MAGGIE'S FARM

sito italiano di BOB DYLAN

 

 

THE BAND - MONOGRAFIA

di Maurizio Marino

(fonte: http://www.music-on-tnt.com/monografie/the_band_0.htm)

 
 

 

Introduzione

In un piovoso pomeriggio d'estate del 1979 m' infilai in un cinema della riviera romagnola, rifugio tipico di giornate così, quando in via eccezionale gli spettacoli – visto che il maltempo rendeva impraticabile la spiaggia – iniziavano già nel primo pomeriggio: per queste occasioni le sale lottavano per accaparrarsi le copie dei pezzi grossi del botteghino, Spencer & Hill in primis.

Ma quel giorno al gestore del mio cinema andò male, così dovette far girare nel proiettore la pellicola dello spettacolo serale, un film musicale di Martin Scorsese intitolato L' Ultimo Valzer.

Conoscevo di fama i protagonisti di quel film, ma avevo sempre snobbato la loro musica perché era roba da “vecchi” – roba di pochi anni prima ma … “ogni generazione catapulta il suo idolo in vetta alle classifiche” (Paul Simon) ed io avevo già i miei di idoli, ma quel pomeriggio grazie alla pioggia e a quel gestore sfigato fui introdotto nel magico e fascinoso mondo di The Band.

Questo scritto è un tentativo di rivivere quella magia e di dare voce a una delle maggiori leggende e mitologie della storia del rock, perché la storia di The Band inizia agli albori del rock e tramonta quando il rock è ormai un fenomeno planetario, un 'occasione quindi per fare un viaggio alle radici di questa musica. Mito, storia, leggenda certo, ma senza dimenticare la musica, i dischi che hanno reso The Band uno dei gruppi più influenti di sempre.

I capitoli che seguono non sarebbero stati possibili senza:

This Wheel's on fire di Levon Helm e Stephen Davis
Mystery train di Greil Marcus
The old, weird America di Greil Marcus
I testi di Rob Bowman a corredo delle edizioni remasterizzate degli album di The Band
Il documentario della BBC dedicato all 'album The Band
Il sito web http://theband.hiof.no/
Innumerevoli articoli e interviste raccolti dallo scrivente nel corso degli anni.
Across the Great Divide di Barney Hoskins
 

PART 1

Ronnie Hawkins & The Hawks

Capitolo I: Levon Helm

“Non c'è ombra di dubbio: Ronnie Hawkins è un re del rock&roll” firmato Jerry Lee Lewis

Ronnie chi?

Quella di Jerry Lee Lewis – egli sì un autentico re – è forse una frase un po' ad effetto detta per compiacere un vecchio compagno di strada ma sia come sia Hawkins, Ronnie, nasce in Arkansas nel 1935 e durante l' adolescenza nulla lascia pensare a un futuro animale da palcoscenico: inizia la carriera contrabbandando whisky dal Missouri all 'Oklahoma; il crimine paga, così a diciotto anni è già proprietario di bar e club a Fayetteville, Arkansas. In questa cittadina Ronnie frequenta l' università ma soprattutto inizia a cantare facendo da supporto agli artisti che suonano nei suoi locali. Fayetteville si trova nella regione del Delta, la regione mitica, madre della musica americana: il rock è agli albori e gli abitanti della regione hanno la fortuna di vivere uno dei momenti più importanti della musica popolare. Siamo nei primi anni '50 e ogni sera nei locali della sterminata regione passano Elvis Presley, Carl Perkins, Jerry Lee Lewis, Roy Orbison, Chuck Berry, Conway Titty e mille altri più o meno noti; ogni giorno nascono nuove band ed è così che dei musicisti cui serve un cantante propongono a Ronnie Hawkins di unirsi a loro. Ronnie non fa in tempo ad arrivare a Memphis che la band si è già dissolta, ma Hawkins non è tipo da tornare indietro, troppa sarebbe la vergogna, così forma un nuovo gruppo, peccato che in città ci sia carenza di batteristi, Ronnie non vuole afroamericani, non è un fatto personale, niente razzismo, il fatto è che la sua esperienza di gestore di locali gli ha insegnato che i gruppi misti creano problemi con certa clientela: è allora che il suo bassista, George Paulman, si ricorda di una serata a Forrest City quando trovandosi appunto senza batterista, era stato soccorso da un ragazzo del pubblico che non se l' era cavata male a battere le pelli, il suo nome? Lavon Helm.

Lavon – che per comodità di pronuncia diverrà Levon - (classe 1940) è un tipico ragazzo del Sud degli States, viene da una famiglia di piccoli coltivatori di cotone, fin da piccolo ha lavorato nella piantagione, a 9 già guidava il trattore nei campi sterminati: la città e la modernità sono lontane miglia lunghe quanto anni luce. Niente elettricità ma – per fortuna – una radio a batteria che consente all 'adolescente Levon di seguire i programmi musicali più in voga: come il King Biscuit Time, che presenta ogni giorno Sonny Boy Williamson, discepolo del leggendario Robert Johnson. La musica è un passatempo amato da tutta la famiglia. Quando in città arrivano gli spettacoli la notizia è nota con settimane d' anticipo in modo che la gente delle campagne abbia tempo di prepararsi allo spostamento: è il tempo dei medicine shows , spettacoli viaggianti che alternano i numeri musicali – soprattutto di Rhythm&Blues – all 'intrattenimento comico. Finito lo spettacolo il leader saluta il pubblico e invita chi non deve alzarsi presto a restare per la Midnight Ramble, detta così perché si concluderà intorno alla mezzanotte: tocca pagare un supplemento di un dollaro e mezzo ma ne vale la pena, sarà un hoochie-coochie show , ossia i comici le racconteranno senza freni, la band farà l' inferno e le ballerine … beh, oggi passerebbero forse inosservate, ma qui siamo negli anni '40!

Levon ricorderà:

“Oggi quando la gente mi chiede come nacque il rock&roll, a me vengono sempre in mente i medicine shows e la selvaggia Midnight Ramble . Il passo di Chuck Berry, il bacino roteante di Elvis Presley, Little Richard che balla sul piano, le buffonate di Jerry Lee Lewis, e il passo del cammello di Ronnie Hawkins sono tutte cose nate da palchi come quello di F.S. Walcott.”

Levon ha iniziato ad esibirsi fin da piccolo, in duo con sua sorella, che però lascerà presto le scene perché per una brava ragazza del Sud non sta bene andare a esibirsi su di un palco: intanto queste esibizioni sono un modo per girare, il duo dei fratelli Helm vince fiera dopo fiera arrivando fino a vincere la più grande e importante, quella di Memphis, i soldi del premio daranno a Levon la sua prima vera chitarra. L' adolescente Levon ogni volta che può cerca un passaggio su un trattore diretto a Helena – la città da cui va in onda il King Biscuit Time – ed è in una di queste gite che capiterà a Forrest City, quella sera che a George Paulman manca il batterista…

La Ford “model A” di Ronnie Hawkins quando si fermerà davanti casa Helm troverà un batterista part-time: siamo nel 1957 e Levon ha ancora un anno di superiori davanti a sé, per ora suonerà solo quando il gruppo è nei dintorni.


