MAGGIE'S FARM

SITO ITALIANO DI BOB DYLAN

Dylan - Interviste dal 1961 al 2007

PARTE QUINTA

Una candida conversazione
Ron Rosembaum:Playboy Interview Bob Dylan. A Candid Conversation Playboy vol. 25, n. 3, mar.1978


PLAYBOY: Esattamente 12 anni fa abbiamo pubblicato una lunga intervista con te proprio su
questo giornale. Ci sarebbero ancora molte cose da approfondire ma possiamo anche tentare di
ricominciare da capo. Oltre a essere un cantante, un poeta e ora anche un regista, sei stato
spesso definito un visionario. Ricordi qualche esperienza visionaria di quando eri piccolo?
DYLAN: Ho visto cose stupefacenti quando ero bambino, poi basta. Quelle visioni sono state così
forti che continuano a coinvolgermi ancora oggi.

 

PLAYBOY: Cosa accadeva durante queste visioni?

DYLAN: Producevano uno stato di meraviglia. Proiettavo me stesso verso ciò che avrei potuto fare,
personalmente, umanamente, verso la creazione di ogni tipo di realtà. Sono nato e cresciuto in un
posto così strano che bisogna esserci stati per poterlo immaginare.

PLAYBOY: Stai parlando di Hibbing, nel Minnesota.

DYLAN: Nel nord del Minnesota.

PLAYBOY: Che tipo di esperienze visionarie hai avuto?

DYLAN: D'inverno c'era solo silenzio, tutto era immobile. Otto mesi così. Puoi immaginarlo. Per
avere una straordinaria esperienza allucinogena, bastava guardare fuori dalla finestra. D'estate tutto si
faceva
caldo e appiccicoso, l'aria diventava metallica. Ovunque si sentiva lo spirito indiano. In quella zona
la
terra è particolare, è piena di metallo. Là accade qualcosa che è difficile definire. Forse, migliaia di
anni
fa, su quelle terre è caduto un pianeta. Una speciale qualità spirituale attraversa il Midwest:
qualcosa di
molto sottile e potente. lo sono cresciuto là. New York era un sogno.

PLAYBOY: Perche hai lasciato il Minnesota?

DYLAN: C'è una fine per tutte le cose.

PLAYBOY: Perche sognavi New York?

DYLAN: Sognavo una ricchezza intellettuale cosmopolita.

PLAYBOY: E a New York l'hai trovata?

DYLAN: Era un posto importante, il luogo dove imparare e incontrare altri che si muovevano come me.

PLAYBOY: Gente come Allen Ginsberg, per esempio?

DYLAN: Non esattamente. Lui era già sistemato quando io sono arrivato. Ma sono stati Ginsberg e
Jack Kerouac i primi ad ispirarmi. A quei tempi non c'erano i sofisticati mezzi di trasporto attuali.
A
New York dovevi arrivarci facendo l'autostop. Comunque, erano i tempi in cui John Denver faceva
la
spalla. Molta gente famosa ha iniziato proprio in quel periodo. Attori, ballerini, politici, molta
gente
incominciava in quel periodo.

PLAYBOY: Di che periodo parli?

DYLAN: Dei primi anni Sessanta.

PLAYBOY: Cosa ha reso così speciale quel momento?

DYLAN: Penso fosse l'ultima occasione per essere attratti da New York. La gente è andata a New
York fin dal 1800, penso. Per me era assolutamente fantastico. Voglio dire, era come... c'era un
caffè
-come si chiamava? -mi sono dimenticato il nome ma era la vecchia scuderia di Aaron Burr. Sai,
solo
essere in quella zona, in quella parte del mondo, ti illuminava.

PLAYBOY: Perche dici che era l'ultima occasione?

DYLAN: Non credo che possa ripetersi. Penso che sia tutto finito. New York è morta dopo questo
periodo, dopo la metà degli anni Sessanta.

PLAYBOY: Chi l'ha uccisa?

DYLAN: La comunicazione di massa ha trasformato New York in un grande spettacolo di
carnevale.
È quello che ho sentito e me ne sono andato proprio quando stava per iniziare. L 'atmosfera si era
trasformata: alla creatività e all'isolamento era subentrata un' attenzione sempre più rivolta verso lo
spettacolo. La gente leggeva troppo sulle proprie imprese e ci credeva. Non so quando è accaduto.
Forse quanto Peter, Paul e Mary sono diventati molto famosi. È successo in quel periodo. Per molto
tempo sono stato famoso solo in alcuni ambienti di New York, Philadelphia e Boston, e mi andava
bene
così. Sono un testimone oculare di quel periodo. Uno dei sopravvissuti. Sai anche tu che molta
gente
non ce l'ha fatta. O, comunque, non sono vissuti abbastanza per parlarne.

PLAYBOY: Secondo te perche non sono sopravvissuti?

DYLAN: In quel periodo la gente oscillava troppo tra illusioni e delusioni. I tempi cambiarono
veramente ma loro non cambiarono. C'erano diversi tipi di persone e c'erano cose che allora non
ebbero sviluppo e che sono completamente sviluppate ora. Eppure in quella situazione c'era spazio,
spazio, senza alcuna urgenza. C'era tutto il tempo del mondo per fare qualcosa. Non c'era ansia,
non
c'era tensione, nessuno la conosceva. Intendo dire che i musicisti erano come un gruppo di
raccoglitori
di cotone. Ti vedevano dal bordo della strada mentre raccoglievi cotone, ma nessuno si fermava a
seccarti. Non era importante. Così Washington Square era diventato il posto dove la gente che
conoscevi si riuniva tutte le domeniche ed era un mondo fatto di musica. Sai com'è New York.
Potrebbero esserci 20 situazioni diverse nella stessa cucina o nello stesso parco; potrebbero esserci
200
gruppi che suonano in un parco di New York: 15 jug bands, cinque gruppi di bluegrass e un
vecchio
gruppo acustico scadente, 20 gruppi di confederati irlandesi, una banda delle montagne del sud,
cantanti
folk di tutti i tipi e i colori che cantano le canzoni di lavoro di John Henry. C'erano altissime pile di
corpi
ammucchiati che facevano tutto quello che volevano. Suonatori di bongo, di conga, sassofonisti,
suona
tori di xilofono, batteristi di ogni tipo e nazionalità. Poeti che declamavano e deliravano aggrappati
alle
statue. Queste cose non succedono più. Ma allora sì. Accadeva tutto in strada. I caffè restavano
aperti
tutta la notte. Quella dimensione europea non ebbe un vero sviluppo, non hai mai fatto davvero
parte di
questo Paese. Era così New York quando ci sono arrivato io.


PLAYBOY: E tu pensi che la comunicazione di massa, come quando il Time ha messo in
copertina una foto di Joan Baez...

DYLAN: La comunicazione di massa ha ucciso tutto. L'eccesso di semplificazione. Non so che
progetto ci fosse dietro tutto questo. Comunque, ben presto la gente se n'è andata.

PLAYBOY: Torniamo all'intervista, cosa ti ha fatto diventare un folk singer? In realtà tu hai
iniziato in Minnesota suonando la chitarra elettrica con un gruppo rock, non è così?

DYLAN: Si. La mia passione per il folk è nata quando ho ascoltato Odetta. Ho sentito un suo disco
in
un negozio, quando ancora i dischi si ascoltavano lì, nel negozio. Era il 1958, più o meno. Proprio
allora
sono uscito e ho venduto la mia chitarra elettrica e l'amplificatore per comprare una chitarra
acustica,
una Gibson.

PLAYBOY: Che cosa ti ha colpito in quel disco di Odetta?

DYLAN: Il senso di qualcosa molto vivo e personale. Ho imparato tutte le canzoni di quel disco.
Era il
suo primo album, le canzoni erano Mule Skinner, Jack of Diamonds, Water Boy, Buked and
Scorned.

PLAYBOY: Quando hai imparato a suonare la chitarra?

DYLAN: Avevo messo da parte i soldi guadagnati lavorando per mio padre e mi sono comprato
una
Silverstone da Sears & Roebuck. Avevo 12 anni. Ho comprato un manuale con gli accordi e ho
iniziato
a suonare.

PLAYBOY: Qual è stata la prima canzone che hai scritto?

DYLAN: Una canzone per Brigitte Bardot.

PLAYBOY: Ricordi come è andata?

DYLAN: Non ricordo molto. Era composta da un solo accordo. Be', era tutta nel cuore. Comunque,
da
Odetta sono passato ad Harry Belafonte, al Kingston Trio, scoprendo le cose a poco a poco mentre
procedevo. Infine non facevo altro che canzoni di Carter Family e Jesse Fuller. Più tardi sono
arrivato
a Woody Guthrie, che in quel periodo mi ha rivelato un mondo completamente nuovo. Avevo solo
19 o
20 anni.
Ero preso da una grande frenesia per quello che volevo fare. Così, dopo aver imparato quasi 200
canzoni di Woody, sono andato da lui e ho atteso il momento giusto per incontrarlo, in un ospedale
di
Morristown, nel New lersey. Ho preso un bus da New York, mi sono seduto vicino a lui e ho
cantato le
sue canzoni. Sono tornato a trovarlo molte volte e siamo diventati amici. Da allora in poi la
situazione si
è fatta un po' vaga.

PLAYBOY: Il folk era considerato molto strano, come genere, in quel periodo, non è vero?

DYLAN: Proprio così. Sing Out era la sola rivista che parlasse dei cantanti folk, che venivano
considerati persone speciali, da tenere a una certa distanza.

PLAYBOY: Cioè?

DYLAN: I cantanti folk erano persone che osservavi e da cui imparavi ma che non avresti mai
osato
avvicinare. Io, perlomeno, non osavo. Ricordo che ero troppo timido. Ho avuto bisogno di molto
tempo
per rendermi conto che la gente di New York non era così diversa dai musicisti che avevo visto
nella
mia città. Erano proprio lì, dietro l'angolo, gente come gli Stanley Brothers, che suonavano lì per
qualche sera. Se avessi saputo allora quel che so oggi, probabilmente sarei venuto via quando
avevo 12
anni per seguire Bill Monroe. Sarei arrivato allo stesso punto.

PLAYBOY: Saresti arrivato più in fretta?

DYLAN: Probabilmente avrei perso meno tempo ed evitato molte seccature.

PLAYBOY: Questa domanda rientra proprio nella categoria "intervista": nel periodo in cui sei
arrivato a New York hai cambiato il tuo nome da Robert Zimmerman in Bob Dylan. Fu a causa
di Dylan Thomas?

