BOB DYLAN. POESIA DEL TEMPO
IMMEMORABILE
di Alessandro Carrera
"Poesia", anno XI, n. 117, maggio 1998
I am not resigned to the shutting away of loving hearts in the hard
ground.
So it is, and so it will be, for so it has been, time out of mind.
Into the darkness they go, the wise and the lovely. Crowned
With lilies and with laurel they go; but I am not resigned.
(Non mi rassegno al pensiero degli amanti imprigionati nella nuda terra.
Così è, così sarà, perché così è stato, dai tempi dei tempi.
Si allontanano nel buio, i saggi e i graziosi. Incoronati
di gigli e di lauro se ne vanno; ma io non mi rassegno.)
Edna St. Vincent Millay, Dirge Without Music
(Canto funebre senza musica)
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Parlare di Bob Dylan dalle
pagine di una rivista di poesia significa porsi la solita annosa domanda,
inconcludente perché impossibile da concludere, e tuttavia inevitabile:
Bob Dylan è un poeta?
La risposta più sbrigativa è che Bob Dylan non è un poeta perché è un
autore di canzoni, e le canzoni, per essere belle, non hanno bisogno di
essere poesie. Detto questo, si può aggiungere che Bob Dylan non è un
poeta per la stessa ragione per cui Guillaume de Machaut non è Petrarca.
Mi si perdoni l'azzardo del paragone: perfetto contemporaneo di Petrarca,
Machaut è l'autore di quindici raccolte poetiche, ma non è tanto per il
loro valore che oggi è ricordato quanto per la musica che lui stesso vi ha
composto e adattato.
Le storie della letteratura lo definiscono un abile manipolatore delle
forme poetiche medievali.
Ben diversamente lo trattano le storie della musica, per le quali è il più
grande rappresentante dell'ars nova francese.
Eppure vi sono alcuni mottetti del suo Remède de Fortune che non hanno
nulla da invidiare a parecchi sonetti del Canzoniere.
Le canzoni non sono poesie, ma nulla impedisce loro di essere, talvolta,
poesia.
Bob Dylan, per lo più, non scrive poesie.
La sua produzione strettamente poetica ne fa solo un epigono della beat
poetry.
Una delle maggiori presenze riscontrabili nel suo Tarantula (1971) sembra
quella del William Blake di Island in the Moon, ma Blake è appunto uno dei
numi tutelari dei beats.
Però Dylan scrive, talvolta, poesia, e la forza poetica che circola in
molte delle sue canzoni è indiscutibile.
Si sbaglierebbe tuttavia a identificarla unicamente con i prestiti
letterari che vi compaiono.
Estremamente avaro nel dichiarare le proprie fonti, geloso della sua
identità di performer popolare e anti-intellettuale, Dylan ha ammesso a
denti stretti l'influenza di Verlaine e Rimbaud, di Brecht e del teatro di
Brendan Behan, oltre a quella, innegabile quanto reciproca, di Ginsberg.
In Tangled Up in Blue (1975) allude, senza nominarlo, a "un poeta italiano
del tredicesimo secolo".
In una successiva versione della stessa canzone (in Real Live, 1985), il
riferimento è cancellato.
Ma non sono solo scrittori e scritture ad averlo formato (la lingua della
Bibbia di Re Giacomo è la chiave per capire molto di Dylan): la
frequentazione dei corsi d'arte tenuti alla Carnegie Hall nei primi anni
'70 dal pittore Norman Raeben (figlio dello scrittore yiddish Shalom
Aleichem) ha avuto un forte impatto sulla struttura di una delle sue
migliori raccolte, Blood on the Tracks (1975).
In un saggio datato ma ancora utile, Michael Gray ha rintracciato
corrispondenze tra Dylan e mezzo pantheon della letteratura inglese.
Le assonanze più convincenti sono però quelle con Robert Browning e T.S.
