimase solo molto a lungo in quei sei mesi senza freni».
In realtà, in quei primi «sei mesi senza freni» a New York, Bob si affidava
spesso al buon cuore delle donne. All’inizio aveva passato qualche tempo dai
Gleason, gli amici di Guthrie, nel New Jersey. Sid si preoccupava per le
compagnie che Bob frequentava al Village e gli dava un pò di soldi e Bob,
che come al solito non parlava molto del suo passato, quasi lasciò loro
credere di essere stato cresciuto da genitori adottivi; ben presto cominciò
a chiamare Sid «mamma» e
lei lo considerava uno della famiglia. Anche se lo adorava, Sid era solo una
delle donne che in un modo o nell’altro gli diedero una mano. Del resto lui
non rimaneva mai troppo a lungo nello stesso posto e solo di tanto in tanto
approfittò dell’ospitalità altrui, come fece con i Gleason, per non
diventare sgradito.
La sua apparente vulnerabilità faceva sì che gli si affezionassero. Ma
dentro aveva una durezza che gli permetteva di sopravvivere bene in città.
Quando Bonnie Beecher venne a New York con il suo gruppo teatrale all’inizio
della primavera 1961 e lo cercò ansiosa, scoprì che Bob stava molto meglio
di quel che si aspettasse. Lui non vedeva l’ora di raccontarle la sua nuova
vita, piena di emozioni. «Una cosa dovevo fare a ogni costo: tornare e
raccontare agli amici che lui aveva conosciuto davvero Woody Guthrie. Questo
solo gli interessava» ricorda Bonnie. E per
dimostrarglielo, Bob la portò all’ospedale del New Jersey, dove Bonnie si
rese conto di quanto speciale fosse il legame tra i due. Col crescere del
successo di Dylan, nacquero inevitabilmente delle storie sul fatto che
Guthrie l’avesse in un certo senso scelto come suo successore.
Una volta, per esempio, sembra che Guthrie avesse detto: «Pete Seeger è uno
che canta canzoni folk, non un cantante folk. Anche Jack Elliott è uno che
canta canzoni folk. Ma Bobby Dylan è un cantante folk. Cristo santo, lui è
davvero un cantante folk».
L’agente di Guthrie, Harold Leventhal, smentisce decisamente: «Woody non ha
mai detto nulla su quelli che venivano a trovarlo, anche perché non era più
in condizioni di conversare». La verità è che quegli incontri furono più
significativi per Bob che per Guthrie, che ormai era molto malato.
Jack Frost
Questo nome è solo un altro alter ego di Bobby Zimmerman. Dylan ha usato
questo nome per la prima volta per "Under the Red Sky" nel 1990, poi per
"Time Out Of Mind" nel 1997, che ha co-prodotto con Daniel Lanois (vedi
sotto). Da allora i suoi album in studio "Love & Theft", "Modern Times" e
"Together Through Life" sono stati accreditati a Dylan alias Jack Frost come
produttore. I nomi alias hanno una lunga tradizione nella biografia di
Dylan, come un camouflage che ha sempre usato per diversi ruoli e
personaggi, il primo, naturalmente, è "Bob Dylan" dopo aver lasciato la sua
casa di Hibbing. Ha anche registrato sotto il nome di "Blind Boy Grunt" e
“Lucky Wilbury”. Quando ha recitato una piccola parte nel film "Pat Garrett
& Billy the Kid", il nome del suo personaggio è stato "Alias". Nomen est
omen.
(Fonte BobDylan.com)
Daniel Lanois
Franco-canadese produttore, compositore e artista solista Daniel Lanois ha
collaborato con Dylan nel 1989 per "Oh Mercy" e nel 1997 per "Time Out Of
Mind", due album molto apprezzati da critica e pubblico. Le due produzioni
di Lanois stanno tra i migliori lavori in studio che Dylan ha registrato nel
corso degli ultimi 20 anni, e che quest'ultima gli è valsa due premi Grammy
nel 1997.
Lanois è nato nel 1951 e ha iniziato la sua carriera dim produttore musicale
nei primi anni 1980 con Brian Eno. Oltre al suo lavoro con Bob Dylan, la
collaborazione più impressionante di Lanois sono state quelle con gli U2
("The Unforgettable Fire", "The Joshua Tree", "Achtung Baby", "All That You
Cannot Leave Behind") e Peter Gabriel (" Birdy "," So "," Us"). Ha anche
prodotto i grandi album di Robbie Robertson, Emmylou Harris, Willie Nelson e
Joe Henry.
Intorno al periodo di registrazione di "Oh Mercy", Lanois ha pubblicato il
suo debutto come solista dal titolo di "Acadie". Tra il 1989 e il 2005 ha
pubblicato 5 album.
(Fonte:DanielLanois.com)
Bob Johnston
Di tutti i produttori che hanno lavorato con Dylan, Bob Johnston ha prodotto
la maggior parte degli album per "il suo cliente". Dal 1966 al 1973 hanno
fatto 6 album insieme, tra i quali il classico "Blonde On Blonde", John
Wesley Harding" e "Nashville Skyline", così come "Selfportrait", "Dylan" e
il cosiddetto "album di ritorno" dopo il suo incidente in moto, "New
Morning". La sua prima opera per Dylan però è stato uno dei migliori album
di Dylan mai registrati, "Highway 61 Revisited". Johnston ha prodotto tutti
i brani tranne "Like A Rolling Stone", che è stato prodotto da Tom Wilson.
