MAGGIE'S FARM

sito italiano di BOB DYLAN

 

Dal New Yorker - di Nat Hentoff

 
(by Dean Spencer News)


Parte Prima

“Puoi scoprire molte cose di una piccola città frequentando la sua sala da biliardo.” Bob Dylan ,
24/10/64

Dylan lavora solo occasionalmente e durante il resto dell’anno viaggia o soggiorna brevemente in una casa di proprietà del suo manager, Albert Grossman, in Bearsville, New York, una piccola cittadina adiacente a Woodstock, a circa 100 miglia a nord di New York. Là Dylan scrive canzoni, lavora sulla poesia, sceneggiature teatrali e novelle, va in moto e parla con i suoi amici. A volte viene a New York a registrare per la Columbia Records.

Alcune settimane fa, Dylan m’invitò ad una registrazione che sarebbe iniziata alle 19:00 in uno studio della Columbia in Seventh Avenue, vicino alla Fifty-second Street. Prima che arrivasse, un uomo sui trent’anni, alto, in buona forma, rilassato entrò e si presentò come Tom Wilson, il produttore di Dylan. Due ingegneri del suono si unirono a lui ed entrammo tutti nella sala di controllo. Wilson si sedette tra i due ingegneri, a capo di un grande tavolo da dove guardava in uno studio spazioso con un con un alto boschetto di microfoni alla sua sinistra e, direttamente davanti a lui, un enclave contenente un leggio, due microfoni e un pianoforte verticale, il tutto diviso da un grande schermo che schermava parzialmente Dylan mentre cantava, con lo scopo di migliorare la qualità del suono. “Non ho alcuna idea di cosa registrerà stasera” mi disse Wilson. “E’ tutta roba che ha scritto negli ultimi due mesi.”

Parte Seconda

Gli chiesi se Dylan dava particolari problemi a un direttore di registrazione. “La mia difficoltà principale è stata fargli apprendere l’uso del microfono.” disse Wilson. Si agitava a si muoveva molto e poi si abbassava troppo verso il microfono, tanto da farlo scoppiettare. A parte questo, il mio problema di base con lui è stato creare un ambiente in cui si rilassasse. Per esempio, se quello divisorio lo infastidisse, lo toglierei a costo di perdere un po’ di qualità nel suono.” Wilson guardò verso la porta. “Sono un po’ preoccupato per stasera. Registreremo un intero album in una sessione. Solitamente non abbiamo così tanta fretta ma questo album deve essere pronto per il convegno autunnale delle vendite della Columbia. Fatta eccezione per occasioni speciali come questa, Bob non ha date di registrazione pianificate. Pensiamo che lui sia abbastanza importante da registrare ogni qualvolta voglia venire in studio.”
 

Parte Terza

Cinque minuti dopo le 19:00, Dylan entrò nello studio portando con sè una custodia un po’ malandata. Portava occhiali scuri ed era ovvio che i suoi capelli ricci, biondo scuro non erano stati tagliati da alcune settimane; indossava blue-jeans, un maglioncino nero e scarponcini di camoscio. Con lui c’erano una dozzina di amici; tra di loro c’era Jack Elliot, un cantante folk della tradizione di Woody Guthrie, e anch’egli indossava blue-jeans e scarponcini di camoscio, una camicia di velluto a coste marrone e un vivace cappello da cow-boy. Elliot aveva portato due bottiglie di Beaujolais che diede a Dylan che le mise con cura su di un tavolo vicino al divisorio. Dylan aprì la custodia della chitarra, tolse il sostegno dell’armonica, se lo mise al collo, si diresse verso il piano e cominciò a suonare in un ruotante stile honky-tonk.
“Ha molti più talenti di quelli che mostra.” Mi disse Wilson. “E’ come se li nascondesse. Se vai a guardare i suoi tre album, ogni volta che c’è un grosso salto da uno all’altro: nella qualità del materiale, nella performance, in tutto.” Pete Seeger, che a quaranta cinque anni è uno dei veterani nell’ambito della folk music americana, ha recentemente commentato “Dylan potrebbe benissimo divenire il troubadour più creativo-se non esplode prima”.