Eliot (Eliot e Pound sono anche menzionati esplicitamente in Desolation
Row): la creazione di personaggi ad hoc intorno ai quali si coagulano
situazioni narrative, l'evocazione di figure storiche o celebri in
circostanze incongrue e straniate, per non dire dell'utilizzo del
correlativo oggettivo su scala industriale, sono tecniche costanti in
Dylan, e riconducibili in gran parte sia al monologo drammatico
browninghiano sia al teatro in versi orchestrato dal modernismo.
Come il Cigadibs di Browning (il giovane critico pedante della Apologia
del Vescovo Blougram) conduce al Prufrock di Eliot (l'intellettualino
timoroso di turbare l'universo), così Prufrock conduce al Mister Jones di
Dylan, che scopre di essere un'anomalia in un mondo di cui non capisce più
le coordinate (Ballad of a Thin Man, 1965).
Le coppie improbabili del Waste Land di Eliot (si pensi a Tiresia e Mr.
Eugenides) riappaiono in Tombstone Blues (1965) in cui "Ma Rainey and
Beethoven srotolarono il loro sacco a pelo" (Ma Rainey era una cantante di
blues), e versi come "la bellezza cammina su una lama di rasoio, un giorno
sarà mia" (Shelter from the Storm, 1975) hanno un'ironica eco keatsiana.
Altri, come "il fantasma dell'elettricità urla nelle ossa del suo viso"
(Visions of Johanna, 1966) hanno fatto esclamare a generazioni di
adolescenti: "Questa è poesia!".
Senza togliere nulla all'impatto che tali arditezze ebbero a suo tempo, va
detto che questa non è la miglior poesia di cui Dylan è capace.
L'impatto era dovuto soprattutto al fatto che un tale vocabolario veniva
per la prima volta cantato, ed entrava a far parte di un paesaggio sonoro
in cui era veramente inaudito.
L'esperienza di chi ascoltava quella voce di carta vetrata cantare parole
che si credeva potessero appartenere solo al libro, parole rese mute,
deprivate di voce e di corpo dalla pratica della scrittura silenziosa,
causava, per usare un'espressione di Melville, un vero e proprio shock di
riconoscimento: che avviene quando ci si accorge che qualcosa ci riguarda,
anche se non sappiamo perché e a rigor di logica non dovremmo nemmeno
capirlo (non era indispensabile sapere l'inglese per essere soggiogati da
quella voce).
Ciò non toglie che molta di quella poesia fosse trita o, per usare una più
precisa espressione inglese, corny.
Il miglior Dylan degli anni '60 è altrove: è l'umorista acido, il
cesellatore di impareggiabili allitterazioni e giochi di parole,
l'icastico creatore di figure che riescono a conciliare il Browning di
Dramatis personae e l'Eliot di Prufrock (che peraltro è il padre di mezza
lirica rock contemporanea) con la destrezza popolare dei testi di Woody
Guthrie e Chuck Berry.
Ma la poesia meno gridata di Dylan, la più nascosta, apparentemente la più
impoetica, ma meglio sopravvissuta agli anni '60 perché di maggiore
consistenza, è quella che ricrea la lingua e il tono della country music e
del blues.
Time Out of Mind, sua ultima raccolta di canzoni (Columbia 1997), che dopo
un limbo durato vari anni gli ha riguadagnato i favori del pubblico e
della critica, è una riflessione sull'essenza lirica del country e del
blues.
Quando aveva vent'anni, Dylan cantava come un vecchio.
E' diventato giovane con il passare degli anni, e ha impiegato un'intera
vita per ridiventare vecchio. Time Out of Mind è il ritratto di un uomo
che, sulla soglia della vecchiaia, non ha più paura di usare un linguaggio
scarno e ascetico.
Due recenti e pregevoli raccolte di folk songs (Good as I Been to You,
1992, e World Gone Wrong, 1993), già mostravano che Dylan aveva bisogno di
tornare alle radici.
