La tortura della Maschera di
Ferro
Su Masked & Anonymous
di
Alessandro Carrera
Masked & Anonymous è il sesto film di Dylan, se lo vogliamo considerare
come il seguito di Don’t Look Back, Eat the Document, Pat Garrett & Billy
the Kid, Renaldo & Clara e Hearts of Fire. Oppure è il terzo, visto che
solo Eat the Document e Renaldo & Clara sono “film di Dylan” a tutti gli
effetti. O magari è il primo, perché soltanto con Masked & Anonymous Dylan
ha avuto un regista, uno studio e dei veri attori a sua disposizione. A
meno che non sia l’ultimo. Cosa che, visti i risultati, costituirebbe il
suo merito più alto.
Dylan e il cinema non hanno mai avuto una relazione facile, e i loro
fallimenti sono più numerosi delle buone riuscite. Ma sono fallimenti che
rivelano di più, sull’arte dylaniana, di quanto potrebbero fare una
dozzina di video “ben fatti”. Nell’estetica di Dylan, come si sa, non c‘è
posto per il semplicemente “ben fatto”. Dylan riesce a rendere irritante
anche la bravura, quando ci si mette; figurarsi cosa può fare con il
dilettantismo e l’approssimazione. Proprio le insufficienze dei suoi film
forniscono la migliore dimostrazione che quella di Dylan è un’arte dei
suoni e della voce, una disciplina acustica, orfica, buia, in perenne
ascolto di voci morte più che idoli vivi; un’arte invisibile e visivamente
irrappresentabile, che entra nella dimensione filmica solo per ribellarsi
alle sue regole e infine per crollare, sconfitta dall’impossibilità di
cambiarle.
Ma è possibile che Dylan non lo sappia? Possibile che non l’abbia capito
dopo tutti questi anni? O che non l’avesse percepito fin da subito? Perché
in Renaldo & Clara doveva torturare se stesso e noi con almeno due ore su
quattro di materiale superfluo, e perché ora, con Masked & Anonymous, ha
dovuto infliggere a se stesso e a noi la tortura ancora peggiore di
constatare che lui può essere Bob Dylan, ma non può far finta di essere
Bob Dylan, non può recitare la parte di Bob Dylan?
Ho visto Masked & Anonymous al River Oaks Theater di Houston, il cinema
d’essai par excellence della città, dove il film ha tenuto il cartellone
per sei giorni e non uno di più. In una città che non ignora affatto Dylan
ogni volta che viene annunciato un suo concerto, mai l’indifferenza è
stata più assordante. Lo Houston Chronicle non ha nemmeno mandato uno dei
suoi critici a vedere il film, limitandosi a ristampare una recensione già
uscita sul Boston Globe. All’ultimo spettacolo del giovedì sera, prima che
un paio di spettatori si alzassero e se ne andassero via a metà film, ho
contato dodici persone in sala (me e mia moglie compresi).
È dunque così brutto, Masked & Anonymous? Sì, assolutamente. È
insalvabile? Sì, irrimediabilmente, se non per un particolare: che non si
cura di essere salvato, e che nella sua vocazione al martirio sta
assurdamente in piedi, come una creatura mostruosa con una gran testa, due
gambe gracili e un buco al posto dello stomaco.
Ma (chiede il devoto) non contiene livelli di significato sfuggenti,
allusioni criptiche e però rivelatrici, simbolismi concatenati che
impongono un esaltante lavoro di decifrazione? Sì, quanti se ne vuole, ma
non bastano a redimere il film dal vuoto farfugliante che lo spettatore è
costretto a fissare incredulo per almeno un’ora, finito l’inizio e prima
della conclusione. Ma in quel vuoto (insiste il vero credente) non ci
vengono donati grandi momenti di Dylan dal vivo con il suo gruppo, meteore
dylaniane scagliate dall’altro capo dell’universo per colpire il pianeta
Terra in fuga? Sì, e di quei momenti siamo grati, ma non fanno altro che
rimarcare la distanza incolmabile tra il mistero racchiuso nelle canzoni e
il povero svelamento che le circonda.
Di musica, in Masked & Anonymous, ce n’è fin troppa, e sfortunatamente è
troppo bella per il film. Ogni tanto si vorrebbe quasi una pausa, una
sensazione di attesa, una progressione veramente narrativa e non
appiattita sul prossimo grande brano che sta per scattare. Qualche momento
di silenzio farebbe almeno sentire un po’ di compassione per quel povero
attore fallito che sta cercando di scappare dal suo ruolo ma non può,
perché il film è suo e l’ha voluto lui.
E l’allegoria politica (chiedono i fedeli)? E il fuoco apocalittico che
dovrebbe inchiodare alla sua vergogna l’insano potere dell’uomo sull’uomo?
C’è anche quello, come no, in quantità mai viste, e non è detto che sia la
parte peggiore del film. Alcuni critici (pochi, per fortuna) si sono
offesi perché Dylan ha osato rappresentare l’America come una dittatura
sudamericana, quasi un Guatemala negli anni Settanta dopo il colpo di
stato finanziato dalla Cia. Era la prova che Dylan è pazzo, che è
megalomane, che forse è perfino antiamericano. E certamente lo sarebbe (lo
saremmo tutti), se l’unica America possibile fosse quello dell’attuale
junta che sta al comando a Washington. Nel settembre del 2002, mentre
Dylan dava concerti in Colorado, il giornalista e scrittore Hunter
Thompson, suo amico dai tempi del Village, si era sfogato con lui di
quello che stavano diventando gli Stati Uniti sotto l’impero di Bush jr.
Da quanto ha riportato Jon Friedman, un altro giornalista presente
all’incontro, pare che Dylan abbia annuito gravemente, aggiungendo
laconico: “Ma NOI non siamo obbligati a unirci a loro”.
