Dylan e il Teatro
Sulle tracce delle fonti teatrali nelle performances di Bob Dylan
di Michele Salimbeni
“Sul punto principale, io do ragione agli artisti
più che a tutti i filosofi sinora esistiti:
gli artisti non hanno perso la grande traccia
su cui la vita cammina, hanno amato
le cose di questo mondo – hanno amato
i propri sensi”
Nietzsche, Frammenti postumi 1884-1885.
“So I'll make my stand
And remain as I am
And bid farewell and not give a damn”
Bob Dylan
E’ nota l’importanza delle performances dell’artista di Duluth. Dylan
infatti ha segnato quattro decenni, e continua a farlo agli inizi di
questo millennio, impreziosendo la storia del rock e la musica popolare
americana con centinaia di concerti di assoluto valore. Ciò che però rende
davvero unico, in questo contesto, le sue esibizioni è una significativa
attitudine spettacolare che lo trasforma sul palco in un performer, in
senso teatrale, davvero completo.
Dai primi periodi nelle fumose coffee house di New York, dove si esibiva
come uno stralunato Chaplin, agli ultimi concerti del Never Ending Tour
(1), attigui ad un Teatro di sottrazione, Dylan ha percorso istintivamente
la Storia del Teatro e la sua evoluzione scenica. Il teatro è la più
antica espressione dell’uomo. Il primo teatro della storia erano i rituali
eseguiti dagli sciamani. Questi episodi sono antecedenti ai graffiti
preistorici trovati nelle caverne. Già durante la preistoria esistevano
dei riti dove lo stregone impersonificava la divinità e il resto della
tribù assisteva a questa primordiale rappresentazione. I tempi sono
cambiati ma lo spirito del teatro, il suo nucleo è rimasto sempre lo
stesso.
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Con il suo particolare cammino a ritroso verso le origini della musica
popolare americana Bob Dylan ha avviato, allo stesso tempo, una
decostruzione scenica del suo mito di rock star e della sua messa in scena
o rappresentazione. Come Jerzy Grotowski (foto) ha dissolto lo spazio
scenico delle sue performances e ha trasformato lo spazio drammatico
favorendo un ritorno assoluto ed incontaminato alla pura partecipazione
sensoriale.
Dylan si presenta in questa ultima tournèe (vedi il concerto di Roma al
Palalottomatica del 1 novembre 2003 a cui ero presente) disposto sulla
sinistra del palco. In piedi, davanti al pianoforte. Gli altri musicisti
sono posizionati quasi a semicerchio. Il risultato è l’annullamento del
“centro” scenico. Il palcoscenico non ha più un punto centrale. L’assenza
di un centro è un’idea che appartiene alla filosofia bruniana. Giordano
Bruno infatti sostenne che osservando la natura si ha l’illusione di
esserne sempre al centro. Se però abitassimo un altro pianeta avremmo
sempre l’illusione di essere al centro del cosmo. Quindi non esiste un
centro assoluto ma il centro può essere ovunque. Con questa sua teoria
Giordano Bruno dimostrò che l’universo è infinito e per questo fu bruciato
vivo a Roma, nella piazza Campo dei fiori, il 17 febbraio 1600.
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Questo percorso di sottrazione e decentramento, cominciato probabilmente
nei primi anni ’90 quando Dylan iniziò a negarsi scenicamente nascondendo
il suo volto con felpe e cappuccio, trova le sue radici nella filosofia
del Teatro Povero di Jerzy Grotowski.
Il 18 giugno 1961 Jerzy Grotowski (1933-1999) iniziò, con la sua nona
regia teatrale, una personale ricerca che lo portò a rivoluzionare per
sempre il concetto stesso di Teatro diventando probabilmente, negli anni a
seguire, uno dei registi più importanti della Storia. Con questo
spettacolo, tratto da un’opera di Adam Mickiewicz Dziady (Gli avi), il
regista polacco abolì per sempre il palcoscenico, e soprattutto la
divisione artificiale tra attori e pubblico, creando così un osmosi
fondamentale per l’essenza della comunicazione teatrale. Questa geniale
intuizione, che trova in Antonin Artaud (foto sotto) il principale
precursore (mentre Grotowski fu il primo a realizzarla in maniera
compiuta), è solo l’inizio di una sperimentazione teatrale senza
precedenti che lo porta successivamente ad eliminare tutti gli altri
elementi superflui della comunicazione di scena, fino ad arrivare
all’estrema concezione di un Teatro inteso solamente come arte veicolo tra
due esseri umani (attore e regista pedagogo) senza spettatori. Dal 1961
fino all’anno della sua morte, quando si trovava a Pontedera e continuava
le sue sperimentazioni con l’attore americano Thomas Richards, Jerzy
Grotowski attuò una regia di sottrazione e dissolvimento eliminando, di
volta in volta, le scenografie, i costumi, le musiche, le luci, il testo,
gli spettatori. Questa sua singolare e rivoluzionaria filosofia della
messa in scena riporta il teatro alle sue caratteristiche primordiali, ai
suoi archetipi.