In un saggio del 1970, intitolato "Bob Dylan: Freedom and Responsability"
il musicologo e compositore inglese Wilfrid Mellers si chiedeva se Dylan
sarebbe mai riuscito a mantenere l'integrità della sua ispirazione dalla
giovinezza alla maturità fino a una venerabile vecchiaia, senza
ammorbidirsi come Cole Porter o senza rimanere un eterno adolescente come
Irving Berlin o Frank Sinatra.
"Se ci riuscisse" scriveva Mellers, "sarebbe un fenomeno, oltre che un
grande autore di canzoni. Vorrei essere vivo nel duemila solo per sapere
la risposta."
Che io sappia, Mellers (nato nel 1914) è ancora vivo.
Soffermiamoci sul titolo: Time Out of Mind, espressione non comunissima,
compare in Romeo e Giulietta, atto I scena IV, quando Mercuzio descrive il
carro della Regina Mab ("Time out o' mind the fairies' coachmakers...") e
in Dirge Without Music di Edna St. Vincent Millay (1928).
Il time out of mind è un tempo più remoto di qualunque memoria, un tempo
immemorabile, come suona un'altra espressione inglese, time immemorial.
"Si è sempre fatto così, dai tempi dei tempi": così potrebbe essere
tradotta la frase: "We've always done it this way, time out of mind".
Il tempo immemorabile di Bob Dylan è la cultura orale dei cantastorie, dei
cantanti di blues e degli esecutori di ballate che si sono trasmessi l'un
l'altro il loro sapere prima che le registrazioni fonografiche potessero
pretendere di fissarli in una storia.
Il tempo immemorabile è il tempo del folklore, il tempo in cui "si è
sempre fatto così": un tempo che non ritornerà, nonostante la cura dei
musicologi e dei filologi (come non ritorneranno i cavalli e le carrozze,
ha detto lo stesso Dylan), perché giace prima della memoria storica, non
può essere ricordato, è fuori dalla mente (out of mind) e forse anche
fuori di mente.
La "follia che mi rovina sull'anima" di cui si parla in Highlands,
l'ultima canzone di Time Out of Mind, si accompagna in un'altra canzone
(Cold Irons Bound) alla netta sensazione di sentire voci: voci,
interpretiamo, di cantori morti, così morti che non c'è storiografia,
cultura o postumo amore che li possa redimere.
Del resto, non è della nostra redenzione che hanno bisogno.
"La musica tradizionale è troppo irreale per morire" aveva detto Dylan in
un'intervista del 1966, quando lo accusavano di avere tradito il folk per
il rock.
"Non ha bisogno di essere protetta. Nessuno le può fare del male.
Tutte le persone autorevoli che scrivono che cosa è e che cosa dovrebbe
essere, quando dicono che la folk music dovrebbe essere semplice, facile
da capire... Ma la folk music è l'unica in cui non c'è niente di semplice.
Non è mai stata semplice. E' inquietante... Io non ho mai scritto niente
che fosse difficile da capire, non nella mia mente perlomeno, e niente di
così bizzarro come quello che si trova nellevecchie canzoni".
Che il tempo immemorabile sia perduto non lo rende una vittima della
modernità: rende più poveri noi. E che il tempo tout court sia diviso in
se stesso, che l'identità con l'origine non sia raggiungibile, che una
differenza, una fessura, una brisure ne sia il segno, è l'esperienza
dell'uomo occidentale in questa fine di secolo.
La redenzione dal tempo ci è impossibile, la pienezza dei tempi non è ciò
a cui noi siamo destinati.
"Forse in un'altra vita riuscirò a sentirmi pensare" dice un verso di
Million Miles. Il tempo utopico in cui non ci sarà né differenza né
intervallo tra l'anima che pensa e la percezione del suo sentirsi pensare,
l'istante in cui il pensiero vestirà come un guanto l'irraggiungibile cosa
stessa, non è ciò che ci prepara la sorte.