DYLAN: No. Non avevo letto molto di Dylan Thomas. È una cosa comune cambiare nome. Non è
così incredibile. Molta gente lo fa. La gente cambia città, cambia paese. Cerca un nuovo aspetto,
nuove maniere. C'è chi ha molti nomi. Non avrei scelto un nome se non pensavo di essere quella
persona. A volte sei trattenuto dal tuo nome. A volte avere un certo nome presenta dei vantaggi. I
nomi sono etichette che si possono scambiare. Ma dentro di noi non abbiamo un nome. Non
abbiamo
nome. Ho solo scelto quel nome e mi si è attaccato.

PLAYBOY: Sai che cosa significa Zimmerman in tedesco?

DYLAN: I miei antenati erano russi. Non so come hanno fatto ad avere un nome tedesco venendo
dalla Russia. Forse si sono dati questo nome sbarcando o qualcosa del genere. Se dai troppa
importanza al nome di qualcuno sei costretto a dare molta importanza a ogni minuzia. Ma per
tornare a
Dylan Thomas, io non sono stato ispirato dalla lettura di qualche sua poesia e subito " Ah!", ho
cambiato il mio cognome in Dylan. Non è andata così. Se avessi pensato che lui era tanto grande,
avrei
cantato le sue poesie e avrei facilmente cambiato il mio cognome in Thomas.

PLAYBOY:Bob Thomas? Avresti fatto un errore.

DYLAN: Bene, quel nome mi ha cambiato. Ma non mi metto a pensarci più tanto. Era così che mi
sentivo di essere.

PLAYBOY: Rifiuti l'idea di essere stato I'enfant terrible di quel periodo, rifiuti la follia di tutto
quello che è stato raccontato?

DYLAN: No, è vero. Era così. Ma... non posso rimanere sempre nello stesso posto.

PLAYBOY: Pensi che l'incidente di motocicletta che hai avuto nel 1966 sia la causa del periodo
di tregua e di relax che è seguito?

DYLAN: Stai di nuovo saltando avanti, in un altro periodo... Che cosa facevo? Non lo so. Era
giunto il
tempo. E accaduto quando ho avuto quell'incidente in motocicletta. Ero tesissimo e non potevo
continuare per molto tempo a vivere in quel modo. Che tutto sia accaduto in questo modo ha
qualcosa
di veramente miracoloso. Ma a volte ti avvicini troppo a qualcosa e devi allontanartene per essere
capace di vederla. Qualcosa del genere mi è successo in quel periodo.

PLAYBOY: In un libro che hai pubblicato allora, Tarantola, hai scritto il tuo epitaffio che
comincia così: "qui giace bob dylan / assassinato / alle spalle / da carne tremante... ".

DYLAN: L 'ho scritto durante quei momenti violenti, innaturali. Sono felice che quelle sensazioni
siano
finite.

PLAYBOY: Come hai trascorso quei giorni?

DYLAN: (Pausa) Non ricordo. (Lunga pausa)

PLAYBOY: Recentemente circolava un pettegolezzo tra gli addetti alla stampa, qualcuno dice
che sei stato tu il primo a offrire dell'erba ai Beatles. Secondo questa storia l'hai offerta a Ringo
Starr all'aeroporto J.F.K., ed era la prima volta per tutti loro. E vero?
DYLAN: Mi sorprende che Ringo possa aver detto una cosa del genere. Non mi suona proprio
come
una cosa detta da Ringo. Non ricordo di averlo mai incontrato all'aeroporto J.F.K.

PLAYBOY: D'accordo. Chi ha iniziato te?

DYLAN: L 'erba circolava ovunque nei club. Circolava nei club di jazz e in quelli folk. In quel
periodo
c'era solo l'erba ed era accessibile ai musicisti. Dev'essere stato nel retro di qualche locale di
Minneapolis. E lì che sono entrato in contatto per la prima volta con l'erba, ne sono sicuro. Ma
veramente ho dimenticato quando e come.

PLAYBOY: Perche l'erba piace tanto ai musicisti?

DYLAN: Fare musica significa, in relazione a quanto riesci ad andare lontano, raggiungere il punto
più
profondo lì dove sei. Molti musicisti proverebbero qualsiasi cosa per raggiungere quelle profondità.
Fare
musica è una cosa immediata, non si tratta di mettere il colore sopra una tela che è un'operazione
calcolata. Il tuo spirito vola mentre fai musica. Così, con la musica, cerchi di guardare sempre più
profondamente dentro te stesso, per trovarla. Per questo motivo, suppongo, l'erba circolava nei
club. So
che la situazione è cambiata. L 'erba ora è quasi legale ma a quei tempi la usavano poche persone.

PLAYBOY: Anche le sostanze psichedeliche hanno questo effetto su di te?

DYLAN: No. Le sostanze psichedeliche non mi hanno mai influenzato. Non so, penso che Timothy
Leary abbia contribuito ad accorciare la vita alla situazione che si era creata a New York di cui
parlavamo prima. Con le sostanze psichedeliche tutto divenne insignificante. Non avevano niente a
che
fare con la musica, con la poesia o semplicemente con il tentativo di scoprire veramente se stessi in
quella situazione e in quel tempo.

PLAYBOY: Ma la gente pensava di fare proprio questo: trovare se stessa.

DYLAN: La gente si illudeva credendo di essere ciò che non era: uccelli, aeroplani, idranti,
qualsiasi
cosa. Le persone camminavano pensando di essere stelle.

PLAYBOY: Per quello che riguarda la tua musica, è arrivato un momento in cui hai deciso
consapevolmente di lavorare con un gruppo elettrico?

DYLAN: Dovevo arrivarci. Doveva andare in quel modo. È cosl che avevo cominciato e dovevo
tornare lì. Non potevo continuare a essere il folksinger solitario che strimpella Blowin' in the Wind
per
tre ore ogni notte. Sento le mie canzoni come parti di qualcosa di più ampio, il background
musicale.

PLAYBOY: Intendi dire che quando componi le tue canzoni non ti senti suonare da solo?

DYLAN: No, cominciano così. Ma poi sento altri strumenti, sento come dovrebbero suonare. Ho
quasi
raggiunto la musica che immagino nell'album Bionde On Bionde: un suono sottile, mercuriale e
selvaggio. Metallico e lucente, con tutto ciò che evocano queste parole. Quello è il mio vero suono.
Non sono riuscito a raggiungerlo ogni volta. Sono giunto a una combinazione di chitarra, armonica
e
organo ma ora mi sento spinto verso le percussioni e (pausa) i ritmi dell'anima.

PLAYBOY: Quel suono mercuriale c 'era anche in I Want you?

DYLAN: Sì, c'era in I Want You. C'era in molte canzoni di quel periodo e anche nell'album
precedente.

PLAYBOY: Highway 61 Revisited?

DYLAN: Sì. Anche in Bringing It All Back Home. Quello è il suono che ho sempre sentito. In
seguito
le canzoni diventarono più definite ma questo non ha dato loro necessariamente più forza. Il suono
era
tutto ciò che poteva essere accessibile in quel momento. Devo ritornare a quel suono, quel suono
farà
rivivere tutte quelle cose dentro di me.

PLAYBOY: Vuoi riunire di nuovo gli stessi musicisti?

DYLAN: Proprio no. La gente cambia, sai, si disperde in tutte le direzioni. La loro vita diventa più
complicata. Tendono a distrarsi, non riescono a concentrarsi su un obiettivo particolare e bello.

PLAYBOY: Stai cercando gente?

DYLAN: No, non la sto cercando, la gente c'è. Ma non ho prestato abbastanza attenzione alla
questione come avrei dovuto. Non mi sono mai sentito a mio agio in uno studio come quando ho
lavorato da Tom Wilson. Il prossimo passo sarà avere un gruppo stabile. Sai, io registro come è
possibile in quel momento. Questo è il mio modo, ed è anche giusto. Voglio dire che lo faccio
perche
devo farlo in quel modo. Ma non voglio continuare a farlo, perche mi piacerebbe dare più ordine
alla
mia vita. Fino ad ora le mie registrazioni hanno avuto la tendenza ad essere storie dell'ultimo
minuto.
Non uso proprio tutte le apparecchiature tecniche dello studio. Le mie canzoni sono fatte dal vivo
in
studio, sono sempre state fatte in quel modo e lo saranno sempre. Non importa cos'altro puoi dirne,
però sono vive. Sai come lavorano Paul Simon o Rod Steward o Crosby, Still e Nash... Per me un
disco non è un monumento. È solo un disco di canzoni.

PLAYBOY: Tornando al tuo passaggio dal folk al rock, il periodo in cui è uscito Highway 61
deve essere stato entusiasmante.

DYLAN: Quelli erano tempi entusiasmanti. Abbiamo fatto quel disco prima che chiunque sapesse
che
noi volevamo o potevamo farlo. Non sapevamo cosa sarebbe successo. Nessuno pensava al folk-
rock
in quel momento. Alcune persone erano coinvolte, come i Byrds, e ricordo anche Sonny e Cher e i
Turtles e i primi Rascals. Il disco cominciò a essere trasmesso dalla radio. Voglio dire che avevo
un
paio di hits in classifica. Era il massimo che avessi mai avuto in classifica, due canzoni. Le prime
dieci
canzoni appartenevano tutte allo stesso genere di musica, anche i Beatles, ed era entusiasmante,
quei
giorni erano esaltanti. Era il suono delle strade. Lo è ancora. Da un punto di vista simbolico io
sento
quel suono dappertutto.

PLAYBOY: Senti il suono della strada?

DYLAN: Quella eterea luce crepuscolare, sai. È il suono della strade con i raggi del sole, il sole
che
splende in certe ore particolari, scendendo dietro un certo tipo di palazzi. Un particolare tipo di
persone
che camminano lungo un particolare tipo di strada. Un suono che vaga fino alle finestre aperte, che
tu
puoi sentire. Il suono delle campane e i treni di una ferrovia lontana e le chiacchiere negli
appartamenti
e il tintinnio dell'argenteria, i coltelli e le forchette e lo schioccare delle cinghie di cuoio. E tutto, è
tutto
qui. Manca solo il carpentiere, capisci.

PLAYBOY: Vuoi dire che se ci fosse il carpentiere...

DYLAN: Si, nessun carpentiere suona, nessun aeroplano suona. Solo tutto quello che è abbastanza
naturale suona. E l'acqua che suona, sai, l'acqua che scorre in un ruscello. E la luce che fluisce
nel...

PLAYBOY: La luce del tardo pomeriggio?

