Fabrizio Cristiano De André (Genova, 18 febbraio 1940 –
Milano, 11 gennaio 1999) è stato un cantautore e poeta italiano.
Nelle sue opere ha cantato prevalentemente storie di emarginati, ribelli,
prostitute e persone spesso ai margini della società. I suoi testi sono
considerati dei veri e propri componimenti poetici e, come tali, inseriti in
molte antologie scolastiche di letteratura.
Nei suoi quarant'anni di attività musicale Faber, soprannome datogli
dall'amico d'infanzia Paolo Villaggio, produsse quindici album; un numero
relativamente modesto, probabilmente determinato dalla grande attenzione
dell'autore alla qualità delle sue opere.
Biografia
« Se nelle regioni meridionali non ci fosse la criminalità organizzata, come
mafia, 'ndrangheta e camorra, probabilmente la disoccupazione sarebbe molto
più alta. »
Un'immagine giovanile di Fabrizio De André.Ecco l'ultima staffilata che,
nell'agosto 1998, sollevò un'ondata di proteste e sdegno tra gli esponenti
di quella classe politica e sociale che De André racchiudeva nel suo
concetto di borghesia. Gli stessi che gridavano allo scandalo quando De
André dedicava le sue strofe a prostitute, lestofanti e suicidi e che, alla
sua morte, lo avrebbero osannato definendolo "Grande Poeta".
A Fabrizio De André vanno riconosciuti il coraggio e la coerenza d'aver
scelto, nella società italiana del dopoguerra, di sottolineare i tratti
nobili ed universali degli sconfitti, affrancandoli dal ghetto giansenista
degli indesiderabili e mettendoli a confronto con i loro accusatori.
Il cammino di Fabrizio De André ebbe inizio sulla pavimentazione sconnessa
ed umida del carruggio di Via del Campo, prolungamento della famosa Via Pré,
strada proibita di giorno quanto frequentata la notte. È in quel ghetto di
umanità platealmente respinta e segretamente bramata che avrebbero preso
corpo le sue ispirazioni; di ghetto in ghetto, dalle prostitute alle
minoranze etniche, passando per diseredati, disertori, bombaroli ed
un'infinità d'altre figure. Nella sua antologia di vinti, dove l'essenza
delle persone conta più delle azioni e del loro passato, De André
raggiungerà alte vette di lirismo poetico .
L'infanzia e la giovinezza
« Mia madre mi disse non devi giocare con gli zingari nel bosco... »
(da "Sally" nell'album Rimini)
Fabrizio Cristiano De André nacque il 18 febbraio 1940 nel quartiere
genovese di Pegli, in via De Nicolay 12 (ove è stata posta una piccola targa
commemorativa) da una famiglia dell'alta borghesia industriale cittadina. Il
padre Giuseppe fu vicesindaco di Genova, amministratore delegato
dell'Eridania e promosse la costruzione della Fiera del Mare di Genova, nel
quartiere della Foce.
Fabrizio crebbe inizialmente nella campagna astigiana, luogo dal quale la
famiglia era originaria e dove si dovette trasferire a causa degli eventi
bellici. Visse, poi, nella Genova del dopoguerra, scossa e partecipe della
contrapposizione tra cattolici e comunisti, sovente rigidi e bigotti
entrambi.
Il negozio di via del CampoDopo aver frequentato le scuole elementari in un
istituto privato retto da suore, passò alla scuola statale, dove il suo
comportamento "fuori dagli schemi" gli impedì una pacifica convivenza con le
persone che vi trovò, in special modo con i professori. Per questo fu
trasferito nella severa scuola dei Gesuiti dell'Arecco.
Presso i Gesuiti dell'Arecco, scuola media inferiore frequentata dai
rampolli della "Genova-bene", Fabrizio fu vittima, nel corso del primo anno
di frequenza, di un tentativo di molestia sessuale da parte di un gesuita
dell'istituto; nonostante l'età, la reazione verso il "padre spirituale" fu
pronta e, soprattutto, chiassosa, irriverente e prolungata, tanto da indurre
la direzione ad espellere il giovane De André, nel tentativo di placare lo
scandalo. L'improvvido espediente si rivelò vano poiché, a causa del
provvedimento d'espulsione, dell'episodio venne a conoscenza il padre di
Fabrizio, esponente della Resistenza e vicesindaco di Genova, che informò il
Provveditore agli studi, pretendendo un'immediata inchiesta che terminò con
l'allontanamento dall'istituto scolastico del gesuita.
In seguito il cantautore frequentò alcuni corsi di lettere e altri di
medicina presso l'Università di Genova prima di scegliere la facoltà di
Giurisprudenza, ispirato dal padre e dal fratello Mauro. A sei esami dalla
laurea decise di intraprendere una strada diversa: la musica (suo fratello
sarebbe divenuto uno dei suoi fan più fedeli e critici).
Successivamente ad un primo e problematico approccio, determinato dalla
decisione dei genitori di avviarlo allo studio del violino, il folgorante
incontro con la musica avvenne con l'ascolto di Brassens, del quale De André
tradurrà alcune canzoni, inserendole nei primi album. La passione, poi,
aveva preso corpo anche grazie all'assidua frequentazione degli amici Tenco,
Bindi, Paoli ed altri, con cui iniziò a suonare e cantare nel locale "La
borsa di Arlecchino".
De André, in questi anni, ebbe una vita sregolata ed in contrasto con le
consuetudini della sua famiglia, frequentando amici di tutte le estrazioni
culturali e sociali. Sovente, con l'amico d'infanzia Paolo Villaggio,
cercava di sbarcare il lunario con lavori saltuari, anche imbarcandosi,
d'estate, sulle navi da crociera come musicista per le feste di bordo.
La prima moglie di De André fu una ragazza di famiglia borghese, Enrica
Rignon detta "Puny", con cui concepì il figlio Cristiano e dalla quale si
separò a metà degli anni '70.
In seguito al matrimonio e alla nascita del figlio, Fabrizio fu pressato
dalla necessità di provvedere al mantenimento della famiglia e, visti gli
scarsi introiti dalla sua attività musicale, meditò di abbandonarla per
terminare gli studi e trovare un serio impiego. Fortunatamente, giunse
inaspettato il successo de "La canzone di Marinella", interpretata da Mina,
i cui proventi migliorarono notevolmente la situazione economica familiare.
La ragione divina di De André
« E non Dio ma qualcuno che per noi lo ha inventato ci costringe a sognare
in un giardino incantato. »
(da "Un blasfemo", nell'album Non al denaro, non all'amore né al cielo)
I testi del cantautore, che toccano spesso argomenti religiosi, sono
improntati ad una personale e disincantata visione della vicenda cristiana
e, a tratti, da una intuibile spiritualità, tuttavia non riconducibili ad
una definibile professione di fede.
Nei brani come "Spiritual", "Si chiamava Gesù", "Preghiera in gennaio" e nel
concept album "La buona novella", la figura di Cristo viene spogliata
dell'essenza divina per assumere, quasi in una dimensione crociana, tutta la
sua forza rivoluzionaria in favore degli ultimi.
L'atteggiamento tenuto da Faber nei confronti dell'uso politico della
religione e delle gerarchie ecclesiastiche è spesso sarcastico e fortemente
critico nel contestarne i comportamenti contraddittori, come, ad esempio,
nelle canzoni "Un blasfemo", "Il testamento di Tito", "La ballata del Miche'
".
L'esordio nel 1961 e il periodo Karim
« Benedetto Croce diceva che fino a vent'anni tutti scrivono poesie e che,
da quest'età in poi, ci sono due categorie di persone che continuano a
scrivere: i poeti e i cretini. Allora, io mi sono rifugiato prudentemente
nella canzone che, in quanto forma d'arte mista, mi consente scappatoie non
indifferenti, là dove manca l'esuberanza creativa. »
(F. De André)
Il giovane De André nel 1960 . Ad ottobre del 1961la Karim pubblica il suo
primo 45 giri, con copertina standard forata (la ristampa del 1971 della
Roman Record avrà invece una copertina curata dalla pittrice genovese Loris
Ferrari, amica di Fabrizio). Il disco contiene due brani, "Nuvole barocche" ed
"E fu la notte".
Nel 1962 il cantautore sostenne l'esame di ammissione come compositore alla
SIAE di Roma per poter depositare a proprio nome le canzoni; nel 1997,
durante la consegna del Premio Lunezia, confessò di aver utilizzato una
buona parte della poesia Le foglie morte di Jacques Prévert nel testo
dell'esame.
Negli anni successivi De André andò affermandosi sempre più come personaggio
riservato e musicista colto, abile nel condensare nelle proprie opere varie
tendenze ed ispirazioni: le atmosfere degli storici cantautori francesi,
tematiche sociali trattate sia con crudezza sia con metafore poetiche,
tradizioni musicali di alcune regioni italiane, sonorità di ampio respiro
internazionale e l'utilizzo di un linguaggio inconfondibile e, al tempo
stesso, semplice per essere alla portata di tutti.