Sante parole, ma non bastano per attribuire a Masked & Anonymous una
lucidità politica che non possiede. E però gli unici momenti del film che
non mettono in imbarazzo lo spettatore sono propio quelli più pazzi e più
estremi, dove Dylan e il regista Larry Charles sono alle prese con una
verità impossibile da dire, e che non è nemmeno il fallimento dell’America
o la sua caduta, perché allora basterebbe tornare ad Allen Ginsberg e al
suo The Fall of America, scritto nel pieno della guerra del Vietnam. I
critici che si sono risentiti della modesta distopia dylaniana sono gli
stessi che trangugiano decine di film di fantascienza in cui l’America è
ridotta a un carcere dominato da spietate corporazioni e feroci polizie, e
il loro cuore patriottico non ne viene per niente ferito. Masked &
Anonymous, in un suo strano modo, colpisce più a fondo di quei film di
escapismo negativo. Nella sua orribile bruttezza, nella sua sconcertante
faciloneria, nella sua totale sgangheratezza narrativa, l’invito di Masked
& Anonymous a guardare l’America di oggi e di ieri come se fosse un
universo parallelo dittatoriale è più inquietante di qualunque Terminator
o di qualunque Fuga da New York.
Tutto, in questo presente alternativo, sta assurdamente sotto lo stesso
tetto. Ci sono stati il Vietnam e Woodstock, Jimi Hendrix e Nixon, ma la
Casa Bianca è un palazzotto circondato da stolidi vigilantes, e il vecchio
presidente che agonizza sul letto di morte (simile al panamense Noriega,
altra vecchia conoscenza della Cia), sta tirando le cuoia in quella che
sembra una povera stanza da contadini, dotata però di uno stereo enorme,
stile barrio di Los Angeles. Gli autobus percorrono strade polverose,
tutt’altro che lisce freeways, e non arrivano in città ma in “quadranti”;
il più importante network televisivo mondiale è controllato da una mafia
nera e latino-americana, mentre l’ex-amante del presidente vive in una
baracca di periferia e tira a campare prostituendosi negli alberghi. In
altre parole, lo sfondo è quello de L’autunno del patriarca di García
Marquez: impossibile capire se si svolga in un grande paese o in uno
staterello da niente, impossibile capire se il dittatore chiuso nel suo
palazzo sia stato un trascurabile tirannucolo o un presunto uomo della
Provvidenza. In altre parole ancora, questi sono gli Stati Uniti come se
fossero stati presi e schiacciati sulla loro periferia, come se una
tenaglia scesa dal cielo avesse strappato il confine che li separa da quel
Sudamerica che loro stessi hanno ricolonizzato, abolendo ogni distanza tra
il nord e il sud del continente. Perché, dunque, se questa intuizione è
così potente, non riesce a salvare il film?
In parte, perché dura troppo poco. Nei primi quindici minuti, mentre Jack
Fate, rilasciato da una affollata prigione sotterranea, arriva in autobus
in una Los Angeles indistinguibile da Managua o da Guatemala City, mi
stavo quasi convincendo che si erano sbagliati tutti, che questo era un
grande film segreto, il sogno realizzato di tutti i Dennis Hopper veri e
presunti, ognuno di loro crollato dopo il suo piccolo Easy Rider. Non era
così, non si erano sbagliati. Nel preciso momento in cui Jack Fate entra
nello studio dove deve provare il grande concerto che potrebbe rimetterlo
in carriera (ma noi sappiamo che non è così, e lo sa anche lui), il film
si sgonfia come un palloncino, senza scampo e senza remissione.
Comparsata dopo comparsata, attore famoso dopo attore famoso, monologo
sballato dopo monologo sballato (il primo è quello di Val Kilmer, nella
parte di un animalista schizofrenico, l’ultimo è quello di Ed Harris
vestito da Black Minstrel con la faccia al nerofumo), si entra in un
tunnel di scambi verbosi e vacui, di puri vaniloqui, di battute
stracariche di Presunto Significato, come se a qualche studentino appena
arrivato in una scuola di sceneggiatura avessero chiesto di mettere
insieme tutti i peggiori dialoghi dei peggiori Film Noir. Un esempio: Lui:
“È difficile arrivare al successo: la fila agli ascensori è lunga”. Lei:
“Non importa, prenderemo le scale”.
John Goodman (Uncle Sweetheart, l’impresario che organizza il finto
concerto di beneficenza per pagare i suoi debiti con la mafia), Jessica
Lange (Nina Veronica, la socia che tiene i contatti con il network) e Jeff
Bridges (Tom Friend, il giornalista alcolizzato che deve scrivere un pezzo
sul concerto), purtroppo per loro hanno il maggior numero di battute, e
mentre se le estraggono dalla gola con tutte le loro forze sembrano tanti
Baroni di Münchausen che escono da una palude tirandosi i propri capelli.
Jack Fate, che per fortuna parla pochissimo, assiste agli sproloqui altrui
come se gli facessero veramente schifo (come se facessero schifo a Bob
Dylan più ancora che a Jack Fate). Ma quelle pessime battute che gli
mitragliano in faccia le ha scritte lui stesso (lui Dylan, non Jack Fate),
o le ha approvate, o le ha lasciate passare facendo finta di niente.
Dylan/Fate soffre a sentirle, si capisce, ma non ha pensato anche alla
nostra sofferenza, di noi conficcati in platea mentre la gente intorno
comincia a sbuffare e qualcuno già si alza per andarsene o dicendo a voce
alta che rivuole il prezzo del biglietto? Contiamo così poco, noi quaggiù?