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Che cos’è il Teatro? si chiede Grotowski. Che cosa lo rende unico rispetto
alle altre espressioni artistiche? Rispetto al cinema e alla televisione?
La risposta è semplice: “Due idee si concretizzano nella mia mente: il
teatro povero e la rappresentazione come atto di trasgressione”.
Atti di trasgressione sono i concerti della svolta elettrica a metà anni
sessanta. Rappresentazioni rivoluzionarie ed esperimenti “ai confini
dell’arte”, sulle tracce di Antonin Artaud e del suo Teatro della
Crudeltà.
Fantasmi di elettricità come simulacri shakespeariani. Visioni surrealiste
eseguite in una “trance” artistica profetizzata da Artaud. Un vero e
proprio shock di riconoscimento che lacera la nostra maschera come
auspicava il teatro di Grotowki. La vicinanza ad Antonin Artaud
(1896-1948) è perfettamente descritta da Alessandro Carrera in suo scritto
(2):
“…Questo era ciò che sapeva fare Dylan quando era al culmine del suo
potere come emulo di Rimbaud, quando viveva nel centro di quel
deragliamento dei sensi predicato dal poeta come mezzo supremo per
attingere forza all’ispirazione…E’ un corteggiamento della morte dal punto
di vista del vitalismo più intransigente e arrischiato. Il fascino di quel
concerto, come di tutta la tournée del 1966, non solo è rimasto intatto
nel tempo, ma ha assunto proporzioni mitologiche. La felicità sull’orlo
dell’abisso è il suo tema…Una morte messa in scena, un opera al nero
radicale, per usare un termine alchemico, nella quale le scorie vengono
tutte bruciate e non rimane una sola ombra di feccia, Dylan è
sopravvissuto, sì, ma non a se stesso, bensì alla rappresentazione del
naufragio di se stesso, una rappresentazione irripetibile come in quel
teatro della crudeltà voluto da Artaud, dove per crudeltà si deve
intendere la vita”.
Crudeltà, aggiungerei, intesa soprattutto come estremo rigore da parte
dell’artista che si offre, in una sorta di rito sacrificale, mettendo in
gioco tutto se stesso. Questo “donarsi”, come lo definirebbe Grotowski,
obbliga lo spettatore che a sua volta accetta di partecipare a questa
“cerimonia sacra” a perdersi completamente in essa. Specchiandosi. Ecco
perché la tournèe estrema del 1966 è paragonabile alle grandi avanguardie
del Novecento e ha subìto, inconsciamente, l’influenza dei teatranti
maudit di questo secolo. L’attore-santo che dona se stesso. Dylan ha
recitato questo ruolo, fino in fondo. Come l’attore-uomo, nel teatro di
Jerzy Grotowski, si è misurato con i propri limiti fisici e psichici per
superarli, mettendo a nudo la propria personalità. La propria essenza. Non
si è risparmiato. Si è immortalato su di un rogo simbolico per bruciare
l’immagine stessa della rock star da lui creata. Poi sarà solo il buio
assoluto. E quando, dopo qualche anno, ritornerà niente sarà più come
prima. Davanti al pubblico si presenterà un performer mutato
profondamente. Pronto ad affrontare con rinnovata forza e genialità nuove
frontiere dell’espressione artistica. Sempre coerente con la propria
mutazione poiché, come giustamente sosteneva Hegel, tutto è in movimento.
Ed è per questo che, a mio avviso, i suoi concerti e le sue storiche
conferenze stampa, una fra tutte quel momento di Teatro dell’assurdo in
cui si presentò davanti ai giornalisti accompagnato da una marionetta,
sono grandi momenti di Teatro. Happening oltre ogni forma d’arte. Pete
Hamill scrisse nelle liner notes originali di Blood on the tracks, “di
tutti i nostri poeti Dylan è quello che ha preso, in modo più evidente, il
mare in tempesta e lo ha messo in un bicchiere”. Il diluvio dell’oblio. La
tempesta da cui ci si ripara. Uragano trattenuto. Prima che una densa
pioggia cada e corroda, come acido, le nostre esistenze.