Parte Quarta

Dylan entrò nella sala di controllo sorridendo. Sebbene sia fortemente accusatorio nei confronti della società in generale mentre si esibisce, la sua caratteristica più marcata fuori dal palco è la gentilezza. Parla velocemente ma dolcemente e sembra tenacemente ansioso di farsi capire. “Ne faremo una buona stasera” disse a Wilson “lo prometto”. Si rivolse a me e continuò: “Anche qui non ci sono canzoni accusatorie. Quei dischi li ho fatti e non li rinnego ma alcuni erano solo per entrare nel giro ed essere ascoltato e molti erano perché non vedevo nessun altro fare quel tipo di cose. Ora molte persone fanno canzoni di tipo accusatorio. Sai, evidenziando tutte le cose che sono sbagliate. Io non voglio più scrivere per la gente. Sai, essere un portavoce. Una volta scrissi di Emmett Till in prima persona, fingendo di essere lui. D’ora in poi voglio scrivere quello che ho dentro e per farlo devo tornare a scrivere come facevo quando avevo dieci anni, quando tutto scaturiva in modo naturale. Il modo in cui mi piace scrivere deve venir fuori come il modo in cui cammino o parlo.” Dylan si accigliò. “Non che io sia ancora capace di camminare o parlare nel modo in cui mi piacerebbe. Non ho ancora il portamento di Woody, Big Joe Williams e Lightnin’ Hopkins. Spero di riuscirci un giorno ma loro sono più vecchi. Essi sono arrivati dove la musica per loro era uno strumento, un modo di vivere di più, un modo per sentirsi meglio. A volte, riesco a farmi sentire meglio con la musica ma altre volte è ancora duro andare a dormire la notte.

 

Parte Quinta

Un amico camminava lentamente nella stanza e Dylan cominciò a borbottare circa un’intervista che era stata organizzata per lui più tardi in settimana. “Detesto dire di no perché, dopotutto, tutti questi ragazzi hanno un lavoro da fare,” disse, scuotendo la testa impazientemente. “Ma mi infastidisce che la prima domanda sia Stai andando al Sud a prendere parte in qualche progetto sui diritti civili? Cercano di cucirti addosso un etichetta. Beh, sono stato laggiù ma non ci vado solo per reggere un cartello di picchetto così che possano scattarmi una foto. Conosco un sacco di giovani nello SNCC-sai, il Comitato Coordinatore degli Studenti Nonviolenti. Quella è l’unica organizzazione di cui mi sento parte spiritualmente. L’NAACP è un gruppo di vecchi ragazzi. Lo scoprii entrando in contatto direttamente con alcune delle persone che ne facevano parte. Non mi compresero. Stavano cercando di usarmi per qualcosa. Che cavolo, tutti sono ossessionati. Qualche volta non sai se qualcuno ti vuole per fare qualcosa perché è ossessionato o perché capisce veramente chi sei. E’ terribilmente complicato e la cosa migliore che puoi fare è ammetterlo.”
Rientrando in studio, Dylan si mise in piedi di fronte al piano e martellò un accompagnamento mentre cantava una delle sue nuove canzoni:

“Sei davvero tu, tesoro, o sei solo in disparte?
Guardo nella profondità dei tuoi occhi ma tutto ciò che posso vedere è me stesso.
Se stai cercando di gettarmi, sono già stato buttato.
Se stai cercando di perdermi. Sono già stato smarrito . . . .”

 