Bob Johnston è nato nel 1932 e ha lavorato come produttore per la Columbia
Records, dove ha anche prodotto diversi album di successo ed alcuni 45 giri
per Simon & Garfunkel, Willie Nelson e Leonard Cohen. A differenza di altri
produttori Johnston non è si mai realmente creato un suo stile distinto,
vedeva il proprio ruolo nella produzione musicale di più nel sostenere
l'artista e nel fare ciò che l'artista voleva fare. Per quanto riguarda la
sua collaborazione con Bob Dylan ha detto: "Io in realtà non 'produco' il
suo album, cerco solo fare del mio meglio per farlo sorridere quando lascia
lo studio".
(Fonte: Bob Johnston – Wikipedia)
Don DeVito
Don De Vito è stato il più importante produttore di Dylan negli anni 1970.
Insieme hanno fatto 4 album, partendo dal classico assoluto "Desire" nel
1976, due album dal vivo "Hard Rain" (Rolling Thunder Revue Tour) e "At
Budokan", così come nel 1978 "Street Legal", tra cui le hits "Señor" e
"Changin’ og the guard". Nel 1990 DeVito è tornato come produttore per la
compilazione di "Bootleg Series, Vol. 1-3" il cofanetto del 1991, ppoi per
il "30th Anniversary Celebration Concert" nel 1993, "Greatest Hits, Vol. 3"
nel 1994 e "The Best di Bob Dylan" nel 1997. Nel 2000 ha prodotto il singolo
"Things Have Changed", che ha vinto l'Oscar nel 2001 come "Miglior
canzione". Ultimamente è stato Supervisore della "Bootleg Series, vol. 5 " e
produttore della serie Hybrid SACD.
DeVito ha anche prodotto albus per gli Aerosmith e Billy Joel. Prima di
morire è stato vice presidente senior di A & R alla Columbia Records.
Jerry Wexler e Barry Beckett
Wexler e Beckett hanno prodotto alcune delle più grandi canzoni di R & B e
Soul negli anni dal 1960 fino al 1980. Nel 1979 e nel 1980 hanno collaborato
con Dylan s per “Slow Train Coming" e "Saved".
Jerry Wexler è nato a New York City nel 1918. Ha lavorato per la rivista
Billboard, ha scritto brani classici come "Everybody Needs Somebody To Love"
ed è stato nominato Record Executive of the Year nel 1967. Ha prodotto molti
pezzi importanti, da Aretha Franklin ai Dire Straits.
Barry Beckett è nato in Inghilterra nel 1944. Ha lavorato come tastierista
nei primi anni 1970, ad esempio, per Paul Simon in "Kodachrome" nel 1972.
Nel 1985 è stato nominato A & R per la Warner a Nashville ed ha prodotto per
musica countryper Hank Williams Jr., Glenn Frey e Bob Seger.
(Fonte: Jerry Wexler - Wikipedia)
Più la musica diventava una cosa seria per Bob, più divenne chiaro che gli
serviva un nome d'arte. Molti dei cantanti che gli piacevano si erano scelti
un nome orecchiabile, e Zimmerman non lo era di certo. Ci sono un sacco di
versioni su come Bobby Zimmerman sia diventato Bob Dylan, e lui ha
rilasciato dichiarazioni contraddittorie, nessuna delle quali collima con la
versione che ricordano i suoi amici. La risposta più chiara che ha dato è
questa: voleva chiamarsi Dillion perché un suo zio portava quel cognome. In
realtà non c'era nessun Dillion nella sua famiglia. Dillion, in
ogni caso, doveva essere un nome che Bob aveva sentito spesso. James Dillon
era stato uno dei primi fondatori
di Hibbing, e una famiglia con quel cognome possedeva una fattoria in Dillon
Road. Uno dei giocatori di football più famosi del Minnesota si chiamava
Bobby Dillon. In una nota serie televisiva dell'epoca, Gunsmoke , c'era un
personaggio che si chiamava Matt Dillon. Di qui forse l'idea di quel nome.
Bob, però, scelse di scriverlo in modo diverso.
Nella primavera del 1958, dopo che la neve si era sciolta e l'erba aveva
iniziato a crescere attorno alla casa di Echo nei boschi, Bob andò da lei
con la sua Ford decappottabile. «Ho trovato il nome», le disse. «So come mi
chiamerò d'ora in poi».
Quando glielo disse, Echo chiese: «D-i-l-l-o-n, come Matt Dillon?». «No, no,
no: D-y-l-a-n». Bob aveva un libro
sottobraccio e lo mostrò a Echo. Era una raccolta di poesie di Dylan Thomas.
Dylan Thomas era molto noto in America durante l'adolescenza di Bob. Il
poeta aveva tenuto una serie di reading che avevano avuto buon successo ed
era morto alcolizzato a New York nel 1953, a trentanove anni. Il fatto che
fosse morto abbastanza giovane e in quelle circostanze bastò perché Bob lo
accogliesse nel pantheon delle sue divinità tragiche insieme a James Dean e
Hank Williams. Bob, tra l'altro, leggeva e apprezzava le poesie di Dylan
Thomas. In effetti aveva gusti sorprendentemente raffinati in fatto di
letteratura e aveva letto molto e bene. Questa attitudine in parte era
dovuta a un professore di letteratura della Hibbing High che aveva trasmesso
l'amore e la capacità di comprendere la materia a quasi tutti i suoi alunni.
Boniface J. Rolfzen, noto come B. J., era un uomo che amava il suo lavoro.