DYLAN: No, di solito è l'esplosione dell'alba. La musica filtra in me con l'esplodere dell'alba.

PLAYBOY: Il "jingle jangle morning?".
DYLAN: Già.

PLAYBOY: Dopo essere rimasto sveglio tutta la notte?

DYLAN: A volte. Dopo essere rimasto sveglio tutta la notte sei un po' "fuori", non sei veramente in
grado di dargli forma. Ma è quello il suono che cerco di rendere. Io non cerco di rifare vecchi blues
o
d'inventare qualche rapsodia surreale.

PLAYBOY: È il suono che vuoi.

DYLAN: Sì, il suono e le parole. Le parole non interferiscono. Lo sottolineano,... gli danno uno
scopo.
(Pausa) Tutte le mie canzoni, tutti gli influssi, nasce tutto da lì. Tutte le suggestioni, i sentimenti, le
idee
vengono da lì. Non faccio musica per dimostrare come suono bene o quanto può risultare perfetta
la
melodia, o con che gioco complesso si possono intrecciare i singoli dettagli, o come si può arrivare
a
scrivere qualcosa di perfetto. Queste cose non mi interessano.

PLAYBOY: È il suono che ti spinge?

DYLAN: Mmm-hnh.

PLAYBOY: Quando lo hai udito per la prima volta?

DYLAN: Immagino sia accaduto mentre stavo ancora crescendo.

PLAYBOY: Non a New York?

DYLAN: Me ne sono reso conto a New York ma non sono nato a New York. Lì mi sono dato una
direzione e il suono è diventato il mio suono. Ma non penso che avrei potuto immaginarlo a New
York.
Sarei stato sopraffatto.

PLAYBOY: È stato formato dai suoni del tuo paese incantato, in Minnesota?

DYLAN: O dalla mancanza di suoni. In città, non c'è posto dove non senti suoni di ogni genere.
Non
sei mai solo. Non credo che ci sarei arrivato stando a New York. Anche solo la lotta per farsi
conoscere sarebbe stata enorme e avrebbe distorto le cose, se volevo essere un artista. Be... magari
no. Molta gente veramente creativa viene da New York. Ma io non conosco nessuno come me.
Incontro molta gente di New York con cui mi trovo bene, ne condivido le idee ma io, ho qualcosa
di di-
verso dentro di me. Ho un'anima diversa. E come venire dalle Smoky Mountains o dalle foreste
selvagge del Mississipi. Se resti in un posto per 20 anni diventerai un certo tipo di persona.


PLAYBOY: Con tutto questo amore per la campagna, cosa ti ha fatto lasciare Woodstock nel
1969 per tornare al Village?

DYLAN: La situazione era diventata stagnante e deludente. Troppa folla, la gente sbagliata dettava
legge. Le persone che erano lì da più tempo avevano paura di uscire in strada. L'arcobaleno era
svanito.

PLAYBOY: Ma neppure il Village, New York City, era la risposta.

DYLAN: Gli stimoli erano svaniti. Erano tutti depressi. Era tutto finito.

PLAYBOY: Pensi che la vecchia situazione di cui abbiamo parlato prima possa gradatamente
riprodursi a New York?

DYLAN: Ero lì la scorsa estate. Non ho sentito niente di tutto ciò. Ci sono moltissimi club di
rock'n'roll,
di jazz e di poesia portoricana ma quanto a imparare qualcosa di nuovo, imparare a insegnare...
New
York è piena di insegnanti, è ovvio, ma ora è deprimente. Per farlo in strada devi solo chiederlo.

PLAYBOY: Adesso tu stai in California. C'è qualche situazione che ti interessa?

DYLAN: Mi limito a lavorare qui, tutto il tempo, e non so davvero che cosa è questa città. Mi piace
San Francisco. E una città tragicomica. Ma se ho voglia di andare in una città di questo Paese, io
vado
ancora a New York. Ci sono città dove andare in tutto il mondo. Non so, forse sono solo
invecchiato,
può darsi che io mi senta come uno che ha girato troppo cercando qualcosa di nuovo da fare e non
era
mai in nessun posto. Cercavo un posto dove poter creare quello che voglio. E l'unica cosa che mi
interessa in questo periodo. Non mi importa molto di sistemarmi.

PLAYBOY: Ti senti più vecchio di quando cantavi: "Ero molto più vecchio allora, sono molto
più giovane adesso? ".

DYLAN: No, non mi sento vecchio. Per niente. Sento che certe cose, che mi soggiogavano molto
facilmente, non mi attirano più.

PLAYBOY: Per esempio?

DYLAN: Anche le abitudini quotidiane.

PLAYBOY: Pensi di aver cercato di resistere all'obbligo di crescere o di aver trovato un modo
per farlo diverso da quello convenzionale?

DYLAN: Non riesco a pensarci in termini di crescita o di non crescita. Ci penso in termini di
capacità
di soddisfare se stessi. Non dimenticare che io ho fatto quello che ho fatto fin da quando ero molto
giovane, non ho mai conosciuto nient' altro. Non ho mai dovuto lasciare il mio lavoro per farlo.
Questo
è quel che ho sempre fatto durante la mia vita. E così non penso in termini economici o di stato
sociale
nè a quello che la gente pensa di me, in un senso o nell'altro.

PLAYBOY: Vuoi dire che hai ancora un atteggiamento ribelle o punk nei confronti del resto
del mondo?

DYLAN: Un atteggiamento punk?

PLAYBOY: Porti ancora gli occhiali scuri, no?

DYLAN: Sì.

PLAYBOY: Perchè la gente non veda i tuoi occhi?

DYLAN: Dopo un po' diventa solo un'abitudine. Porto ancora occhiali scuri ma non c'è un motivo
profondo, credo. Un po' d'insicurezza, non so. Mi piacciono gli occhiali scuri. Li ho tenuti durante
tutti
gli incontri per l'intervista?

PLAYBOY: Sì. Non abbiamo ancora visto i tuoi occhi.

DYLAN: Va bene, lunedì li vedrete di sicuro. (Il giorno in cui Playboy scatterà le foto per la
copertina)

PLAYBOY: A parte gli occhiali scuri, c'è qualcosa nell'atteggiamento punk di Elvis o di James
Dean che ti spinge a muoverti e a vestirti in un certo modo?

DYLAN: No. È un atteggiamento che viene dall'inizio degli anni Sessanta. Elvis c'era. C'era quando
non c'era ancora nessuno. Era Elvis e tutti sapevano cosa faceva Elvis. Ha avuto su di me l'effetto
che
io ho avuto su altri. Elvis apparteneva a un gruppo di un certo periodo e io l'ho seguito fin da Blue
Moon in Kentucky. E ce n'erano altri: ho ammirato molto Buddy Holly. Ma Elvis non è mai stato
un
punk. E Neppure James Dean.

PLAYBOY: Che cosa rappresenta James Dean?

DYLAN: Ha lasciato parlare il suo cuore. Questo era il suo significato. Era un simbolo per la gente
di
quella età ma quando diventavi più grande le tue esperienze cambiavano e tendevi ad identificarti
con
altri artisti, che avevano altri significati.
PLAYBOY: Parliamo ancora un po' di ciò che ti influenza. Che musicisti ascolti oggi?

DYLAN: Ascolto ancora gli stessi vecchi maestri di blues. Tommy McClennan, Lightnin' Hopkins,
la
Carter Family, i primi Carlyles. Ascolto Big Maceo, Robert Johnson. Ogni tanto ascolto ancora
Woody
Guthrie. Tra i più recenti, Fred McDowel1 e Gary Steward. Mi piacciono moltissimo Memphis
Minnie
e Blind Willie McTell. Mi piace la musica bluegrass. Ascolto anche musica di altri Paesi. Mi piace
moltissimo la musica del Medio Oriente.

PLAYBOY: Per esempio?

DYLAN: Om Kalthoum.

PLAYBOY: Chi è?

DYLAN: Era una grande cantante egiziana. L 'ho sentita per la prima volta quando ero a
Gerusalemme.

PLAYBOY: Una cantante egiziana famosa a Gerusalemme?

DYLAN: Penso che sia famosa in tutto il Medio Oriente. Anche in Israele. Faceva soprattutto
canzoni
d'amore e di preghiera, con l'accompagnamento di violino e percussioni. Suo padre cantava quelle
preghiere, immagino che sia stata cosl brava mentre cercava di accompagnarlo che lui le permise di
cantare professionalmente. Ora è morta ma non è stata dimenticata. Era grande. Davvero. Davvero
grande.

PLAYBOY: E per quel che riguarda la musica popolare?

DYLAN: Be', Nana Moskouri.

PLAYBOY: Cosa mi dici dei Beatles?

DYLAN: Ml è sempre piaciuto come George Harrison suona la chitarra, è bravo ed equilibrato. Per
quel che riguarda John Lennon, sono stato incoraggiato dal suo libro (In His Own Write). O forse
furono incoraggiati gli editori, perchè chiesero anche a me di scrivere un libro. Cosl è nato
Tarantola.

John ha preso spunto da temi di musica popolare molto antichi. Gran parte del suo lavoro viene
trascurata ma se lo osservi con attenzione troverai cose mai espresse prima. Simboli di realtà
interiori
che probabilmente non troveranno mai più espressione.

PLAYBOY: Ascolti le tue cose?

DYLAN: Non molto.
PLAYBOY: Quali sono le tue preferenze letterarie? Hai parlato di Kerouac e di Ginsberg. Chi
leggi ora?

DYLAN: Rilke, Cechov. Cechov è il mio scrittore preferito. Mi piace Henry Miller. Penso sia il più
grande scrittore americano.

PLAYBOY: Lo hai mai incontrato?

DYLAN: Sì, l'ho incontrato anni fa. Abbiamo giocato a ping-pong.

PLAYBOY: Quando eri bambino hai letto Catcher In The Rye?

DYLAN: Devo averlo letto. Sì, penso di sì.

PLAYBOY: Ti sei identificato con Holden Caulield?

DYLAN: Qual era la sua storia?

PLAYBOY: Era un bambino solitario di una scuola elementare che scappò via e decise che tutti
gli altri erano stupidi mentre lui era sensibile.

DYLAN: Devo essermi identificato con lui.

PLAYBOY: Abbiamo parlato di arte e nello stesso periodo tu lavoravi alle riprese del tuo primo
film, Renaldo and Clara. Cosa ti sembra di poter esprimere attraverso un film che tu non possa
già esprimere con le canzoni?