 

 

PART 2

Capitolo II: Robbie Robertson

La neonata band di Ronnie Hawkins – presto Ronnie Hawkins & the Hawks – inizia a suonare nel circuito di locali della zona: honky-tonks, ossia bettole e bordelli, così la band è on the road. Levon non ha l’età per certi locali, così tra un numero e l’altro passa le serate nascosto nelle cucine: le retate sono pane quotidiano. Per una band sopravvivere nel circuito del Delta è durissimo, la concorrenza è spietata e visti i luoghi malfamati dove si suona non è certo che a fine serata ti pagheranno, ma gira voce che in Canada ci siano bei soldi da fare, il fratello di George Paulman è stato a suonare lassù con Conway Titty e dice che non c’é nessuna concorrenza e lì il rockabilly è ancora una novità. Così nell’estate del 1958 Levon - terminata la scuola – non guiderà il trattore ma una Chevrolet del ‘55 che porterà il gruppo in Canada, meta l’Ontario e Toronto, la sua capitale.

Essere on the road significa suonare nei bordelli, ma significa anche essere nel circuito, avere ogni giorno l’occasione di andare a veder suonare gente forte che si trova nella tua stessa città: è così che i musicisti di talento rubano il mestiere e arrivano a crearsi uno stile personale, l’ambizione e la competizione sono le molle; Levon queste occasioni non se le lascia sfuggire, siamo nel 1958 e quando ti capita di essere dove suona Bo Diddley – l’unico uomo con un ritmo che porta il suo nome - trovare il tempo di scappare a sentirlo è andare all’università del rock&roll.

Così Ronnie Hawkins inizia ad andare su e giù tra il Canada e il Delta, il viaggio è lungo ed intervallato da ingaggi nei locali delle zone attraversate, il bello del Canada è che i gestori sono seri, ti pagano sempre, ma quando sei on the road, quando passi il confine e torni negli Stati Uniti tocca ricordarsi che quando il gioco si fa duro…

Levon Helm: “Fu durante un ingaggio di una settimana in un club di Tulsa, in Oklahoma, il Canadian Club. L’assegno con cui il proprietario ci pagò era scoperto: eravamo neri di rabbia. Sapevamo che l’uomo non era nuovo a queste cose, giusto un mese prima aveva fregato pure Ray Charles. Io odiavo quel posto, il soffitto era bassissimo sui tamburi, così prendevo dei gran colpi in testa, tutti i batteristi odiavano quel bordello. Quel fetente del proprietario fregava i musicisti sapendo che non avevano i soldi per un avvocato, ma quella volta decidemmo di risolvere la faccenda a modo nostro. Nella notte tornammo al club, dopo la chiusura, entrammo e facemmo a pezzi il locale, poi Ronnie versò sul pavimento 50 litri di benzina, tracciando una scia fino al parcheggio, proprio come vedevamo fare nei film. Beh, io accesi un fiammifero, diedi fuoco e…saltò tutto per aria! La forza dell’esplosione ci fece volare per terra, Ronnie che era vicino alla porta si trovò le ciglia bruciate. Non restava niente del Canadian Club , solo macerie fumanti. Noi eravamo troppo sconvolti per svignarcela in fretta, eravamo ancora là quando arrivarono gli sbirri: ci lasciarono andare! Ci dissero: “diavolo, ragazzi, ci avete fatto un favore. Ora però filate via di qua e non fatevi più vedere.”

Intanto le cose vanno bene, Ronnie Hawkins riesce ad incidere dei dischi, l’interpretazione di “Mary Lou” - un brano di Young Jessie Obie già inciso da Roy Orbison, all’epoca quelle che oggi chiamiamo cover erano pane quotidiano - è un successo: con 750mila copie vendute nell’estate del ’59 arriva al #25 di Billboard. Non sono tutte rose però, dall’Arkansas al Canada la strada è tanta e la lunga assenza da casa pesa, perciò gli Hawks cominciano a subire defezioni in serie: chi ha una donna, chi famiglia, chi – come il chitarrista Fred Carter jr. – è attirato dai soldi che un session-man di valore può fare a Nashville. Levon non ha di questi problemi, la vita on the road gli piace e i soldi gli fanno comodo, l’America rurale sta cambiando e la sua famiglia è in difficoltà.

Sia come sia Ronnie Hawkins – The Hawk o Mr. Dynamo come è ormai noto - decide di puntare sul Canada per il futuro; i discografici vorrebbero trattenerlo perché con Buddy Holly morto e Elvis sotto le armi credono che Ronnie possa essere the next big thing ma Hawkins ha fiuto, sa di non essere un fenomeno, in più sente che la stagione del rock è alla frutta, vede che la classifiche adesso sono dominate da cantanti melodici come Frankie Valli e quindi sceglie il Canada, e da questo momento in avanti per mantenere stabile il gruppo si affiderà a musicisti canadesi.

Fred Carter jr. è un signor chitarrista e in quanto tale – si è già detto – punta a diventare un session-man: Ronnie ha bisogno di un nuovo chitarrista. C’è un ragazzo a Toronto – avrà quindici anni - che si fa vedere spesso intorno alla band, scarica strumenti e amplificazione, porta il caffè e ha sempre con sé una custodia di chitarra, si chiama Robbie Robertson (classe 1943): Hawkins vede che ha talento, come chitarrista è acerbo ma ha già scritto qualche pezzo, fatto che a Hawkins non dispiace perché avere qualche brano originale fa comodo, così The Hawk prende Robertson nel gruppo perché Carter gli insegni il mestiere. Robbie Robertson ne L’Ultimo Valzer immortalerà il suo ingresso negli Hawks ricordando il benvenuto di Hawkins: “di soldi ne guadagnerai pochi, figliolo, ma acchiapperai più fica di Frank Sinatra”.

Robertson è di madre indiana, è cresciuto in città ma passando le estati in riserva, dove ha preso confidenza con la cultura Mohawk ed ha imparato ad amare la musica, è un ragazzo turbolento, anche per questo – nonostante abbia solo sedici anni - sua madre sarà felice di vederlo partire per l’Arkansas. Grazie alla radio Robbie è cresciuto ascoltando la stessa musica di Levon: così quando nel 1959 arriverà in pullman a Fayetteville per unirsi agli Hawks scoprirà il mondo dei suoi sogni, respirerà l’aria e sentirà i suoni da cui nasce la musica che ama.

Nel gennaio del 1960 Hawkins e Levon volano in Inghilterra per una serie di concerti, a differenza che in USA pare che lì il rockabilly non sia ancora morto; Ronnie lascia cento dollari a Robertson per le spese e dice a Fred Carter jr. di dare lezioni al ragazzo, ma Fred teme Robbie, oltre a non dargli lezioni presto comincerà a voltargli le spalle sul palco per non farsi rubare il mestiere. Comunque sia mentre Ronnie e Levon sono in Europa, Fred accompagna Robertson a Memphis: per Robbie quella città è un sogno ed entrare nello storico negozio di dischi House of Blues si rivelerà il modo perfetto per spendere i cento dollari che Ronnie gli ha lasciato. I dischi saranno la sua scuola, si eserciterà quindici ore al gorno cercando di emulare ciò che sente sui dischi di Howlin’ Wolf e degli altri grandi dell’epoca.

Robbie Robertson: “The Hawk mi aveva dato due settimane, al suo ritorno avrei dovuto mostrargli che ero in grado di suonare per lui, così ascoltavo i dischi e cercavo di ripeterne le parti di chitarra, a parte dormire qualche ora non facevo altro, credo che nessuno si sia mai esercitato così intensamente. Certe cose erano difficili da ripetere, faticavo a capire come il chitarrista avesse ottenuto un certo suono, ma alla fine ci riuscivo; fu allora che trovai quel suono particolare che sarà il mio marchio di fabbrica. Ma a dirla tutta, quando poi mi capitò di trovarmi in un club e vidi suonare quegli assi usando una slide mi dissi: ehi, non vale, questo è barare!”