«Ricordo che mi fece apprezzare Shakespeare», racconta John Bucklen. «Era un
bravo insegnante di letteratura:
lo sentivi che gli piaceva la materia, la conosceva e l'amava».
Quando dovette scrivere una tesina sul proprio autore preferito, Bob scelse
John Steinbeck e si entusiasmò a tal punto per Furore da scrivere un saggio
di quindici pagine per il quale ricevette un «ottimo». «John Steinbeck è
grande», diceva con entusiasmo Bob a Echo: il suo elogio fu tale che lei si
sentì spinta a leggere tutti i libri di Steinbeck che riuscì a trovare. Echo
ricorda che Bob aveva spesso dei libri sottobraccio e che quei libri erano
quasi sempre di poesia. Beatty diceva che suo figlio scriveva poesie in
continuazione: «Temevo che mi sarebbe diventato
poeta! Ai miei tempi, un poeta era un disoccupato».
Lei e Abe si preoccuparono parecchio per questa faccenda e la cosa provocò
delle tensioni, man mano che Bob cresceva. In parte anche a causa dello
scioglimento dei Golden Chords, Bob iniziò a passare più tempo a Duluth e
nelle Twin Cities insieme ai suoi amici e ai cugini, durante l'ultimo anno
di scuola. Echo sospettava che uscisse con altre ragazze. Lo disse a John
Bucklen e lui rispose che poteva esser vero. Echo sospettava anche che Bob
si vedesse con la sua amica Dee Dee. Bob cominciava a mostrarsi indifferente
nei suoi confronti. Usciva da solo alla sera, dicendo a Echo di aspettarlo a
casa. Lei si stancò di questo andazzo e andò lo stesso in città. «Cosa ci
fai qui?», le chiese Bob, quando la vide.
«Sono venuta in città con le mie amiche». Allora lui la fece salire sulla
moto e la riportò a casa. Lei pensava che avrebbero passato la serata
insieme. «Invece mi ha lasciato lì!», esclama, disgustata. «E ovviamente,
una volta tornata a casa, i miei genitori non mi avrebbero più fatta uscire.
È stato l'inizio della fine».
Echo affrontò Bob nel corridoio della Hibbing High e gli restituì il
braccialetto. «Cosa fai?», le chiese con gli occhi azzurri spalancati per la
sorpresa. «Non fare così, qui nel corridoio». Ma Echo aveva deciso che tra
loro era finita.
I dischi rubati
ispirano Bob
Jon Pankake era uno studente universitario affascinato dalla musica folk
americana. Nel 1959 era stato a un concerto di Pete Seeger nello Iowa:
questa esperienza l'aveva spinto a ricercare i dischi dei Weavers, il gruppo
che aveva contribuito a rendere famose le canzoni di Woody Guthrie. Jon,
insieme all'amico Paul Nelson, trovò anche alcune copie rarissime dell'
Anthology of American Folk Music , una straordinaria raccolta in sei dischi
curata da Harry Smith.
Entusiasmati e incuriositi dalle canzoni d'amore, dalle ballate sugli
assassinii e dalla musica religiosa dell'antologia, i due amici fondarono
una fanzine che circolava ciclostilata e che chiamarono «Little Sandy
Review».
L'appartamento di Pankake al 1401 della 6th SE divenne uno dei luoghi di
ritrovo di Dinkytown. Bob ci andava
regolarmente e suonava insieme a Pankake. «Suonavo il banjo e la cosa lo
incuriosiva molto» ricorda quest'ultimo. Una volta Pankake stette fuori
città per un paio di settimane ma non chiuse l'appartamento: allora Bob vi
entrò e senza permesso portò via una ventina di dischi. Tra questi c'era un
raro cofanetto di Ramblin' Jack Elliott, amico e compagno di vagabondaggi di
Woody Guthrie. Secondo Jon Pankake, Bob potrebbe aver portato via da casa
sua anche la
Anthology of American Folk Music . «Non lo escluderei, visto che non
giravano così tante copie dell' Anthology a Minneapolis». Se fu lui a
prenderla - ma Pankake non ne è certo - Bob ebbe per la prima volta
l'occasione di ascoltare incisioni che avrebbero poi influenzato la sua
carriera di musicista. Citazioni dalle canzoni contenute in questa notevole
collezione sono sparse in tutta la sua opera; negli anni Novanta, poi, Bob
avrebbe scandagliato sistematicamente l' Anthology e inciso due album
acustici - Good as I Been to You e World Gone Wrong - che riprendono tre
canzoni dell' Anthology . Il suo disco del 1997, Time Out of Mind , era
disseminato di citazioni tratte dall' Anthology .
Queste canzoni sembravano arrivare da un mondo perduto, forse dall'epoca
della guerra civile. In effetti però, diversi musicisti presenti nell'
Anthology erano ancora vivi e sarebbero stati riscoperti con l'avanzata del
folk revival. Molte
canzoni erano «Child Ballads» originarie della Gran Bretagna e tramandate
per generazioni. Contenevano termini arcaici e immagini bizzarre che
sembravano fuori del tempo e dello spazio. Il cuculo, nel tradizionale folk
degli Appalachi The Coo Coo Bird , è un uccello che non è originario degli
Stati Uniti.