Ma (chiede il paladino) tra le uscite in apparenza più corrive non si
nascondono maestose allusioni bibliche, raffinati riferimenti letterari,
rimandi non rivolti al grande pubblico e che solo il vero conoscitore può
apprezzare? Sì, ancora una volta sì, ma non si distinguono né per
sottigliezza né per efficacia. Quando Jack Fate constata che Uncle
Sweetheart ha messo su un po’ troppi chili, lo Zio Tesoro gli risponde:
“Mi sono nutrito all’albero della conoscenza e del bene e del male”. Il
filologo, buon per lui, è già pronto a elencare tutti i luoghi dylaniani
in cui compare il riferimento al Paradiso Terrestre, ma nel contesto della
storia raccontata la battuta non ha il minimo senso narrativo. È un non
sequitur, come dicono gli americani che amano citare dal latino, qualcosa
che cade a piombo e che blocca il discorso invece di farlo continuare. Non
si fa arte solo perché si cita dalla Bibbia, perché allora ogni parroco
che dice la sua predica alla domenica sarebbe Shakespeare. Francamente, a
volte preferirei che Dylan la smettesse di nascondersi dietro la Bibbia e
venisse fuori con qualcosa di più, come dire, suo.
Molte delle battute che Dylan pronuncia o fa pronunciare ad altri non
starebbero affatto male in una sua canzone. Diventano inconsistenti perché
sono sfrattate dal loro ambiente naturale e spostate di peso in un medium
sbagliato. Nella scena iniziale sull’autobus che lo porta via dalla
prigione, Jack Fate incontra un ex-rivoluzionario (Giovanni Ribisi) che
prima di venire ucciso da un gruppo di guerriglieri gli racconta di essere
rimasto deluso da tutte le fazioni e di avere cambiato bandiera senza che
nessuno se ne accorgesse. Dice di essere ossessionato dai suoi sogni, e
chiede a Jack Fate se succede lo stesso anche a lui. Fate gli risponde: “I
miei sogni hanno a che fare con luoghi lontani e un calore intenso. Non
presto la minima attenzione ai miei sogni”. È un classico distico da Dylan
anni Settanta. Non starebbe male né in Planet Waves né in Street Legal, ma
nel film precipita sordo, come una pietra nel catrame.
La promessa dei primi quindici minuti di Masked & Anonymous stava in
questo: per una volta sembrava un film su una rock star dove si parlava
d’altro che non del noioso mondo delle rock star. Ma a partire dal momento
in cui inizia la preparazione del concerto la promessa va in frantumi.
Jack Fate ha la faccia di Dylan e canta canzoni di Dylan ma, almeno nel
film, Jack Fate dovrebbe essere Jack Fate. Masked & Anonymous non è
Renaldo & Clara. È un film con una trama, non un flusso di coscienza (o di
incoscienza) filmato. Siamo disposti a sospendere la nostra incredulità e
a credere che Bob Dylan sia Jack Fate, ma ci deve credere anche il film,
non possiamo fare noi tutto il lavoro. Perché Dylan, che si è dimenticato
tante volte di essere quello che era, non lascia ai suoi spettatori la
stessa libertà? Perché ad ogni momento dobbiamo ricevere una gomitata
nelle costole giusto per non dimenticare che Jack Fate (eh, eh) non è mica
quello che dice di essere? “Jack Fate è una leggenda!” sbraita John
Goodman. “Da quando in qua Gesù Cristo deve camminare sull’acqua due volte
per convincere la gente?” Ben detto. E perché Bob Dylan deve fare due film
per convincere la gente di essere una leggenda? Non bastava Renaldo &
Clara?
Nei pochi beati momenti in cui Dylan/Fate viene lasciato sul palco in
compagnia del suo gruppo lo sentiamo cantare (a frammenti) sette brani: i
quattro della colonna sonora (Down in the Flood, Dixie, Diamond Joe—che
non è quella inclusa in Good As I Been to You—e Cold Irons Bound), più
Drifter’s Escape, I’ll Remember You (l’unica ad essere ripresa in versione
integrale) e Dirt Road Blues. (Ho letto da qualche parte che la prima
canzone che Dylan esegue è Amazing Grace; io non me la ricordo, ma posso
sbagliarmi, o può darsi che non sia stata inclusa nella versione del film
uscita nelle sale.)
Il problema è che, scene musicali a parte, tutti si rivolgono a Jack Fate
come se fosse Bob Dylan, chiedendogli quello che presumibilmente
chiederebbero al “vero” Dylan, ammiccando, giochicchiando, scaricando
allusioni, pettegolezzi e citazioni che non hanno alcuna rilevanza
narrativa. Il giornalista Tom Friend (Jeff Bridges) chiede fastidiosamente
a Jack Fate (che non risponde) che cosa ha da dire su Janis Joplin e sulla
canzone Mercedes Benz. Ora, Mercedes Benz è stata scritta dalla Joplin
insieme a Bobby Neuwirth, per molti anni compagno d’avventure di Bob
Dylan, e può darsi che Dylan ne sappia qualcosa, o che qualche giornalista
impiccione gli abbia rivolto in passato una simile domanda e che lui abbia
voluto liberarsi del ricordo gettandolo nel film. Il filologo fa la faccia
estatica e si appresta a prender nota, ma non può impedire che tra noi
comuni mortali si levi un gigantesco: “E allora?”
E l’intera impresa si riduce a una farsa. Credevamo che Masked & Anonymous
ci volesse raccontare una storia di arte e di violenza, e non aveva
davvero importanza che fosse o non fosse un “bel” film. Sarebbe bastato un
atto di sfida e di intelligenza, o anche di caos, ma di caos vero e
terrificante, non questa recita scolastica di attorucoli che si fanno
riprendere insieme al divo per il loro album di fotografie. In Hearts of
Fire, non l’ultimo dei suoi fallimenti, Dylan diceva a Rupert Everett:
“Ricordati che quando sei una rock star non sei nient’altro che una rock
star”. Jack Fate non dovrebbe essere soltanto una rock star. Nello
scenario di morte e corruzione che Masked & Anonymous vorrebbe evocare,
gli atroci monologhi giornalistici di Jeff Bridges fanno lo stesso effetto
che avrebbe una lunga discussione sul derby Roma-Lazio nel bel mezzo di
Roma città aperta.