Parte Sesta

Un altro amico di Dylan arrivò con tre figli, di età compresa tra i quattro e i dieci anni.
I bambini si rincorrevano nello studio, finché Wilson insistette che fossero confinati nella stanza di controllo. Alle 19.50 Wilson aveva controllato tutte le bilanciature del suono ed era soddisfatto; gli amici di Dylan si erano già accomodati lungo i lati dello studio e Dylan aveva già mostrato la sua voglia di iniziare…anzi, non vedeva l’ora!
Wilson nella sala di controllo si piegò in avanti con un cronometro in mano. Dylan prese un respiro profondo, buttò la testa all’indietro e si gettò in una canzone in cui si accompagnava con chitarra e armonica. La prima versione era “ruvida”, la seconda era più rilassata e vivida. A quel punto Dylan, sorridendo, appariva chiaramente convinto delle sue capacità di registrare un intero album in una serata. Nel procedere da una canzone all’altra si affidava principalmente alla chitarra, tranne che per qualche sottolineatura particolare con l’armonica.
Avendo sfogliato una copia dei testi di queste nuove canzoni che Dylan aveva in precedenza consegnato a Wilson, feci notare a Wilson che tra questi nuovi pezzi c’erano pochissime canzoni di protesta.
“I primi album hanno dato alla gente un’idea sbagliata,” disse Wilson. “Fondamentalmente lui rientra nella tradizione della folk music vecchio-stile. Intendo dire che non è tanto un cantante di protesta, quanto un cantante che denuncia i problemi della gente. Non deve necessariamente parlare soltanto di Medgar Evers per essere d’impatto. Può anche solo raccontare una storiella di un uomo che scappa via da una donna”.
Dopo tre prove di una canzone, uno dei tecnici del suono disse a Wilson: “Se vuoi provarne un’altra, possiamo fare una registrazione migliore”.
“No.” Wilson scosse la testa. “Con Dylan devi accontentarti di prendere quello che puoi”.
 

Parte settima

Nello studio, Dylan, con la sua esile figura ricurva in avanti, stava in piedi appena fuori dallo schermo, ascoltando un playback nelle cuffie. Cominciò a togliersi le cuffie durante un passaggio strumentale ma poi sentì la sua voce e, con un ghigno, se le riposizionò.
L’ingegnere borbottò ancora che poteva fare una registrazione migliore se Dylan avesse voluto rifare la canzone una volta ancora.
“Scordatelo,” disse Wilson “Non si deve pensare nei termini delle tecniche di registrazione ortodosse quando si ha a che fare con Dylan. Devi imparare ad essere libero da questa parte del vetro come lo è lui dall’altra.”
Dylan passò a registrare una canzone su di un uomo che lascia una donna perché non era preparato ad essere il tipo di eroe invincibile e onnicomprensivo che mantiene la famglia che lei voleva.
“It ain’t me you’re looking for, babe,”(= non sono io quello che stai cercando, baby) cantò, con finalità.
Durante il playback io raggiunsi Dylan nello studio. “Le canzoni finora suonano come se ci fossero persone vere dentro” dissi.
Dylan sembrava sorpreso che avessi considerato necessario fare un tale commento.
“Ci sono. E’ questo che le rende così spaventose. Se non avessi vissuto ciò che ho scritto, le canzoni non varrebbero niente.”
Proseguì, attraverso un’altra canzone, offrendo un complicato resoconto di un turbolento affare d’amore nella Harlem spagnola e alla fine chiese ad un amico: “L’hai capito?” L’amico annuì entusiasticamente. “Beh, io no” disse Dylan ridendo, e poi diventò cupo. “E’ dura essere liberi in una canzone cercando di dire tutto. Le canzoni sono così limitative. Woody Guthrie una volta mi disse che le canzoni non devono essere nulla di tutto ciò. Ma non è vero. Una canzone deve avere una certa forma per adattarsi alla musica. Puoi piegare le parole e la metrica, ma deve comunque stare bene insieme in qualche modo. Io mi sto pian piano liberando nelle canzoni che scrivo, ma mi sento comunque limitato. Ecco perché scrivo molta poesia-se è questa la parola. La poesia può avere la forma che vuole”.