 

 

PART 3

Capitolo III: Rick, Richard, Garth e una telefonata

Ronnie Hawkins & the Hawks sono un successo perché il leader ha il fisico e l’aspetto giusto per piacere al pubblico, The Hawk è un animale da palcoscenico, il suo passo del cammello – sembri fermo e invece ti muovi – scatena il pubblico, Ronnie sa interagire con la folla e sa dominarla: è uno showman. Gli spettacoli iniziano con gli Hawks da soli sul palco a suonare, eccoli che poi serrano sempre più il ritmo finché Ronnie entra in scena a passo di cammello, la musica è senza sbavature, suonano a mille all’ora ma precisi come un orologio. Sono la migliore band in circolazione ma la competizione comincia a diventare seria anche in Canada, così Hawkins è sempre alla ricerca di talenti da inserire nel gruppo, il talento conta ma la bellezza non conta meno: The Hawk sa che i ragazzi riempiono i locali pieni di ragazze e che le ragazze … vanno a vedere la band dove suona bella gente. Ma la musica conta tanto, è per questo che Hawkins cerca di assoldare Garth Hudson, che proprio una bellezza non è ma è unanimemente considerato il miglior musicista del circuito, Garth rifiuterà.

Garth Hudson: “Ronnie insisteva, così gli dissi che sarei andato a vedere la sua band. Scoprii che il pianista aveva una tecnica da bombardiere con la sinistra. Non avevo mai sentito prima d’allora un piano suonato con tanta veemenza. L’uomo era grande e grosso e aveva un’energia tremenda con la quale suonava quei selvaggi glissati alla Jerry Lee Lewis. L’altro tastierista in quanto a potenza gli era secondo di poco. Pensai: io non posso suonare questa musica. Non ho una mano sinistra come questi qua.”

Intanto Hawkins ha trovato un nuovo bassista, Rick Danko. Rick pur essendo canadese condivide le semplici origini rurali di Levon, ma a causa di problemi allergici i campi li ha visti poco, così tanta radio e tanta musica. Anche Rick ha iniziato a esibirsi giovanissimo, a quindici anni ha lasciato la scuola perché vuole vivere suonando.

Rick Danko: “Eravamo alla fine del 1960 quando vidi per la prima volta Ronnie suonare, allora gli Hawks erano Levon, Rebel, Stan, e Willard. Robbie era ancora un apprendista chitarrista. Vestivano tutti questi abiti neri fatti su misura, e la musica era più che potente. Era incredibile. Il pianista suonava come un diavolo mentre The Hawk ballava sul piano. Tutti erano madidi di sudore. Erano irresistibili. Levon sghignazzava nel microfono facendo ridere tutto il pubblico, avevano l’indole degli intrattenitori. Me era soprattutto Ronnie a mandare in delirio il locale. Mai visto niente del genere. Il suo passo del cammello era simile alle mosse di James Brown, ma più veloce!”

Ronnie Hawkins & The Hawks sono una band che consuma il pubblico, quando lasciano il palco non ce n’è più per nessuno, ma una sera dopo di loro vanno in scena i Revols e quando il loro pianista attacca “Georgia on my mind” fa esplodere il locale: è un bello e ha una voce incredibile, si chiama Richard Manuel (classe 1944), dirà di lui Eric Clapton: “rock e blues sono musica nera, ho conosciuto solo due bianchi capaci di fare questa musica con la naturalezza di un nero, sono Van Morrison e Richard Manuel.”

Hawkins capisce che i Revols sono rivali pericolosi, perciò decide di assumerli. Li manderà nel Delta a suonare nei suoi locali, ma quando Stan Stelestz deciderà di tornare in Arkansas, sarà Richard Manuel a prendere il suo posto al piano. Levon Helm: “il piano per gli Hawks era parte della sezione ritmica, gli assolo – quando c’erano – toccavano ai fiati e alla chitarra, in seguito all’organo. Il piano evitava che il ritmo calasse. Richard era perfetto per quel lavoro. Allo stesso tempo il suo arrivo alleggerì il lavoro vocale di Ronnie, Richard poteva in tutta naturalezza fare un rock o una ballata confidenziale. Io fino allora avevo cantato solo per dare respiro a Ronnie. Avere la voce di Richard innalzò il livello della band.”

Nel 1961 Ronnie Hawkins & the Hawks riprendono a girare il Sud.

Levon Helm: “essere un musicista in quella regione del paese è come essere un pistolero. I più giovani vogliono la tua reputazione, quando eravamo nuovi in città lasciavamo l’ultima sessione aperta al pubblico, nel Delta tutti conoscono la musica e i chitarristi locali salivano sul palco sorridenti, attaccavano lo strumento all’amplificatore e cercavano di bruciarti, sarebbero stati felici di farti fare una figura da bischero. Ma noi riuscivamo ad ottenere rispetto, certo avevamo una pessima reputazione di puttanieri, donnaioli e ladri di benzina, ma conoscevamo le band nostre concorrenti e sapevamo che suonavano i nostri arrangiamenti, musica che avevamo ideato noi. E’ così che capimmo quanto eravamo bravi.”

Garth Hudson (classe 1937) restava il sogno proibito di Ronnie Hawkins. Garth Hudson è diverso dagli altri: nato in una famiglia di musicisti, ha un padre multistrumentista e una madre fisarmonicista, e ha pure studiato pianoforte al conservatorio di Toronto. Ciò non toglie che come i suoi futuri compagni di strada sia cresciuto ascoltando alla radio Alan Freed, il più famoso DJ dell’epoca.

Garth Hudson: “Volevo suonare l’organo ma non potevo permettermi quello che preferivo. Diverse band di Detroit usavano l’organo, ma solo una il Lowrey, e aveva un gran suono. Andai a provarne uno in un negozio e capii che il Lowrey poteva fare delle cose cui l’Hammond non arrivava. Ronnie insisteva perché mi unissi agli Hawks, io vedevo che facevano bei soldi perché suonavano sette sere a settimana tutte le settimane. Dissi ai miei genitori dell’offerta di Ronnie, ma a loro non andava bene che dopo aver studiato tanto andassi a fare musica in bar e bordelli.”

Siamo nel dicembre del 1961 e questo è uno dei momenti leggendari della storia del rock, dopo Helm, Robertson, Danko e Manuel, Garth Hudson sarà il quinto componente della versione storica degli Hawks: leggendario perché per convincere papà e mamma Hudson, Ronnie comprerà un organo Lowrey per Garth che riceverà un compenso extra come insegnante di musica della band.

Ronnie Hawkins si trovò quindi alla fine del 1961 ad aver allestito una rock band coi fiocchi, ma mentre le serate andavano a mille pian piano andò incrinandosi il rapporto tra Hawkins e il gruppo: Ronnie aveva raggiunto l’apice, sapeva di non poter puntare più in alto e cercava di amministrare con la sua innata sagacia di businessman ciò che aveva guadagnato; viceversa gli Hawks avevano ormai la consapevolezza di essere la miglior band in circolazione e ambivano a qualcosa di più; la band aveva imparato anche a stare da sola sul palco perché Ronnie aveva preso l’abitudine di arrivare in ritardo o non presentarsi proprio alle serate. Fu così che alla fine del 1963 gli Hawks diedero i quindici giorni al loro fondatore.