Ma basta saltare nel sole, come scriveva Cesare Pavese in una delle sue
poesie censurate del 1933, per tornare a guardare le cose con occhi
lavati.
Se, infatti, in questi ultimi anni Dylan ha decostruito e decomposto il
suo mito e la sua stessa rappresentazione, al contrario durante la mitica
Rolling Thunder Revue lo alimentava, dipingendosi il volto di bianco,
probabilmente per farsi notare maggiormente e catalizzare l’attenzione del
pubblico sul suo volto che si infiammava sotto la luce dei riflettori. In
quella tournèe i riferimenti alla Commedia dell’Arte sono espliciti. Come
esplicite sono le influenze di un altro grande regista e drammaturgo
teatrale nell’opera di Bob Dylan dei primi anni sessanta e soprattutto in
The times they are a-chaingin’: Bertolt Brecht (1898-1956).
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Dylan sostiene apertamente di essersi ispirato a Brecht e al suo teatro
epico per la struttura di alcune note canzoni come la stupenda The
lonesome death of Hattie Carroll (suonata a Roma e a mio avviso il momento
più emozionante del concerto):
"Ho scritto Hattie Carroll in un piccolo taccuino in un ristorante sulla
Settima Avenue. C'era un ristorantino dove andavamo sempre semplicemente a
bighellonare.....un gruppo di cantanti aveva l'abitudine di andarci. Vi si
poteva stare tutto il giorno ed era aperto tutta la notte. A quel tempo si
stava molto nei ristoranti. Ora non hanno più quell'aspetto
familiare......ad ogni modo, avevo avuto l'informazione in precedenza e la
gente ne stava parlando......ho sentito di avere molto in comune con
questa situazione e di essere in grado di manifestare i miei sentimenti.
Il modello per l'assetto di questa canzone penso si basi su Brecht, The
Ship, The Black Freighter".
Nel bridge della canzone Dylan rompe simbolicamente la quarta parete
teatrale (3) e si rivolge direttamente agli spettatori astanti o agli
ascoltatori: ”Ma voi che filosofate sulle disgrazie e criticate tutte le
paure, toglietevi il fazzoletto dalla faccia. Non è il momento per le
vostre lacrime”. E’ una lacerazione simbolica, fondamentale. Come
simbolico è l’utilizzo del sipario nella Rolling Thunder Revue o ancora
meglio all’inizio del concerto documentato dal film Hard Rain, dove, con
un vero e proprio coup de theatre, Dylan inizia la performance sulle note
di A hard rain’s a-gonna fall nascosto dietro un sipario chiuso e canta i
primi versi mentre quest’ultimo si sta alzando verticalmente. Questo
importante elemento teatrale, ormai abbandonato completamente dal teatro
moderno, è citato anche in Restless Farewell:
”Ma l'oscurità morirà
Non appena il sipario sarà tirato e gli occhi di qualcuno
Dovranno incontrare l'alba
E se io vedrò il giorno
Non potrò che restare,
così dirò addio nella notte e me ne andrò”
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Le canzoni di The times they are a-caingin’ sono delle perfette “ballate
politiche” sul modello di quelle di Bertolt Brecht. “Il teatro epico,
scrive infatti il drammaturgo tedesco, porta alla storicizzazione dei
fatti quotidiani, a recitare i fatti di un dramma come fatti storici”.
Queste parole descrivono perfettamente gli intenti di canzoni come The
ballad of Hollis Brown, Only a pawn in their game, The lonesome death of
Hattie Carroll ma anche, più tardi, brani come Hurricane dall’album
Desire.
Sempre in Desire troviamo un altro forte “momento” brechtiano. E’ lo
straniamento nel finale di Black Diamond Bay, la canzone ispirata ai
romanzi di J. Conrad. Qui improvvisamente Dylan cambia prospettiva e
rivela che il narratore sta raccontando una storia sentita al
telegiornale. E’ lo stesso Levy, co-autore del testo, a spiegarci che “c’è
una componente brechtiana. Invece di trovarti all’interno della storia,
come hai pensato per tutta la durata della canzone, d’improvviso ti
ritrovi a guardarla da fuori, come un osservatore esterno” (4).