Parte Ottava

Appena Wilson segnalò l’inizio del prossimo numero, Dylan alzò la mano. “Voglio solo accendere una sigaretta, così la posso guardare mentre canto,” disse e sorrise.
“Sono nevrotico. Ho bisogno di essere rassicurato.”
Entro le 22:30 erano state registrate sette canzoni.
“Questa è la sessione di Dylan più veloce,” disse Wilson. “Era solito avere dei problemi con i microfoni. Ora è un professionista.”
Durante la registrazione di sette canzoni arrivarono altri amici di Dylan e a questo punto quattro di loro sedevano nella stanza di controllo dietro Wilson e gli ingegneri. Gli altri erano sparsi nello studio, usando il tavolo, che reggeva bottiglie di Beaujolais, come base. Aprivano le bottiglie e ogni tanto versavano un drink in un bicchiere di carta. I tre bambini erano ancora incontenibilmente presenti e una volta il più piccolo irruppe nello studio rovinando una registrazione. Dylan si girò verso il più giovane con una finta rabbia. “Ti toglierò di mezzo”, disse. “Ti troverò e ti ridurrò in polvere.” Il ragazzino sorrise e corse indietro nella sala di controllo.
Mentre la serata passava, la voce di Dylan si faceva più acre. La dinamica del suo canto si faceva più pronunciata, passaggi dolci e intimi venivano bruscamente seguiti da potenti aumenti di volume. Il ritmo incessante della sua chitarra era integrato sempre più spesso dalle spinte gridate dell’armonica.
“Intensità, ecco cosa possiede,” disse Wilson, apparentemente tra sé e sé. “Ormai, questo ragazzo supera Thelonious Monk e Miles Davis nelle vendite.” Continuò a parlarmi. “Sta parlando a un’intera nuova generazione. E non solo qui. E’ appena stato in Inghilterra. Erano rimasti solo posti in piedi nella Royal Festival Hall.”

 

Parte nona

Dylan aveva cominciato una canzone chiamata “Chimes of Freedom”. Uno dei suoi quattro amici nella sala di controllo –un uomo barbuto e asciutto- esclamò: “Bobby sta parlando per tutte le persone “hung-up” (ossessionate oppure ansiose) dell’intero universo”. I suoi tre compagni annuirono mestamente.
La successiva composizione “Motorpsycho Nitemare” era una mordente e satirica versione della vecchia storia di un fattore, sua figlia e il venditore ambulante. Ci furono diverse false partenze, apparentemente perché Dylan aveva avuto dei problemi nel leggere il testo.
“Hey, abbassa le luci” consigliò l’amico barbuto a Wilson “Si rilasserà di più”.
“Non abbiamo bisogno di atmosfera” rispose Wilson senza girarsi “abbiamo bisogno di leggibilità”.
Durante il playback Dylan ascoltò attentamente, le sue labbra si muovevano, una sigaretta nella mano destra. Seguì una piccola pausa, durante la quale Dylan urlò: “Hey, abbiamo bisogno di altro vino!” due dei suoi amici annuirono e lasciarono la stanza.
Quando riprese la sessione di registrazione, Dylan continuò a lavorare sodo e coscienziosamente. Quando si preparava per un’incisione o ascoltava un playback, sembrava riuscire a isolarsi completamente dai vortici della conversazione e dai commenti umoristici fomentati dai suoi amici nello studio.
Occasionalmente, quando una frase gli piaceva particolarmente, scoppiava a ridere, ma poi subito tornava al lavoro.
Quando ebbi l’occasione di parlare con Dylan, gli chiesi cosa voleva significare con l’abbandono delle canzoni che “additano”; lui bevve un sorso di vino e disse: “Mi guardai intorno e vidi tutte queste persone che puntavano il dito verso la bomba. Ma la bomba sta diventando noiosa, perché ciò che è sbagliato va ben oltre la bomba. Ciò che è sbagliato è come poche persone siano libere. La maggior parte delle persone che passeggiano sono legate a qualcosa che non le fa veramente parlare, così non fanno altro che aggiungere la loro confusione al casino. Intendo dire che hanno un interesse personale per come stanno le cose ora. Io, io sono tranquillo” sorrise “Sai, Joanie -Joanie Baez- si preoccupa per me. Si preoccupa del fatto che le persone possano prendere il controllo di me e mi sfruttino. Ma io sono tranquillo. Io sono in controllo, perché non mi preoccupo dei soldi e di quello che ci sta attorno. E sono tranquillo con me stesso, perché ho già vissuto sufficienti cambiamenti e so cosa è vero per me e cosa non lo è. Come questa fama, è OK qui nel villaggio, ma è buffo pensare che persone che nemmeno conosci in altre città pensino di sapere tutto di te. Una cosa è simpatica, però: quest’anno ho ricevuto cartoline di buon compleanno da persone di cui non ho mai sentito parlare. Strano, eh? Ci sono persone che ho effettivamente toccato ma che non conoscerò mai…”
 