In questo periodo uscirono i suoi primi 33 giri. La sua discografia non è
numerosissima come, del resto, inesistenti fino al 1975 erano i suoi
concerti. L'album del debutto è Tutto Fabrizio De André (1966, ristampato
due anni dopo con il titolo di La canzone di Marinella sotto un'altra
etichetta e riportando una diversa copertina), una raccolta di alcune delle
canzoni che sino ad allora erano state edite solo in 45 giri, seguita da
Volume I (1967), Tutti morimmo a stento (1968), Volume III (1968), Nuvole
barocche (1969); quest'ultimo è la raccolta dei 45 giri del periodo Karim
esclusi da Tutto Fabrizio De André.
Fra esistenzialismo e contestazione: dal 1968 al 1973
Per approfondire, vedi la voce Poetica di Fabrizio De André.
« Andrai a vivere con Alice che si fa il whisky distillando fiori,
o con un Casanova che ti promette di presentarti ai genitori?
O resterai più semplicemente dove un attimo vale un altro,
senza chiederti come mai .
Continuerai a farti scegliere,
o finalmente sceglierai? »
(da "Verranno a chiederti del nostro amore", Storia di un impiegato, 1973)
Gli anni fra il 1968 ed il 1973 furono fra i più proficui per l'autore, che
iniziò la serie dei concept con Tutti morimmo a stento, a cui segue La buona
novella; un album importante, che riporta il pensiero cristiano nei
primitivi confini di un'umana dimensione della fratellanza, in forte
contrapposizione con la dottrina di sacralità e verità assoluta, che il
cantautore sostiene essere inventata dalla Chiesa al solo scopo di esercizio
del potere.
Un crescendo creativo che, nel 1971 culminò in Non al denaro, non all'amore
né al cielo, libero adattamento (eseguito insieme a Giuseppe Bentivoglio) di
alcune poesie della Antologia di Spoon River, opera poetica di Edgar Lee
Masters; le musiche sono composte insieme a Nicola Piovani.
Nel 1972 la Produttori Associati, senza consultare l'artista, lo iscrive al
Festivalbar con il brano Un chimico (pubblicato su 45 giri): De Andrè
apprende la notizia dai giornali e convoca una conferenza stampa in cui
dichiara che «La casa discografica mi ha trattato come un ortaggio».
Dopo l'intervento del patron della manifestazione, Vittorio Salvetti, si
raggiunge un compromesso: la canzone viene inserita nei juke-box, come vuole
il regolamento, ma il cantautore non si esibirà durante la finale di Verona
nemmeno in caso di vittoria (l'edizione vede vincitrice Mia Martini con
Piccolo uomo).
Nell'autunno dello stesso anno pubblicò un singolo con due canzoni di
Leonard Cohen Suzanne/Giovanna d'Arco (brani che verranno poi inseriti con
un arrangiamento diverso nell'album Canzoni del 1974).
L'album successivo fu, nel 1973, Storia di un impiegato, disincantata e
sofferta trasposizione italiana del Maggio francese e dei conflitti che lo
avevano determinato.
Sono anche gli anni in cui De André fa le sue prime esperienze negli
spettacoli dal vivo. Lavoratore instancabile e al limite del perfezionismo
in studio, Fabrizio non riesce invece ad esibirsi in pubblico. Il suo timore
innanzitutto è dovuto al suo problema all'occhio sinistro, leggermente più
chiuso del destro, ma anche dalla precedente brutta esperienza televisiva in
cui si era dimenticato le parole di una sua canzone e aveva dovuto cantarla
in playback. Nel 2006 Francesco Guccini, ospite all'Università di Lettere a
Genova, ha ricordato di quando si incontrarono, per via di amici comuni,
sulle colline bolognesi e del fatto che Fabrizio, alla richiesta di suonare
una sua canzone, avesse preteso di poter cantare con le luci spente. È un
atteggiamento questo che ricorda le prime esperienze di Leonard Cohen che
incise il suo primo album musicale in uno studio a luci spente e con uno
specchio davanti per ricreare l'ambiente della sua camera da letto. La sua
casa di produzione discografica comincia a fare delle grosse pressioni
perché Fabrizio inizi un tour di concerti per l'Italia e il cantautore -
come in seguito ha raccontato all'amico Cesare Romana - si presenta davanti
al suo discografico e spara una richiesta di compenso esagerata, al fine di
ottenere un netto rifiuto. Ma il produttore accetta senza battere ciglio. In
questo modo Fabrizio è costretto ad affrontare le sue paure da palcoscenico,
paure che supererà solo con gli anni, suonando e cantando sempre nella
penombra e con molto whisky in corpo.
De André ha spesso usato sonorità di strumenti mediterranei e medievaliTutti
morimmo a stento (1968), con temi dark, suicidi, pervertiti, drogati,
pedòfili, bambini pazzi, re tristi. Per la prima volta si fa accompagnare da
un'orchestra sinfonica, la Philarmonia di Roma, sotto la guida del maestro
Gian Piero Reverberi.
Il testo del primo brano, "Cantico dei drogati" è tratto da una poesia di
Riccardo Mannerini. Quest'album è il primo concept album ad essere
pubblicato in Italia[10]; riceve anche il premio della critica italiana. Il
padre, parlando del disco fresco di stampa, afferma: «Ieri guardavano lui e
dicevano - è il figlio di De André. Oggi guardano me e dicono - è il padre
di De André»
La buona novella (1970), con i testi tratti da alcuni vangeli apocrifi e nel
quale suonava il gruppo I Quelli, poi ribattezzato PFM. Il disco è
arrangiato dallo stesso Reverberi.
Non al denaro, non all'amore né al cielo (1971), ispirato dalla Antologia di
Spoon River, capolavoro di Edgar Lee Masters pubblicato nell'aprile del 1915
e tradotto in Italia da Fernanda Pivano nel 1943. De André in questo disco
si avvale della collaborazione di Giuseppe Bentivoglio per i testi e di
Nicola Piovani per le musiche. Questo album è stato reinterpretato nel 2005
dal cantante Morgan, rinnovandone in parte l'arrangiamento.
Storia di un impiegato (1973), un altro concept album ispirato agli
avvenimenti del Maggio francese ed alla contestazione giovanile del
Sessantotto. È uno degli album più intensi e discussi del cantautore .
Anche qui risulta la collaborazione con Giuseppe Bentivoglio e con il
compositore Nicola Piovani, che figura come coautore delle musiche e degli
arrangiamenti.
E' in questo periodo (per circa 10 anni, dal 1969 al 1979) che De Andrè
viene sottoposto a controlli da parte delle forze di polizia e dei servizi
segreti italiani. In base a quanto ricostruito quando questa informazione è
stata resa nota negli anni '90, inizialmente i controlli sarebbero stati
effettuati dopo che un suo conoscente, simpatizzante del marxismo-leninismo,
era stato indagato durante le prime inchieste sulla strage di piazza Fontana
(allora ritenuta dagli inquirenti di matrice rossa). Negli anni sucessivi,
pur non individuando prove di una sua partecipazione attiva a gruppi
politici, extraparlamentari o meno, De Andrè viene ritenuto dal SISDE un
"simpatizzante delle BR" , mentre l'acquisto, insieme alla moglie Dori
Ghezzi, di un terreno a Tempio Pausania, viene considerato un tentativo di
creare un rifugio per appartenenti ai movimenti extraparlamentari di
sinistra. A rafforzare queste ipotesi, dal punto di vista degli
investigatori, il fatto che a Genova De Andrè avesse contatti con persone
appartenti ai gruppi anarchici e filo-cinesi.
Importanti collaborazioni negli anni Settanta
Articoli dell'epoca :
fonte:riccardomannerini.it . In carriera, De André collaborò anche con
Alessandro Gennari alla scrittura del libro Un destino ridicolo - pubblicato
nel 1996 e dal quale dodici anni dopo Daniele Costantini ha tratto il film
Amore che vieni, amore che vai - ed ebbe modo di lavorare - nella sua
attività compositiva - con Riccardo Mannerini, poeta genovese con il quale
musicò Eroina (1968) poi diventato Il cantico dei drogati.
A partire dal 1974, De André iniziò
nuove collaborazioni con altri musicisti e cantautori: a ciò affiancò anche
l'attività concertistica, mai affrontata sino ad allora. Negli anni Settanta
De André tradusse canzoni di Bob Dylan (Romance in Durango e Desolation
Row), Leonard Cohen ("It seems so long ago, Nancy", "Jeanne D'Arc", "Famous
Blue Raincoat" per la Vanoni e "Suzanne") e Georges Brassens (lavoro che
porterà all'uscita dell'album Canzoni del 1974) e collaborò con altri
artisti (su tutti Francesco De Gregori, che lavorò con lui alla scrittura di
molti brani dell'album Volume VIII del 1975, album non privo di
sperimentazione in cui sono affrontate tematiche esistenziali quali il
disagio verso il mondo borghese e la difficoltà di comunicazione);
nonostante il suo carattere schivo e poco incline alle apparizioni in
pubblico, accettò di esibirsi dal vivo, prima ancora del concerto alla
Bussola di Viareggio, a Piazza Navona nel 1974, in occasione di una
manifestazione del partito Radicale per il referendum sul divorzio,
sconvolgendo migliaia di romani che avevano sognato quel momento per anni, e
iniziando poi un tour con due componenti dei New Trolls, con i quali aveva
già collaborato nel 1968 per i testi del loro disco Senza orario senza
bandiera (Belleno e D'Adamo), e due dei Nuova Idea (Belloni e Usai).