DYLAN: Posso dare alle canzoni ancora più forza. Il film è più vicino alla pittura che alla musica.
E'
un dipinto. E' un dipinto che sul muro diventa vivo. Ecco perche lo facciamo. I pittori possono
contenere il loro tumulto artistico. In un altro periodo storico i registi sarebbero stati pittori.

PLAYBOY: Anche se Renaldo and Clara è il primo film che hai prodotto, diretto e recitato, un
documentario girato nel 1966 registra la tua prima apparizione in un film: Don't Look Back.
Cosa ne pensi?

DYLAN: Don't Look Back era... il film di qualcun altro, un affare realizzato da una compagnia
cinematografica. lo non ho partecipato a quel film. Quando l'ho visto in un cinema sono rimasto
sconvolto da ciò che ne era stato fatto. Non avevo capito, fino a quel momento, che la cinepresa era
stata diretta verso di me per tutto il tempo. Chi ha fatto quel film lo aveva completamente tolto dal
suo
contesto. Era il suo punto di vista personale. Era un film disonesto, di propaganda. Non penso fosse
preciso nel mostrare gli anni in cui mi sono formato. Ne mostrava solo un lato. Sembrava che io
non
facessi altro che vivere in quella stanza d'hotel, battere a macchina e fare conferenze stampa. Tutto
questo è vero, lo sai. E lanciare qualche bottiglia, c'è anche questo nel film. C'è Joan Baez ma il
film è
unilaterale. Non vorrei sbilanciarmi troppo, solo non era un film rappresentativo di ciò che
accadeva
negli anni sessanta.

PLAYBOY: Non ti sembra che abbia colto il delirio dei tuoi tours anche se era concentrato su
di te, sulla tua celebrità?

DYLAN: In quel periodo io non ero una star più di quanto non lo sia ora. Ovviamente allora ero
molto
confuso, non avevo un obiettivo chiaro. Era ancora presto. The Times They Are A- Changin' era
ancora nelle classifiche inglesi, è passato molto tempo.

PLAYBOY: Davvero non sapevi quel che stavi facendo?

DYLAN: Be', considera cosa ho fatto dopo. Consideralo. Non ho cominciato a svilupparmi
veramente
fino a quando quel periodo non è finito. Voglio dire, l'ho fatto e non l'ho fatto. Don't Look Back era
prematuro. In quella fase avrei dovuto essere lasciato solo.

PLAYBOY: Nel 1966 sei stato coinvolto anche in un altro film che non è mai uscito, si
chiamava Eat the Document. Come è successo?

DYLAN: È cominciato come uno special televisivo. Ma neppure in quel film ero il regista. Ero..
ero la
vittima. Avevano già degli spezzoni ma in quel periodo, certo, ho fatto, ho avuto un... se non mi
fosse
capitato quell'incidente di motocicletta lo avrebbero trasmesso, sarebbe andata così. Ma io ero
piuttosto... ne sono venuto fuori, sai... penso che fosse il crollo di quell'anno. Avevo un po' più di
tempo
per concentrarmi su ciò che mi stava accadendo e su cosa mi era successo. Comunque, hanno fatto
un'altra versione di Don't Look Back, solo che questa volta era per la televisione. Non ho avuto
niente
di meglio da fare che guardare il film. Tutto, compresi i metri non utilizzati. Ovviamente era
spazzatura.
Chilometri e chilometri di spazzatura. Quella è stata la mia introduzione al cinema. La mia
concezione
cinematografica si è formata in quel periodo, guardando quegli spezzoni.

PLAYBOY: Guardando quei chilometri di spazzatura hai scoperto la tua idea di film?

DYLAN: Sì, soprattutto nei metri inutilizzati ho trovato della bellezza. Il che può dirti qualcosa di
più,
che io vedo bellezza dove altri non la vedono.
PLAYBOY: Questo ricorda una tua poesia scritta per uno dei primi album di Joan Baez, nella
quale hai scritto di aver sempre pensato che ogni cosa doveva essere brutta, prima di trovarla
bella. A un certo punto della poesia racconti di aver ascoltato Joan cantare e di avere
improvvisamente capito che la bellezza non nasce necessariamente dall'orrore.

DYLAN: In quel periodo ero molto legato a Joan. (Pausa) Forse stavo solo cercando di dimostrare
a
me stesso che non ero legato a lei.

PLAYBOY: Va bene. Hai voglia di parlarci un po' della tua idea di film derivata dalla visione
del metraggio inutilizzato?

DYLAN: Avevano montato una storia lineare, su un solo piano e in una sola dimensione. Più
guardavo
il film, più mi rendevo conto che in un film puoi mettere qualcosa di più di una semplice catena di
pensieri. Comunque la mia mente si muove in questo modo. Abbiamo tutti la tendenza a muoverci
su
diversi livelli. Ho visto molte cose in quei metri inutilizzati ma tecnicamente non sapevo come
realizzare
ciò che mi sembrava necessario.

PLAYBOY: Cosa ti sembrava necessario?

DYLAN: Be', un film è composto da una serie di azioni e di reazioni. E' un inganno, un gioco
d'illusione. Ciò che sembra semplice è in realtà del tutto artificiale. Più forte è il tuo punto di vista,
più
forte sarà il film.

PLAYBOY: Vuoi sviluppare meglio?

DYLAN: Attraverso il film cerchi di mandare un messaggio. Ci sono molti modi per esprimere
quel
messaggio. Diciamo che se il messaggio fosse: "bianco è bianco", Bergman direbbe "bianco è
bianco"
nello spazio di un'ora o nello spazio di quella che sembra un'ora. Bunuel direbbe "bianco è nero e
nero è
bianco ma bianco è davvero bianco". Si tratta sempre dello stesso messaggIo.

PLAYBOY: E Dylan come direbbe?

DYLAN: Dylan probabilmente non l'avrebbe mai detto. (Risate) Avrebbe... Penserebbe che voi lo
sappiate. (Risate)

PLAYBOY: Stai sfuggendo.

DYLAN: Direi che la gente crede sempre nelle cose che sente autentiche. Ma sapere che una cosa è
autentica non è abbastanza, devi sentirlo visceralmente. Allora puoi essere quasi del tutto sicuro.
PLAYBOY: Intendi dire che un film fatto da quacuno che sente visceralmente che bianco è
bianco darà al pubblico la sensazione che bianco è bianco senza bisogno di doverlo dire.

DYLAN: Sì. Esattamente.

PLAYBOY: Parliamo del messaggio di Renaldo and Clara. Ci sembra che sia al tempo stesso un
film personale e fantastico in cui tu, Joan Baez e la tua prima moglie, Sara, siete protagonisti.
Tu sei Rinaldo, Joan Baez è una "donna in bianco", Sara è Clara. Nel film appare anche un
personaggio che si chiama Bob Dylan ma è interpretato da qualcun altro. Il tutto è composto da
alcune riprese del tour Rolling Thunder Revue e da nuove scene recitate da tutti voi. Vuoi dirci
cosa significa essenzialmente questo film?

DYLAN: Il film parla dell'uomo alienato da se stesso, di come per liberarsi, per rinascere, egli
debba
uscire da se. Si potrebbe dire che egli muore per capire il suo tempo e che con la forza della
volontà
riesce poi a ritornare nel suo stesso corpo.

PLAYBOY: Riesce a ritornare nel suo corpo con la forza della volontà... e Clara?

DYLAN: Clara rappresenta per Rinaldo tutto quello che nel mondo materiale gli è sempre
mancato.
Eppure i bisogni di Rinaldo sono pochi, anche se in quel momento particolare lui non lo sa.

PLAYBOY: Quali sono i suoi bisogni?

DYLAN: Una buona chitarra e una strada buia.

PLAYBOY: La chitàrra perche Rinaldo ama la musica ma perche una strada buia?

DYLAN: Soprattutto perche lui ha bisogno di nascondersi.

PLAYBOY: Da chi?

DYLAN: Dal demonio interiore. (Pausa) Ma tutti noi sappiamo che non puoi nasconderti dal
demonio
interiore in una strada buia. Questo è il nostro film.

PLAYBOY: Nel film Rinaldo si accorge di tutto ciò?

DYLAN: Cercando di sfuggire al demonio interiore, scopre che il demonio è in realtà un riflesso
speculare di se stesso.

PLAYBOY: D'accordo. Considerando le persone coinvolte, come definiresti il rapporto tra te,
la tua vita personale e questo film?
DYLAN: Non mi sembra più personale di un film di Hitchcock. Io sono solo il supervisore.

PLAYBOY: Hai supervisionato varie versioni di te stesso?

DYLAN: Be', alcune verità ormai le conosco. Non necessariamente me stesso ma una certa
esperienza ormai è reale, è un modo di conoscere che ho imparato sulla strada.

PLAYBOY: Quali sono queste verità?

DYLAN: La prima è che se cerchi di essere qualcuno che non sei, farai fiasco. Se non sei sincero
nel
cuore, non ce la farai. E inoltre, non esiste un successo importante quanto il fallimento.

PLAYBOY: E il fallimento è l'assoluta mancanza di successo.

DYLAN: Oh, be', noi non cerchiamo di avere successo. Solo attraverso il nostro agire, il nostro
essere
vivi, possiamo riuscire. Fallisci solo quando lasci che la morte si insinui e si impadronisca di una
parte
della tua vita che dovrebbe essere viva.

PLAYBOY: Come si insinua la morte?

DYLAN: La morte non bussa alla porta. È gia lì alla mattina, quando ti svegli.

PLAYBOY: Come?

DYLAN: Ti sei mai tagliato le unghie e i capelli? Allora hai avuto esperienza della morte.

PLAYBOY: A un certo punto del film, Joan Baez si volta verso di te e dice: "Non dai mai delle
risposte dirette". È vero?

DYLAN: Lei è davanti a Rinaldo.

PLAYBOY: L 'ambiguità non è solo teorica, può esprimersi anche in una intervista.

DYLAN: Non ci sono risposte semplici per queste domande...

PLAYBOY: Non ti sembra di prendere in giro il pubblico proponendo un film interpretato da
Joan Baez e Sara, persone vere che fanno parte della tua vita, e aspettandoti poi che gli
spettatori mettano da parte i loro pregiudizi sulle tue relazioni con queste persone?

DYLAN: No, no. Non dovrebbero pensare mai di riconoscere qualcuno in questo film. Appartiene
tutto
al contesto di Rinaldo e Clara, non c'è motivo di rimanere inchiodati al "who's who" nel film.
PLAYBOY: Che ne dici della scena in cui Joan Baez ti domanda: "Che cosa sarebbe successo
se allora ci fossimo sposati?".

DYLAN: Sembra quasi reale, non ti pare?