Parte decima

Dylan iniziò un blues parlato-una narrativa ironica in uno stile recitativo sardonico, che era stato sviluppato da Woody Guthrie. “Ora sono liberale, ma fino a un certo punto”, Dylan era è metà canzone “Voglio che tutti siano liberi. Ma se pensate che permetterò a Barry Goldwater di trasferirsi a fianco a casa mia e sposare mia figlia, vi sbagliate! Non glielo farei fare neppure per tutte le fattorie di Cuba!” sorrideva ampiamente e Wilson e gli ingegneri stavano ridendo. Era una canzone lunga e verso la fine Dylan incespicò un po’. La provò due volte ancora e ogni volta inciampò prima della conclusione.
“Fatemi fare un’altra canzone” disse a Wilson “Questa la riprendo più tardi”.
“No”, disse Wilson “Finisci questa. Poi te ne dimenticheresti, e se non ci dovessi essere io qui a rivederla, qualche altro tizio si confonderebbe. Fai solo un insert dell’ultima parte”.
“Fallo cominciare dall’inizio”, disse uno dei suoi quattro amici seduto dietro di lui.
Wilson si giro con l’aria scocciata “Perchè?”
“Non si comincia a raccontare una storia dal Capitolo Otto, eh”, disse l’amico.
“Oh,” disse Wilson “ma che cavolo di filosofia è questa? Stiamo registrando, non scrivendo una biografia”.
Mentre un obbligato di protesta continuava alle spalle di Wilson, Dylan, accettando il consiglio di Wilson, cantò l’inserto. Il suo amico barbuto si alzò silenziosamente e disegnò un quadrato nell’aria dietro alla testa di Wilson.
Altre canzoni, principalmente di amore perduto o malinteso, si susseguirono. Dylan era ora stanco, ma mantenne il suo buon umore “Quest’ultima si chiama My Back Pages” annunciò a Wilson. Sembrava esprimere il suo corrente desiderio di deviare dall’accusatorio e scrivere materiale più acutamente personale.
“Oh, ma ero molto più vecchio allora” cantò come ritornello “sono più giovane ora”.
Per l’una e mezza la sessione era finita. Dylan aveva registrato quattordici nuove canzoni. Accettò di incontrarmi ancora dopo più o meno una settimana per raccontarmi del suo passato. “Comunque, il mio passato non è poi così importante.” disse mentre lasciavamo lo studio. “E’ ciò che sono ora che conta.”


 

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English version

“You can find out a lot about a small town by hanging around It’s poolroom” Bob Dylan ,
24/10/64

Dylan works only occasionally, and during the rest of the year he travels or briefly stays in a house owned by his manager, Albert Grossman, in Bearsville, New York, a small town adjacent to Woodstock and about a hundred miles north of New York. There Dylan writes songs, works on poetry, plays and novels, rides his motorcycle, and talks with his friends. From time to time, he comes to New York to record for Columbia records.

A few weeks ago, Dylan invited me to a recording session that was to begin at seven in the evening in a Columbia studio on Seventh Avenue near Fifty-Second Street. Before he arrived, a tall, lean, relaxed man in his early thirties came in and introduced himself to me as Tom Wilson, Dylan’s recording producer. He was joined by two engineers, and we all went into the control room. Wilson took up a post at a long, broad table, between the engineer’s, from which he looked out into a spacious studio with a tall thicket of microphones to the left and, directly in front, an enclave containing a music stand, two microphones, and an upright piano, and set off by a large screen, which would partly shield Dylan as he sung, for the purpose of improving the quality of the sound. “I have no idea what he’s going to record tonight,” Wilson told me. “It’s all stuff he’s written in the last couple of months.”
 