L'identità dell'anima con la sua inquietante origine non è forse
impossibile in sé, ma per noi non è che un'estrema utopia.
A meno che, come in Can't Wait, la fine del tempo sia appena cominciata
("the end of time has just begun").
Ciò non ci dice nulla su quanto durerà, ma che si estenda per un secondo o
per un millennio è irrilevante per chi non può più vivere altro tempo che
non sia quello della fine.
Dylan appartiene all'ultima generazione che ha fatto in tempo a respirare
la stessa aria di alcuni dei giganti della folk music.
Non solo Woody Guthrie, che Dylan andò più volte a trovare nell'ospedale
in cui era ricoverato, ma anche personaggi molto più remoti, la cui
lontananza dalla cultura urbana era invalicabile, quasi esiodea.
Mance Lipscomb, per esempio: nato nel 1895, contadino, un'enciclopedia
vivente di blues, ballate e narrazioni, che non aveva mai lasciato la sua
città natale di Navasota, nel Texas, e che incise il suo primo disco
all'età di 65 anni.
Non è affatto sicuro che Dylan lo abbia conosciuto, anzi è probabile che
il loro incontro fosse una delle molte leggende che Dylan si era
fabbricato in gioventù per crearsi antenati mitici. Ma perché un ebreo
americano di vent'anni, nato nell'estremo Nord del Paese, sente il bisogno
di dichiarare la sua discendenza da un mezzadro nero del Sud?
Dylan si è sentito il destinatario di un passaggio di staffetta che l'ha
segnato per sempre e che l'ha reso, con il passare degli anni, sempre più
orgogliosamente inattuale.
Può darsi che Dylan viva abbastanza per vincere il premio Nobel (non lo
merita meno di Dario Fo), ma dentro di sé sa che non potrà mai raggiungere
la statura immemorabile di un Mance Lipscomb.
Per questo le undici canzoni di Time Out of Mind sono allo stesso tempo un
ritorno alle origini e un addio: una lunga lettera d'addio a una donna
forse immaginaria (ma che una volta era reale), e a un mondo ormai
immaginario (ma che una volta esisteva). E' una dichiarazione di
indipendenza, amara e definitiva, da ogni legame che non sia quello della
propria ispirazione fondamentale.
In gioventù si crede di dover scegliere tra la libertà e la
responsabilità; con gli anni si comprende che la più dura responsabilità è
la libertà stessa.
Le voci che risuonano nella testa del personaggio-narratore di Time Out of
Mind sono le voci dei folli, degli alcolizzati, dei fulminati da Dio o dal
demonio che vivevano ai margini delle piantagioni dell'Alabama, lungo gli
argini del Mississippi o nelle città minerarie dei monti Appalachi. Nei
primi anni di una carriera poetica l'appropriazione di testi altrui è
spesso ostentata. In età matura diviene più sfuggente ed elusiva. Afferma
una continuità e insieme differisce il tempo futuro in cui la propria
opera non sarà che un'appendice di quella dei padri.
Time Out of Mind è una selva di riferimenti intertestuali, alcuni evidenti
e citati alla lettera, altri, e sono i più, raccolti dai rivoli più oscuri
della tradizione popolare americana. Ma l'intertestualità da sola non fa
poesia, e i testi di Time Out of Mind sono spesso prosastici, antiretorici
fino all'avarizia, offrono poche sorprese sintattiche e si accontentano di
un ben scarso apparato metaforico. Il risparmio che ostentano implica un
rifiuto del poetico a cui Dylan non era mai arrivato con tale radicalità.
L'interpretazione vocale è superba e arricchisce di senso anche la strofa
più semplice ma, come ha scritto Stephen Scobie, la poesia di versi
apparentemente così poveri nasce soprattutto dal loro effetto immemoriale.
Sono testi che si fondano su un'origine preservata (si è sempre fatto
così) e insieme dimenticata (da tempo immemorabile).