La band, che adesso si fa chiamare Levon & the Hawks, continua a muoversi in quel di Toronto che in quella stagione è un grande palcoscenico musicale: da Ray Charles a Cannonball Adderly, da Carl Perkins a Charles Mingus tutti passano da Toronto; il movimento folk è vivo e sono già in giro i giovanissimi Neil Young, Gordon Lightfoot e Joni Mitchell. Ma essere una grande rock band non basta, per essere grandi davvero bisogna trovare un proprio repertorio, così il gruppo si mette in strada verso gli Stati Uniti, dove sono in corso novità importanti, tutta la band resta affascinata dal nascente fenomeno degli artisti Motown, intanto di passaggio a Chicago a impressionare tutti è il gruppo dell’armonicista Paul Butterfield che suona con Howlin’ Wolf. Ovviamente a Levon & The Hawks non mancano gli ingaggi nei club più prestigiosi, come il Peppermint Lounge di New York; arriva anche l’incisione di un singolo, pubblicato con il nome di Canadian Squires, sarà poi Ronnie Hawkins a sconsigliare questo nome perché: “le case discografiche americane non sanno che farsene di un gruppo canadese. Credetemi sulla parola. Sanno che il mercato canadese è troppo piccolo, ci perderebbero soldi.”

Preparano anche dei demo registrando un paio di canzoni scritte da Robbie Robertson e ci sarebbe anche l’opportunità di firmare un contratto discografico, ma un avvocato amico di Levon li dissuade perché è un contratto capestro, i discografici non sono che sanguisughe; quando la band tenta di rilanciare chiedendo un accordo più equo i cinque ragazzi vengono cacciati in malo modo.

Così fanno tappa in Arkansas dove incontrano il vecchio e ormai leggendario Sonny Boy Williamson, Levon e gli altri lo adorano, Sonny Boy suonando con loro è impressionato, li ritiene una delle migliori band che abbia mai sentito, così per qualche tempo si pensa ad un progetto comune con il vecchio bluesman, ma pochi mesi dopo, nel maggio del 1965, Sonny Boy Williamson scompare.

Così tornano Levon & the Hawks, ancora un singolo con due pezzi scritti da Robertson che però passano inosservati, a dire la verità il gruppo nel 1965 grazie a Levon finirà in prima pagina su tutti i giornali canadesi ma … non saranno le sue virtù di batterista a richiamare tanta attenzione sulla band: Levon guida come un matto sulle strade che da Buffalo negli Stati Uniti passato il confine in terra canadese portano all’aeroporto di Toronto, 8 vetture dei Mounties li inseguono senza riuscire a prenderli finché non si fermano allo scalo aereo: “arrestato gruppo rock di Toronto” titolarono i giornali e occorsero 60mila dollari di cauzione per uscire di prigione, ma la settimana dopo il club dove suonavano era pieno come non mai.

Siamo così nell’agosto del 1965 e Levon & the Hawks sono in New Jersey per suonare ad un festival estivo, un giorno Levon – o forse Robbie, ogni mito che si rispetti ha più versioni - si vede passare un telefono e sente all’altro capo una voce che si presenta dicendo:
“This is Bob Dylan calling”.


 

 

PART 4

Il 28 agosto del 1965 è una data storica del rock: la svolta elettrica di Bob Dylan.

E la storia di questa svolta non può essere esclusa dalla storia di The Band.

In realtà proprio come per la storia vera anche nella storia del rock esistono convenzioni: nel luglio dello stesso anno Dylan ha già suonato “elettrico” al Festival Folk di Newport con la band di Paul Butterfield: in quella circostanza la reazione del pubblico fu violenta al punto da obbligare alla sospensione del concerto finché Dylan tornerà sul palco da solo e con la chitarra acustica.

Robbie Robertson dirà: “Il mondo del folk è così, vogliono la loro musica e basta.”

Il fatto è che in quegli anni il folk non era solo musica; essere folk era un modo di vita prima che un genere musicale, e la musica folk era la musica di chi rifiutava la cultura della massa dominante e questo rifiuto si esprimeva anche attraverso forme di luddismo, di rifiuto della modernità (come ha ben ricordato Bob Dylan in Chronicles).

In ogni caso la svolta elettrica e blues/rock di Bob Dylan era già negli album: nella primavera di quel 1965 ha registrato “Bringing it all back home” il suo primo album elettrico, ma già in “Another side of Bob Dylan” dell’anno prima un orecchio attento percepisce che il ragazzo (Dylan è del 1941) sta cambiando e che la sua musica adesso sprizza da ogni nota il desiderio di una band elettrica che la sostenga; così come i testi rivelano una vena introspettiva e i primi esempi di poesia a mezza via tra il beat e il surrealismo, tutto fuorché temi folk insomma.

Levon & The Hawks non sono noti al grande pubblico, ma nell’ambiente musicale hanno reputazione di essere il miglior gruppo in circolazione: niente di più naturale che Bob Dylan – artista in ascesa prepotente cui ormai va stretta l’etichetta di cantautore folk – li voglia con sé.

Non è proprio amore a prima vista: a Forest Hills Dylan vorrà solo Robbie alla chitarra e Levon a battere i tamburi, mentre dall’altra parte c’è perplessità sulle sue canzoni.

Robbie Robertson: “proprio non capivo cosa ci facessero tante parole in una canzone”.

Ma torniamo a Forest Hills, Levon Helm: “L’atmosfera era tesa già al sound-check, si capiva che sarebbe stata una serata storica anche in quel momento, quando i 15mila posti dello stadio del tennis erano ancora vuoti. Eravamo Robbie alla chitarra, io alla batteria, Al Kooper all’organo e Harvey Brooks al basso. Dylan non era tipo che parlasse molto, ma si vedeva che l’uomo era un vulcano. La stampa cominciava a definire la sua musica folk-rock, ma questa etichetta andava bene per gruppi come The Byrds che facevano cover dei suoi pezzi. Io sentivo che presto quest’uomo avrebbe cambiato l’intero panorama della musica americana.”

Quindicimila posti possono sembrare pochi, ma siamo nel 1965, i concerti rock come li conosciamo oggi non esistevano, allora un’arena come Forest Hills era posto per colossi del calibro di Frank Sinatra, il fatto che Dylan a 24 anni e con appena 4 album alle spalle fosse in grado di riempirla dà un’idea della statura del personaggio: Bob Dylan da quella sera d’agosto in avanti rivoluzionerà ogni aspetto del mondo della musica. Il concerto si apre con Dylan solo sul palco per un set acustico, dopo 7 brani Bob va dietro le quinte, abbraccia i suoi 4 musicisti e dice: “Non sappiamo che succederà. Potrebbe essere una roba fuori di testa. Voglio che una cosa sia chiara ragazzi: per quanto folle diventi la situazione, fregatevene e continuate a suonare.”

Levon: “I primi buu ci furono quando salii sul palco a sistemare i tamburi. Attaccammo con “Tombstone blues” e quando Robbie partì con il primo assolo di chitarra il pubblico reagì come fosse stato investito da una scarica di mitragliatrice. C’era anche gente che applaudiva però, gli altri gridavano cose tipo: il rock&roll fa schifo! Dov’è Dylan? Traditore! Suona musica folk! Poi si scatenò una rissa tra gente folk e gente rock, e poi ecco un pazzo che si arrampica sul palco e stende Al Kooper. Bob Dylan rideva.”

Una settimana dopo davanti ai 18mila dell’Hollywood Bowl di Los Angeles le cose andranno meglio, ma sia come sia dopo l’episodio di Newport Dylan ha deciso di infischiarsene e di andare dritto per la sua strada.