PLAYBOY: Sì

DYLAN: Sembra reale. Proprio come in un film di Bergman le cose sembrano reali. Appare tutto
spontaneo. Di solito le persone che lavorano nei suoi film si conoscono tra loro, cosi possono
entrare in
relazione facilmente. C'è vita e respiro in ogni fotogramma perche ognuno conosce ogni altro.

PLAYBOY: Un'altra domanda: nel film Ronnie Hawkins, un cantante rock canadese che pesa
136 chili, va in scena con il nome di Bob Dylan. Allora c'è un vero Bob Dylan?

DYLAN: Nel film?

PLAYBOY: Sì.

DYLAN: Nel film no. Lui non appare nel film. C'è la sua voce, si usano le sue canzoni ma Bob non
c'è. Sarebbe stupido. Hai mai visto un dipinto di Picasso con Picasso dentro al quadro? Vedi solo il
suo
lavoro. Non mi interessa mettere un quadro di me stesso sullo schermo, non farebbe del bene a
nessuno e tantomeno a me.

PLAYBOY: Allora perche hai usato il nome Bob Dylan in questo film?

DYLAN: Per legittimare il film. Il personaggio Bob Dylan è compreso nel film, così possiamo
liberarcene. Non dovrebbe esserci più alcun mistero su chi o che cosa egli sia. C'è, parla ogni tipo
di
lingua ed ecco che qualcun altro dichiara di essere lui, cosi lui risulta nascosto. Questo è un film
semplice, nessuno nasconde qualcosa. E tutto qui. I conigli sono già usciti dal cappello prima che il
film
cominci.

PLAYBOY: Credi veramente che sia un film accessibile?

DYLAN: Oh, perfettamente accessibile. È un film molto aperto.

PLAYBOY: Anche se il signor Bob Dylan e il signor Bob Dylan sono interpretati da persone
diverse...

DYLAN: Oh, si.

PLAYBOY: E tu non sai con certezza quale dei due è lui?

DYLAN: Certo, potremo fare un altro film e tu potresti essere Bob Dylan. Non ha importanza.

PLAYBOY: Ma se ci sono due Bob Dy/an nel film e Rinaldo cambia sempre...

DYLAN: Potrebbere essere peggio di così. Potrebbero essercene tre o quattro. Tuttavia, è un film
semplice.

PLAYBOY: Come ti sei deciso a farlo?

DYLAN: Come ho detto, volevo fare un mio film fin dal 1966. Ho lasciato sepolta l'idea fino al
1976. Il
mio avvocato diceva sempre che c'era un futuro per i film. Così gli ho chiesto: "Che tipo di futuro?"
e
lui mi ha detto "Se ce la fai, ritorna con un testo, uno schema e chiedi i soldi a un grande
distributore".
lo non potevo lavorare in quel modo. Non posso spiegare le mie idee sopra un pezzetto di carta e
poi
sperare di ricevere i soldi da qualcuno. Infine mi sono reso conto che potevo fare il film per conto
mio,
con l'aiuto delle persone che avrebbero lavorato insieme a me, che avevano fiducia in me. Nel 1976
sono tornato a fare concerti proprio per raccogliere i soldi per questo film. I miei due ultimi tours
servivano a raccogliere il denaro per il film.

PLAYBOY: Quanti soldi stai rischiando?

DYLAN: Preferirei non parlarne. È una certa somma ma non l'ho chiesta in banca. Il budget
prevedeva 600.000 dollari circa ma è stato superato.

PLAYBOY: Hai provato piacere realizzando questo progetto?

DYLAN: Sento che questa storia significa molto per me, dovevo fare ciò che ho sempre desiderato
fare...dovevo fare un film. Quando ti succede una cosa come questa, hai l'impressione di fermare il
tempo, puoi fare in modo che le persone rivivano quello stesso momento. Nella vita quotidiana non
ci
sono molte cose che hanno lo stesso effetto. Puoi essere distratto da molte cose. Ma il problema
centrale è rendere comprensibile agli altri il tuo lavoro. Prendi ad esempio Shane, mi ha
commosso.
Anche On the Waterfront mi ha commosso. Quando vado a vedere un film mi aspetto di venire
commosso. Non vado al cinema solo per passare il tempo o perche il film mi mostri qualcosa che
non
conosco. Voglio essere commosso, perche questo è il senso dell'arte e anche il senso di tutti i
grandi
teologi. L' arte deve trascinarti via dalla tua sedia. Il suo compito è trasportarti da una dimensione
all'altra. Rinaldo e Clara non ha lo scopo di sottoporti a uno sforzo. E un film che va goduto come
film. Non so niente di cinema, non sono un regista.
D'altra parte mi considero un regista perche ho fatto questo film, non so... Se non ti commuove, se
non
ti tocca allora è un grande fallimento.

PLAYBOY: C'è qualche sistema per evitare che la gente faccia le supposizioni di cui abbiamo
discusso, per evitare che il tuo mito personale ribalti gli intenti del film?

DYLAN: Non dimenticare che io non sono un mito per me stesso, lo sono per gli altri. Se gli altri
non
avessero creato il mito di Bob Dylan, questo mito non apparirebbe nel film.

PLAYBOY: E ci sarebbe stato ugualmente un film? O il denaro per finanziarlo?

DYLAN: Ne dubito.

PLAYBOY: Non ti senti inchiodato da tutto questo?

DYLAN: Vuoi dire parlando con entrambi i lati della mia bocca?

PLAYBOY: Be', tu hai fatto un film e vorresti che la gente lo accettasse per i suoi meriti, ti
piacerebbe che i personaggi del film venissero accettati in quanto tali. Eppure il motivo
principale per cui la gente andrà a vedere questo film è un altro: vorranno sapere qualcosa di
Bob Dylan, di Joan Baez e Sara Dylan...

DYLAN: Mi piacerebbe, sì.

PLAYBOY: Come farai a venirne fuori?

DYLAN: Fuori da cosa?

PLAYBOY: Come farai ad evitare che la genti applichi i suoi pregiudizi al film?

DYLAN: Be', non dovrebbero ma io non so come evitarlo.

PLAYBOY: Forse il film vuote scontrarsi direttamente con i pettego/ezzi che circolano?

DYLAN: C'è del vero anche in questo. Le chiacchiere si possono anche considerare informazioni.
Le
chiacchiere sono un'arma che viaggia nell'aria. Un mormorio. Ma non hanno un'influenza terribile.
Sono
solo una tra le forze motrici. Come abbiamo cominciato a parlare di chiacchiere?

PLAYBOY: Be'...

DYLAN: Vada per le chiacchiere, come stiamo facendo adesso.
PLAYBOY: In che senso?

DYLAN: Avremmo più cose in comune se uscissimo a pesca insieme, senza dire niente. Sarebbe
un'esperienza più valida, comunque, che non star qui seduti a chiacchierare di questo film, di vita e
di
morte, di pettegolezzi o di qualsiasi altra cosa di cui abbiamo parlato. Personalmente credo sia così.
È
per questo che non voglio parlare troppo.

PLAYBOY: D'accordo ma siccome non abbiamo a portata di mano delle canne da pesca,
potremmo continuare a chiacchierare ancora un pò.

DYLAN: Va bene.

PLAYBOY: Un ultimo tentativo. C'è qualcosa di vero in questa interpretazione: "Se la gente
vuole parlare della rottura tra Dylan e sua moglie, della sua storia con Joan Baez, metterò
proprio queste persone nel film e farò constatare a tutti la sgradevole realtà dei pettegolezzi,
perche solo io conosco la verità" ?

DYLAN: Non sarebbe del tutto vero, perchè il film non vuole dire solo questo. Non so davvero a
chi
possa interessare di Bob Dylan e Joan Baez. Per me non è importante. Sono notizie vecchie, non
penso
siano interessanti per qualcuno. Se fosse così be', non sarebbe egualmente una questione rilevante.
Il
film non si occupa di niente d'attuale, riguarda gli anni scorsi. Sono abbastanza intelligente per
sapere
che non devo occuparmi di nessun argomento ancora contemporaneo a un livello emotivo. Non
potrebbe funzionare. Hai bisogno dell'esperienza per scrivere, per cantare o fare l'attore. Non puoi
alzarti una mattina e dire che lo farai. Questo film è un modo per trasformare l'esperienza in
qualcosa
d'altro. Non è un film pettegolo.

PLAYBOY: Abbiamo iniziato questo discorso paragonando i registi ai pittori. Anche da piccolo
oltre alla musica rock ti interessava la pittura?

DYLAN: Sì, ho sempre dipinto. Ho sempre continuato a farlo, in un modo o nell'altro.

PLAYBOY: Ti sembra di poter usare i colori come usi le note e gli accordi?

DYLAN: Certo. Ci sono molte cose da scoprire sul significato dei colori. Ogni colore esprime un
certo
umore, una sensazione. Ad esempio, il rosso è un colore molto vitale. Ci sono molti rossi nel film e
molti
blu. Blu cobalto.


PLAYBOY: Perche il blu cobalto?

DYLAN: È il colore del dissenso.

PLAYBOY: Hai studiato pittura?

DYLAN: Ho sentito molto l'influenza di un vecchio che aveva idee molto precise sulla vita,
l'universo e
la natura. Su tutti questi argomenti.

PLAYBOY: Chi era?

DYLAN: Solo un vecchio. Il suo nome non significherebbe niente per te. Era giunto in questo
Paese
dalla Russia, negli anni Venti. Voleva fare il pugile e ha finito per dipingere ritratti di donne.

PLAYBOY: Non vuoi fare il suo nome, anche solo per dargli una mano?

DYLAN: Si chiama Norman. Ogni volta che nomino qualcuno è come buttare addosso alla sua vita
un
cumulo d'indifferenza e di estraneità. Ad esempio, c'è una signora a Los Angeles ,che stimo molto,
legge la mano. Si chiama Tamare Rand. E seria, non è una zingara indovina. Dice cose vere! Darà
un'occhiata alla tua mano e ti dirà cose che tu senti ma che non riesci veramente a comprendere, ti
dirà
qual è la tua direzione, quali sono le tue possibilità per il futuro. E una persona sorprendente, piena
di
speranza.

PLAYBOY: Sei sicuro di voler sapere se ci sono disgrazie nel tuo futuro?

DYLAN: Be', a volte, il mondo ti crolla addosso, sai che ci sono vari modi per venirne fuori ma
vuoi
sapere qual è il tuo. Di solito c'è qualcuno che può dirti come venirne fuori, che strada prendere.