Part Two

I asked if Dylan presented any particular problems to a recording director. “My main difficulty has been pounding mike technique into him,” Wilson said. “He used to get excited and move around a lot and then lean in too far, so that the mike popped. Aside from that, my basic problem with him has been to create the kind of setting in which he’s relaxed. For instance, if that screen should bother him, I’d take it away, even if we have to lose a little quality in the sound.” Wilson looked toward the door. “I’m somewhat concerned about tonight. We’re going to do a whole album in one session. Usually, we’re not in such a rush, but this album has to be ready for Columbia’s fall sales convention. Except for special occasions like this, Bob has no set schedule of recording dates. We think he’s important enough to record whenever he wants to come to the studio.”
 

Part Three

Five minutes after seven, Dylan walked into the studio, carrying a battered guitar case. He had on dark glasses, and his hair, dark-blond and curly, had obviously not been cut for some weeks; he was dressed in blue jeans, a black jersey, and desert boots. With him were half a dozen friends, among them Jack Elliot, a folk singer in the Woody Guthrie tradition, who was also dressed in blue jeans and desert boots, plus a brown corduroy shirt and a jaunty cowboy hat. Elliot had been carrying two bottles of Beaujolais, which he now handed to Dylan, who carefully put them on a table near the screen. Dylan opened the guitar case, took out a looped-wire harmonica holder, hung it around his neck, and then walked over to the piano and began to play in a rolling honky-tonk style.
“He’s got a wider range of talents than he shows,” Wilson told me.
“He kind of hoards them. You go back to his three albums. Each time there’s a big leap from one to the next-in material, in performance, in everything.”
Pete Seegar who, is one of the elders of American folk music, recently observed: “Dylan may well become the country’s most creative troubadour-if he does not explode.”
 

Part Four

Dylan came into the control room, smiling. Although he is fiercely accusatory toward society at large while he is performing, his most marked offstage characteristic is gentleness. He speaks swiftly but softly, and appears persistently anxious to make himself clear. “We’re going to make a good one tonight,” he said to Wilson, “I promise.” He turned to me and continued: “There aren’t any finger-pointing songs in here, either. Those records I’ve made, I’ll stand behind them, but some of that was jumping into the scene to be heard and a lot of it was because I didn’t see anybody else doing that kind of thing. Now a lot of people are doing finger-pointing songs. You know-pointing to all the things that are wrong. Me, I don’t want to write for people any-more. You know-be a spokesman. Like I once wrote about Emmett Till in the first person, pretending I was him. From now on, I want to write from inside me, and to do that I’m going to have to get back to writing like I used to when I was ten-having everything come out naturally. The way I like to write is for it to come out the way I walk or talk.” Dylan frowned. “Not that I even walk or talk yet like I’d like to. I don’t carry myself yet the way Woody, Big Joe Williams, and Lightnin’ Hopkins have carried themselves. I hope to some day, but they’re older. They got to where music was a tool for them, a way to live more, a way to make themselves feel better. Sometimes I can make myself feel better with music, but other times, it’s still hard to go to sleep at night.”
 

Part Five

A friend strolled in, and Dylan began to grumble about an interview that had been arranged for him later in the week. “I hate to say no, because, after all, these guys have a job to do,” he said, shaking his head impatiently. “But it bugs me that the first question usually turns out to be Are you going down South to take part in any of the civil-rights projects? They try to fit you into things. Now, I’ve been down there, but I’m not going down just to hold a picket sign so they can shoot a picture of me. I know a lot of the kids in SNCC-you know, the Student Nonviolent Coordinating Committee. That’s the only organisation I feel a part of spiritually. The NAACP is a bunch of old guys. I found that out by coming directly in contact with some of the people in it. They didn’t understand me. They were looking to use me for something. Man, everybody’s hung-up. You sometimes don’t know if someone wants you to do something because he’s hung-up or because he really digs who you are. It’s awful complicated, and the best thing you can do is admit it.”
Returning to the studio, Dylan stood in front of the piano and pounded out an accompaniment as he sang from one of his new songs:

“Are you for real, baby, or are you just on the shelf?
I’m looking deep into your eyes, but all I can see is myself.
If you’re trying to throw me, I’ve already been tossed.
If you’re trying to lose me, I’ve already been lost . . . .”
 