Nonostante queste stranezze, le canzoni parlavano della quotidianità e i
testi si potevano capire senza difficoltà. Molti brani parlavano di amori
finiti male. In Sugar Baby il cantante montanaro «Dock» Boggs aveva la voce
di uno che sta sprofondando all'inferno, mentre grugniva chiedendosi che
fare di suo figlio ora che la sua «dolce bambina» se n'era andata. Forse la
sua dolce bambina l'aveva lasciato; o forse era stato lui a ucciderla. E
sembrava che Dock stesse pensando se far fare la stessa fine anche a suo
figlio. Altre canzoni parlavano di eventi catastrofici: incidenti
ferroviari, tragedie minerarie, l'affondamento del Titanic. Alcune
testimoniavano i mutamenti del tessuto sociale americano. Peg and Awl
raccontava la fine della produzione delle scarpe fatte a mano dopo la
nascita della grande industria calzaturiera. La Anthology di Smith è una
delle raccolte più importanti della musica americana, una testimonianza di
storia sociale e, oltretutto, un'opera poetica. «Era un tesoro di musica
folk, quel disco» ha dichiarato Bob. «...è poesia, ognuna di quelle
canzoni». Il linguaggio era diverso da quello delle canzoni di successo. Era
originale e fantasioso, con frasi e immagini prese dalla Bibbia oppure
suggerite dall'esperienza diretta, e carico dello spirito folklorico di
terre quasi sconosciute.
Al ritorno, Jon Pankake scoprì il furto perpetrato ai danni della sua
collezione. «A quell'epoca spesso si lasciava la porta aperta» spiega lui.
«Non avevo mai perso niente e non ero mai stato vittima di un crimine. Era
la prima volta». Ben presto capì che era stato Bob a prendere i dischi. A
notte fonda, accompagnato da due amici, lo affrontò. «Negava tutto» racconta
Pankake. «L'ho messo con le spalle al muro e gli ho detto che sapevo con
certezza che era stato lui». Pankake gli sferrò un pugno e Bob confessò. Gli
restituì all'istante alcuni dei dischi e gli disse che gli avrebbe riportato
gli altri il mattino seguente. Ripensando a questo squallido incidente,
Pankake non crede che Bob abbia rubato i dischi per rivenderli, anche se
valevano circa un centinaio di dollari. Bob, probabilmente, non lo
considerava neanche un furto. Lo stesso Pankake riconosce che Bob era
«assetato di musica»: semplicemente, aveva saltato la formalità di chiedere
il permesso. Non sarebbe stata l'ultima volta che Bob prendeva qualcosa
senza chiedere.
È stato uno dei primi in Italia a scrivere un
libro su Bob Dylan, ha pubblicato libri e articoli di critica letteraria,
conquistato premi per la poesia e la letteratura, firmato un album di
canzoni intitolato «Le cartoline». Alessandro Carrera , 57enne di Lodi , il
19 gennaio riceverà il Fanfullino d' oro 2012, riconoscimento assegnato ogni
anno dalla Familia Ludesana. Dopo la modella «internazionale» Bianca Balti,
lo scrittore «amerikano»: Carrera vive infatti negli Stati Uniti e insegna
all' università di Houston.
Duluth è una città del Nord del Minnesota. È costruita su una scogliera
sulla riva occidentale del Lago Superiore e vive del commercio di minerale
di ferro. Qui nacque Robert Allen Zimmerman, in arte Bob Dylan, nel maggio
del 1941. In un articolo del 1998 Elvis Costello scrisse: «... che cosa ci
fa Robert Zimmerman a Duluth? Già questa è una storia: la sua famiglia
dev’essere arrivata lì provenendo da qualche altra parte. Già questo spiega
la storia della musica
folk».
Il padre di Bob, Abe Zimmerman, era figlio di Zigman e Anna Zimmerman,
immigrati ebrei dell’Europa dell’Est.
La madre, Beatrice Stone, detta Beatty, con l’accento sull’ultima sillaba,
veniva da una nota famiglia ebrea
di Hibbing, una città della Iron Range.
Nel 1941 Abe era stato promosso a un ruolo dirigenziale alla Standard Oil;
così lui e Beatty avevano abbastanza soldi da permettersi un appartamento.
Beatty era incinta quando si trasferirono al 519 North della 3rd Avenue
East, una
casetta bifamiliare di assicelle con un tetto spiovente e una veranda in
cima a una collina che sovrastava Duluth. Avevano affittato l’appartamento
con due camere da letto al secondo piano. Alle nove e cinque della sera del
24 maggio 1941, Beatty diede alla luce un figlio maschio, nel vicino St.
Mary’s Hospital. Pesava tre chili e duecento grammi. Quattro giorni dopo,
quando il bambino venne registrato e circonciso, gli fu dato il nome. In
effetti ne
ricevette due. In ebraico si chiamava Shabtai Zisel ben Avraham. Al secolo
sarebbe stato Robert Allen Zimmerman. Robert era all’epoca il nome più
diffuso tra i ragazzi. Quasi subito venne chiamato Bob o Bobby. Sua madre
diceva che era così bello che sarebbe potuto essere una bambina.
Il quartiere di Central Hillside a Duluth era in prevalenza abitato da ebrei
e polacchi. C’erano una sinagoga in fondo alla strada, un general store, un
fornaio europeo, il negozio di liquori Loiselle e un Sears Roebuck ai piedi
della collina. Il tempo dipendeva dal Lago Superiore, così ampio e profondo
da rimanere freddissimo per tutto l’anno. Anche nel bel
mezzo dell’estate Duluth poteva essere avvolta da una nebbia fredda. C’era
il fresco odore dell’oceano e si
sentivano stridere i gabbiani. Quando le navi si avvicinavano
all’inconfondibile Ariel Bridge suonavano
la sirena e dal ponte rispondeva loro un’altra sirena.