PLAYBOY: Per ritornare ai colori e agli accordi, secondo te ci sono chiavi musicali che
esprimono un umore particolare come i colori?

DYLAN: Certo, Si maggiore e Si bemolle maggiore.

PLAYBOY: Come le descriveresti?

DYLAN: (Pausa) Sono entrambi difficili da definire. Se prendi per vere le loro caratteristiche,
scoprirai
di non sapere se stai parlando di loro o della loro eco.

PLAYBOY: In generale. una chiave maggiore che cosa evoca in te?
DYLAN: Penso che tutte le chiavi maggiori evochino una dimensione fantastica.

PLAYBOY: E le chiavi minori?

DYLAN: Una dimensione sovrannaturale.

PLAYBOY: E le altre chiavi specifiche?

DYLAN: Trovo che il Sol maggiore sia la chiave della forza ma anche del dolore. Il Mi maggiore è
la
chiave della fiducia. Il La bemolle maggiore è la chiave della rinuncia.

PLAYBOY: Visto che stiamo parlando di musica, hai in mente nuove canzoni?

DYLAN: Sto preparando delle nuove canzoni che sono diverse da qualsiasi cosa io abbia mai
scritto.

PLAYBOY: Davvero?

DYLAN: Sì.

PLAYBOY: A cosa assomigliano?

DYLAN: Lo vedrai. Voglio dire che sono diverse da qualsiasi cosa io abbia mai fatto. Non potresti
nemmeno dire che Blood On The Tracks o Desire mi abbiano portato verso questo tipo di cose.
Sono
cose che vengono da molto lontano ma preferirei non parlarne più fino a quando non escono.

PLAYBOY: Quando nel tuo film il personaggio Bob Dylan pronuncia queste parole: "II rock 'n
'roll è la risposta", cosa intende dire?

DYLAN: Parla del suono e del ritmo. Le percussioni e il ritmo sono la risposta. Entra nel ritmo e ti
perderai, dimenticherai la brutalità, perderai la tua identità. Questo dice.

PLAYBOY: E accade al vero Bob Dylan?

DYLAN: Be', è semplice. Quando fai la musica che ti corrisponde perdi la tua identità, ti sottometti
completamente alla musica che stai facendo nella tua più intima essenza.

PLAYBOY: Ti senti posseduto?

DYLAN: È pericoloso sentirsi così, perche credi di poter trascendere, ti senti all'altezza di ogni
cosa.
Quella è la vera vita, il cuore della vita stessa e ti senti in cima ai tuoi sogni. Non puoi cadere. Più
tardi,
dietro la scena, hai un altro punto di vista.
PLAYBOY: Quando sei in scena hai l'illusione che la morte non possa raggiungerti?

DYLAN: La morte non può veramente raggiungerti. La morte non è pronta a portare via chiunque.
E
un'apparenza creata dal Diavolo e il Diavolo è un codardo, la sapienza lo vincerà.

PLAYBOY: Cosa intendi dire?

DYLAN: Il Diavolo rappresenta tutto ciò che è falso ma giungerà solo fino a dove lo lascerai
entrare.
Puoi lasciarlo entrare ma se comprendi qual è il senso di tutta la situazione puoi facilmente farti da
parte. Se vuoi iniziare con lo scontro, be', puoi trovarlo ovunque. Ma se credi di avere uno scopo o
una
missione, e non molto tempo a disposizione per realizzarlo, queste cose non ti interessano più.

PLAYBOY: Pensi di avere uno scopo e una missione?

DYLAN: Ovviamente.

PLAYBOY: Quali sarebbero?

DYLAN: Lo ha già detto Henry Miller: il ruolo di un artista è trasmettere al mondo la sua
disillusione.

PLAYBOY: Per fare musica rock devi essere schierato contro il sistema, devi essere un
desperado. Forse sistemarsi è incompatibile con il rock?

DYLAN: No. Puoi essere un prete e fare rock'n'roll. Essere un cantante di rock'n'roll non è diverso
da
essere un imbianchino. Puoi salire in alto quanto vuoi. Mi stai chiedendo se il rock, il tipo di vita
legato
al rock, si scontra con la società?

PLAYBOY: Sì. Devi essere in qualche modo ai margini della società o in un certo senso un
fuorilegge, un...

DYLAN: No. Il rock'n'roll forma una società. È un mondo a sè, come quello dello sport.

PLAYBOY: Non ti sembra che avesse un valore vagabondare e tutto quel genere di
atteggiamenti?

DYLAN: Sì ma non necessariamente, perche puoi vagabondare e girovagare anche se sei un
avvocato. Non c'è nulla di definito. Nessun programma.

PLAYBOY: Così le future rockstars potrebbero tranquillamente andare a scuola di legge?
DYLAN: Per qualcuno potrebbe andare bene. Ma per tornare alla questione, devi avere un credo.
Devi avere uno scopo. Devi credere di poter passare attraverso i muri. Senza quella fede non
riuscirai
a diventare un cantante rock o un cantante pop o folk-rock davvero bravo, e neppure un bravo
avvocato. O un dottore. Devi sapere che stai facendo ciò che stai facendo.

PLAYBOY: Perche tu stai facendo quel che stai facendo?

DYLAN: (Pausa) Perchè non so fare nient'altro. Sono capace solo di far questo.

PLAYBOY: Come descriveresti "questo?".

DYLAN: Sono un artista, cerco di creare arte.

PLAYBOY: Come ti sembrano le tue canzoni quando le suoni anni dopo averle composte? Ti
sembra che la tua arte duri nel tempo?

DYLAN: Quanti cantanti si sentono dieci anni dopo come si sentivano mentre scrivevano una
canzone? Aspetta che passino 20 anni... Un certo numero di atti puoi continuare a ripeterli, puoi
continuare a farli ma deve esserci qualcosa di reale in ciò che fai, qualcosa che resti reale. Molte
mie
canzoni non vanno più bene. Molte sono state scritte visceralmente, perche il mio istinto mi
spingeva a
scriverle, queste di solito non vanno bene, non hanno più lo stesso effetto con il passare degli anni.
Molte altre funzionano. Contengono qualche verità. Io non credo che avrei mai cantato se non
avessi
scritto. Non avrei avuto motivo di starmene lì, fuori dal mondo, a cantare. Voglio dire, non mi
considero. ..il centro della festa. (Risate)

PLAYBOY: Nei tuoi ultimi spettacoli, durante la Rolling Thunder Revue, hai cantato di nuovo
alcune vecchie canzoni come I Pity The Poor Immigrant.

DYLAN: Si, ho ripreso molte canzoni. Fondamentalmente perchè credo in loro. Ci credo
veramente.
Cosi cerco di dar loro una nuova vita. Questo può sempre accadere. Ho riscritto anche Lay Lady
Lay
ma nessuno ne ha parlato.

PLAYBOY: L 'hai trasformata in una canzone meno delicata, più aspra.

DYLAN: Esatto. Sono cambiate anche molte parole. In origine l'avevo registrata insieme a un
gruppo
di altre canzoni nel1'album Nashville Skyline. Quello era il tono della situazione. Una volta che
tutto
era stato sistemato, l'album è venuto fuori in quel modo. In quel momento era bello ma ho sempre
avuto
la sensazione che quella canzone avesse più cose da dire.
PLAYBOY: È vero che Lay Lady Lay era stata scritta per Midnight Cow-boy?

DYLAN: È così ma hanno finito per usare una canzone di Freddy Neil.

PLAYBOY: Che effetto ti ha fatto rifare Blowin' in The Wind durante i tuoi ultimi tours, dopo
tutti questi anni?

DYLAN: Penso che la potrò sempre fare. Ci sono certe canzoni che potrò fare sempre. Con il
passare
del tempo avranno sempre più significato.

PLAYBOY: Cosa ne dici di Like A Rolling Stone?

DYLAN: Era un grande pezzo. È la dinamica del ritmo che costruisce Like A Rolling Stone e i suoi
versi. Tendo a ricollegare tutte le canzoni a vecchie canzoni folk o a vecchi motivi blues: sono
sempre
belli e hanno ancora senso.

PLAYBOY: Vorresti parlare un po' del modo in cui crei le tue canzoni?

DYLAN: Le canzoni vengono a me soprattutto quando sono isolato, nello spazio e nel tempo.
Rifiuto
molti versi ispirati.

PLAYBOY: Perchè sono troppo belli?

DYLAN: Ne rifiuto molti. Mi sembra di conoscere me stesso abbastanza bene per sapere quando
un
verso potrebbe essere bello. E il primo verso che ti dà l'ispirazione, poi è proprio come cavalcare
un
toro. Questo è il resto del lavoro, sia quando resti in sella sia quando cadi. Se credi che ciò che stai
facendo sia importante, allora, non importa come, resterai in sella.

PLAYBOY: Ci sono versi simili a tori selvaggi?

DYLAN: Sì, molti versi sarebbe meglio che sparissero, magari finendo sopra una pagina stampata,
come poesie. Dimentico molti versi. Durante la giornata appaiono nella mia mente versi che
definirei
strani, eppure io non ho niente di meglio da fare. Cerco di non prestare troppa attenzione a questi
versi
oscuri e selvaggi.

PLAYBOY: Tu dici di avere a disposizione un singolo verso e poi di cavalcarlo. La melodia la
componi dopo aver scritto l'intera canzone?

DYLAN: Di solito ho in mente la melodia prima della canzone.

PLAYBOY: E la melodia resta lì ad aspettare il primo verso?

DYLAN: Sì.

PLAYBOY: La senti con facilità?

DYLAN: La melodia? A volte, altre volte devo cercarla.

PLAYBOY: Lavori con regolarità? Ti alzi tutte le mattine per esercitarti?

DYLAN: Devo suonare ogni giorno, almeno per un po'.

PLAYBOY: Il tuo modo di suonare è diventato più complesso?

DYLAN: No, da un punto di vista musicale no. Riesco ad ascoltare di più e le mie melodie ora
sono più
ritmiche di quanto non siano mai state, ma, veramente, uso sempre gli stessi tre accordi. Voglio
dire
che io non sono Segovia o Montoja. Non mi esercito per dodici ore al giorno.

PLAYBOY: Quando ti eserciti usi anche la voce?

DYLAN: Di solito sì, quando provo o mentre scrivo una canzone, naturalmente, la canto.

PLAYBOY: Qualcuno ha detto che quando hai smesso di fumare la tua voce è cambiata. Vedo
che stai fumando di nuovo. La tua voce sta ritornando più rauca?