Dopo i concerti di New York e di Los Angeles nasce un sodalizio che farà storia: Levon e Robbie dicono chiaramente a Dylan che se vuole loro deve prendere tutta la band, Bob risponderà: “dove posso sentirvi suonare?”

Una settimana dopo Bob Dylan è a Toronto per assistere a una serata di Levon & The Hawks: amerà la band e sarà sconcertato dalla bravura di Garth Hudson. A fine settembre iniziano così a girare gli Stati Uniti, i manifesti annunceranno Bob Dylan + Levon & The Hawks, i migliori teatri del paese saranno tutti per loro, a cominciare dalla Carnegie Hall di New York. Lo scontro con gli amanti del folk non finirà: mentre il pubblico del Texas sembra apprezzare, nelle città dell’Est i fischi sono un rituale, anche perché la cosa riceve molto risalto dai giornali e così la gente va ai concerti pronta a fischiare non appena compare la band; a Chicago scoppiano risse e quando il gruppo lascia il palco a fine spettacolo Bob Dylan è assalito da una ragazza armata di forbici, non si sa se intendesse fargli male o tagliargli una ciocca di capelli.

Sul piano musicale non è proprio una festa. Bob Dylan e la band provengono da mondi opposti: Levon & The Hawks erano una band dalle mille influenze, ma il folk non era parte del loro bagaglio; Bob Dylan – pur avendo fatto parte di un gruppo da ragazzino - era nato e cresciuto da solo sul palco e per abituarlo ad essere il cantante di una band e quindi ad usare la voce diversamente occorrerà tempo. Al tempo stesso Dylan ha voluto per sé la band “underground” più forte del momento, ma questa è una rock&roll band dal suono molto preciso, Dylan invece vuole sonorità crude e sporche, blues: ancora 40 anni dopo la reazione del pubblico pur esagerata - e come già detto dovuta a motivi non solo musicali - appare comprensibile, la differenza tra la prima parte del concerto – Dylan da solo con chitarra e armonica – e la seconda con il gruppo è lacerante.

Questa musica l’abbiamo ascoltata per anni grazie a registrazioni bootleg, poi nel 1998 dagli archivi della Columbia è uscito ed è stato pubblicato in un doppio CD il concerto mitico di quella tournée, quello alla Royal Albert Hall di Londra. Questo CD – oltre a proporre una qualità musicale superiore – ha sfatato un mito: il concerto registrato è quello di Manchester nel maggio del ’66, una settimana prima della data di Londra. Si tratta di 2 CD che rispecchiano la duplice natura del concerto: nel primo abbiamo 7 brani acustici di Dylan, nel secondo la band lo accompagna per 8 pezzi. Vediamo il secondo CD nel dettaglio.

1 – Tell me, Momma
2 – I don’t believe you (She acts like we never have met)
3 – Baby, let me follow you down
4 – Just like Tom Thumb’s blues
5 – Leopard-Skin Pill-box hat
6 – One too many mornings
7 – Ballad of a thin man (popolarmente nota come Mr. Jones)
8 – Like a rolling stone (popolare e basta!!)

La vocalità di Dylan è disuguale, anche nel corso della stessa canzone; colpisce come sempre il lavoro instancabile dell’organo di Garth Hudson, autentico architetto della musica del gruppo, e stupiscono gli assolo di Robbie Robertson: molti dicono che per Robertson sia stata una jella essere canadese e non inglese, perché con la sua chitarra ha fatto per anni inosservato a Toronto quello che i vari Beck, Clapton e compagnia schitarrante avrebbero fatto 5 anni più tardi a Londra.

In questo concerto alla batteria manca Levon Helm – che nel dicembre del ’65 ha lasciato la band per motivi personali: incompatibilità caratteriale con il manager di Dylan (Albert Grossman), poca voglia di fare il batterista di qualcuno, il palco è tutto di Dylan, la band lavora nell’ombra, gran parte del pubblico crede persino che gli assolo di chitarra siano di Dylan.

Ma Helm è in errore, la collaborazione con un’artista rivoluzionario come Dylan sarà fondamentale per la crescita della band, nel corso della tournée che dopo gli Stati Uniti andrà in Australia ed Europa si cementerà il rapporto tra Dylan e il gruppo: il cantautore entra nel mondo sonoro della band e la band entra nel mondo poetico e musicale di Dylan, soprattutto Robertson e Manuel capiscono cosa significa scrivere una canzone; e poi Bob Dylan è spesso in compagnia di poeti, prima di tutto quelli della beat generation a cominciare da Allen Ginsberg, e certe compagnie portano frutti, espandono la mente.

A Londra tra il pubblico ci sono i Beatles, che finito il concerto si recheranno nei camerini per congratularsi: essere la band di Dylan porta rispetto e mette in risalto la bravura. Quella stessa sera parlando con Keith Richards Dylan gli dirà che The Hawks sono la miglior band al mondo, e a Keith che gli chiede “e gli Stones che sono?” Dylan ripeterà: “The Hawks are the best band.”

Con la fine del tour non termina la collaborazione, la band prende casa nella stessa località di montagna nel Nord dello stato di New York – tornerà anche Levon, che vive lì tuttora - dove da qualche tempo risiede Bob Dylan, convalescente dopo l’incidente in motocicletta dell’estate del 1966.

La cittadina si chiama Woodstock, la casa è Big Pink.
 

 

Part 5

Quali sono le sedute di registrazioni di musica rock che sono leggenda?
Due su tutte: The Beatles per The White Album e Dylan & The Band nello scantinato di Big Pink.
The Band? Sì, perché è a Woodstock che the band diventa The Band.
Come ricorderà Richard Manuel in The Last Waltz: “everybody was callin’ us the band, where is the band? What is doin’ the band? So we decided to call ourselves … The Band.” (tutti ci chiamavano la band, dov’è la band, che fa la band? Così decidemmo di chiamarci … The Band).
Rick Danko: “una volta sistemati nella casa di Woodstock, ripulimmo lo scantinato di Big Pink, Garth procurò un paio di microfoni e li collegò a un registratore a due piste, quello era il nostro studio di registrazione. Per dieci mesi, da marzo a dicembre del 1967, ci trovammo con Dylan nello scantinato a suonare per 3 ore al giorno, 6 giorni la settimana.”
Con tutto il rispetto per The Beatles, questa fu la più incredibile serie di registrazioni della storia del rock, leggendaria perché passeranno 8 anni prima che il materiale – la descrizione di Danko spiega sia l’eccezionalità dell’evento tanto la precarietà dei mezzi con cui fu immortalato – venga pubblicato con un doppio album intitolato “The Basement tapes” i nastri dello scantinato, l’album era mitico prima ancora d’essere pubblicato. Ad oggi il sogno di ogni persona che abbia assaggiato “The Basement tapes” è che la Columbia – oggi Sony – prima o poi pubblichi l’edizione integrale di quelle sedute.
A rendere straordinaria la musica dello scantinato è il travaso: Dylan – naturalmente – scrive il 90% del materiale, ma grazie alla band adesso nella sua musica ci sono influenze blues, rockabilly e Rhythm&Blues.
Stare con Dylan intanto ha fatto crescere le quotazioni della band, i demo che escono da Big Pink fanno rizzare le antenne ai discografici, a vincere la corsa è la Capitol che li mette sotto contratto per 10 album. Intanto l’assenza di Levon ha dato una nuova arma al gruppo: Richard Manuel alla batteria. Quando Levon Helm arriverà a Woodstock sarà sorpreso due volte: prima dalla notizia, poi, ascoltando i nastri, dalla qualità del drumming di Manuel. The Band adesso è un ensemble di 5 musicisti che suonano 17 strumenti, hanno 3 voci soliste e 2 batteristi.
Nel luglio del 1968 esce così un album intitolato “Music from Big Pink”.