Sono questi i paesaggi e i suoni che accompagnarono l’infanzia di Bob,
mentre la Seconda guerra mondiale si avviava, violenta, al termine. Nel
1946, un anno dopo la fine della guerra, Bob si iscrisse alle scuole
elementari di Nettleton, a due isolati da casa. Lo stesso anno debuttò come
cantante a una festa in famiglia. I bambini erano incoraggiati a esibirsi
per intrattenere gli adulti. Quando venne il suo turno, Bob, che aveva
cinque anni, si mise a battere il piede per terra per richiamare
l’attenzione. «Se faranno tutti silenzio - disse -, canterò una canzone per
la
mia nonna. Canto Some Sunday Morning ». Ebbe un tale successo che il
pubblico chiese un bis. Bob li accontentò con Accentuate the Positive .
Erano canzoni che andavano di moda alla radio, all’epoca. «Non la smettevano
di telefonarmi per congratularsi con me», ha raccontato Beatty, orgogliosa.
Poco tempo dopo, Bob ebbe una seconda opportunità di esibirsi, al matrimonio
della sorella di Beatty, Irene. I parenti volevano che Bob cantasse ancora,
ma il ragazzo era riluttante. Uno zio gli offrì dei soldi, ma solo Abe
riuscì a persuaderlo. Di nuovo introdusse la canzone dicendo ai parenti su
di giri: «Canterò se c’è silenzio». Fu un grande successo anche la seconda
volta. Tutti applaudivano ed esultavano, e uno degli zii di Bob gli mise in
mano dei soldi. Con un istintivo senso dello spettacolo, Bob si girò verso
sua madre e disse: «Mamma, restituisco i soldi». Fece
impazzire i presenti. «La gente rideva di gioia nell’ascoltarlo. Direi che
era un bambino amabile, un bambino molto insolito - ricordava Abe -. Credo
fossimo noi gli ultimi a immaginare che sarebbe diventato famoso prima o
poi... Quando aveva cantato Accentuate the Positive nel modo in cui i
bambini della sua età cantavano Mary Had a Little Lamb dicevano che era
bravissimo». Ed era incredibile (ad ammetterlo è la stessa Beatty) quanto
poco suo figlio
fosse viziato, nonostante tutte le attenzioni.
Il primo bacio a ritmo
di boogie
Il suo primo gruppo a Hibbing iniziò come una specie di gioco con dei
ragazzi che conosceva sin da quando era bambino. Come i genitori di Bob
avevano incoraggiato i loro figli a suonare strumenti musicali, così avevano
fatto anche altri genitori.
Con il crescere della loro passione per la musica Bob e John Bucklen
passavano sempre più tempo in un negozio di musica nella 1st Avenue, gestito
da un uomo di origine finlandese di nome Hautala, che - così sembrava ai
ragazzi - aveva sempre in bocca gli ultimi cinque centimetri di un sigaro.
Hautala, in un inglese stentato, mostrava con pazienza ai ragazzi i
cataloghi di chitarre che poteva ordinare. Bob, che aveva da poco usato i
suoi risparmi per comprare una chitarra elettrica da quattro soldi al Sears
Roebuck, tenendola nascosta ai suoi genitori finché non avesse finito di
pagarla, si innamorò di una Supro elettrica solid-body con una sfumatura
dorata. (...)
Echo Star Helstrom, la prima ragazza importante di Bob, era un'adolescente
di Hibbing poco inserita. Era la figlia più piccola di Matt e Martha
Helstrom, i cui genitori venivano dalla Finlandia. In città li chiamavano i
«finlandiani». Echo Star aveva ricevuto questo nome poetico perché era nata
molti anni dopo l'ultimo dei suoi fratelli - «mia madre diceva che ero come
una piccola eco» - e perché il ghiaccio aveva fatto un disegno a forma di
stella sulla finestra
dell'ospedale il giorno della sua nascita. Era una ragazza con capelli
biondo platino, molto bella, ed era un'esclusa fin da piccola anche perché
gli Helstrom vivevano in mezzo ai boschi. Erano solo a cinque chilometri
dalla città, una piacevole passeggiata, d'estate; ma abbastanza distanti
perché Echo si considerasse una campagnola e ritenesse le
ragazze di Hibbing «gente di città». Si dava un look da ribelle e portava
giacca di pelle e jeans, in un periodo in cui molte ragazze indossavano
gonnelline di feltro con i barboncini ricamati sopra. Come dice l'amico di
Bob, Luke Davich: «Era il suo aspetto a essere davvero selvaggio». Echo
aveva forse un aspetto selvaggio, ma era una persona piena di calore umano,
sensibile e allegra, che non condivideva l'entusiasmo generale per Gioventù
bruciata perché lo trovava
«deprimente» e non c'era bisogno di vivere «con tanta rabbia».
Nel fine settimana Echo faceva un giro in città insieme alla sua amica Dee
Dee Lockhart. Una sera che nevicava, nel 1957, mentre Echo e Dee Dee
attraversavano Howard Street dirette all'L&B Cafe, videro Bob all'angolo
della strada che suonava la chitarra e cantava. Echo pensava che Bob, con il
quale ricordava vagamente di aver parlato una volta, fosse «un tipo strano».
Non aveva l'aria di chi suona per soldi visto che non aveva una ciotola per
gli spiccioli e nessuno si fermava ad ascoltarlo. Suonava per il puro
piacere di farlo e cantava da solo sotto la neve. A lei parve una cosa
assolutamente bizzarra.