Mi spiace di essere costretto ancora una volta a usare il condizionale, ma
Jack Fate dovrebbe essere un personaggio creato da Dylan, almeno come lo
sono le figure di Desolation Row, di The Ballad of Frankie Lee & Judas
Priest, di Brownsville Girl o delle anonime ma scolpitissime voci di "Love
and Theft". Non riesce mai a diventarlo. Era lo stesso difetto di Renaldo
& Clara: che senso aveva ripetere che Renaldo non era Dylan, se poi non
gli si lasciava la minima autonomia come Renaldo? Ma almeno in Renaldo &
Clara c’era un ironico David Blue che ci raccontava con distacco e arte da
storyteller i giorni del Village; qui c’è Pagan Lace (“Merletto pagano”,
ovvero Penelope Cruz, nel film fidanzata di Tom Friend) che smette per un
attimo di pregare e di citare dalla Bibbia (praticamente non fa altro) per
dire cose di profondità inaudita come: “Mi piacciono le sue canzoni perché
non sono precise, perché sono aperte all’interpretazione”.
Intanto, un rapido flashback dopo l’altro, apprendiamo il passato di Jack
Fate. Che è mitico, principesco, da eroe delle favole. Jack è nientemeno
che il figlio maggiore del dittatore (Richard Sarafian), anni prima
sorpreso dalla polizia insieme all’amante del padre (Angela Bassett) e per
vendetta paterna gettato in prigione. È curioso, e anche molto
significativo, che questo particolare sia sfuggito a tutti i recensori.
Nessuno ha capito perché all’inizio della storia Jack Fate fosse in
carcere. Si è dato per scontato che non ci fosse spiegazione, o che nel
marasma generale gli ineffabili sceneggiatori (Dylan e Charles, nascosti
dietro trasparenti pseudonimi) si fossero dimenticati di fornirla. Eppure
è questa l’unica storia che il film racconta, quando riesce a raccontarla.
Una leggenda (questa sì lo è) che sembra fatta apposta per dare ragione al
Freud di Totem e tabù, e nella quale il padre osceno, che esige il
possesso delle donne, porta via la compagna al figlio, castrandolo
simbolicamente con l’incarcerazione.
Solo ora che il padre è moribondo (e che la sua potenza sessuale viene
meno) il figlio edipico e ribelle può riaffacciarsi sulla scena del
desiderio. Ma fino a che punto la castrazione è stata efficace? La
ribellione è ancora possibile, o auspicabile? E che cosa è rimasto del
desiderio? Sono queste le domande che Masked & Anonymous dovrebbe
affrontare, se ne avesse la forza.
Procediamo con ordine. Jack Fate aveva un gemello nato morto (l’ulteriore
elemento leggendario, desunto probabilmente dalla biografia di Elvis
Presley, era già stato utilizzato da Nick Cave nella sua The Firstborn Is
Dead) e ha tuttora un fratellastro (Mickey Rourke) che dopo
l’imprigionamento di Jack Fate ha assunto il ruolo del pretendente al
trono e attende la morte del vecchio dittatore per prenderne il posto e
soggiogare il paese con ferocia ancora maggiore.
Finora si era colto qualche pallido omaggio a Fellini (gli imitatori che
affollano il luogo del concerto, vestiti da Gandhi, Giovanni Paolo II e
Lincoln, ricordano i momenti di Ginger & Fred in cui nello studio
televisivo del Commendator Lombardoni si intravedono i sosia di Kafka,
Proust e Lucio Dalla). I momenti di Dylan/Fate in scena, se si è generosi,
possono perfino ricordare il magro caos sessantottino che Godard aveva
evocato in Sympathy for the Devil (il film girato con i Rolling Stones
mentre incidevano l’omonima canzone). Ma l’irruzione di gemelli e
fratellastri ci ha portati all’improvviso nel territorio di Alexandre
Dumas padre. Ora l’abbiamo capito: stiamo guardando un remake della
Maschera di ferro, il tormentone dumasiano che ha attraversato la storia
del cinema cinque o sei volte, da Douglas Fairbanks nel 1929 a Leonardo Di
Caprio nel 1998. Gli elementi ci sono (quasi) tutti: il dittatore morente
è Luigi XIII, il fratellastro spietato e usurpatore è il futuro Luigi XIV,
e il fratello maggiore segreto, chiuso in una fortezza con una maschera di
ferro sul volto perche nessuno si accorga della sua somiglianza con il
falso Delfino, è Jack Fate inchiavardato in prigione. Ci voleva tanto ad
ammettere che Masked & Anonymous era un feuilleton?
Dylan, poi, non ha neanche bisogno di mettersi la maschera. L’ha sempre
avuta addosso, almeno fin dal 31 ottobre del 1964, al concerto alla
Philarmonic Hall di New York, quando annunciò al pubblico: “Oggi è
Halloween. Mi sono messo la mia maschera di Bob Dylan”. Ma c’è un momento
in cui se la dovrebbe togliere (e non siamo noi a volerlo; sono le regole
della narrazione, del feuilleton stesso) e disgraziatamente non ci riesce.
Accade quando Jack Fate lascia d’un tratto le prove del concerto, si fa
portare da un taxi al cimitero cittadino, sale su una collina illuminata
da candele mentre Sertab canta la sua versione arabeggiante di One More
Cup of Coffee, sosta sulla tomba della madre e va poi a trovare l’amante
del padre, che è stata anche la sua.
Il pas de deux di Bob Dylan e Angela Bassett, con soffertissimo bacio
finale, è la scena più spaventevolmente orrida del film. E proprio per
questo è la più rivelatrice, la più involontariamente profonda. Qui non si
tratta più di Jack Fate, e in fondo nemmeno del film. La maschera di Jack
Fate è fragile e cade subito, ma quella di Bob Dylan è un altro paio di
maniche. È quella l’unica maschera che Robert Zimmerman non riesce a
togliersi, è quello il suo patto col diavolo, l’artificio che gli ha
permesso di nascondersi per tutta la vita sotto una maschera di ferro, di
rendersi davvero masked and anonymous, un nessuno, un Ulisse che non potrà
rivelare la sua identità a nessuna Penelope.