Prendere un treno a mezzanotte è un'esperienza comune a tutti.
Ma se uno canta "I've been riding the midnight train" (Standing in the
Doorway) sta raccontando un'esperienza e insieme cancella se stesso da
quell'esperienza, perché quel verso è stato già cantato innumerevoli
volte.
La fedeltà a se stessi coincide con l'erosione completa del sé, con
l'anonimità di chi davvero prende il treno che porta nella terra dei
morti.
La voce dice: questa è la mia canzone, ma la canzone, in sé, non è di
nessuno, e il momento in cui la si canta è già passato.
Perdendo la sua autorità individuale, la voce guadagna però l'autorità
retrospettiva e irripetibile degli anonimi bardi e cantori che non
possedevano alcun mezzo per fermare il tempo in una scrittura o in una
registrazione.
Nel corso degli anni Dylan ha alternativamente affermato: "Sono un poeta",
"Non sono un poeta", "Sono soprattutto un musicista", "Per me vengono
prima i versi, poi la musica".
In occasione dell'uscita di Time Out of Mind ha dichiarato, forse una
volta per tutte: "Wordsworth e Shelley sono poeti. Ginsberg è un poeta. Io
non sono un poeta".
Più che un'affettazione, è la spia di un disagio reale.
Bob Dylan ha paura di fare il poeta (ed è forse per questo che spesso si è
accontentato di una poesia dal conio falso) perché teme di perdere il
contatto con la spettrale, altissima aridità della tradizione orale.
Nei blues registrati negli anni '20 e '30 non c'è nessuna distanza che
separa il performer dalla performance. La perentorietà con cui Charley
Patton o Robert Johnson cantano le loro scarnissime parole è così
assoluta, così imperscrutabile, da far sembrare impossibile che queste
fossero persone che potevano alzarsi, metter via la chitarra e avere una
vita al di fuori di quelle poche registrazioni nelle quali è scolpita la
loro voce.
Siamo di fronte a una delle poche testimonianze, in pieno secolo
ventesimo, di quel momento creaturale dell'espressione (Kreatürliches) che
Erich Auerbach non poteva trovare nella modernità e cercava infatti nel
Medioevo. La creaturalità del blues classico implica la mortalità, la
sofferenza, tutto ciò che nell'uomo è soggetto al dolore e alla caducità,
ma non conosce la promessa di rendenzione della musica religiosa.
Il blues fissa i suoi portavoce in figure letteralmente infernali,
condannate a ripetere eternamente la loro dannazione. Il blues classico,
come ha scritto Greil Marcus, a differenza dello spiritual non è la musica
della schiavitù e dell'oppressione.
Non è nemmeno, se non a tratti, una protesta contro l'uomo bianco e la sua
società. Il blues è la musica della libertà, e del dolore e della
confusione che sono il frutto della libertà.
Il blues è nato intorno al 1900, ed è stato perciò creato dalla prima
generazione di neri che non avevano vissuto in schiavitù. Il blues
maschile (quello femminile ha altre connotazioni) è il canto dell'uomo che
ha scoperto che le conseguenze della libertà non sono necessariamente la
felicità e il piacere, ma più spesso la delusione e la sconfitta.
E' il canto di chi non si riconosce in una famiglia, in una chiesa, in una
identità collettiva, e per questo vagabonda da un lavoro all'altro, da una
donna all'altra, da una sbronza all'altra, sentendosi continuamente
tradito da tutti anche se è lui il primo a tradire e a non volere legami.
Il blues comincia quando si esce di chiesa la domenica mattina e le
promesse di resurrezione che durante la funzione sembravano così
convincenti perdono di significato; è il canto dell'uomo che vive in una
desolata e terrificante zona grigia composta in ugual misura di
segregazione e di libertà, in cui salvezza e redenzione sono impossibili,
e che tuttavia, a questa libertà che è la sua condanna, non vuole
rinunciare.