Le ragazze si sedettero in un séparé ed Echo ordinò uno dei suoi drink
speciali alla Coca-Cola: un misto di cioccolato e arancia o cioccolato e
ciliegia «tanto per cambiare».
Benché Echo ritenesse Bob un tipo strano, si misero a chiacchierare e venne
fuori che lei era un'altra appassionata del programma radiofonico No-Name
Jive e che amava il blues. A volte ascoltava la radio tutta la notte,
soprattutto d'estate quando il segnale era più forte e la ricezione
migliore. Il fatto che a Echo piacesse il blues la avvicinò subito ai
ragazzi. «I miei amici non capivano quanto amassimo quel tipo di musica»,
racconta lei. Quella sera Bob voleva suonare il piano, perciò andarono lì
accanto, al Moose Lodge.
Echo forzò la serratura con il suo temperino e Bob le suonò il
boogie-woogie. «Era bravo!», dice Echo.
«Sapeva suonare il piano come un vecchio bluesman». Si scambiarono i numeri
di telefono e si misero d'accordo
per vedersi il giorno dopo. Bob voleva che andasse a casa sua a sentire i
suoi dischi.
Per un mese Echo, Bob e John Bucklen passarono il tempo insieme. Echo era
abituata ad aver degli amici maschi e parlava di Bob e Bucklen come dei suoi
amici «della musica». Ma una sera, mentre erano a casa di Bucklen e
parlavano di film, Bob baciò Echo, lasciandola di stucco. «Ero completamente
sbalordita: pensavo fossimo solo amici. Non avrei mai immaginato che fosse
interessato a me come ragazza». John Bucklen fu costretto ad andarsene e
loro due passarono il resto della serata a pomiciare.
Venerdi 2 Dicembre
2011
Bob Dylan Album Cover
Locations in New York City
clicca qui
di Bert Cartwright - (traduzione di Michele Murino)
Norman Raeben è stato uno dei personaggi più influenti nella vita di Bob
Dylan. Fu Norman Raeben, ebbe a dichiarare Dylan, che - alla metà degli anni
'70 - fu capace di rinnovare la sua abilità nel comporre canzoni. Dylan fece
capire anche che l'insegnamento e l'influenza ricevuti da Norman alterarono
in maniera così profonda la sua visione della vita che sua moglie Sara non
riuscì più a comprenderlo, e questo fu uno dei fattori che contribuirono
alla dissoluzione del matrimonio di Dylan. E' alquanto strano che, data
l'importanza dell'influenza di Norman Raeben su Bob Dylan, egli non viene
mai menzionato nelle biografie pubblicate negli anni '80.
Dylan parlò per la prima volta di Raeben nel corso di alcune interviste che
egli rilasciò nel 1978 per promuovere il suo film, Renaldo & Clara, sebbene
per un certo periodo di tempo egli non volle identificare in maniera
specifica quell'uomo. "Non c'è nessuno come lui", raccontò Dylan a Pete
Oppel, giornalista del Dallas Morning News.
"Preferisco non dire il suo nome. E' davvero una persona speciale, e non
voglio creargli problemi".
"Era solo un vecchio" - disse Dylan a Ron Rosenbaum di Playboy - "Il suo
nome non significherebbe niente per te".
L'interesse di Dylan nei confronti di Norman iniziò in un certo giorno del
1974, quando alcuni amici di Sara arrivarono a casa loro per una visita:
"Parlavano di verità, di amore e di bellezza e di tutte quelle parole che
avevo sentito per anni, e riuscirono a definirle tutte quante al punto che
io non riuscivo a crederci... Chiesi loro "Dove avete trovato queste
definizioni?" e loro mi risposero raccontandomi del loro maestro".
Sufficientemente impressionato, Dylan cercò di mettersi in contatto con
l'insegnante la volta successiva che si trovò New York. Era la primavera del
1974 quando Dylan fece capolino con la sua testa dietro la porta di Norman:
"Norman mi disse "Vuoi dipingere?" e allora io risposi "Beh, sai, pensavo a
qualcosa del genere". Norman mi disse "Bene, non so nemmeno se meriti di
essere qui. Fammi vedere quello che sei in grado di fare". Così mi mise
davanti questo vaso e mi disse: "Vedi questo vaso?". E me lo lasciò davanti
per circa 30 secondi e poi lo fece sparire e mi disse "Disegnalo". Beh,
voglio dire, iniziai a disegnarlo ma non ero in grado di ricordare un cazzo
di quel vaso. Lo avevo osservato ma non lo avevo visto. Poi Norman diede un
occhiata a quello che avevo disegnato e disse "OK, puoi restare". E mi disse
di fare tredici quadri... Beh, io non ero andato lì per dipingere, ero
andato lì solo per vedere che succedeva. Andò a finire che rimasi lì per due
mesi. Quel tizio era straordinario..."
Quando Dylan ripensò a quello che era successo durante quei due mesi arrivò
alla conclusione che era stato trasformato al punto che per sua moglie era
diventato uno sconosciuto: "Quella cosa mi cambiò completamente. Andavo a
casa e mia moglie non riusciva a capirmi. Non riuscì a capirmi dopo di
allora. Fu in quel momento che il nostro matrimonio cominciò ad andare a
rotoli. Sara non sapeva mai di cosa stessi parlando, o cosa stessi pensando.
Nè io ero in grado di spiegarglielo".