DYLAN: No. Puoi fare ogni cosa con la tua voce se ci metti dentro il tuo spirito. Voglio dire, puoi
diventare anche ventriloquo o imitare le voci delle altre persone. Io non riesco a liberarmi della mia
voce, posso imitare quella di poche persone.

PLAYBOY: Quali voci riesci ad imitare?

DYLAN: Richard Widmark, Sydney Greenstreet, Peter Lorre. Mi piacciono queste voci, erano
molto
particolari nei primi film sonori. Oggi, quando vai al cinema, non puoi distinguere una voce
dall'altra.
Jane Fonda ha la stessa voce di Tatum O'Neal.

PLAYBOY: Nelle tue canzoni l'atteggiamento verso le donne è molto cambialo?

DYLAN: Si, nel primo periodo parlavo più degli ostacoli, dell'ossessione del rifiuto. Sovrapponevo
la
mia realtà personale a ciò che mi sembrava non avesse realtà in se stesso.

PLAYBOY: Come sono cambiate queste opinioni?

DYLAN: Per indifferenza.

PLAYBOY: Per indifferenza?
DYLAN: Crescendo le cose non ti toccano più come quando stai ancora formando le tue opinioni.

PLAYBOY: Intendi dire che sei meno vulnerabile?

DYLAN: Rimango ferito da altre cose, diverse da quelle che mi ferivano a diciassette anni.
Comunque
la forza dell'offesa non è sufficiente per creare arte.

PLAYBOY: Così nelle tue canzoni le donne sono diventate più reali, ci sono meno dee...

DYLAN: La dea non è reale. Una donna bella come un dea se ne resta sul piedistallo. Un fiore ti
coinvolge veramente: l'aprirsi e il chiudersi, la crescita e la confusione. Non si corre dietro ai fiori.

PLAYBOY: Allora la tua considerazione delle donne è cambiata?

DYLAN: Le persone sono persone. Non considero le donne come qualcosa a cui aggrapparmi.

PLAYBOY: Ma in passato?

DYLAN: In passato sono stato colpevole di questo crimine senza ritegno.

PLAYBOY: Dichiari di essere completamente riabilitato?

DYLAN: A questo proposito non ho alcun problema serio.

PLAYBOY: Durante il tuo film qualcuno dice a Sara: "Ho bisogno di te perchè ho bisogno che
la tua magia mi protegga ".

DYLAN: Be', la vera magia delle donne è che attraverso i tempi sono state costrette a fare ogni tipo
di
lavoro e ancora riescono ad avere il senso dell'umorismo.

PLAYBOY: Questo è per quel che riguarda i tempi passati. Cosa ne dici delle donne di oggi?

DYLAN: Be', ecco la nuova donna, giusto? Oggi circola l'idea di una nuova donna ma la donna non
è
niente senza uomo.

PLAYBOY: Che cosa ti risponderebbe la nuova donna?

DYLAN: Non so cosa mi risponderebbe. La nuova donna è la donna impulsiva.

PLAYBOY: Nel tuo film qualcuno parla dell'"ultima donna". Chi è?

DYLAN: Una donna senza pregiudizi.

PLAYBOY: Ce ne sono molte?
DYLAN: Tante quante puoi vederne, quante puoi toccarne.

PLAYBOY: Hai avuto a che fare con molte ultime donne?

DYLAN: Io personalmente? Non incontro molta gente. Lavoro per la maggior parte del tempo.
Davvero non ho tempo per questo genere di intrighi.

PLAYBOY: Camus ha detto che la castità è una condizione essenziale per la creatività. Sei
d'accordo?

DYLAN: Probabilmente stava vantandosi del suo disimpegno.

PLAYBOY: Non parlava di castità sessuale?

DYLAN: Secondo te stava dicendo che devi rimanere celibe per poter creare?

PLAYBOY: Questa è un'interpretazione possibile.

DYLAN: Potrebbe essere applicata a quella situazione. Potrebbe aver funzionato per lui.

PLAYBOY: Quando pensi al rock e al ritmo del battito del cuore, ti sembrano legati all'amore?

DYLAN: Il battito del cuore... Sei mai stato disteso con qualcuno mentre i vostri cuori battevano
allo
stesso ritmo? E' vero amore. Un uomo e una donna che giacciono mentre i loro cuori battono
insieme
sono davvero fortunati. In questo caso sei davvero innamorato, caro mio. Sì, quello è il vero amore.
Po-
tresti vedere quella persona una volta al mese, una volta all'anno, magari una sola volta nella vita
ma
hai la garanzia che le vostre vite saranno in sintohia. E tutto ciò di cui hai bisogno.

PLAYBOY: Considerando che alcune tra le tue canzoni più recenti parlano di amore e di
romanticismo, cosa ne pensi della tendenza di alcune persone a dividere il tuo lavoro in
periodi? Ad esempio, ti sembra opportuno dividere il tuo lavoro in un periodo politico e uno
non politico?

DYLAN: Questa gente trascura il fatto che io, in ultima analisi, sono solo un autore di canzoni.
Non
posso intervenire sul modo in cui la gente usa le mie canzoni.

PLAYBOY: Ma tu eri molto coinvolto politicamente. Si dice che tu ab-bia scritto Chimes of
Freedom sul sedile posteriore di una mac-china, dopo aver visitato alcuni SNCC, nel Sud
(Student Non-violent Coordinating Committee - 1960/1969).

DYLAN: È quel che facevamo in quel periodo. Scrivere sui sedili posteriori delle macchine o
scrivere
canzoni agli angoli di strada o sulle altalene delle verande. Cercando le zone esplosive della vita.

PLAYBOY: Una di queste era la politica?

DYLAN: La politica era una di queste zone, perche c'era gente che stava cercando di cambiare le
cose. Loro erano coinvolti nel gioco politico perchè era quEllo il modo in cui dovevano cambiare
le
cose. Ma io ho sempre considerato la politica solo come una parte dell'illusione generale. Non sono
molto coinvolto dalla politica. Non conosco il funzionamento del sistema. Ad esempio, c'erano
persone
che avevano idee politiche definite o che avevano studiato tutti i sistemi di governo. Molta tra
questa
gente proveniva dai colleges e aveva la tendenza a usare chiunque per qualsiasi scopo. Certo
strumentalizzarono anche la musica, perchè la musica era accessibile. Noi avremmo scritto quelle
canzoni e le avremmo cantate a prescindere da ogni implicazione politica. Non ho mai rinunciato a
un
ruolo politico perchè non ne ho mai avuto uno. Solo pensarci mi sembra comico. Gurdjeff diceva
che è
meglio consumare la propria energia giorno per giorno.

PLAYBOY: Così hai avuto molte esperienze "sulla strada?".

DYLAN: Ne ho ancora.

PLAYBOY: Girando?

DYLAN: Mi interessano tutti gli aspetti della vita. Rivelazioni e realizzazioni. Il pensiero lucido
che può
essere traformato in canzoni, in analogie, in nuove informazioni. Tutto questo sta funzionando
meglio.
Non ho ancora scritto la mia ultima cosa. Non sono ancora giunto al punto a cui giunse Rimbaud
quando decise di smettere di scrivere per trasportare fucili in Africa.

PLAYBOY: Jimmy Carter ha detto che ascoltando le tue canzoni ha imparato a considerare in
un modo nuovo la relazione tra proprietario e inquilino, tra fattore e mezzadro... Ha detto che
tu sei suo amico. Cosa ne pensi?

DYLAN: Sono suo amico.

PLAYBOY: Un amico personale?
DYLAN: Lo conosco personalmente.

PLAYBOY: Ti piace?

DYLAN: Sì, penso che il suo cuore sia al posto giusto.

PLAYBOY: Come descriveresti quel posto?

DYLAN: Il posto del destino. Spero che la rivista non prenderà tutta questa storia e la pubblicherà
con
il titolo Il cuore di Carter è al posto giusto del destino, suonerebbe davvero...

PLAYBOY: No, si perderebbe il senso della conversazione. La rivista non si comporta male in
queste cose.

DYLAN: Carter ha il suo cuore al posto giusto, ha il senso di chi è. Comunque, questo è quel che
ho
sentito quando l'ho incontrato.

PLAYBOY: Lo hai incontrato molte volte?

DYLAN: Solo una volta.

PLAYBOY: Eri a casa sua?

DYLAN: No, ma chiunque sia governatore o senatore o in una posizione di potere e trova il tempo
per
invitare un cantante folk rock e il suo gruppo deve avere... un certo senso dell'umorismo... e un
certo
contatto con gli umori della gente. Perche avrebbe dovuto farlo? La maggior parte della gente che
occupa questo tipo di posizione non entra veramente in contatto con la gente dell'ambiente
musicale se
non per qualche scopo personale.

PLAYBOY: Avete parlato di musica o di politica?

DYLAN: Abbiamo parlato di musica, molto poco di politica. La conversazione si manteneva su
argomenti abbastanza generali.

PLAYBOY: Carter preferisce qualcuna tra le canzoni di Dylan?

DYLAN: Non l'ho chiesto e lui non me lo ha detto. A dire il vero penso che gli piaccia Ballad Of A
Thin Man.

PLAYBOY: Pensi che Carter possa averti strumentalizzato invitandoti?

DYLAN: No, credo sia un uomo comprensivo e corretto, che volesse solo conoscermi. In effetti tra
i
presidenti passati preferivo Truman.

PLAYBOY: Perche?
DYLAN: Mi piaceva il modo in cui si muoveva, le cose che diceva e quelli a cui le diceva. Era una
persona disponibile, è raro in un presidente. Forse ai vecchi tempi non era così raro ma oggi lo è.
Aveva una qualità particolare, sembrava di potergli parlare tranquillamente.

PLAYBOY: Ovviamente ti senti di poter parlare anche con il presidente Carter.

DYLAN: Ti senti di poter parlare con lui ma è così impegnato e oberato di lavoro che forse sarebbe
meglio lasciarlo solo. Lui ha a che fare con problemi molto complicati e intanto le persone restano
divise. Non eravamo divisi durante il periodo di Truman.

PLAYBOY: C'è qualcosa che ti irrita? C'è qualcosa per cui andresti da Carter dicendogli:
"Guarda, maledizione, fai questo!"?

DYLAN: Be'... (Pausa) Probabilmente lui è prigioniero del sistema come ogni altro.

PLAYBOY: Compreso te?

DYLAN: Sono una parte del sistema, ho a che fare con il sistema. Nel momento in cui paghi le
tasse
diventi parte del sistema.

PLAYBOY: Ci sono eroi o santi in questo periodo storico?