Quando Robert Johnson, in Hell Hound on My Trail, canta
I got to keep movin', I got to keep movin',
Blues falling down like hail, blues falling down like hail.
And the day keeps on 'mindin' me
there's a hell-hound on my trail, hell-hound on my trail.
(Non mi posso fermare, non mi posso fermare,
il blues mi cade addosso come grandine, il blues mi cade addosso come
grandine.
E la luce del giorno mi ricorda
che c'è un cane d'inferno che mi segue, un cane d'inferno che mi segue.)
la sua concisione è quella delle anime dannate.
Bob Dylan non potrà mai scrivere una strofa così perfetta.
Gli artisti hanno la loro stagione all'inferno, ma per lo più ritornano
alla superficie. E' Robert Johnson che rimane laggiù, a pronunciare parole
spaventose: "Se il giorno del Giudizio Universale comandassi io / la mia
donna non la lascerei neanche pregare" (If I Had Possession over Judgement
Day).
Highlands, l'ultima canzone di Time Out of Mind, è un blues, forse
il più lungo mai scritto (cento versi e diciassette minuti di durata), ma
inizia con una dislocazione inaspettata:
"Il mio cuore è nelle Highlands, dolci e care /
Fiorisce il caprifoglio nel vento dei boschi /
Una fiammata di campanule dove scendono i fiumi di Aberdeen..."
Che c'entra Aberdeen con il blues, che c'entrano gli altipiani della
Scozia? Come mai l'unico riferimento letterario esplicito di tutto Time
Out of Mind, titolo a parte, è proprio questa riscrittura di una famosa
ballata di Robert Burns, costretta in un ritmo che non le appartiene?
My heart's in the Highlands, my heart is not here,
My heart's in the Highlands, a-chasing the deer;
Chasing the wild deer, and following the roe -
My heart's in the Highlands wherever I go.
(Il mio cuore è nelle Highlands, il mio cuore non è qui,
Il mio cuore è nelle Highlands, a caccia di un cervo,
A caccia di un cervo e sulle tracce di un capriolo.
Il mio cuore è nelle Highlands, dovunque io vada.)
Burns la scrisse nel 1790, sei anni prima di morire. Prima di essere usato
da Dylan, il suo verso iniziale era già servito come titolo di un
resoconto del 1892 in cui Sir Thomas Bullfinch raccontava di aver
intravisto, durante un viaggio tra Glasgow e Troon, la mitica città di
Abaton, da cui proveniva una musica celestiale.
Nel corso della narrazione dylaniana l'immagine delle Highlands ritorna
cinque volte, come un sipario che divide i successivi capitoli del
racconto. Non vi sono altre citazioni, ma di volta in volta le Highlands
sono associate a un paesaggio pastorale idillico e convenzionale, in cui
il vento "parla in rima con gli ippocastani" e tra cavalli e cani da
caccia risuona lo
schioccare degli archi e delle frecce.
Tale Arcadia stride con la dimessa quotidianità del racconto vero e
proprio (l'incontro con una cameriera in un ristorante che tratta il
narratore come un relitto del passato e gli chiede se legge scrittrici
contemporanee; al che il narratore risponde che legge Erica Jong, che è a
suo modo un altro relitto del passato, autrice non solo di Paura di
volare, best-seller della rivoluzione sessuale degli anni '70, ma anche,
nel 1994, di un'autobiografia intitolata Paura dei cinquant'anni).
Si noti peraltro che la ballata di Burns non è scritta in dialetto
scozzese, come la maggior parte delle sue poesie, ma in inglese standard,
il che la rende più deliberatamente nostalgica, sentimentale e
artificiale.
Le Highlands di cui parla Burns non sono mai esistite in quei termini, né
esistono quelle di Dylan, se non come ironica metafora di un impossibile,
bucolico paradiso folklorico.