Nel 1979 si esibì insieme alla Premiata Forneria Marconi, che affrontò con
successo l'ardua sfida di riarrangiare alcuni dei brani più significativi
del grande cantautore genovese, arrangiamenti che Fabrizio utilizzerà fino
alla fine della sua carriera. L'operazione si rivelò estremamente positiva,
tanto che il tour originò due album interamente live, tra il 1979 ed il
1980, che conobbero uno straordinario successo di vendite.
Rimini (1978), segna l'inizio della collaborazione, che proseguirà
proficuamente nel tempo, con il cantautore veronese Massimo Bubola.
Quest'album fa intravedere un De André esploratore di una musicalità più
distesa, spesso di ispirazione americana, di cui Bubola è portatore. I brani
trattano l'attualità (il naufragio di una nave a Genova) così come tematiche
sociali (l'aborto e l'omosessualità).
Fabrizio De André (1981) è un album senza titolo, noto come L'indiano per il
suo disegno in copertina, con Bubola ancora una volta coautore di De André.
Il filo che lega i vari brani è il parallelismo tra il popolo dei Pellerossa
e quello Sardo, entrambi oppressi dai loro colonizzatori. Il sequestro del
cantautore è rievocato nel brano Hotel Supramonte.
Il sequestro
Nella seconda metà degli anni '70, in previsione della nascita della figlia
Luisa Vittoria, De André si stabilisce nella tenuta sarda dell'Agnata, a due
passi da Tempio Pausania, insieme a Dori Ghezzi, sua compagna dal 1974, poi
sposata nel 1989. La sera del 27 agosto 1979, la coppia fu rapita
dall'anonima sequestri sarda e tenuta prigioniera nelle montagne di Pattada,
per essere liberata dopo quattro mesi (Dori fu liberata il 21 dicembre,
Fabrizio il 22), dietro il versamento del riscatto, di circa 550 milioni di
lire, in buona parte pagato dal padre Giuseppe.
Intervistato all'indomani della
liberazione (il 23 dicembre in casa del fratello Mauro) da uno stuolo di
giornalisti, Faber tracciò un racconto pacato dell'esperienza («...ci
consentivano, a volte, di rimanere a lungo slegati e senza bende») ed ebbe
parole di pietà per i suoi carcerieri («Noi ne siamo venuti fuori, mentre
loro non potranno farlo mai»). Questa posizione inconsueta, nel quadro di un
invito di De André a ragionare seriamente sulla realtà sociale sarda, attirò
critiche feroci di certa stampa che tese a colpevolizzare in modo retorico e
sensazionalistico i sequestrati.
L'esperienza del sequestro si aggiunse al già consolidato contatto con la
realtà e con la vita della gente sarda, e gli avrebbe ispirato diverse
canzoni, scritte ancora con Bubola e raccolte in un album senza titolo,
pubblicato nel 1981, comunemente conosciuto come "L'indiano" dall'immagine
di copertina che raffigura un nativo americano. Trasparente la similitudine
fra il popolo indiano e quello sardo, entrambi, pare sostenere il cantante,
rinchiusi in riserve se non altro culturali, entrambi vittime di dominazioni
sociali.
Sottili, ma non velate, furono le allusioni all'esperienza del sequestro:
dalla stessa ripresa della locuzione "Hotel Supramonte" (con cui da sempre i
sardi chiamavano l'industria dei sequestri) alla descrizione degli
improvvisati banditi cui, comunque, non intese negare note di un certo
romanticismo ed una connotazione di proletariato periferico che per questo
meritava, coerentemente con le sue tematiche privilegiate, una forte
attenzione. Al processo, De André confermò il perdono per i suoi carcerieri,
ma non per i mandanti perché persone economicamente agiate.
Da Crêuza de mä ad Anime salve: anni Ottanta-Novanta
Nel 1980 incide il singolo Una storia sbagliata, i cui brani sono editi per
la prima volta in CD solo nel 2005. Il disco reca inciso Una storia
sbagliata sul lato A e Titti sul lato B, entrambe scritte con Bubola.
Fabrizio ricorderà in un'intervista a proposito di questa canzone:
« Nel testo di Una storia sbagliata rievoco la tragica vicenda di Pier Paolo
Pasolini. È un canzone su commissione, forse l'unica che mi è stata
commissionata. Mi fu chiesta come sigla per due documentari-inchiesta sulle
morti di Pasolini e Wilma Montesi. »
Altre importanti collaborazioni lo videro impegnato negli anni seguenti con
Mauro Pagani - per la realizzazione dell'album Crêuza de mä (1984), un
progetto di Pagani che De André arricchisce con i suoi testi e che
all'inizio parve un fiasco ma fu in seguito premiato dalla critica come
"Album del decennio".
Crêuza de mä segna uno spartiacque nella carriera del cantautore genovese:
dopo questo album, Fabrizio esprime la volontà di non cantare più in
italiano ma di concentrarsi esclusivamente sul genovese (che per lui non era
un dialetto ma una vera e propria lingua). Ma Crêuza de mä è anche l'album
che libera De André dalle impostazioni vocali ereditate dalla tradizione
degli chansonniers francesi, che gli garantisce la libertà di espressione
tonale al di fuori di quei dettami stilistici che aveva assorbito da
Brassens e da Brel.
In seguito, inizia un periodo di crisi artistica che lo porta a formulare
ipotesi di collaborazioni che poi non verranno mai realizzate, come la
possibilità di un album sulle musiche dell'Europa orientale con Ivano
Fossati e Vasco Rossi (il quale, secondo Fabrizio, aveva un lato rock che a
lui mancava).
Da questa crisi riemergerà soltanto nel 1990 incidendo, ancora con Mauro
Pagani e con la collaborazione di Ivano Fossati, Le nuvole (1990) titolo che
(come in Aristofane) allude ai potenti che oscurano il sole[2]. Con questo
album De André torna in parte al suo stile musicale più tipico,
affiancandolo alle canzoni in dialetto e all'ispirazione etnica. Torna anche
la critica graffiante all'attualità, in particolare ne La Domenica delle
Salme e in Don Raffaè.
Fossati sarà presente, inoltre, nella realizzazione del concept album di De
André, Anime salve, pubblicato nel (1996). Incentrato sul tema della
solitudine, è l'ultimo album in studio del cantautore.
Sant'Ilario (alture di Nervi): una crêuza de mäCrêuza de mä (1984) fu da
parte di Pagani un importante lavoro di ricerca, con il quale si rievocò, e
per sonorità e per testi, un modus musicale del Mediterraneo genovese,
ovvero di quella parte tradizionale, e per questo "sociale", della cultura
della sua città natale. La lingua utilizzata è il genovese, la musica
rievoca tradizioni turche, greche e berbere.
Le nuvole (1990) è la summa delle varie collaborazioni di questo periodo (da
Mauro Pagani, coautore di tutti i brani, a Ivano Fossati e Massimo Bubola).
La struttura de "Le Nuvole" è divisa in due parti: la prima, quella dedicata
al potere, è in italiano; la seconda incarna la voce del popolo ed è perciò
cantata in dialetto.
Anime Salve (1996), è l'ultimo concept album di De André e, a differenza dei
due precedenti, è in gran parte in italiano. La musica è scritta in gran
parte da Ivano Fossati, con influenze ritmiche sudamericane, ma eseguite con
sonorità della stessa matrice etnica nata con Crêuza de mä.
Fra il 1990 ed il 1996 collabora con vari autori, sia come autore che come
cointerprete, nei rispettivi album: tra essi ricordiamo Francesco Baccini, i
Tazenda, Mauro Pagani, ancora Massimo Bubola, Max Manfredi, Teresa De Sio,
Ricky Gianco, i New Trolls e il figlio Cristiano De André. Da segnalare la
collaborazione con "Li Troubaires de Coumboscuro" nell'album A toun souléi,
dove De André partecipa all'incisione del brano in provenzale antico Mis
amour, insieme a Dori Ghezzi e Franco Mussida.
L'addio fra la sua gente
Nell'estate 1998, durante la tournée del suo ultimo album Anime Salve, gli
fu diagnosticato un tumore ai polmoni, che lo portò a interrompere i
concerti.
La notte dell'11 gennaio 1999, alle ore 02:30, Fabrizio De André morì
all'Istituto dei tumori di Milano, dove era stato ricoverato con
l'aggravarsi della malattia.
I suoi funerali si svolsero nella Basilica di Carignano a Genova il 13
gennaio: al dolore della famiglia partecipò una folla di oltre diecimila
persone, in cui trovarono posto estimatori, amici ed esponenti dello
spettacolo, della politica e della cultura.
Dopo la cremazione, avvenuta il giorno seguente alla cerimonia funebre,
venne sepolto nella tomba di famiglia nel cimitero di Staglieno accanto al
fratello Mauro, al padre Giuseppe e alla madre Luisa Amerio.