DYLAN: Un santo è qualcuno che dona se stesso interamente e liberamente, senza legami. Non è
sordomuto ne cieco. Eppure lo è. E padrone della sua realtà, è la voce della semplicità. Il trucco sta
nel
rimanere lontani dalle immagini riflesse dagli specchi. Gli unici veri specchi sono le pozze d'acqua.

PLAYBOY: Qual è la differenza tra specchi e pozze d'acqua?

DYLAN: L'immagine che vedi in una pozza d'acqua è consumata dalla profondità, un'immagine
che
vedi quando guardi in un pezzo di vetro non ha profondità nè fremiti di vita. Certo potresti voler
controllare il nodo della tua cravatta. Oppure potresti voler vedere se il trucco è a posto. Questa è la
storia. La vanità vende molte cose.

PLAYBOY: Ad esempio?

DYLAN: Be', i prodotti del mercato. Tutto, dai nuovi pneumatici ai pezzi di sapone. Il bisogno è...
il
bisogno è completamente controllato. Nessuno sembra occuparsi dei veri bisogni della gente. Sono
tutti
uniti in un solo intento: offrire una frivola tomba.
PLAYBOY: Vuoi che la tua tomba sia anonima?

DYLAN: Non è una frase del mio film?

PLAYBOY: Sì.

DYLAN: Be', si possono fare molte cose con le ossa. (Pausa) Ne fanno amuleti da portare al collo,
le
sotterrano, le bruciano.

PLAYBOY: E tu cosa preferiresti?

DYLAN: Metterle in un guscio di noce.

PLAYBOY: Stavi parlando della vanità e dei bisogni reali. Quali bisogni? Cosa ci manca?

DYLAN: Non manca niente, eppure c'è molta povertà.

PLAYBOY: Povertà di cosa?

DYLAN: Povertà d'ispirazione.

PLAYBOY: Allora non si tratta di crisi d'energia ma d'immaginazione?

DYLAN: Penso sia una crisi spirituale.

PLAYBOY: Perchè?

DYLAN: Sai, le persone camminano troppo l'una sui piedi dell'altra. Passano sopra i problemi degli
altri
e facilmente si confondono. Ma non è questo che mi stanca. Non sto sopra una tribuna a predicare.
Questo è il modo in cui si vive.

PLAYBOY: Ti avevo chiesto degli eroi e dei santi, tu hai cominciato a parlare di santi, che ne
dici degli eroi?

DYLAN: Un eroe è qualcuno che cammina verso il suo venditore ambulante.

PLAYBOY: Per diventare eroi non bisognerebbe emulare gli altri?

DYLAN: No, quando si guarda l'eroismo degli altri, si sta cercando l'eroismo in una figura
immaginaria.

PLAYBOY: Forse questo spiega, almeno in parte, perchè molti hanno scelto te come figura
immaginaria.

DYLAN: Io però non sono una figura immaginaria.

PLAYBOY: Devi renderti conto che certa gente costruisce un mondo intero intorno a te.

DYLAN: So che lo facevano.

PLAYBOY: Non pensi che accada ancora?
DYLAN: Non ne sono al corrente.

PLAYBOY: Che ne dici del tour del 1974 e della Rolling Thunder Revue del 1976?

DYLAN: Be', sì, quando suono la gente si fa vedere. Mi rendo conto che non mi hanno
dimenticato.

PLAYBOY: Eppure la gente pensa ancora che tu abbia delle risposte. Non è così?

DYLAN: Se non fossi Bob Dylan anch'io penserei che Bob Dylan abbia un mucchio di risposte.

PLAYBOY: Avresti ragione?

DYLAN: Non so. Forse ha per se molte risposte, ma per me? Forse sì, forse no. Bob Dylan non è un
gatto, non ha nove vite, può fare solo quello che può. Non può spezzarsi per la tensione. Se
qualcuno
t'innalza ad un livello irreale, è un problema suo. Lui sta solo confrontando il suo io superficiale
con
qualcosa di irreale. Prima o poi se ne renderà conto, ne sono sicuro.

PLAYBOY: Ma non sei stato costretto ad attraversare un periodo durante il quale la gente
diceva che l'avevi abbandonata?

DYLAN: Sì ma non ci faccio molto caso. Cosa potrei dire? Oh, ti ho abbandonato! E finita. Trova
qualcun altro. Va bene? E tutto qui.

PLAYBOY: Hai parlato di crisi spirituale, pensi che Cristo sia una risposta?

DYLAN: Cosa avvicina la gente a Cristo? La grandezza della sua tragedia, ecco cos'è. Cosa diventa
Cristo quando vive dentro certe persone? Molte persone dicono che Cristo vive dentro di loro: cosa
significa? Ho parlato con molta gente che pretende di portare in sè Cristo ma non ne ho incontrato
uno
che scambierebbe il suo posto con quello di Cristo. Nessuna di queste persone resterebbe coerente
nell'ora della fine. Cosa sarebbe Cristo in questo periodo, se tornasse indietro? Cosa farebbe per
adempiere la propria funzione, il proprio scopo? Immagino che dovrebbe essere un leader .

PLAYBOY: Sei cresciuto nella consapevolezza di essere ebreo?

DYLAN: No. Non mi sono mai sentito ebreo. Veramente non mi considero ebreo o non ebreo. Non
ho
avuto una formazione ebraica. Non sono un sostenitore di alcun credo. Credo in tutte le fedi e in
nessuna. Un devoto cristiano o un mussulmano possono essere altrettanto efficaci quanto un devoto
ebreo.

PLAYBOY: Dici di non sentirti ebreo ma qual è il tuo senso di Dio?

DYLAN: Sento un Dio profondo, un Dio vivo. Non credo che Dio voglia che io pensi a Lui tutto il
tempo. Ha già abbastanza gente che gli chiede dei favori. C'è abbastanza gente che gli chiede di
strappare le corde. lo mi libererò dalle mie corde. Ricordo di avere visto un numero di Time mentre
ero
in aereoplano, qualche anno fa, sulla copertina c'era scritto: "Dio È MORTO?". Voglio dire, era... ti
sembra una cosa sensata? Che ne penserà Dio? Se tu fossi Dio, ti piacerebbe vedere quella cosa
scritta su di te? Penso che il Paese sia peggiorato da quel giorno.

PLAYBOY: Davvero?

DYLAN: Uh-huh.

PLAYBOY: Da quando è stata posta quella domanda particolare?

DYLAN: Sì, penso che in quel momento una persona particolarmente irresponsabile abbia avuto
troppo
potere per porre una domanda così irrilevante sopra una rivista, mentre si potrebbe parlare di
problemi
reali. Da quel giorno in un certo senso devi seguire la tua strada.

PLAYBOY: Dove stiamo andando seguendo la nostra strada?

DYLAN: La verità è che siamo nati e moriremo. In questa vita il viaggio ci riguarda dal punto a al
punto z, o da quello che pensiamo siano il punto a e il punto z, ma è triste pensare che sia tutto qui.

PLAYBOY: Cosa pensi che ci sia oltre il punto z?

DYLAN: Vuoi dire cosa penso ci sia nel grande non conosciuto? (Pausa) Suoni, echi di risate.

PLAYBOY: Pensi che nell'universo ci sia una fonna di equilibrio, un destino che subisci per
atti di cattiva fede?

DYLAN: Senz' altro. Credo che ognuno sappia che è così. Dopo aver vissuto abbastanza a lungo,
sai
che le cose stanno così. Puoi sfuggire da qualsiasi cosa, per un po', ma prima o poi accadrà come
nel
Cuore rivelatore di Poe o in Delitto e castigo di Dostojevskii. Prima o poi sarai costretto a pagare.

PLAYBOY: Ti sembra di aver pagato per ciò da cui sei riuscito a sfuggire?
DYLAN: Proprio in questo periodo sono quasi in pari.

PLAYBOY: Non è forse quel che hai detto dopo l'incidente in motociletta: "Bisognava saldare
il conto?".

DYLAN: Sì
PLAYBOY:Volevi dire...

DYLAN: Volevo dire che la mia ruota posteriore doveva essere raddrizzata. (Risate)

PLAYBOY: Facciamo un'ultima immersione nel mondo materiale. Che ne pensi della relazione
di un artista con il denaro?

DYLAN: Il mito dell'artista morto di fame è solo un mito. I grandi banchieri e le giovani signore
ricche
hanno dato inizio a tutto questo. Vogliono solo tenere l'artista sotto controllo. Chi dice che un
artista non
può avere denaro? Guarda Picasso. L' artista che fa la fame di solito fa la fame perche quelli che
sono
intorno a lui sono troppo affamati. Non è necessario far la fame per essere un buon artista. Devi
solo
avere amore, intuito e un preciso punto di vista. E devi vincere la corruzione, senza compromessi, è
una
prerogativa del buon artista. Non importa se hai denaro oppure no. Guarda Matisse, era un
banchiere.
Comunque ci sono altre cose, oltre al denaro, che determinano la ricchezza e la povertà.

PLAYBOY: L 'argomento che stavamo trattando riguardava, ad esempio, la costosa casa in cui
vivi.

DYLAN: Cosa c'è da dire? Non c'è niente di sensazionale o di definitivo nel luogo in cui vivo. Non
c'è
alcuna intenzione dietro quella casa, solo un mucchio di alberi e di tettoie.

PLAYBOY: Abbiamo letto sui giornali dell'enorme cupola di rame che hai fatto costruire.

DYLAN: Non so cosa hai letto sui giornali. Per il momento è solo il posto in cui vivo. La cupola di
rame è stata fatta solo perche io possa riconoscerla quando torno a casa.

PLAYBOY: D'accordo, torniamo a questioni meno prolisse. Credi nell' astrologia?

DYLAN: Non molto.

PLAYBOY: Ho letto qualcosa che hai detto recentemente a proposito della tua natura Gemelli.

DYLAN: Può darsi che ci siano alcune caratteristiche comuni alle persone nate sotto determinati
segni. Ma non so, non sono sicuro che sia rilevante.

PLAYBOY: Potrebbe esserci un tuo gemello sconosciuto, un doppio di Bob Dylan?

DYLAN: Da qualche parte, sul pianeta, potrebbe esserci un mio doppio che cammina. Potrebbe
essere
davvero possibile.

PLAYBOY: Un messaggio per il tuo doppio?

DYLAN: Credo che l'amore conquisterà ogni cosa.

L'intervista è contenuta nel libro "Dylan, interviste, cronache e saggi
dal 1962 al 1984" dell'Arcana Editrice (1984) (c) copyright degli aventi diritto

 

parte sesta