Ma come si fa 37 anni dopo a spiegare l’effetto che fece? Su Billboard si fermerà al #30 ma impressionerà gente come George Harrison mentre Eric Clapton dirà: “Quando ascoltai Music from Big Pink capii che quello che avevo fatto fino a quel momento era tutto sbagliato”. La copertina è un quadro – dipinto da Dylan, c’è un concorso per dargli un titolo – con dei musicisti e un elefante; alla mistica contribuiscono il nome allo stesso tempo anonimo ed enigmatico – The Band – e un poscritto sotto la foto di Big Pink: “una casa rosa adagiata nel sole del monte Overlook nei Saugerty occidentali, nello stato di New York. Big Pink ha portato questa musica e queste canzoni. E’ la testimone di questo album che è stato pensato e composto tra le sue mura.”
Non c’è scritto il nome di chi canta e suona e tanto meno i testi che spesso il cantato rende volutamente incompensibili per aumentarne l’emozione.
Siamo nel 1968 – sì, quel ’68 – e “Music from Big Pink” fa la rivoluzione a rovescio: all’interno dell’album c’è una foto, intitolata next of kin, che in un ambiente decisamente rurale ritrae i componenti del gruppo – tutti con un look sobriamente western da foto virate seppia dei primi del Novecento - insieme a 3 generazioni del loro parentado. Anche la scelta del fotografo è – diremmo oggi – low-fi: The Band cerca volutamente il fotografo più sfigato di New York, ma Big Pink farà la fortuna anche di Elliott Landy – all’epoca scattava per una rivista che si chiamava … The Rat, il Topo - che diverrà uno dei più richiesti fotografi in ambito rock.
Due mesi dopo l’uscita del disco – destinato a influenzare generazioni di musicisti – The Band va in copertina su Rolling Stone, la foto? Di Elliott Landy!
E le canzoni? le canzoni sembrano venire dalla notte dei tempi, sentiamole ma prima la parola a John Simon, il produttore:
“A caratterizzare The Band è che tutti suonavano qualcosa di significativo e che fosse parte dell’ingranaggio musicale. Non cercavano mai l’assolo e nessun suono era gratuito.”

1 – Tears of rage
“We carried you in our arms on Independence Day, and now you’d throw us all aside and put us all away, oh what dear daughter beneath the sun could treat a father so?”
La contro-rivoluzione parte dalle prime parole della prima canzone: la scelta controcorrente di aprire con un lento e soprattutto con un testo che narra delle “lacrime di rabbia” di un padre. Il brano porta la firma di Dylan e Manuel, qui alla voce solista.

2 – To kingdom come
Degna di nota soprattutto perché resterà per anni l’unico brano cantato da Robbie Robertson; Robbie era un vero leader cui interessava il meglio per le canzoni, consapevole che Levon, Rick e Richard avevano voci con cui non poteva competere aveva l’umiltà e l’intelligenza di limitarsi alla chitarra pur essendo l’autore di gran parte delle canzoni.
Il testo è un autentico esempio di canzone di frontiera ed è ricco di immagini bibliche (Il Regno che verrà, il Vitello d’oro) a puntellarne l’atmosfera.

3 – In a station
La prima canzone – in questo album toccherà poi a Caledonia Mission e a The weight - in cui compare ai cori il falsetto di Manuel, Richard non canta le parole ma la sua voce emozionante impreziosisce il tessuto vocale ed emoziona.

4 – Caledonia mission
“She reads the leaves and she leads the life that she learnt so well from the old wives”
Rick Danko canta magnificamente questo testo di Robertson; Robbie che dieci anni prima ha rubato i segreti della chitarra ascoltando i grandi del blues, adesso dimostra che stando con Dylan ha imparato a scrivere testi da fare invidia anche a mister Zimmerman!

5 – The weight
Introdotta da Robbie alla chitarra acustica e poi dall’inconfondibile drumming di Levon questa è la canzone più famosa, anche Aretha Franklin ne farà una cover ma sarà difficile anche per una grandissima come lei competere con l’artigianato di The Band: se è vero che il citato drumming di Levon caratterizza la canzone, come ignorare il coro a tre voci – Helm, Danko e Manuel - che entrano in tempi diversi per poi fondersi magicamente? Queste armonie vocali rappresentano uno dei pezzi forti dei primi due album di The Band e trovano in questa canzone uno dei momenti più intensi.
Da non trascurare anche in questo caso il fascino e il mistero evocati del testo di Robbie Robertson, l’uomo che si chiedeva cosa ci facessero tante parole nelle canzoni di Dylan è qui autore di liriche su cui saranno versati fiumi d’inchiostro. A proposito, le reminiscenze cattoliche di Robbie sono una falsa traccia, la Nazareth in questione si trova in Pennsylvania e l’idea di tirarla in ballo è dovuta al suo essere sede della fabbrica di chitarre Martin, parola di Robbie Robertson.

6 – We can talk
Questo è l’esempio più vivace e melodico della vena compositiva di Manuel e l’arrangiamento è un gioiello sia per la parte vocale – in cui i tre cantanti interagiscono alla grande – che per la parte musicale dove spiccano l’organo di Garth e i riff della chitarra di Robbie che come un’anguilla si infila in ogni minimo spazio che trova.

7 – Long black veil
Questa è una cover di un brano degli anni ’50 ma come spiegherà Robbie: “era una canzone come quelle che stavo iniziando a scrivere, canzoni che a sentirle non si riusciva a capire se fossero state scritte oggi o nel 1913.”

8 – Chest fever
Scritta da Robertson e caratterizzata dall’introduzione di Garth all’organo – introduzione che negli anni a venire diverrà the genetic method ma sarà tempo di parlarne più avanti – la canzone si affermerà come uno dei pezzi forti del repertorio dal vivo di The Band.

9 – Lonesome Suzie
Una struggente canzone d’amore per la debole e sola Suzie, la sensibilità di interprete e di autore di Richard Manuel al servizio di un brano suggestivo ed emozionante.

10 – This wheel’s on fire
“This wheel’s on fire, rolling down the road, just notify my next of kin, this wheel shall explode!”
Scritta da Rick Danko e Bob Dylan è una canzone inno generazionale e certo uno dei testi più “belli e dannati” scritti da Dylan e uno dei 2-3 più grandi brani della storia del rock secondo Greil Marcus. Grande prestazione vocale di Danko, sostenuto da Levon e Richard, ma a caratterizzare il brano è la straordinaria inventiva di Garth Hudson all’organo Lowrey.