Dylan ha sfiorato il paradiso in molte canzoni, da Gates of Eden (1965) a
Knockin' on Heaven's Doors (1972) e oltre. Non ha mai detto di esserci
entrato. L'unica sua canzone veramente paradisiaca è Mr. Tambourine Man
(1965), ma si tratta di un paradiso artificiale (nel senso baudelariano
del termine). Ora, in Tryin' to Get to Heaven, dichiara che sta cercando
di arrivarci prima che chiudano la porta, e a conclusione di Highlands si
accontenta di dire che con il pensiero ci è già arrivato, e che "per
adesso va bene anche così".
Le Highlands, tanto per Burns quanto per Dylan, sono un paradiso
letterario e un po' corny, lezioso come il carro della Regina Mab, ma sono
anche l'unico paradiso che è loro destinato.
Bob Dylan sa che non sarà mai un bardo, non sarà mai Mance Lipscomb. Sarà
un Bobby Burns del ventesimo secolo, popolare e sentimentale (nel senso
schilleriano del termine), nella cui poesia si può tuttavia percepire
un'eco della voce ingenua e immemorabile dei veri bardi.
E d'altra parte, se molti possono scendere all'inferno, il compito più
difficile per un poeta (il più necessario) è la descrizione del paradiso.
Walter Benjamin sosteneva che l'unico paradiso di cui vale la pena di
occuparsi è quello perduto, ma anche l'inferno di Robert Johnson è
perduto, e la sua incorporazione nel paradiso delle Highlands (del
folklore) ha valore solo se l'inferno viene redento in quanto inferno,
senza che si tenti di salvarlo surrettiziamente dalla sua creaturalità.
Ogni tentativo di negare l'inferno (ogni rendenzione della vita che neghi
il suo terrore) non fa che rafforzarne il dominio.
La distanza retorica e ironica del paradiso di Highlands, in cui il vento
"parla in rima", sembra suggerire che Bob Dylan sa dove fermarsi nel suo
viaggio di rendenzione. "Ho cercato di costruire un paradiso terrestre"
ammetteva Ezra Pound a conclusione dei Cantos. "Chi ho amato cerchi di
perdonare quel che ho costruito." E aggiungeva:
"Lascia parlare il vento / così è Paradiso"
("Let the wind speak / That is Paradise")
Nota
Il saggio di Michael Gray è Song and Dance Man: The Art of Bob Dylan
(Londra, Hart-Davis, 1972).
La citazione di Wilfrid Mellers è tratta da Bob Dylan: A Retrospective, a
cura di Craig McGregor (New York, Picador, 1972), p. 281.
Mellers ha poi raccolto i suoi interventi su Dylan in A Darker Shade of
Pale: A Backdrop to Bob Dylan (Oxford: Oxford University Press, 1985).
L'intervista in cui Bob Dylan discute sull'irrealtà della folk music è
citata da Greil Marcus in Invisible Republic: Bob Dylan's Basement Tapes
(New York, Holt, 1997), p. 113, forse il miglior saggio sul rapporto tra
Dylan e il folklore americano.
La recensione di Time Out of Mind di Stephen Scobie è apparsa
su "On the Tracks" (Vol. 5, No. 3, Fall 1997), rivista interamente
dedicata a Dylan.
La dichiarazione di Dylan: "Non sono un poeta" è stata
riportata da "Newsweek" del 6 ottobre 1997.
Per il riferimento a Erich Auerbach si veda il suo saggio "Madame du
Chastel" in Mimesis del 1946 (Torino, Einaudi, 1956).
L'osservazione di Greil Marcus sul blues come musica della libertà si
trova nel suo The Dustbin of History (Cambridge, Harvard University Press,
1995), p. 148.
La ballata di Robert Burns, in traduzione tedesca, è stata musicata da
Robert Schumann nel 1840 (Myrthen, op. 25 n. 13), e My Heart's in the
Highlands è anche il titolo del primo testo
teatrale di William Saroyan (1939)
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