Dylan parlò di Norman a Pete Oppel, descrivendo con parole più che casuali
quale fosse la tecnica di insegnamento che Norman utilizzava nel suo studio
all'undicesimo piano della Carnegie Hall: "Cinque giorni alla settimana
andavo nel suo studio, e nei rimanenti due giorni della settimana non facevo
che pensare a quando ci sarei andato. In genere rimanevo lì dalle otto alle
quattro. Ho fatto questo per due mesi..."
"In quella classe c'erano persone come vecchie signore, ricche vecchie
signore che venivano dalla Florida, che sedevano vicine ad un poliziotto
fuori servizio, che sedeva vicino ad un autista di autobus, che sedeva
vicino ad un avvocato... Tutti i generi di persone. Uno studente di arte che
era stato cacciato da ogni università. Giovani ragazze che lo adoravano. Un
paio di tipi seri che venivano lì e pulivano dopo le lezioni, pulivano solo
il posto. Un sacco di differenti tipi di persone che tu non avresti mai
pensato fossero interessate alla pittura. Ed infatti non si trattava di
pittura, era qualcos'altro..."
"Norman parlava in continuazione, dalle otto e trenta alle quattro, e
parlava sette lingue. Mi diceva cose a proposito di me stesso mentre io
stavo facendo qualcosa, disegnando qualcosa. Io non ero in grado di
dipingere. Pensavo di esserne in grado. Ma non sapevo disegnare".
Sembra, allora, che Norman fosse interessato più alla metafisica che alla
tecnica. Il suo metodo di insegnamento aveva a che fare con le realtà
estreme che potevano essere espresse in una varietà di modi. Non è certo che
Norman fece di Dylan un pittore più bravo ma chiaramente lo cambiò: "Avevo
incontrato diversi maghi, ma questo tipo è più potente di qualsiasi mago che
io abbia mai incontrato. Ti guardava e ti diceva quel che tu eri. E non
giocava al riguardo. Se tu eri interessato a venirne a capo, potevi stare lì
e sforzarti di venirne a capo. Facevi il lavoro tutto da solo. Lui era solo
una specie di guida, o qualcosa del genere..."
Fu solo un po' di tempo dopo che riuscii finalmente ad identificare il
misterioso uomo che Dylan chiamava Norman, come Norman Raeben, nato in
Russia nel 1901, che era venuto in vacanza negli U.S.A con la propria
famiglia quando aveva tre anni e a 14 anni vi si era trasferito
permanentemente. Il padre di Norman era il famoso scrittore Yiddish, Sholem
Aleichem (1859-1916), un uomo oggi meglio conosciuto per aver creato il
personaggio di Tvye, la cui vita romanzata venne adattata per il musical "Il
violinista sul tetto". Il cambiamento più notevole che derivò dai mesi che
Dylan passò nello studio di Norman Raeben riguardava la maniera in cui
componeva i testi delle sue canzoni.
Dylan disse a Jonathan Cott di Rolling Stone che, dopo il suo incidente
motociclistico del 29 luglio 1968, scoprì di non essere più in grado di
comporre liberamente come aveva fatto fino a quel momento: "Da quel momento
in poi ebbi una sorta di amnesia. Ora puoi prendere questa dichiarazione
letteralmente o metafisicamente come meglio credi ma questo fu quello che mi
successe. Mi ci volle un sacco di tempo prima che riuscissi di nuovo a fare
in maniera consapevole quello che prima facevo in maniera inconsapevole".
Dylan ripetè il concetto a Malt Damsker: "E' come se fossi stato colto da
amnesia all'improvviso... Non ero in grado di imparare a fare quello che ero
sempre stato capace di fare in maniera naturale, cose come Highway 61
Revisited. Voglio dire, non puoi sederti e scrivere quelle cose in maniera
consapevole perchè è qualcosa che ha a che fare con la sospensione del
tempo..."
Nel corso di un'intervista con Jonathan Cott, Dylan descrive i suoi album
John Wesley Harding e Nashville Skyline come delle prove: "...per afferrare
qualcosa che mi conducesse laddove pensavo che avrei dovuto essere... ma non
mi portò da nessuna parte. Ero convinto che non avrei più fatto niente
altro..."
Fu con questa sensazione di quasi disperazione per non riuscire più a
comporre come faceva un tempo che Dylan ebbe la "buona sorte" di incontrare
Norman, "che mi insegnò come riuscire a vedere": "Mise insieme la mia mente,
la mia mano ed il mio occhio, in una maniera tale da permettermi di fare in
maniera consapevole quello che sentivo in maniera inconscia".
Il tempo trascorso insieme a Norman aiutò la psiche di Dylan tanto da
ridirigerla in maniera sufficiente a fargli scrivere alcune nuove canzoni,
le canzoni che furono poi incluse in quello che è ancora oggi il suo album
più celebrato, Blood On The Tracks: "Tutti furono concordi nel dire che quel
mio album era un qualcosa di davvero diverso dal solito, e quel che era
diverso era il fatto che esisteva un codice nei testi, ed anche che non
esisteva il senso del tempo..."
Dylan fece ulteriori tentativi per spiegare il concetto di "assenza di
tempo" nelle sue nuove canzoni in una conversazione con Matt Damsker: "Con
Blood On The Tracks feci in maniera consapevole quel che in genere facevo
inconsciamente. Non lo eseguii bene. Non avevo la capacità di eseguirlo
correttamente. Ma avevo scritto le canzoni... quelle che avevano quella
frammentazione del tempo, in cui il tempo non esisteva, nel tentativo di
rendere il centro della narrazione come una magnifica lente sotto il sole.