11 – I shall be released
Un inedito di Dylan chiude l’album. Una canzone che diventerà famosa e saranno in tanti a cantarla, ma nessuno riuscirà a darvi la pelle d’oca come Richard Manuel: il suo falsetto è di una bellezza pura e lancinante.
L’edizione su CD remasterizzata a 24 bit pubblicata nel 2000 e curata da Robbie Robertson presenta ben 8 bonus tracks a testimonianza del grande lavoro fatto in studio prima di raggiungere l’eccelso risultato finale.
Music from Big Pink non ha nulla a che vedere con la musica che il gruppo aveva fatto per Ronnie Hawkins e tanto meno con quella suonata per Dylan – ricordiamo che The basement tapes saranno pubblicati solo nel 1975 – il lungo apprendistato ha portato The Band a operare una sintesi di tutti i generi della musica americana. Dalla nascita del rock&roll non si faceva altro che imbiancare la musica nera ecco che The Band inverte la tendenza: le voci dei tre cantanti sono ispirate da artisti come The Staples Singers mentre i fulminei riff di chitarra di Robertson vengono dal grande Curtis Mayfield.
Quattro delle undici canzoni sono firmate da Richard Manuel: la sua voce carica di soul è perfetta per accompagnare i suoi testi fitti d’emozione. Più evocative e radicate nella tradizione popolare americana le quattro canzoni firmate da Robbie Robertson – Robbie è canadese ma ha fatto suo il mondo e le storie del Delta grazie ai racconti di Levon. Brani come To Kingdom Come e Caledonia mission rappresentanto la quintessenza del genere “Americana” una tendenza artistica volta a rappresentare ambienti e temi tipici della cultura statunitense.
 

 

PARTE 6

The brown album rappresenta l'apice della carriera di The Band anche se questo appare chiaro solo in retrospettiva perché alla fine dei '60 e agli inizi dei '70 l'unica cosa che pare chiara è che The Band è uno dei più influenti gruppi sulla scena: la loro partecipazione – con o senza Bob Dylan – ai maggiori festival di quegli anni, da Woodstock all'Isola di Wight, è una presenza necessaria.

Necessaria ma – per certi versi – inosservata: è arrivato il momento di tirare in ballo Albert Grossman, il manager che The Band ha ereditato da Dylan. Ad Albert Grossman vanno infatti addebitate le decisioni che – dopo il successo dei primi due album – tarparono le ali a The Band.

The Band – come detto - fu presente a Woodstock e all'Isola di Wight ma non ha mai goduto i frutti di queste partecipazioni in termini di popolarità e vendite perché Grossman – ad esempio - negò agli organizzatori di Woodstock il diritto di includere lo show del gruppo nel film – successo planetario - che fu fatto di Woodstock. Altro danno procurato dal manager – ossessionato da un'idea dell'artista legata al divismo inaccessibile dei decenni passati – fu rifiutare che The Band scrivesse la colonna sonora per Zabriskie Point di Antonioni prima e per Easy Rider di Dennis Hopper poi: se queste tre operazioni non fossero state bloccate da Grossman la storia che state leggendo sarebbe molto diversa.

Managemente a parte, qualcosa si stava comunque incrinando: la frattura diverrà evidente però solo quando The Band tornerà in studio e darà alla luce il terzo album, Stage Fright .

Stage Fright – la paura del palcoscenico – è titolo che evoca vari riferimenti: l'amico Dylan ormai lontano dalle scene, ma soprattutto la crisi di Robbie a Winterland (vedi capitolo precedente n.d.A.) sono i principali, ma il tema più affascinante è quello sviluppato da Greil Marcus.

Agli occhi di questo padre della critica musicale la paura in questione è quella di The Band una volta abbandonata la quiete del rifugio di Woodstock: paura del pubblico, degli addetti ai lavori, dei manager musicali, in una parola paura di abbandonare quel mondo sospeso nel tempo creato dalla loro musica. L'immagine è suggestiva ma lontana dalla realtà: la presenza di Dylan e della Band a Woodstock aveva trasformato la cittadina - montana sì, ma poco distante da New York - in meta di pellegrinaggio e/o di residenza per ogni hippy o aspirante musicista/artista del paese, con ovvio seguito di droghe, spacciatori e altri figuri più o meno loschi. Proprio nell'idillio di Woodstock l'eroina diviene parte delle vite di Levon, Rick e Richard.

Ascoltato oggi Stagefright è un grande album, un disco che il 99% degli artisti in circolazione oggi come allora neanche si sogna di arrivare a creare, eppure è indiscutibilmente inferiore alla perfezione del brown album ed è privo del vigore rivoluzionario di Music From Big Pink; compare nei testi una vena autobiografica – assai banale in All la glory, scritta da Robbie per la sua primogenita – che comunque dà vita a due momenti che diverranno dei classici del repertorio dal vivo di The Band: The shape I'm in – scritta da Robbie per Richard Manuel - e Stage fright.

Il vero passo falso però arriva con il quarto lavoro in studio: Cahoots è un disastro a partire dal titolo – che richiama l'espressione in cahoots simile all'italiano in combutta – un titolo che vorrebbe confermare l'unità di gruppo e d'intenti di The Band ma questa ambizione si sgretola all'ascolto del disco. The Band certo è ormai un grande nome così anche le foto che accompagnano l'album meritano una firma alla moda: niente più Elliott Landy e spazio a Richard Avedon. Ascoltato oggi Cahoots mostra momenti pregevoli: il vero difetto è l'evidente approssimazione del lavoro, l'alto artigianato degli album precedenti è scomparso, le buoni canzoni non mancano – Life is a carnival e The river Hymn su tutte – ma sembrano dei demo. Restano impressi i momenti imbarazzanti come 4% Pantomime cantata in duetto da Richard Manuel con il suo amico e ospite Van Morrison, pensate un po': due ubriaconi dall'ugola d'oro discettano sui pregi di una celebre marca di whiskey e sul 4% di contenuto alcoolico che differenzia l'etichetta rossa da quella nera…

Cosa era successo a The Band?

A sentire Levon Helm il problema di The Band era di soldi: i diritti d'autore finiscono tutti nelle tasche di Robertson mentre gli altri quattro non ricevono nessuna ricompensa concreta per il grande lavoro creativo svolto in studio. John Simon – produttore dei primi album di The Band: “secondo tradizione chi scrive il testo e gli accordi è l'autore della canzone, il resto è arrangiamento, è vero che a cavallo dei '70 emerse la tendenza a riconoscere come autore chi contribuiva al risultato finale, ma Robbie Robertson applicando il vecchio metodo non ha rubato niente a nessuno”.

I diritti d'autore sono il vero pane – oddio, forse meglio dire caviale - del settore musicale, Rick Danko: “sono cose che può capire solo che è diventato ricco dalla sera al mattino, avevo scritto “This Wheel's on fire” insieme a Dylan, non era stato un singolo di successo, ma diversi artisti ne avevano fatto una cover così mi vidi arrivare centinaia di migliaia di dollari e , per capirsi, ero il co-autore: quella montagna di soldi era solo la metà del guadagno!”

A sentire Robbie Robertson il problema di The Band era la noia: nessuno era più interessato alla musica, Robbie era interessato a sperimentare nuove forme musicali ma sapeva che forse solo Garth l'avrebbe seguito, così il lavoro in studio – con il songwriting ormai del tutto sulle spalle di Robbie e il contributo svogliato degli altri – non poteva che essere deludente.

C'è del vero sia nell'analisi di Robbie che in quella di Levon ma l'operato di Albert Grossman di cui sopra certo esercitò un'influenza considerevole sul destino di The Band.

 

Parte 7

Prima Dylan e poi la stagione di Woodstock e dell'isola di Wight avevano quindi rivoluzionato la fruizione dal vivo della musica rock, il primo rivelando la capacità di attirare il grande pubblico, la seconda affermando il credo dei raduni oceanici. Nell'estate del 1970 gli organizzatori canadesi di uno show itinerante su rotaia cui fu dato il nome di Festival Express scoprirono che questi due aspetti erano inconciliabili: benché il cast fosse di prima scelta - The Band, The Grateful Dead, Janis Joplin - la tournée fu un fiasco perché nacquero dei movimenti di protesta che invitavano a boicottare lo show perché i concerti non erano gratuiti.