Part Six

Another friend of Dylan’s arrived with three children, ranging in age from four to ten.
The children raced around the studio until Wilson insisted that they be relatively confined to the control room. By ten minutes to eight, Wilson had checked out the sound balance to his satisfaction, Dylan’s friends had found seats along the studio walls, and Dylan had expressed his readiness-in fact, eagerness-to begin.
Wilson, in the control room, leaned forward, a stopwatch in his hand. Dylan took a deep breath, threw his head back, and plunged into a song in which he accompanied himself on guitar and harmonica. The first take was ragged; the second was both more relaxed and more vivid. At that point, Dylan, smiling, clearly appeared to be confident of his ability to do an entire album in one night. As he moved into succeeding numbers, he relied principally on the guitar for support, except for exclamatory punctuations on the harmonica.
Having glanced through a copy of Dylan’s new lyrics that he had handed to Wilson, I observed to Wilson that there were indeed hardly any songs of social protest in the collection.
“Those early albums gave people the wrong idea,” Wilson said. “Basically, he’s in the tradition of all lasting folk music. I mean, he’s not a singer of protest so much as he is a singer of concern about people. He doesn’t have to be talking about Medgar Evers all the time to be effective. He can just tell a simple little story of a guy who ran off from a woman.”
After three takes of one number, one of the engineers said to Wilson: “If you want to try another, we can get a better take.”
“No.” Wilson shook his head.
“With Dylan, you have to take what you can get.”

Part Seven

Out in the studio, Dylan, his slight form bent forward, was standing just outside the screen and listening to a playback through earphones. He began to take the earphones off during an instrumental passage, but then his voice came on, and he grinned and replaced them.
The engineer muttered again that he might get a better take if Dylan ran through the number once more.
“Forget it,” Wilson said. “You don’t think in terms of orthodox recording techniques when you’re dealing with Dylan. You have to learn to be as free on this side of the glass as he is out there.”
Dylan went on to record a song about a man leaving a girl because he was not prepared to be the kind of invincible hero and all-encompassing provider she wanted.
“It ain’t me you’re looking for, babe,” he sang, with finality.
During the playback, I joined Dylan in the studio. “The songs so far sound as if there were real people in them,” I said.
Dylan seemed surprised that I had considered it necessary to make the comment.
“There are. That’s what makes them so scary. If I haven’t been through what I write about, the songs aren’t worth anything.” He went on, via one of his songs, to offer a complicated account of a turbulent love affair in Spanish Harlem, and at the end asked a friend: “Did you understand it?” The friend nodded enthusiastically. “Well, I didn’t,” Dylan said, with a laugh, and then became sombre. “It’s hard being free in a song-getting it all in. Songs are so confining. Woody Guthrie told me once that songs don’t have to do anything like that. But it’s not true. A song has to have some kind of form to fit into the music. You can bend the words and the metre, but it still has to fit somehow. I’ve been getting freer in the songs I write, but I still feel confined. That’s why I write a lot of poetry-if that’s the word. Poetry can make it’s own form.”
 

Part Eight

As Wilson signalled for the start of the next number, Dylan put up this hand. “I just want to light a cigarette, so I can see it there while I’m singing,” he said and grinned.
“I’m very neurotic. I need to be secure.”
By ten-thirty, seven songs had been recorded.
“This is the fastest Dylan date yet,” Wilson said. “He used to be all hung up with microphones. Now he’s a pro.”
Several more friends of Dylan’s had arrived during the recording of the seven songs, and at this point four of them were seated in the control room behind Wilson and the engineers. The others were scattered around the studio, using the table that held the bottles of Beaujolais as their base. They opened the bottles, and every once in a while poured out a drink in a paper cup. The three children were still irrepressibly present, and once the smallest burst suddenly into the studio, ruining a take. Dylan turned on the youngest in mock anger. “I’m gonna rub you out,” he said. “I’ll track you down and turn you to dust.” The boy giggled and ran back into the control room.
As the evening went on, Dylan’s voice became more acrid. The dynamics of his singing grew more pronounced, soft, intimate passages being abruptly followed by fierce surges in volume. The relentless, driving beat of his guitar was more often supplemented by the whooping thrusts of the harmonica.
“Intensity, that’s what he’s got,” Wilson said, apparently to himself. “By now, this kid is out-selling Thelonious Monk and Miles Davis.” He went on, to me. “He’s speaking to a whole new generation. And not only here. He’s just been in England. He had standing room only in the Royal Festival Hall.”
 