Fare questa cosa in maniera consapevole è un trucco che io ho utilizzato per
la prima volta con Blood On The Tracks. Sapevo come fare perchè avevo
imparato la tecnica... In realtà avevo un insegnante per quello..."
Nel libretto allegato a Biograph un commento di Cameron Crowe a proposito di
Blood On The Tracks sembra essere il risultato di un'osservazione non
accreditata dello stesso Dylan: "Ispirato a detta della stampa e della gente
dalla rottura del suo matrimonio con Sara, l'album deriva molto del proprio
stile dall'interesse di Dylan per la pittura. Le canzoni affondano in
profondità ed il loro senso della prospettiva e della realtà è in continuo
mutamento".
"I continui mutamenti" sono il risultato del senso di assenza del tempo che
caratterizza il disco. Parlando con la sua amica Mary Travers (di Peter,
Paul and Mary) il 26 aprile del 1975, Dylan fece un commento a proposito del
concetto di tempo, spiegando che egli aveva cercato non solo di fare in modo
che "il passato, il presente ed il futuro esistessero tutti", ma anche che
"fossero tutti presenti nello stesso momento", qualcosa che egli aveva
appreso da Norman.
"Tu hai ieri, oggi e domani tutti nello stesso spazio e c'è molto poco che
non puoi immaginarti succeda".
L'affermazione rilasciata da Dylan a Matt Damsker secondo la quale non aveva
eseguito le canzoni di Blood On The Tracks particolarmente bene può essere
sorprendente ma, proseguì Dylan, "esse potevano essere modificate...".
Infatti, Dylan ha continuamente rielaborato quelle canzoni, cambiando i
testi più volte come ad esempio in brani come "Simple Twist Of Fate" e
"Tangled Up In Blue". Dylan lega insieme l'idea di tempo e di cambiamento
all'idea di canzone-come-un-quadro con specifico riferimento a "Tangled Up
In Blue" nelle note di Biograph, dove dice a proposito della canzone: "Stavo
solo cercando di scriverla come fosse un quadro in cui tu puoi vedere le
diverse singole parti ma puoi anche vedere il totale del dipinto. Con quella
canzone in particolare era quello che stavo cercando di fare... con il
concetto di tempo, ed il modo in cui i personaggi cambiano dalla prima
persona alla terza persona, e non sei mai sicuro del tutto se stia parlando
la terza o la prima. Ma quando getti uno sguardo d'insieme al totale non ha
molta importanza".
Il dissolvimento dei personaggi e del tempo nelle canzoni dell'album Blood
On The Tracks fu un traguardo notevole; Dylan cercò di applicare la stessa
tecnica al suo film Renaldo & Clara. Parlando dell'influenza del pensiero di
Norman Raeben, Dylan richiamò l'attenzione di Jonathan Cott su Renaldo &
Clara: "...anche in quel film ho utilizzato quella caratteristica
dell'assenza di tempo. E credo che quel concetto di creazione sia più reale
e vero di quella che invece possiede il senso del tempo... Il film crea e
contiene il tempo. Ecco quel che dovrebbe fare, dovrebbe contenere il tempo,
respirare in quel tempo e fermare il tempo nel farlo. E' come quando osservi
un quadro di Cézanne, ti perdi in quel dipinto per un certo periodo di
tempo. E nel frattempo respiri, il tempo passa ma tu non te ne accorgi. Sei
come sotto l'influsso di una magia".
Non c'è da stupirsi, dunque, se Dylan fu molto scocciato da coloro che
criticavano il film per la sua eccessiva durata e forse non è inappropriato
menzionare una sua dichiarazione di fastidio più recente rivolta a coloro i
quali tentavano di etichettare una delle canzoni senza tempo e senza
personaggi di Blood On The Tracks: "'You’re A Big Girl Now', beh, ho letto
che questa canzone parlerebbe di mia moglie. Vorrei che la gente mi
chiedesse il permesso prima di uscirsene con cose del genere".
Dylan un tempo era in grado di creare canzoni in cui era assente il concetto
di tempo e che avevano le caratteristiche di un dipinto. Molte volte egli
fece dei paralleli tra la canzone e la pittura, come per esempio nella
presentazione del brano "Love Minus Zero/No Limit" nei concerti del 1965
durante i quali introduceva la canzone definendola un "dipinto castano e
argento" o ancora un "dipinto porpora", ma solo dopo aver studiato con
Norman Raeben egli fu in grado di ricatturare la sua apparentemente perduta
capacità di scrivere canzoni simili, ora con la notevole differenza di una
composizione consapevole. E se Blood On The Tracks fu il primo tentativo di
tradurre in canzone quello che Dylan aveva appreso da Norman, fu
Street-Legal a rappresentare il culmine di questa tecnica di
tempo/non-tempo. Così Dylan dichiarò a Matt Damsker: "Mai fino a Blood On
The Tracks ero riuscito ad ottenere quello che volevo ottenere, ed una volta
che ci riuscii, questo non avvenne nè con Blood On The Tracks nè con Desire.
Fu con Street-Legal che giunsi più vicino a quello che volevo esprimere con
la mia musica. E' qualcosa che ha a che fare con un'illusione di tempo.
Voglio dire che le canzoni sono necessariamente caratterizzate da una
illusione di tempo. E' stato un vecchio che mi insegnò tutto ciò ed io
cercai di imparare tutto quello che potevo..."
Bert Cartwright
Giovedi 1 Dicembre
2011
Bob Dylan e Mark Knopfler, 11 novembre
2011 - Firenze
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