L'esperienza di Festival Express rivista oggi dà segno del progressivo distacco di Robbie Robertson dal mondo del rock di cui pure aveva tanto bramato di far parte; il tour fu un fiasco per gli organizzatori ma lungo la strada ferrata che lo portò da Toronto a Calgary rappresentò una festa di cinque giorni per gli artisti, ma forse festino è parola più adatta, Rick Danko: “Festival Express was sex, drugs and rock&roll at its best”. In tutto questo Robbie era ogni giorno di più un pesce fuor d'acqua, autodidatta di ambizione e volontà feroci pur restando legato - in cahoots - al gruppo nelle intenzioni, aveva ormai poco a che fare con Levon - sempre sotto l'effetto dei tranquillanti - con Richard - ubriaco 24/24 - e Rick - detto l'aspirapolvere, non per la sostanza abusata ma perché assumeva tutto ciò che gli capitasse a tiro.

Questo stile di vita non incideva sulla capacità di fare grandi show una volta sul palco: il tour europeo della primavera del 1971 andò benissimo e così le date estive americane ma quando in autunno Cahoots fu pubblicato sembrò che tutti avessero bisogno di una pausa, The Band divenne così il primo gruppo nella storia del rock a prendere un anno sabbatico, ma prima di questo segno di stanchezza il gruppo pose una nuova pietra miliare: Rock of Ages .

Quando The Band era The Hawks aveva spesso avuto una sezione fiati: nacque così l'idea che la chiusura del tour - ultimi quattro giorni del 1971 alla Academy of Music di New York - avrebbe dovuto essere speciale e presentare dei nuovi arrangiamenti da far confluire in un disco dal vivo. Per Life is a Carnival - brano d'apertura di Cahoots e primo del gruppo ad avere una sezione fiati - The Band aveva collaborato con il leggendario produttore e arrangiatore di New Orleans Allen Toussaint, la nuova collaborazione avrebbe visto Toussaint alle prese con l'intero catalogo del gruppo. D'accordo con The Band Toussaint scrisse degli arrangiamenti nel tipico stile della crescent city dove ogni strumento a fiato suona una figura differente ma tutto converge sapientemente a creare quelle sonorità così peculiari. I musicisti scelti per le quattro serate erano tutti colossi, veterani dell'orchestra di Count Basie come Snooky Young o di quella di Ray Charles come Howard Johnson: il tempo per provare il tutto era poco ma il talento tanto, a dare una mano accorsero pure altri titani del sound di New Orleans e grandi amici di The Band come Dr. John e Bobby Charles.

Ingegnere del suono della registrazione dal vivo fu Phil Ramone, che sarà poi celeberrimo produttore: “imparai tantissimo vedendo come The Band comunicava con la sezione fiati, il resto era nella miscela delle voci di Levon e Rock e come quella di Richard si inseriva tra loro. Ma il cuore di questo impero della musica erano Robbie e Garth. Una delle migliori esperienza della mia vita”.

Barney Hoskins: “The Band era al top, basta ascoltare le prime battute di Don't do it per capire che Levon e Rick erano la miglior sezione ritmica in circolazione”.

A completare il trionfo di queste serate nella Grande Mela sarà il 31 il redivivo Bob Dylan, che salirà sul palco per fare quattro brani con The Band, ma forse no, il trionfo - quello vero, da storia del rock - sarà la pubblicazione di Rock of Ages il doppio album dal vivo che nascerà da quelle registrazioni newyorkesi: il disco vedrà la luce nell'estate del 1972, arriverà al #6 di Billboard e da quel momento sarà la pietra di paragone di ogni disco dal vivo che uscirà, Rock of Ages significa che adesso il disco dal vivo è una prova di creatività non inferiore al lavoro in studio e che The Band - ancora una volta - ha dettato la strada.

 

PARTE 8

Il 1972 - anno sabbatico per The Band - passò nel dolce far niente di Woodstock: Rick e Richard proseguirono sulla loro cattiva strada, mentre Robbie continuava a giocare con l'idea di comporre qualcosa di più complesso di una canzone, intanto Levon - appena nominato miglior batterista in circolazione dalla prestigiosa rivista Rolling Stone - decideva di frequentare i corsi del Conservatorio di Boston: desiderava colmare le sue lacune di autodidatta.

Di solito l'anno sabbatico serve per fare nuove esperienze che poi si traducono in un nuovo progetto, in rinnovata energia: nulla di tutto questo capitò a The Band. Il ritorno in sala di registrazione - una raccolta di classici del rock che avevano fatto parte del repertorio del gruppo durante gli anni passati con Ronnie Hawkins - non portò nulla di nuovo, alcune scelte del repertorio - come il tema del film "Il terzo uomo" - furono certo peregrine così - a detta dei bene informati - le sedute di registrazione di Moondog Matinee servirono soprattutto a riportare Richard Manuel nel mondo dei vivi.

Moondog Matinee, titolo dell'album, si riferisce al noto programma radiofonico di trent'anni prima che aveva rappresentato il primo punto di contatto tra l'uomo del Sud Levon Helm e i quattro canadesi. Il disco contiene certo momenti felici, nulla di speciale ma rock&roll allo stato puro fatto con piacere e per piacere: ascoltate ad esempio Levon che canta "Ain't got no home" - un classico scritto e portato al successo da Clarence "Frogman" Henry. Altro brano d'eccezione "Saved" firmato dai leggendari Lieber-Stoller: il testo che narra dei problemi che un uomo ha con la bottiglia è cantato con autobiografica disperazione da Manuel; spicca in questa canzone un assolo al fulmicotone di Robbie Robertson. Il disco è caratterizzato più che mai dall'onnipresenza del mostruoso Garth Hudson che oltre a tastiere e organo sfodera assoli da brivido al sax!

Il 1973 di The Band cominciò ad avere senso durante l'estate con il ritorno delle esibizioni dal vivo, le quali culminarono a fine luglio quando ebbe luogo l'avvenimento noto come Summer Jam at Watkins Glen: oltre 600mila appassionati - molti dei quali accampati in loco già il 27, un giorno prima del concerto - raggiunsero l'autodromo dello stato di New York per assistere a un raduno musicale da Guinness dei Primati - per pubblico presente - che il 28 luglio avrebbe visto alternarsi sul palco la crema del rock americano - in rigoroso ordine alfabetico di apparizione: The Allman Brothers Band, The Band, The Grateful Dead.
L'esibizione di The Band fu interrotta dalla pioggia, ma l'inconveniente diede modo a Garth Hudson di deliziare per mezz'ora il pubblico con l'ennesima invenzione della sua introduzione all'organo di "Chest Fever" ormai nota come "The Genetic Method" (per saperne di più vedi il prossimo capitolo).

Nonostante il successo dal vivo l'attività creativa del gruppo languiva, ma languiva pure quella del vecchio mentore Bob Dylan: in cerca di nuova linfa si ebbe la riunione, segnata prima dall'album in studio "Planet waves" e poi dalla tournée mondiale più grande mai organizzata fino allora che vide The Band dividere il palco e lo show con Dylan. Dylan ricavò davvero nuova energia dall'esperienza e di lì a poco - con gli album "Blood on the tracks" e "Desire" e poi con la "Rolling Thunder Revue" tornò ai suoi massimi splendori. Non così per The Band che mestamente s'incammino verso il suo Ultimo Valzer.