Part nine

Dylan had begun a song called “Chimes of Freedom”. One of his four friends in the control room-a lean, bearded man-proclaimed: “Bobby’s talking for every hung-up person in the whole wide universe.” His three companions nodded gravely.
The next composition, “Motorpsycho Nitemare,” was a mordantly satirical version of the vintage tale of the farmer, his daughter, and the travelling salesman. There were several false starts, apparently because Dylan was having trouble reading the lyrics.
“Man, dim the lights,” the bearded friend counselled Wilson. “He’ll get more relaxed.”
“Atmosphere is not what we need,” Wilson answered, without turning around. “Legibility is what we need.”
During the playback, Dylan listened intently, his lips moving, and a cigarette cocked in his right hand. A short break followed, during which Dylan shouted: “Hey, we’re gonna need some more wine!” Two of his friends in the studio nodded and left.
After the recording session resumed, Dylan continued to work hard and conscientiously. When he was preparing for a take or listening to a playback, he seemed able to cut himself off completely from the eddies of conversation and humorous byplay stirred up by his friends in the studio. Occasionally, when a line particularly pleased him, he burst into laughter, but he swiftly got back to business.
When I had the chance to speak with Dylan, I asked him what he had meant about his abandoning of “finger-pointing” songs; he took a sip of wine, and said: “I looked around and saw all these people pointing fingers at the bomb. But the bomb is getting boring, because what’s wrong goes much deeper than the bomb. What’s wrong is how few people are free. Most people walking around are tied down to something that doesn’t let them really speak, so they just add their confusion to the mess. I mean, they have some kind of vested interest in the way things are now. Me, I’m cool.” He smiled. You know, Joanie- Joanie Baez-worries about me. She worries about whether people will get control over me and exploit me. But I’m cool. I’m in control, because I don’t care about money, and all that. And I’m cool in myself, because I’ve gone through enough changes so that I know what’s real to me and what isn’t. Like this fame, it’s OK in the village here, but in other towns it’s funny knowing that people you don’t even know, think they know everything about you.
One thing is groovy, though. I got birthday cards this year from people I’d never heard of. It’s weird, isn’t it? There are people I’ve really touched whom I’ll never know.”

Part ten

Dylan started a talking blues-a wry narrative in a sardonic recitative style, which had been developed by Woody Guthrie. “Now I’m liberal, but to a degree,” Dylan was drawling halfway through the song. “I want everyone to be free. But if you think I’ll let Barry Goldwater move in next door and marry my daughter, you must think I’m crazy. I wouldn’t let him do it for all the farms in Cuba.” He was smiling broadly, and Wilson and the engineers were laughing. It was a long song, and towards the end Dylan faltered. He tried it twice more, and each time he stumbled before the close. “Let me do another song,” he said to Wilson. “I’ll come back to this.”
“No,” Wilson said. “Finish up this one. You’ll hang us up on the order, and if I’m not here to edit, the other cat will get mixed up. Just do an insert of the last part.”
“Let him start from the beginning, man,” said one of the four friends sitting behind Dylan.
Wilson turned around, looking annoyed. “Why man?”
“You don’t start telling a story with Chapter Eight, man,” the friend said.
“Oh, man,” said Wilson “what kind of philosophy is that? We’re recording, not writing a biography.”
As an obbligato of protest continued behind Wilson, Dylan, accepting Wilson’s advice, sang the insert. His bearded friend rose silently and drew a square in the air behind Wilson’s head.
Other songs, mostly of love lost or misunderstood, followed. Dylan was now tired, but he retained his good humour. “This last one is called My Back Pages,” he announced to Wilson. It appeared to express his current desire to get away from “finger-pointing” and write more acutely personal material.
“Oh, but I was so much older then,” he sung as a refrain, “I’m younger than that now.”
By one-thirty, the session was over. Dylan had recorded fourteen new songs. He agreed to meet me again in a week or so and fill me in on his background. “My background’s not all that important, though,” he said as we left the studio. “It’s what I am now that counts.”