« Io ho avuto per la prima volta il sospetto che quel funerale, di quel
tipo, con quell’emozione, con quella partecipazione di tutti non l’avrei mai
avuto e a lui l’avrei detto. Gli avrei detto: «Guarda che ho avuto invidia,
per la prima volta, di un funerale». »
(Paolo Villaggio - La Storia siamo noi - 4 gennaio 2007 )
visto da Cesare G. Romana
Via del Campo è una straducola stretta e tortuosa nel
cuore di Genova vecchia. Appartiene a quella rete di vicoli che, collocata a
ridosso dell'angiporto, fa storcere il naso ai Catoni della società bene, ma
piace ai poeti. Piace, dunque, a Fabrizio, che già in un'altra occasione ne
ha cantato "l'aria spessa, carica di sale e gonfia di odori" che si spoa al
tanfo della spazzatura accumulata lungo i marciapiedi, all'odor di vino e di
fumo ( poco distante, all'imbocco della via, l'ombra austera di una chiesa e
la sede della "Protezione della giovane" sembrano messe lì a bella posta da
un folletto in vena di sfottò). Qui viene spesso Fabrizio che è - a suo modo
- un poeta e come tale ama scoprire il fondo delle cose, il colore autentico
della realtà umana che è fatta anche di miseria, di tristezza, di inutili
attese e di disattese promesse.
E' sempre stato un tema caro a Fabrizio, quello dell' uomo scrutato - e
amato - nei capitoli più amari, nei risvolti fallimentari della sua storia.
Che è essenzialmente, per lui, storia di agognati ma tanto spesso
irraggiunti traguardi, di fronte alla evidenza diventa inutile la speranza
illusoria e la ribellione pigmeiforme di chi vorrebbe opporre la propria
fragile volontà alla violenza gigantesca del destino. Sempre pronto,
quest'ultimo, a dissolvere con un colpo di spugna i poveri fantasmi che
colorano i sogni dell'uomo con le luci di un impossibile paradiso.
Ecco perchè non mi ha affatto stupito - alla luce di quanto avevo intuito
dalla affettuosa consuetudine con lui uomo e con lui artista - che Fabrizio
abbia composto, giunto a un certo stadio della sua parabola creativa, Via
del Campo. Che non è soltanto una pagina di amarissima poesia, ma,
soprattutto, il ritratto emblematico di una condizione umana, la
dimostrazione di quanto possa essere disagevole - oltre che improduttivo -
il mestiere di vivere.
In questa cornice vivono i personaggi di Fabrizio e si consuma la loro
attesa, che ha già in sè i germi del proprio nulla. Così la "graziosa" di
Via del Campo, la bambina ai cui piedi nascono i fiori, ma che "vende a
tutti la stessa rosa"; la puttana che non potrà mai offrire altro che un
paradiso provvisorio e, tutto sommato, inutile l'incantesimo di un quarto
d'ora. Così il povero "illuso" che viene a cercare fra il letame, i fiori di
un impossibile, assurdo amore. Così, in fondo, tutti noi. E allora ?
Si vorrebbe credere, si vorrebbe sperare. Ma in che cosa, e in chi ? Può
accadere che nasca nel buio del cuore la tentazione di una preghiera. Ma Dio
dov'è ?
"Dio del cielo, se mi vorrai amare / scendi dalle stelle e vienimi a
cercare...". Noi non sappiamo individuare il confine che separa il sorriso
dal pianto, indicacelo Tu : "le chiavi del cielo non ti voglio rubare / ma
un attimo di gioia me lo puoi regalare..."1. Ecco allora, finalmente,
profilarsi l'ombra di una speranza.
Fiducia, se non altro, in una giustizia finale che arriverà ad invertire le
posizioni, castigando chi troppo ha goduto ("chi bene condusse sua vita /
male sopporterà sua morte"), affrancando chi troppo ha sofferto :
"partirvene non fu fatica / perchè la morte vi fu amica"2.
E' l'epilogo che il suicida di Preghiera in gennaio sceglie come unica
alternativa all' "odio e all'ignoranza" che avvelenano la terra : "Lascia
che sia fiorito / Signore il suo sentiero..." . Non c'è altra certezza, non
c'è altro rimedio è lecito supporre al nostro male di vivere : "Dio di
misericordia / il tuo bel paradiso / l'hai fatto soprattutto / per chi non
ha sorriso, / per quelli che han vissuto / con la coscienza pura : /
l'inferno esiste solo / per chi ne ha paura".
E prima ? Diceva Ungaretti "La morte si sconta vivendo". Nessuno si salva da
questa legge, neppure coloro che Fabrizio chiama semidei, i fortunati. Come
quel Carlo Martello il cui rango regale non vieta ad una qualsiasi
sgualdrinella di sottoporlo ad una atroce turlupinatura ; neppure coloro
che, avendo raggiunto alle spalle degli altri una aleatoria felicità,
troveranno il loro castigo quando la Morte "estrema nemica"2 verrà a
rammentare loro l'infinita vanità del tutto.
Lungo queste costnti la meditazione di Fabrizio nasce e procede con i frutti
di una concretezza tanto più tangibile tanto più diretto - e sofferto - è il
suo approccio con la realtà. E se a taluni troppo ampio potrà sembrare lo
spazio che Fabrizio concede ad un pessimismo apparentemente distruttivo, non
va dimenticato come esso trovi le proprie radici in un atto d'amore per
l'UOMO, di ansia per la sua salvezza.
(fonte: geocities.com)
NUVOLE : RIVOLTA CONTRO IL MONDO MODERNO
a cura di Alberto Mingardi
Di tutti gli album di Fabrizio DeAndre', LE NUVOLE
(1990-il cui titolo è ovviamente preso a prestito da Aristofane) è
sicuramente il più deluso, certo DeAndre' non è mai stato fra gli
"entusiasti" della società moderna occidentale o no, l'anarchia (libertaria
o socialista che sia) è un sogno, un'ideale per cui si paga un caro prezzo.
Tuttavia, su tutti in questo album si avverte, quasi palpabile, la delusione
del cantautore, ironico e sarcastico nel dissacrare i valori della società
capitalistica-occidentale, amaro ma pungente nel constatare il fallimento
dello Stato, amareggiato nel vedere passare "il cadavere di Utopia"1.
Significativa su tutto è la citazione che apre la parte "scritta"
dell'album, ovvero i testi delle canzoni, ma ne parleremo in seguito in
quanto non è un inizio, ma un ideale termine del viaggio che DeAndre'
incomincia in questo album, che è forse lo stesso viaggio di sempre, ma
rivissuto con occhi diversi.
Il primo brano, non è musica, non è canzone, è semplice poesia letta e
recitata con lieve sottofondo musicale. Si tratta di "Nuvole", che da il
titolo all'album, in cui due donne dialogano sulla natura delle nuvole,
appunto. E' una poesia molto particolare, giocata interamente o quasi sul
dualismo : a parlare sono una donna giovane e una vecchia, le nuvole stesse
"vanno / vengono", "bianche / nere", "una / mille", "sole / stelle"...
Splendida poesia, "le Nuvole", ma non c'e' ancora delusione, quella
delusione che è evidentissima, forte, sentita in "Ottocento", canzone
provocatoria e sarcastica utile anche per spiegare il titolo "comico" tratto
da Aristofane.
Il tono è canzonatorio, infatti, la musica allegra, il punto di vista quello
(irriso) di un borghese del Nord Italia che decanta le meraviglie che si è
procurato proprio grazie alla società capitalista. Punta di vista, però,
quello di De Andre', "sottovento", che egli si ritaglia con una invocazione
pseudo omerica ("Cantami di questo tempo / l'astio e il malcontento / di chi
è sottovento"), con l'esplicita ammissione di "sputare nel piatto in cui
mangia" (continua infatti : "e non vuol sentir l'odore / di questo motore /
che ci manda avanti / quasi tutti quanti / maschi femmine e cantanti").
Per il resto, "Ottocento" è e resta una canzone gradevole all'ascolto ma
tutto fuorchè memorabile nel panorama di DeAndre' : lunga esternazione dei
difetti della società capitalistica, del mercato, incessante rimarcare
sull'esistenza di rapporti sociali solo in funzione dare-avere ("che ti
trattavo come un figlio") e del movimento frenetico della nostra società
("und Alka Seltzer fur dimenticar").
"Don Raffae'" (scritto con Bubola, oltre al solito Pagani) parte da subito
in un'ottica diversa : il punto di vista non è quello di un ricco, bensi'
quello di un povero del Sud Italia, uno dei tanti sconfitti della storia
tanto cari al cantautore genovese quanto ben caratterizzati da lui fin dalla
giovenù : ecco allora questo brigadiere del Carcere di Poggio Reale,
Pasquale Cafiero, all'incontro con un boss della malavita, nella carcere
stessa, e il bisogno da parte di Cafiero di quest'uomo, Don Raffae',
appunto, non solo per la consolazione momentanea di una conversazione, ma
proprio per i vantaggi che puo' averne, da questa conversazione, certo
maggiori di quelli che gli può offrire lo Stato. Stato che : "prima pagina
venti notizie / ventun ingiustizie e lo Stato che fa? / si costerna,
s'indigna, s'impegna / poi getta la spugna con gran dignità". Eccola qui la
grande delusione, la mafia è soltanto un esempio, la grande delusione è la
totale incapacità dello Stato di far fronte a un problema reale ed
esistente, passando dalle (abbondantissime) parole ai fatti.
La "Domenica delle Salme" conclude degnamente il primo lato dell'album, e ne
è senz'altro la canzone più significativa : qui DeAndre' condensa
mirabilmente critica anti-capitalista e critica anti-statale, fin dal titolo
è chiaro il riferimento a una "Domenica delle Palme", presumibilmente il
'68, la contestazione, che come nella storia del Cristo è il momento,
effimero, del trionfo, che però prelude alla disgrazia, la crocefissione.