Riferendosi al padre morente, Jack Fate dice ad Angela Bassett: “Voglio
vederlo, voglio che lui mi veda”. Ma il modo in cui glielo dice, torcendo
gli occhi, biascicando più che parlare, senza nessuna sfumatura nella
voce, rivela una sofferente indifferenza al dolore, proprio e altrui, che
è la cifra di una repressione mostruosa. Per uscire da questa scena senza
perdere la faccia (in tutti i sensi), Mr. Zimmerman dovrebbe proprio
mettersi a recitare. Non è questione di verità. È ben di più, è teatro.
Bisogna togliersi la maschera di Dylan e indossare quella di Edipo: solo
se il padre mi vede (mi vede nudo, vede il mio sesso) io esisto e so di
esistere (ed è così, ovviamente, che riaffermo il suo potere proprio
quando credo di affermare il mio). Ma l’imbarazzo di Dylan mentre
pronuncia le sue stentatissime parole ad Angela Bassett è talmente palese,
talmente opprimente, che fa star male o fa ridere (io stavo male; mia
moglie, che non è esattamente una dylaniana, rideva).
Nessuno può recitare così male, viene da pensare. Nessuno può essere così
infinitamente incapace di pronunciare anche la più semplice battuta o di
impersonare un qualunque sentimento almeno per due secondi di fila (perché
fare un film, allora?) Eppure, è proprio in questa scena anti-scena, in
questo totale disastro, che si coglie la sbaraccata verità di questo
anti-film. Per un attimo ci sembra di capire il dolore che sta dietro a
questa manifestazione di impotenza (perché Masked & Anonymous è un film
sull’impotenza, è questo il suo unico argomento). Per un istante ci è
chiaro che cosa ha voluto dire per il giovane Robert Zimmerman voler
essere un altro per tutta la vita, senza mai tornare indietro. Mi sono
messo la mia maschera di Bob Dylan, diceva Dylan nel 1964. Ora so che era
una Maschera di Ferro, dice Dylan nel 2003. Ma non l’ha sempre saputo? Non
era forse questa cadaverica distanza dal mondo dei vivi ciò che davvero
cercava?
Marcel Marceau, il grande mimo, concludeva spesso i suoi spettacoli con la
terrificante routine del clown che non riesce a togliersi dalla faccia la
sua maschera ghignante. Senza mai smettere di sorridere, Marceau riusciva
a convogliare nella tensione dei suoi muscoli facciali un sentimento di
disperazione claustrofobica che solo l’applauso finale poteva
temporaneamente esorcizzare. In Masked & Anonymous accade il contrario, ma
il senso è lo stesso. Dylan non può togliersi la maschera che ha indossato
a diciannove anni, quando ha assunto il nome di Bob Dylan. Come il Doktor
Faustus di Thomas Mann, può inveire contro il diavolo a cui ha venduto
l’anima in cambio dell’ispirazione artistica, ma non può più comunicare
con i comuni mortali che gli stanno intorno. Quando Angela Bassett lo
bacia, sembra Salomè che bacia la testa morta del Battista.
Ma il feuilleton intanto prosegue, ed è solo quando si arrende alla sua
natura di romanzo d’appendice che il film ricomincia a suo modo a
funzionare. Nel momento in cui Jack Fate varca la soglia della casa del
dittatore, e la voce di Jerry Garcia inizia a cantare Señor, ci rendiamo
conto che Dylan aveva già raccontato una storia di fughe e tradimenti da
un paese sudamericano percorso da stregoni voodoo e infestato da
guerriglieri ed elicotteri della Cia. L’aveva raccontata senza
raccontarla, che è l’unico modo in cui Dylan sa raccontare: per allusioni,
per particolari, per illuminazioni di passione in un paesaggio che subito
ritorna buio. L’aveva raccontata in Señor, appunto, ma anche in Groom’s
Still Waiting at the Altar, in Need a Woman, in Angelina, in Caribbean
Wind e forse anche in Tight Connection to My Heart, tutte canzoni
appartenenti al periodo religioso, poco prima o poco dopo, e che parlando
apparentemente di tutt’altro parlano invece della stessa cosa, di quella
repressione che tutte le distorce. All’epoca della conversione, l’unica
storia che Dylan aveva da raccontare, e che non è mai riuscito a rendere
comprensibile, era quella di un’impossibile storia d’amore tra un ebreo e
una donna afro-americana.
La miscegenation, mescolanza sessuale delle razze, giace sul fondo più
rimosso di tutte le rimozioni americane. Non è un caso che nessuno dei
recensori abbia capito che Masked & Anonymous voleva affrontare questa
spina. Non è nemmeno un caso che il film, alla fine, non ci riesca. Dylan
avrebbe dovuto rivelare troppo di se stesso per padroneggiare l’argomento.
Avrebbe dovuto scavare nella sua fascinazione per le donne nere
(fortissima soprattutto nel suo periodo cristiano), nella storia del suo
secondo matrimonio con un’afroamericana, o nel rapporto con l’ultima
figlia nata appunto da quel matrimonio. Nelle canzoni può alludervi,
sicuro che pochi capiranno, ma il film è un medium troppo esplicito per
l’arte dylaniana.