DeAndre' ragiona qui infatti, a anni '80 ormai conclusi, su quanto questi
anni hanno comportato : la perdita appunto dei valori della contestazione
nella trasformazione dei contestatari appunto da sessantottini a yuppies, e
il conseguente passaggio dalle barricate alle scrivanie.
A fuggire infatti, dalla "bottiglia d'orzata / in cui galleggia Milano" è
appunto il "poeta della Baggina", qui intesa nel senso di poeta di cose
ormai vecchie, ideali passati, identificato nella canzone con Renato Curcio
(poeta e "carbonaro", rivoluzionario) ma identificabile con lo stesso
Rimbaud (il taglio della gamba di Curcio, appunto). Paradossalmente, la
lettura potrebbe essere diversissima se soltanto "Le Nuvole" fosse uscito
due anni dopo, quando sarebbe spontaneo (e senza conoscere la data di uscita
del disco, lo è) identificare questo "poeta" con Mario Chiesa e gli affari
del Pio Albergo Trivulzio connessi con lo scoppio di Tangentopoli.
I richiami al sessantotto sono molteplici : la strada di Trento, per
esempio, dove partì la contestazione di Capanna, e dove il "poeta" tenta
disperatamente di ritornare, ma non ci riesce, lo fermano, è
identificabilissimo : la sua anima "accesa / mandava luce di lampadina". La
seconda strofa passa a una critica diversa, estensibile ed estesa all'intero
mondo occidentale, ma soprattutto alla Germania. Si parla infatti dello
sfruttamento dei paesi dell'Est, a più riprese ("i polacchi non morirono
subito / e inginocchiati agli ultimi semafori" ; "i trafficanti di saponette
/ mettevano pancia verso Est") con chiaro riferimento alla Germania appena
riunificatasi ma ancora divisa ("la scimmia del Quarto Reich / ballava la
polka").
Ma la "Domenico delle Salme" non è violenta, semmai ridicola, sono le risate
a cancellare il passato, anche quello recente, con il contraltare di un
governo ("il ministro dei temporali / in un tripudio di tromboni") che
auspica democrazia in chiaro politichese volendo in realtà soltanto nuovi
privilegi. Qui la lettura è duplice : da un lato, critica feroce al sistema
statale in sè e per sè, dall'altro la critica di chi riutilizza ideali del
passato come manifesto di temporale volendo solo "una città / dove all'ora
dell'aperitvo / non ci siano spargimenti di sangue / o di detersivo").
E allora la libertà dove sta ? Sta nel "cannone nel cortile" che possono
vantare solo De Andre' ed il "cugino" De Andrade ( vedi "Serafino Ponte
Grande" di Oswald DeAndrade), l'unico modo di essere cittadini liberi è
quello di rifiutare dunque anche la legge (spagliata) imposta dal potere
costituito, con una nuova essenza di individui, quasi isole auto-isolatesi
dal resto della civiltà, se di civiltà si può parlare.
Di nuovo nel ritornello, si ribadisci il concetto : "la domenica delle salme
/ nessuno si fece male", la contro-riforma è pacifica, ma questa pace (dirà
poi) è "terrificante", senza ideali, ideale di cui invece si segue tutti il
feretro. "Quanta è bella giovinezza / non vogliamo più invecchiare" ricorda
il fascismo ma soprattutto con coraggio denuncia il vero lato negativo del
fascismo, ignorato a pie' pari da tanta gente di sinistra : la volontà
popolare che lo sorreggeva.
L'ultimo rimpianto, prima delle strofe finali, l'ultima delusione è per la
canzone d'autore, che dovrebbe avere la forza della denuncia ("avevate voci
potenti / adatte per il vaffanculo"), ma non ce l'ha, si asserve al padrone
di turno, canta per questo e quello, così come in Ottocento era mandata
avanti dallo stesso motore criticato.
La canzone si chiude con un richiamo agli "addetti alla nostalgia", che
accompagnano il cadavere di Utopia, funerale prologo della pace
terrificante, cui l'Italia risponde solo con una vibrante protesta che è poi
il canto delle cicale.
Dunque, un DeAndre' caustico, arrabbiato, anarchico e individualista, degno
e logico "padre" del DeAndre' che verrà con "Anime Salve", un DeAndre' che a
ideale motto del suo "Le Nuvole" sceglie e pone questa citazione, che
riportiamo per intero in ragione della sua bellezza, valore, attualità :
"...io sono un principe libero
e ho altrettanta autorità di fare guerra
al mondo intero quanto colui
che ha cento navi in mari"
SAMUEL BELLAMY
[pirata alle Antille del XVIII secolo]
Il lato "B" dell'album è simile ma diverso, simile nella critica al mondo
moderno e nella satira assieme, qui espresse nel filone della canzone
dialettale che contraddistingue la coppia DeAndre'-Pagani fin da "Crueza de
Ma", concept-album dei primi anni '80.
"Mégu Megùn" è infatti la storia del via-vai di un paziente, via-vai
frenetico, assatanato, alla ricerca di una salute che finisce col diventare
malattia: "E mi e mi e mi / anà anà / e a l'ala sciurtì [e uscire all'aria]
/ e suà suà", fino al rifiuto di ciò che avviene nella (bellissima) strofa
finale "nu anà nu anà / sta chi sta chi sta chi / asùname [sognare]".
L'album prosegue con "La Nova Gelosia" (qui nel senso di serramento della
finestra) canzone napoltana che "ho acoltato per la prima volta due anni or
sono. Era cantat da Roberto Murolo e ne sono rimasto affascinato", citando
lo stesso DeAndre'.
"'A Cimma" è una canzone delicata e sofferta, godibilissima soprattutto per
chi della Liguria conosce almeno di vista l'ambiente e l'immancabile "Cima",
piatto tipico, la cui preparazione è qui quasi illustrata. La canzone è,
come "Mégu Megùn" e come sarà "'A Cumba" in "Anime Salve", frutto di una
collaborazione con Ivano Fossati che si avverte nella leggerezza delle note
e del tono, quasi onirico, sognante, ligure. L'emozione dell'indizio della
canzone ("Ti t'adesciae 'nsece l'endegu du matin" [ti sveglierai sull'indaco
del mattino]) è proprio simile a quella di un'alba sul Mare. Canzone dunque
fortemente poetica e caratterizzata, ma anche qui critica nei confronti
della nostra società, ivi rappresentata dalla metafora dei camerieri ("Poi
vegnàan a pigìatela i camè / te lascian tùttu, ou fùmmu d'ou toeù mesté /
tucca a ou fantin a prima coutelà / mangè mangè nu séi chi ve mangià" [Poi
vengono a prendertela i camerieri / ti lasciano tutto il fumo del tuo
mestiere / tocca allo scapolo la prima coltellata / mangiate mangiate non
sapete chi vi mangerà]). Come a dire la crudeltà di un sistema che costringe
alla catena di montaggio, ignari di quello che accadrà al prodotto
confezionato, di cui ci rimane la sola fatica e i soli scarti.
"Monti di Mola" sta al lato B come "Ottocento" stava al lato A : una canzone
satirica, qui in sardo, ove l'uomo di accoppia con un'asina sotto gli occhi
maliziosi e invidiodi si una vecchia megera guardona, ma in cui "ma a
cuiuassi no riscisini / l'aina e l'omu / chè da li documenti escisini /
fratili in primi", ovvero in cui l'asina e l'uomo non possono sposarsi in
quanto cugini primi. (I Monti di Mola, nota bene, sono l'antico nome della
Costa Smeralda)
(fonte: geocities.com)
De André nella memoria collettiva
« De André non è stato mai di moda. E infatti la moda, effimera per
definizione, passa. Le canzoni di Fabrizio restano »
(Nicola Piovani)
La discografia di De André è ampia, ma non vasta come quella di altri autori
del suo tempo; pur tuttavia risulta memorabile per varietà ed intensità.
[16] Viene ora riassunta in postume ricostruzioni filologiche, curate dalla
moglie e da esperti tecnici del suono che si sono riproposti l'obiettivo di
mantenere, nei nuovi supporti, le sonorità dei vecchi LP in vinile. Sino ad
ora sono state realizzate due raccolte, entrambe in triplo CD, titolate In
direzione ostinata e contraria e In direzione ostinata e contraria 2.
Alcuni fra i maggiori cantanti e cantautori
italiani, nel marzo del 2000, hanno ricordato Fabrizio De André con un
concerto celebrativo, al teatro Carlo Felice di Genova, interpretando i suoi
maggiori successi. Di quel concerto è stato realizzato un doppio cd, dal
titolo Faber, pubblicato nel 2003, i cui proventi sono stati devoluti in
beneficenza.
La Premiata Forneria Marconi ha eseguito, e tutt'ora esegue concerti nei
quali reinterpreta le canzoni di De André, in cui si ricorda la proficua
collaborazione tra il gruppo e il cantautore.
A Genova, in Via del Campo, dove l'intrico di viuzze si fa congestionato
come in una Qasba mediorientale, nel negozio di dischi di Gianni Tassio, ora
acquisito dal comune di Genova[17], è esposta la chitarra con la quale,
probabilmente, De André ha studiato i testi delle canzoni di "Crêuza de mä".