Infatti c’è una sola scena, in tutto Masked & Anonymous, in cui Dylan si
lascia andare come Dylan (come Jack Fate non si lascia mai andare). In una
pausa durante le prove del concerto una donna bianca e una bambina di
colore (Tinashe Kachingwe) gli vengono presentate da Uncle Sweetheart come
“la signora Brown che ha una figlia deliziosa”. La bizzarra espressione si
riferisce probabilmente a un successo degli Herman’s Hermits di metà degli
anni Sessanta, intitolato appunto Mrs. Brown, You’ve Got a Lovely
Daughter—e anche qui noi Tagliati Fuori ci diciamo: e allora? Ma la
bambina, alla quale la madre ha insegnato tutte le canzoni di Jack Fate,
canta per lui (benissimo) due strofe di The Times They Are A-Changin’, e
Dylan sorride. È il suo unico sorriso in tutto il film, e non è un sorriso
di Jack Fate, è proprio un momento di sincerità disarmata, strappato alla
griglia soffocante della sceneggiatura. Senza quel sorriso la scena
sarebbe condiscendente, papale, paternalistica invece che paterna. Ma è
proprio il suo essere paterna che la riscatta (anche qui, è sintomatico
che nessun recensore l’abbia criticata, anzi è stata considerata da molti
come uno dei momenti più salvabili del film).
In Masked & Anonymous si agita un altro remake, più inconscio e represso
della Maschera di ferro. Perché in fondo che cos’è il Cantico dei Cantici
se non l’amore dell’ebreo Salomone per la nera Regina di Saba? Nigra sum,
sed formosa, sta scritto nella Bibbia, ma mai a Hollywood un’attrice nera
ha interpretato The Queen of Sheba, né nel film muto del 1921, dove il
ruolo era stato affidato a Betty Blythe, né nel polpettone girato da
Pietro Francisci nel 1952, con Leonora Ruffo nella parte della Regina e
Gino Cervi in quella di Re Salomone.
Il ruolo di Angela Bassett si confonde troppo presto con un supplemento
materno per poter riscattare la negritudine della Regina. Mentre la vera
madre di Jack Fate, così apprendiamo dalla voce di Dylan fuori campo nella
scena del cimitero, non l’aveva mai veramente amato, anzi l’aveva
considerato indirettamente responsabile di tutto ciò che era andato storto
nella sua vita e nel suo mondo, nella scena dell’incontro con l’amante
Angela Bassett assume, come direbbe Melanie Klein, il ruolo del “seno
buono”, e addirittura chiede a Jack Fate: “What Can I Do for You?”, “Cosa
posso fare per te?”, rovesciando la prospettiva dell’omonima canzone di
Saved, dove è l’uomo che rivolge a Dio, o a una donna, la stessa domanda.
E siccome non siamo insensibili al fascino delle iperinterpretazioni, ne
forniamo una in perfetta par condicio ebraico-cattolica: il dittatore è il
Dio del Vecchio Testamento, la madre morta e poco affettuosa (la madre dal
“seno cattivo”, non sessualizzata perché sempre vergine) è la Madonna
(sulla tomba c’è perfino scritto che si chiama Mary, perbacco), che però
viene sdoppiata nell’amante nera, “buona” e proibita (la Shekinah
dell’albero della vita ebraico, presenza di Dio nel mondo, e madre
sessualizzata). E Jack Fate, qui ci si può sbizzarrire, non è solo Edipo
ma anche Lucifero, Salomone, il Figliol Prodigo e Gesù Cristo messi
insieme.
Questa è una pura analisi narratologica, che non altera il giudizio di
merito, ma forse non è un caso che è proprio con la morte del Señor, del
padre primordiale, padre-Dio e padrone delle donne, che il film riprende
un po’ di fiato. In montaggio alternato, preciso, ritmato, dritto allo
scopo, il dittatore spira, Dylan inizia a cantare una superlativa versione
di Cold Irons Bound, Mickey Rourke appare su un podio davanti alla casa
presidenziale per annunciare che d’ora in poi sarà abolita la stupidità e
che non si faranno più errori, così che una squadra di contras invade lo
studio e mette fine al concerto. Per qualche minuto, Larry Charles si è
ricordato di essere dopotutto il regista della baracca e non soltanto,
come ha dichiarato in un’intervista successiva al film, un divertimento
passeggero nella vita di Dylan.
Perché gran parte della responsabilità per la pessima riuscita di Masked &
Anonymous è dello stesso Charles. Proprio la scena costruita intorno a
Cold Irons Bound ci fa capire che questo film poteva essere ben altra
cosa. Non c’e mai un’invenzione di regia, un’inquadratura originale, un
senso di composizione. Il film si fa semplicemente trascinare dalla sua
sceneggiatura, accumulando battuta su battuta, colonna sonora su colonna
sonora. È chiaro che Dylan mirava a una sorta di cinema di poesia, per
usare la definizione di Pasolini, ma qualunque cosa avesse in mente è
stata vanificata dalla pedestre prosa di Charles. Se la sceneggiatura
fosse stata messa nelle mani di qualcuno più capace (i fratelli Coen,
magari), anche i monologhi più triti avrebbero potuto acquistare un’aura
inquietante o metafisicamente comica. Avremmo riso con il film, in quel
caso, non del film. Ma non è andata così, e da Cold Irons Bound in poi non
ci resta che aspettare la fine.
Che giunge quando Tom Friend, l’insopportabile giornalista, aggredisce
ubriaco Jack Fate, lo minaccia e viene ucciso da un devoto
dylaniano/fatiano di nome Bobby Cupid (avete capito bene: Bobby Cupid, qui
Luke Wilson nella sua imitazione di Bob Dylan da giovane). All’inizio del
film, Bobby aveva lasciato il suo lavoro in un albergo non appena aveva
saputo che Jack Fate stava per dare un concerto, si era offerto di fargli
da assistente e gli aveva portato il suo cimelio: una chitarra che era
appartenuta a Blind Lemon Jefferson. Quando Tom Friend estrae la pistola e
la punta contro Jack Fate, in quel momento, oh quanto simbolicamente,
Bobby Cupid afferra la chitarra di Blind Lemon Jefferson (“la chitarra da
cui tutto è cominciato”, commenta Uncle Sweetheart) e con gran gusto
gliela sfascia sulla testa.