Lo strumento, la "Francisco Esteve" n. 097, venne messo all'asta in favore
di Emergency dalla famiglia, poco tempo dopo la sua morte, ed acquistato dai
negozianti del capoluogo ligure, dopo una serrata lotta al rialzo con alcuni
facoltosi collezionisti. Nonostante la loro proverbiale "tirchieria", i
commercianti Genovesi arrivarono a sborsare 168.500.000 lire, per
aggiudicarsi la chitarra di Faber.
Ora il negozio di via del Campo, nei luoghi dove il cantautore avrebbe
voluto trascorrere i suoi ultimi anni, si è trasformato in una sorta di
museo, e chi vi passa davanti può ascoltare sommessamente le note delle sue
canzoni; inoltre, vi si trovano esposte in vetrina le copertine originali di
tutti i suoi dischi.
Su iniziativa della moglie Dori Ghezzi e di Fernanda Pivano è nata la
Fondazione Fabrizio De Andrè Onlus che si occupa di mantenere viva la
memoria del cantautore. Molte sono le iniziative promosse, moltissimi i
gesti di stima e di amore che tutta Italia porge ogni anno alla memoria di
Fabrizio.
Tribute band
Oltre agli artisti celebri, anche una lunga serie di cantanti meno
conosciuti e, soprattutto, di gruppi giovanili, hanno registrato album
composti principalmente o esclusivamente da canzoni di Faber, spesso con
risultati apprezzabili. Nelle piazze e nei teatri di città e di provincia
sono centinaia le rappresentazioni che, ogni anno, vengono dedicate a De
André. Tra i più importanti interpreti e tribute band, ricordiamo:
Accordi in Settima, Affa Affa, Alberto Cantone, Amedeo Giuliani & Band,
Anime Salve, Antonello Persico e gli ARBOR, Apocrifi, Artenovecento, Beans
Bacon & Gravy, Born to Drink, Carlo Ghirardato, Cantando De André, Caro De
André, Coro Aurora, Corrente di Ali, D.O.C. Sound, Disamistade, Endegu,
FAB-Ensemble, Faber Band, FaberNoster, FDA Cover B, Four Steps Choir, Fuori
dal coro, Giorgio Cordini, Gente d'altri paraggi, Giuseppe Cirigliano,
Golesecche, Gruppo di Continuità, Gruppo musicale, Disamistade, L'amore che
strappa i capelli, La Cattiva Strada band, Luciano Monceri, Kampina,
Khorakhanè, Khorakhanè 2, Kinnara, Madamadorè, Malecorde, Malindamai,
Mercanti di Liquore, Mercantinfiera, Mille Papaveri, Nottefonda, Omaggio a
FDA, Orchestrina del Suonatore Jones, Ostinati e Contrari, Ottocento,
Passaggi, PCE Eianda, Piccola Bottega Baltazar, Piccola Orchestra Apocrifa,
Quartetto Khorakhanè, Quattrochitarre, Sand Creek Band, Servidisobbedienti,
SHILOQ, SloTrio, Spoon River, Trailalo, Trioprincesa, Volta la carta.
Premio
In suo ricordo è stato istituito un apposito premio - il Premio Fabrizio De
André - che nel 2007 è stato assegnato ai fratelli Gian Piero e Gianfranco
Reverberi.[18]
Discografia
1966 - Tutto Fabrizio De André
1967 - Volume I (Fabrizio De André)
1968 - Tutti morimmo a stento
1968 - Volume III
1969 - Nuvole barocche
1970 - La buona novella
1971 - Non al denaro, non all'amore né al cielo
1973 - Storia di un impiegato
1974 - Canzoni
1975 - Volume VIII
1978 - Rimini
1981 - Fabrizio De André
1984 - Crêuza de mä
1990 - Le nuvole
1996 - Anime salve
I tour
I tour di Fabrizio De André, compiuti nel periodo compreso dal 1975 al 1998,
sono in tutto 12, dei quali solamente uno europeo. Nei primi due è stato
accompagnato dalle importanti formazioni dei New Trolls e della Premiata
Forneria Marconi.
Riconoscimenti
« [...] Mi pare che sempre di più sarebbe necessario che invece di dire che
Fabrizio è il Bob Dylan italiano, si dicesse che Bob Dylan è il Fabrizio
americano. »
(Fernanda Pivano, consegnando il Premio Lunezia 1997 a Smisurata preghiera)
Premio Tenco
1975 - Premio Tenco a De André, premiato insieme ad altri cinque cantautori
(tra i quali Francesco Guccini).
1984 - Targa Tenco per l'album Crêuza de mä e all'omonima canzone premio per
la miglior canzone in dialetto.
1991 - Targa Tenco per il brano La domenica delle salme e per l'album Le
nuvole
Altri premi
1997 - Premio Lunezia per il brano Smisurata preghiera dall'album Anime
salve
“Mi comperai la vita con i canti e i sorrisi”
Fabrizio Cristiano De André nasce a Genova, nel quartiere di Pegli, in via
De Nicolay 12, da una famiglia dell’alta borghesia locale: il padre,
Giuseppe, fu infatti vicesindaco della città, amministratore delegato della
Eridania e tra i promotori della costituzione della Fiera del Mare. Durante
la Seconda guerra mondiale, quando Fabrizio è ancora bambino, la famiglia è
costretta a rifugiarsi nella campagna astigiana, di cui è originaria, per
fare ritorno a Genova soltanto nel dopoguerra. Dal carattere deciso e
intemperante sin da piccolo, Fabrizio viene trasferito dalla scuola pubblica
in un istituto privato di Gesuiti durante le scuole medie, ma verrà espulso
in seguito a un fatto che lo vede oggetto di molestie da parte di un
insegnante. Lo scandalo arriverà alle orecchie del padre, che riuscirà a far
aprire un’inchiesta ottenendo l’allontanamento del gesuita dalla scuola.
Dopo gli studi liceali a Genova, De André frequenta sporadicamente alcuni
corsi universitari prima di iscriversi, seguendo l’esempio paterno e del
fratello maggiore, Mauro, alla facoltà di Giurisprudenza. Prima di
conseguire la laurea, ad ogni modo, abbandonerà gli studi. “Sarei stato un
pessimo avvocato”, commenterà in futuro. Inizia così una delle più grandi
avventure musicali della storia italiana: quando De André decide che la sua
strada è scrivere e cantare canzoni. Inizia così a lasciarsi contaminare da
autori internazionali come Georges Brassens e Jaques Brel, dai quali trarrà
spunti importanti per i suoi brani, e dalla frequentazione con musicisti
come Luigi Tenco e Gino Paoli , con i quali inizia ad esibirsi in pubblico
nel locale “La borsa di Arlecchino” di Genova. È il 1961 quando la casa
discografica “Karim” pubblica il suo primo 45 giri, registrato nel ’58, che
contiene due brani: “Nuvole barocche” e “E fu la notte”. L’anno seguente De
André sostiene l’esame di ammissione come compositore alla Siae di Roma, per
poter depositare i testi delle proprie canzoni a suo nome: escono i primi 33
giri, ma né la produzione di album né i concerti sono ricorrenti, in questa
fase. Ancora nel 1962 sposa Enrica Rignon (detta Puny) dalla quale nascerà
lo stesso anno il primogenito, Cristiano: De André ha appena 23 anni.
Per mantenere la famiglia alterna in questa fase la passione musicale a
lavori saltuari nelle scuole private per geometri e ragionieri gestite dal
padre. Il primo grande successo per Fabrizio arriva nel 1965, quando Mina
interpreta un suo brano portandolo all’attenzione di tutto il paese: è la
famosissima “La canzone di Marinella”. L’album d’esordio arriva l’anno
seguente, nel ’66, quando esce “Tutto De André”, cui faranno seguito “Volume
I” (1967), “Tutti morimmo a stento” e “Volume III” (1968), oltre che da
“Nuvole barocche” (1969). Intanto, nel 1967, incontra la cantante Dori
Ghezzi, che diventerà la compagna di tutta la vita: si separa dalla prima
moglie e dalla nuova unione sentimentale nasce la figlia, Luisa Vittoria
(chiamata Luvi). Insieme alla famiglia decide di acquistare un’azienda
agricola in Sardegna, dove si trasferiscono a vivere, nella zona di Tempio
Pausania.
Sono questi gli anni più produttivi dal punto di vista creativo per De
André, che culmineranno con la composizione dell’album tra i più amati, “La
buona novella”, nel 1970, disco fondamentale che affronta il tema del
pensiero cristiano ai suoi albori, e che contiene alcune tra le più note
canzoni dell’autore genovese, come “Il testamento di Tito”. Un crescendo
creativo questo che lo conduce, l’anno seguente, a pubblicare “Non al
denaro, non all’amore né al cielo”, libero adattamento di alcune poesie
tratte da “Antologia di Spoon River” di Edgar Lee Masters, realizzato
insieme a Giuseppe Bentivoglio e Nicola Piovani. Il 1972 lo vede invece
realizzare un singolo con 2 brani composti insieme a Leonard Cohen
(“Suzanne” e “Giovanna d’Arco”), successivamente inseriti con un nuovo
arrangiamento nell’album “Canzoni” del 1974. Il 1973 è la volta di “Storia
di un impiegato”, disincantata, malinconica e struggente analisi del Maggio
francese e della rivolta giovanile dell’epoca, trasportata nei termini e
nella percezione della società italiana.
Sono questi gli anni in cui De André, insicuro e timido per natura, affronta
le prime esperienze di concerti dal vivo. Instancabile e perfezionista in
studio, infatti, incontra grandissime difficoltà nell’esibizione scenica,
nonostante le forti pressioni che arrivano dalla sua casa discografica. Sarà
una tra le cause che lo porteranno all’abuso di alcool: De André si
presenterà più volte ubriaco sul palco, per tentare di arginare le proprie
paure. Il suo primo concerto ufficiale si tiene il 18 marzo del 1975 alla
“Bussola” di Focette, in cui si esibisce affiancato dai New Trolls. Le sue
esibizioni, comunque, saranno assai sporadiche per tutta la durata della sua
carriera. Il 27 agosto del 1979 si apre una pagina cupa nella vita di De
André: viene sequestrato infatti, insieme a Dori Ghezzi, dall’Anonima
Sequestri sarda. Saranno tenuti prigionieri per 4 mesi sulle montagne di
Pattada, in Sardegna, e liberati tra il 21 e il 22 dicembre del ’79 in
seguito al pagamento di un riscatto da 550 milioni di lire, pagato per la
gran parte dal padre Giuseppe. L’esperienza del sequestro, comunque, sarà
per De André fonte d’ispirazione per numerose canzoni, raccolte in seguito
in un album senza titolo – ma conosciuto come “L’Indiano” per via della foto
di copertina - pubblicato nel 1981.
Tre anni dopo uscirà uno dei dischi più amati di Fabrizio: “Creuza de ma”,
del 1984, progetto che costruisce con la collaborazione di Mauro Pagani:
inizialmente incompreso e privo di successo, sarà in seguito premiato dalla
critica come “Album del decennio”. Un lavoro, questo, che segna nella vita
artistica di De André un importante spartiacque: dopo infatti esprimerà la
volontà di non cantare più in italiano, ma di volersi concentrare
esclusivamente sul dialetto genovese, capace di garantirgli totale libertà
di espressione anche tonale, uscendo dai dettami stilistici che avevano
caratterizzato la sua musica, tanto influenzata dalla tradizione de cantori
francesi. Nel 1989 sposa Dori Ghezzi, e nel 1990 incide, ancora con Pagani e
con la collaborazione di Ivano Fossati, il disco “Nuvole”, titolo che lo
riporta a tematiche più tipiche della sua composizione, influenzate comunque
da ispirazioni etniche e originali. Contenuti nel disco alcuni tre i brani
più amati dal pubblico, come “Don Raffaé” e “La domenica delle Salme”.
Fossati tornerà a collaborare con De André sei anni più tardi, quando esce
“Anime Salve” (1996), di cui compone gran parte delle musiche. Sarà,
purtroppo, anche l’ultima produzione artistica di Fabrizio De André. Nel
1998 gli viene infatti diagnosticato un grave tumore ai polmoni, che l’anno
seguente si aggrava ulteriormente: muore nella notte dell’11 gennaio 1999,
nell’ospedale milanese in cui era stato ricoverato.
Al suo funerale, nella Basilica di Carignano a Genova, partecipano il 13
gennaio oltre 10mila persone. Nel marzo del 2000 i maggiori esponenti della
canzone italiana lo hanno ricordato con un grande concerto celebrativo al
teatro Carlo Felice di Genova, interpretandone i maggiori successi. E nel
2007, in sua memoria, è stato istituito il premio canoro che porta il suo
nome.
Hanno detto di lui:
“De André non è stato mai di moda. E infatti la moda, effimera per
definizione, passa. Le canzoni di Fabrizio restano”. (Nicola Piovani)
“Mi pare che sempre di più sarebbe necessario che invece di dire che
Fabrizio è il Bob Dylan italiano, si dicesse che Bob Dylan è il Fabrizio
americano”. (Fernanda Pivano).
“Fabrizio è tra i grandi poeti del rock. Anzi, per me è un santo” (Wim
Wenders)
“Giornate intere di bonaccia, calma quasi piatta, e poi improvvise scosse
elettriche con rincorse verso l’alto o verso il basso. In alto lo spirito
filosofico e in basso il fondo dei garbugli umani. Secondo l’umore, secondo
la giornata. Troppo terribilmente intelligente per definirlo un buono. Ma
quest'ultimo era il Fabrizio che preferivo. La memoria di Fabrizio ha
diritto oggi a qualcosa di diverso, ne sono più che convinto. Merita più
delle agiografie, delle biografie, delle scontate raccolte di canzoni
rimasterizzate e reimpacchettate. Merita soprattutto di sfuggire
all’aneddotica prêt à porter cui vengono fatalmente adattate le figure dei
grandi artisti quando non sono più in grado di confutare o di precisare.
Quando gli amici, i compagni di strada, quelli che sanno, che hanno visto,
quelli che c’erano, si moltiplicano a dismisura”.(Ivano Fossati)
“Fabrizio De André è uno chansonnier, e lo è nel senso più vero: il senso in
cui la poesia, il testo letterario e la musica convivono necessariamente”.
(Mario Luzi).
(fonte: fondazioneitaliani.it)
" L'indiano" -
Recensione
di Maurizio Bianchimano
Nel 1981 esce questo long playing che viene denominato "L'indiano" per via
della copertina, continua la collaborazione in fase di scrittura con Massimo
Bubola. Gli argomenti trattati in questa opera sono principalmente due la
natura e l'uomo, raccontati tramite due popoli gli indiani e i sardi. Si
parte con il blues di 'Quello che non ho', caratterizzata da chitarra
elettrica e armonica che profumano di America il brano. La seconda traccia
'Canto del servo pastore' è una ballata che vede il mondo sotto gli occhi di
uno degli ultimi nella scala sociale ed è ricca di simbolismi e immagini
bucoliche. 'Fiume Sand Creek' è un brano ritmato dedicato all'uccisione da
parte dell'esercito di un'intera tribù, ma fatto vigliaccamente (quando gli
uomini erano fuori per la caccia al bisonte), l'evento viene visto tramite
gli occhi di un bambino. 'Ave Maria' è un canto sardo riadattato e alla voce
troviamo Mark Harris. La seguente 'Hotel Supramonte' è ispirata
all'esperienza del sequestro subita da Faber assieme alla moglie Dori
Ghezzi, è un brano senza rancori di sorta e risulta il più intimista tra
quelli presenti in questo lp.
'Franziska' è uno stupendo mid tempo dalle influenze messicane che narra
dell'amore tra una ragazza e un bandito. La settima traccia 'Se ti
tagliassero a pezzetti' è una splendida ballata, che attraverso le metafore
e le immagini riesce a sembrare sia una canzone d'amore e un inno alla
libertà. Si chiude il tutto con l'agreste e bucolica 'Verdi pascoli'. Con
questo lavoro Faber ci regala uno tra i suoi lavori più riusciti, dove un
sottile filo conduttore lega ogni traccia alle altre . La collaborazione con
Massimo Bubola risulta nuovamente proficua ed aggiunge elementi nuovi alla
già stupenda musica del cantautore genovese, inserendo accenni alla musica
americana tanto cara ala menestrello rock veronese.
Con questo disco del 1978 Faber inizia la collaborazione con l'allora
giovane cantautore veneto Massimo Bubola, questa partnership sposta il suono
tipico alla De Andrè verso sonorità più americaneggianti e comunque vicine
al folkrock.Il disco si apre con l'amara "Rimini" che dà anche il titolo
all'intera opera, la successiva "Volta la carta" è una canzone con radici
popolari tipicamente italiane (è un canto veneto trasposto in poesia e
musica dal lavoro di De Andrè assieme al veronese Bubola). La terza traccia
"Coda di lupo" vira verso l'America sia come sonorità che come tematiche
anche se sono sempre affiancate alla dicotomia tra pellerossa e tematiche di
protesta nostrane.Con "Andrea" (il brano di maggior successo commerciale
dell'album) si affronta la guerra e l'amore omosessuale in un brano dal
ritmo acceso e dalla splendida melodia. "Avventura a Durango" è la
traduzione di un famoso brano di Bob Dylan , la successiva "Sally" è un
brano davvero notevole impreziosito da un testo quasi fiabesco ma che tratta
tematiche davvero dure in una filastrocca dove la poesia non manca
sicuramente. Con "Zirichitalggia" (lucertolaio) De Andrè ci regala un brano
in 2/4 stupendo in lingua sarda anzi gallurese per l'esattezza, che narra la
lite tra due fratelli per un'eredità. Chiudono il lavoro "Parlando del
naufragio della London Valour" e "Folaghe".Rimini rappresenta una delle
opere migliori del cantautore genovese e lo porta ad avere una varietà di
tematiche musicali molto più a 360 gradi non mancando l'eccelsa meticolosità
nel cesellare melodie perfette e testi di rara bellezza assieme alla penna
di un giovanissimo Massimo Bubola, autore fino ad allora di un solo lp
"Nastro Giallo" con cui Faber venne a conoscenza dell'arte del menestrello
veneto.