“Questa è una macchina ammazza-fascisti”, diceva Woody Guthrie della sua
chitarra. Ma Tom Friend è molto meno. È solo un ex-sessantottino, diciamo
per capirci, che ha venduto tutte le anime che aveva e che pure va in giro
a mettere rumorosamente in questione l’integrità del suo prossimo.
Evidentemente i nemici delle rock star non sono più i fascisti, sono i
giornalisti. L’aveva detto anche Michael Jackson nella sua canzone
anti-reporters, They Don’t Care About Us: non gli importa niente di noi
rock-star, a quei cattivi di giornalisti, pensano solo alla loro carriera.
Noi, invece...
In questa scena improbabile, brutta e mal girata si celano sia il
messaggio finale che la più seria debolezza di Masked & Anonymous.
Sorvoliamo finché ci è possibile sul fatto che la replica di Bobby Dylan
si faccia chiamare Bobby Cupid (è così che Dylan si fa fantasie su se
stesso da giovane, o c’è un senso dell’umorismo che mi sfugge?) Ma nella
precedente scena in flashback in cui la polizia del dittatore aveva
scoperto Jack Fate con l’amante del padre, Jack Fate giovane era
interpretato proprio da Bobby Cupid. Così, quando Jack Fate aiuta Bobby a
fuggire dopo la morte del giornalista, in realtà fa fuggire se stesso, e
indirettamente si garantisce una discendenza. Ma il concerto è fallito, i
soldi non sono stati raccolti e la mafia del network vuole la testa di
Uncle Sweetheart. Quando la polizia viene a chiedere chi è l’assassino del
giornalista, Nina Veronica (Jessica Lange) accusa Jack Fate, che non batte
ciglio e si fa portar via in manette (in Cold Irons Bound, appunto). Anche
sulla camionetta che lo riporta in prigione, però, mentre dietro di lui
scorrono le ultime immagini di Los Angeles-Managua-Guatemala City, Dylan
deve strafare. La sua voce fuori campo interviene a pronunciare le ultime
sublimi banalità, tipo: “Verità e bellezza sono negli occhi di chi
guarda”. Ma l’ultimissima battuta, che non è una banalità, poteva
benissimo stare da sola: “È da tanto tempo che ho smesso di cercare di
capire come vanno le cose”.
Torniamo alla scena dell’accusa. Jack Fate, come si è detto, non risponde
e si fa ammanettare.. Ma qualcosa, in quell’occasione, avrebbe dovuto
dire. È tutta la vita che Dylan ci ossessiona con la sua identificazione
in Gesù Cristo. Bene, questa era l’occasione per farsi avanti e dire:
“Sono stato io”, assumendosi finalmente le colpe dell’umanità. Perché è
vero che Cristo viene per giudicare, come diceva Dylan a un perplesso
Allen Ginsberg durante il periodo della conversione, ma può farlo perché
ha assunto su di sé i peccati dell’uomo, perché li ha rivissuti, li ha
capiti, e ha scoperto che la sua natura divina non è estranea alla Caduta
e all’Esilio.
Il silenzio di Jack Fate in quel momento cruciale (bastava che dicesse: “È
colpa mia”, e il film era salvo) ci svela che la ribellione
edipico-luciferina è fallita. Jack Fate in manette non può suonare.
Sarebbe stato in manette lo stesso anche se avesse confessato, ma almeno
sarebbe entrato nella dimensione del sacrificio eroico. Poiché non l’ha
fatto, simbolicamente è stato castrato di nuovo, non dal padre questa
volta, bensì dalla donna, dalla madre-Maria che non lo amava, il cui ruolo
viene qui assunto da una “Veronica” (tradizionalmente il nome della pia
donna che stende il velo sul Cristo deposto dalla croce), e davanti a
questa ulteriore castrazione non c’è difesa.
Ma come dobbiamo interpretare la calma che si diffonde sul volto di Jack
Fate nell’ultima inquadratura, mentre la colonna sonora si chiude con la
bellissima Blowin’ in the Wind registrata a Santa Cruz il 16 marzo del
2000? È perché Jack Fate in manette ha ritrovato la sua libertà (al
secondino che all’inizio della storia lo veniva a liberare aveva detto: “È
da tanto tempo che mi sento libero”), o perché il film, grazie al cielo,
sta per finire?
Contrariamente a quello che aveva fatto ai tempi di Renaldo & Clara,
questa volta Dylan non ha tentato minimamente di difendere il suo film.
Non ha rilasciato interviste, non vi ha mai accennato, alla prima assoluta
al Sundance Festival ha tenuto la bocca chiusa e anche in seguito non ha
speso una sola parola né per riconoscere l’esistenza di Masked & Anonymous
né per giustificarla. Partorito e buttato nel cassonetto. Ma perché?
Per la stessa ragione, crediamo, per cui ha lasciato che produttori
distratti gli rovinassero gran parte di Selfportrait, Empire Burlesque e
Knocked Out Loaded. In un’intervista con John Bauldie, Ron Wood ha parlato
una volta di questo “lato debole del carattere di Dylan”, la sconcertante
passività che lo prende quando si accorge che un progetto gli scappa di
mano. Ci sarebbe ancora tempo di rimediare, se non che Dylan già non c’è
più, se n’è andato, he’s not there, non fa nulla per salvare la situazione
o per rivendicarla (non si fa avanti a dire: “Sono stato io” o, per citare
il Prospero della Tempesta: “Questa cosa di tenebre la riconosco mia”). In
Masked & Anonymous, Dylan mostra precisamente questa passività, questo
inspiegabile “lato debole”. Certamente l’intera impresa è macchiata di
arroganza e vanità (un vanity project, l’ha definito la stampa americana,
ma la si potrebbe anche definire il risultato di una Disease of Conceit),
ma gli altri animali hollywoodiani coinvolti non sono da meno di Dylan
quanto a vanità. Se Dylan appare rilassato nel finale, forse è perché la
brutta avventura è finita e ora ha tempo di pensare alla prossima tournée,
o alla prossima canzone.
Ma c’è un altro motivo, la cui chiave sta in una conversazione riportata
dallo stesso regista del film. A Larry Charles che lo avvertiva che Masked
& Anonymous poteva facilmente essere frainteso, sembra che Dylan abbia
risposto: “E cosa c’è di male nell’essere fraintesi?” Dylan, naturalmente,
è stato frainteso parecchie volte, a partire dal Festival di Newport nel
1965 e forse ancora prima. Il fatto è che a lui piace essere frainteso,
perché ne ricava la riconferma di essere solo contro il Mondo. È da questa
sensazione di titanismo romantico che Dylan trae gran parte della sua
energia. Alla luce di un simile titanismo, anche la ricorrente passività
che lo affligge acquista un significato ben più complesso.
Era da parecchio tempo, ormai, che Dylan non era più da solo contro il
Mondo. Da Good As I Been to You in poi non aveva più fatto niente di
oltraggioso. Da Time Out Of Mind fino ad oggi non aveva ricevuto che lodi,
come se ormai non potesse più sbagliare. Così non poteva durare. Bisognava
sbagliare in grande, scordare la chitarra, uscire di tonalità. Dylan ha
realizzato Masked & Anonymous con lo scopo preciso di rovinarsi la
reputazione. Perché Dylan vuole il successo, come tutti gli artisti, ma
quando lo ottiene non lo sopporta, lo deve rovinare, deve mettere distanza
tra sé e il mondo perché la sua arte vive di voci di morti e di
misantropia, non dell’abbraccio della comunità.
Dylan aveva scoperto fin dal 1966, quando aveva messo insieme Eat the
Document, che la maniera migliore di rendersi insopportabile al pubblico
era di costringerlo ad andare a vedere un film invedibile. In
quell’occasione non ci era riuscito perché, più che invedibile, Eat the
Document era rimasto inveduto. Ci ha riprovato nel 1977 con Renaldo &
Clara, colpendo in pieno il bersaglio. Dopo che Desire era arrivato in
testa alle classifiche era il momento buono per rompere il giocattolo, e
il fragore dello sfascio è stato talmente forte che ventisei anni dopo, al
solo pensiero che Dylan stava realizzando un altro film, i critici erano
pronti con i coltelli già affilati. Qualcuno ha perfino affermato che che
la bruttezza di Masked & Anonymous ci costringe a chiederci se non ci
eravamo sempre sbagliati sul conto di Dylan, e se la sua arte non sia
tutta un grande imbroglio. È stata una voce isolata, perché la cosa più
sorprendente a proposito di Masked & Anonymous è che non tutte le critiche
sono state negative. Ma forse Dylan voleva essere stroncato, perché non
vedeva altro modo di essere lasciato in pace a meditare sulla sua diletta
Apocalisse. Purtroppo per lui, Dylan non può permettersi di tacere. Anche
il suo silenzio parla; un anno di silenzio di Dylan fa più rumore di
cinque dischi fatti uscire a raffica dai suoi colleghi. Forse è per questo
che ha voluto far silenzio intorno a sé scatenando il peggior frastuono di
cui era capace.
Non siamo giustificazionisti a tutti i costi, e non sappiamo fino a che
punto Dylan sia cosciente delle proprie tortuosità. Possiamo solo
sospettare che nella inspiegabile, torpida inerzia che a volte si
impossessa di lui si nasconda una forte dose di fantasie aggressive nei
confronti del suo pubblico, che è poi il Mondo. I fallimenti calcolati di
Dylan non mostrano affatto il suo lato più debole, bensì quello più
paranoico. Programmare il proprio successo richiede già una buona dose di
paranoia (Michael Jackson e Madonna ne sanno qualcosa), ma programmare i
propri fallimenti tradisce un’ossessione di controllo assoluta.
Per fortuna l’arte, quando si svincola da queste pastoie, avviene comunque
all’insaputa del Mondo, e i suoi effetti più duraturi sono anche i più
segreti. Se non fosse per una notizia circolata in Internet il 28 maggio
del 2003 a firma di Donna Ladd, giornalista e attivista per i diritti
civili di Jackson, nel Mississippi, nessuno saprebbe che dopo il concerto
di Jackson del 17 maggio 2003, Dylan si è fermato a parlare con un uomo
che non aveva mai visto in vita sua, tenendogli le mani nelle sue come se
fosse un grande amico ritrovato, dopo che organizzatori ed entourage
avevano ripetuto che Dylan non parla con nessuno dopo i concerti e che era
inutile starlo ad aspettare.
Quell’uomo era Charles Evers, fratello dell’attivista Medgar Evers,
assassinato proprio a Jackson nel giugno del 1963, e sul quale Dylan aveva
scritto Only a Pawn in Their Game. Il 6 luglio del 1963, quando Dylan
aveva eseguito la canzone durante una manifestazione a Greenville, sempre
nel Mississippi, una macchina da presa aveva catturato l’evento, che Don
A. Pennebaker avrebbe poi incluso in Don’t Look Back. Ma l’incontro tra
Bob Dylan e Charles Evers quarant’anni dopo, senza maschere e non anonimo,
non è stato filmato da nessuna cinepresa, nessun giornale l’ha riportato,
e se siamo venuti a saperlo è solo grazie a quel grande passaparola che
l’Internet può essere. Non facciamoci imbrogliare da Masked & Anonymous.
Ridiamoci sopra, sarà meglio. Era solo un travestimento. Come dice la voce
fuori campo di Jack Fate, “Certe volte non basta capire quello che le cose
vogliono dire. Qualche volta è più importante sapere anche quello che non
vogliono dire”. È una banalità, ma è una banalità sana, e che esprime, in
modo un po’ troppo approssimativo, un contenuto di verità che non è
affatto banale. Mentre il dylanista si ferma a ponderarla, Dylan è già
altrove.
Alessandro Carrera
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