FABRIZIO DE ANDRE' - Tutti Morimmo A Stento (Ricordi) 1968 -
songwriter
di Claudio Fabretti
Fabrizio De André è uno dei massimi cantautori italiani di sempre, ma è
soprattutto uno dei pochissimi a poter competere con i grandi numi del
songwriting internazionale. Profondamente influenzato dalla scuola d'oltre
Oceano di Bob Dylan e Leonard Cohen, ma ancor più da quella francese degli
chansonnier (Georges Brassens su tutti), è stato tra i primi a infrangere i
dogmi della "canzonetta" italiana, con le sue ballate cupe, affollate di
anime perse, emarginati e derelitti d'ogni angolo della Terra. Le sue
storie, pur ispirate spesso a fatti di cronaca, si tingono sempre dei colori
della fiaba, perdendo ogni connotazione temporale; e i suoi personaggi
sembrano quasi schizzare fuori dai versi, con la loro dirompente carica di
umanità, inquietudine, disperazione. Alla passione per la letteratura
francese - Proust, Baudelaire, Maupassant, Villon, Flaubert, Balzac – si
deve probabilmente quel tocco di lirismo in più, ma il canzoniere di De
André ha attinto via via alle sorgenti più disparate: dalle ballate
medievali alla tradizione provenzale, dall'"Antologia di Spoon River" ai
canti dei pastori sardi, dai Vangeli apocrifi al Federico Fellini dei
"Vitelloni".
Alla fine del decennio Sessanta, in preda a un cupo pessimismo, il
cantautore genovese compone il sontuoso concept-album "Tutti Morimmo A
Stento" (1968). Il senso del tragico che aveva sempre ispirato le sue opere
raggiunge in queste undici tracce la sua apoteosi. Edito con il sottotitolo
di "Cantata in si minore per solo, coro e orchestra", "Tutti Morimmo A
Stento" è un viaggio in un girone dantesco della desolazione umana, tra
drogati, condannati a morte, fanciulle traviate, orchi e bambini sconvolti.
Un viaggio ossessionato e ossessionante, accompagnato dalle note di
un'orchestra sinfonica diretta da Giampiero Reverberi.
Disco a volte fin troppo barocco, influenzato dai primi vagiti del
progressive italiano, "Tutti Morimmo A Stento" riesce tuttavia a condensare
tanta "ridondanza" in soli 33 minuti e 51 secondi, come si usava fare quando
esisteva ancora il rispetto per l'ascoltatore e nessuno si azzardava a
intasare i dischi di quei riempitivi che oggi fanno tanto "concept". La
formula scelta, come spiegò lo stesso De André, è quella classica della
cantata "in cui tutti i brani sono uniti tra loro da intermezzi sinfonici e
hanno come minimo comune denominatore quello di essere nella stessa
tonalità, e di trattare lo stesso argomento". Argomento rappresentato
dall'emarginazione e dalla morte "psicologica, morale, mentale".
L'atmosfera dominante è tetra, funerea, densa di presagi di morte. I brani
si susseguono senza pause, scanditi dagli "Intermezzi", in un crescendo che
culmina nel "Recitativo" e si scioglie nel coro finale. L'ouverture è subito
un pugno nello stomaco, con il "Cantico Dei Drogati", che già dal titolo -
in stridente contrasto con il "Cantico delle Creature" di San Francesco -
pare voler sottolineare la degenerazione del genere umano. Quando poi
l'orchestra - la Philarmonia di Roma - lascia spazio alla voce baritonale di
De André, l'intento diventa subito palese: "Ho licenziato Dio/ gettato via
un amore". E un groppo d'angoscia già ti stringe la gola. "Come potrò dire a
mia madre che ho paura?", geme il derelitto al colmo della disperazione. E
di fronte, ormai, c'è solo la notte, la voragine, la fine di tutto. Ma c'è
anche un anelito d'eternità nei drogati che "giocando a palla con il proprio
cervello tentano di lanciarlo oltre il confine stabilito, ai bordi
dell'infinito". E' un testo meraviglioso, composto da De André insieme al
poeta anarchico Riccardo Mannerini, morto suicida a Genova nel 1980.
A spezzare per un attimo la tensione provvede il "Primo intermezzo", poi
però l'avvolgente abbraccio del "Cantico" ripristina subito un clima di
solennità, che si stempera lentamente nella fiaba noir della "Leggenda Di
Natale", ispirata a "Le Père Noel Et La Petite Fille", brano di Georges
Brassens datato 1958. La semplicità dei giri d'accordi e delle rime baciate
contribuisce a creare un'atmosfera magica e rarefatta, degna della "Canzone
di Marinella". Ma il tema è tutt'altro che rassicurante: la protagonista è
una ragazzina ingannata da un Babbo Natale che parlava d'amore ma "i cui
occhi erano freddi e non erano buoni". E così "adesso che gli altri ti
chiamano dea/ l'incanto è svanito da ogni tua idea/ ma ancora alla luna
vorresti narrare/ la storia di un fiore appassito a Natale". Un raggelante
presagio di pedofilia.
Attraverso il "Secondo Intermezzo" si giunge al centro ideale
dell'architettura del disco: la "Ballata Degli Impiccati", ispirata dalla
"Ballade des Pendus" di François Villon, il primo "poeta maledetto". I versi
di De André - sempre scarni, ruvidi, sarcastici - non cedono mai alla
retorica del sentimentalismo ("Dai diamanti non nasce niente/ dal letame
nascono i fiori" - "Via del campo", è sempre stato il suo credo). Così,
anche i condannati a morte di Villon si trasfigurano in creature mitiche,
animate da un disperato, smisurato rancore: "Chi derise la nostra sconfitta/
e l'estrema vergogna ed il modo/ soffocato da identica stretta/ impari a
conoscere il nodo. Chi la terra ci sparse sull'ossa/ e riprese tranquillo il
cammino/ giunga anch'egli stravolto alla fossa/ con la nebbia del primo
mattino/ La donna che celò in un sorriso/ il disagio di darci memoria/
ritrovi ogni notte sul viso/ un insulto del tempo e una scoria". Una rabbia
sanguinolenta e terrificante che non dà scampo: "Coltiviamo per tutti un
rancore/ che ha l'odore del sangue rappreso".
A dare quasi una nota scenografica al disco è invece la soffice "Inverno",
che rinnova la tradizione delle "poesie stagionali" in voga nell'Inghilterra
del Settecento. L'inverno è l'immagine della natura che si annulla nel
bianco della neve e della nebbia, e nel nero degli alberi scarni, segnando
la fine ciclica di tutte le cose: "Ma tu che stai, perché rimani?/ Un altro
inverno tornerà domani/ cadrà altra neve a consolare i campi/ cadrà altra
neve sui camposanti". Non si può non scorgere in questi versi l'ennesima
metafora deandreiana della crisi della coppia: l'alternanza degli amori
avviene fatalmente, in modo naturale, proprio come il cambio delle stagioni
(un argomento molto caro a De André fin dai tempi di "Amore Che Vieni, Amore
Che Vai" e della "Canzone Dell'Amore Perduto").
Se "Inverno" fa sprofondare l'ascoltatore in una struggente malinconia, dopo
il successivo "Girotondo" resterà posto solo per la disperazione e per
l'orrore. "La terra è tutta nostra.../ ne faremo una gran giostra/
giocheremo a farla nostra/ marcondiro'ndero marcondiro'ndà": il coro dei
bambini impazziti, ebbri di guerra e di morte, è una delle trovate insieme
più eccessive e agghiaccianti della storia della canzone italiana. Il "Terzo
Intermezzo" sfocia nello straziante "Recitativo" finale (condanna degli
egoismi, del moralismo e dell'insensibilità umani), alternato al "Corale" -
con il Coro dei cantori delle basiliche romane di Pietro Carapellucci,
diretto da Reverberi, a fare da contrappunto all'invettiva recitata da De
André - e della "Leggenda Del Re Infelice".
Se nella "Buona Novella" il tema era la debolezza degli uomini al cospetto
di una divinità soverchiante, in "Tutti Morimmo A Stento" si cantano le
miserie e gli orrori della Terra, dell'"umano e desolato gregge di chi morì
con il nodo alla gola".
Seppur inevitabilmente datato, con i suoi arrangiamenti pomposi e le sue
orchestrazioni barocche, "Tutti Morimmo A Stento" è anche una delle prove
più limpide del talento di De André, non solo come autore, ma anche come
musicista. E il suo strumento principe non può non essere ancora una volta
la voce: un baritono profondo che - sul modello di Leonard Cohen - indulge
sapientemente sulle tonalità più basse, accrescendo sempre pathos e
drammaticità.
Demolendo a uno a uno tutti i cliché della canzone tradizionale italiana, il
cantautore di Genova corona un'operazione paragonabile a quella compiuta da
Bob Dylan negli Stati Uniti. Il suo linguaggio è quello di un poeta non
allineato, che ricorre alla forza dissacrante dell'ironia e del sarcasmo per
frantumare le convenzioni, per denunciare l'ipocrisia e la vigliaccheria di
quella stessa borghesia di cui ha sempre fatto parte. Il suo, in definitiva,
è un disperato messaggio di libertà e di riscatto contro "le leggi del
branco" e l'arroganza del potere. Di lui, Mario Luzi, uno dei maggiori poeti
italiani del Novecento, ha detto: "De André è veramente lo chansonnier per
eccellenza, un artista che si realizza proprio nell'intertestualità tra
testo letterario e testo musicale. Ha una storia. E morde davvero".
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