“Me ne stavo seduto da solo a casa mia una notte a Los Angeles guardando
il vecchio Cronkite al notiziario delle sette. Sembra che ci sia stato un
terremoto che non ha lasciato nient'altro che un cappello Panama ed un
paio di vecchie scarpe greche. Sembra che non sia successo granché, così
ho spento e mi sono andato a fare un'altra birra. Sembra che ogni volta
che ti guardi intorno tu debba sentire un'altra storia assurda e non c'è
veramente nessuno che possa dire niente”. E’ l’esempio più visibile di ciò
che Becht definiva effetto di straniamento. “Abbandonando l’idea della
trasformazione completa, scrive Brecht, l’attore reciterà il suo testo
come… una citazione…”
Dylan probabilmente si avvicina a Bertolt Brecht nel 1959 quando a
Minneapolis seguì un corso di storia del teatro insieme all’amica attrice
Bonnie Jean Beecher (5) e successivamente nei primi anni trascorsi al
Greenwich Village quando Suze Rotolo, la sua ragazza immortalata nella
copertina di Freewheelin’, partecipò ad una produzione teatrale tratta dai
testi del drammaturgo tedesco.
E ora, al termine di questa breve e prima incursione nelle connessioni tra
l’opera di Bob Dylan e il teatro, vorrei ricordare un aneddoto che
riguarda il castello di Amleto.
“Non è solo il mio tetro soprabito,
né le mie abituali vesti d’un nero solenne,
né spezzati e profondi respiri,
e neppure il fiume che scorre dagli occhi
e l’espressione sconfitta del volto,
insieme con tutte le forme, i modi
e gli aspetti del male;
non solo tutto questo può rappresentarmi.
Queste sono cose che sembrano;
perché si possono recitare.
Ma io ho qui dentro qualcosa che è
al di là di ogni esibizione:
il resto non è che l’ornamento
e il vestito del dolore” (6)
Amleto, Atto primo, scena seconda.
Durante la tournèe europea del 1966 Dylan, con al seguito la troupe
cinematografica di Eat the document, visitò il castello di Kronborg in
Danimarca (foto sotto), la stessa fortezza che ispirò a William
Shakespeare l’ambientazione per la sua opera immortale Amleto. Come
riporta Sounes nella sua biografia “Bob volle sapere tutto sul leggendario
principe di Danimarca”. Anche se scritti prima di quella visita, i testi
di Desolation Row, si rinnovano, e come i fantasmi delle tragedie di
Shakespeare, si denudano e si liberano nel nostro tempo. Ecco quindi che
“Ofelia è sotto la finestra…al suo ventiduesimo compleanno. E’ già una
vecchia zitella. Per lei la morte è alquanto romantica. Indossa una maglia
d’acciaio. La sua professione è la sua religione. Il suo peccato è la
mancanza di vita. E sebbene i suoi occhi siano fissi sul grande arcobaleno
di Noè, lei passa il suo tempo a sbirciare nel vicolo della desolazione”.
Sempre nella stessa canzone è citato un altro celebre personaggio del
Bardo: Romeo. Purtroppo nello stesso giorno della visita al castello Dylan
viene a conoscenza della morte di Richard Farina. La sua motocicletta era
scivolata su un terrapieno ed era finita contro una cancellata. Notizia
funerea come l’ambientazione dell’Amleto e, allo stesso tempo,
premonitrice per ciò che sarebbe accaduto a Dylan stesso di lì a poco. “Un
sogno non è che ombra” recita Amleto. Il sogno degli anni sessanta, di una
generazione che pensava di cambiare il mondo, sta concludendosi.
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Ma non il sogno di Bob Dylan. Le sue ombre stanno solo mutando poiché di
lì a poco è ora di tornare a cantare. Ad esibirsi davanti ad un pubblico.
A specchiarsi. A modificare la propria voce con parole screziate di
sofferenza o urlate come il fragore di un tuono che esplode pochi attimi
prima del diluvio. E quando le acque avranno ricoperto ogni palazzo sarà
il tempo di tornare. “La città è solo una giungla, con più commedie da
recitare” (7), oppure come scriveva lo stesso Shakespeare, “tutto il mondo
è palcoscenico, e gli uomini e le donne sono soltanto degli attori, che
fanno le loro uscite e le loro entrate”.
Michele Salimbeni
Bibliografia essenziale consigliata a chi vuole approfondire gli argomenti
teatrali toccati in questo saggio:
Vito Pandolfi “Regia e registi nel teatro moderno”, Cappelli 1961
Jerzy Grotowski “Per un teatro povero”, Bulzoni editore 1970 (8)
Allardyce Nicoll “Lo spazio scenico – storia dell’arte teatrale”, Bulzoni
editore 1971
Friedrich W. Nietzsche “La nascita della tragedia”, Adelphi 1984
Dario Fo “Manuale minimo dell’attore”, Einaudi 1987
William Shakesperare “Amleto”, Mondadori 1988 (9)
Jennifer Kumiega “Jerzy Grotowski – La ricerca nel teatro e oltre il
teatro 1959-1984”, La casa Usher 1989
Alessandro Carrera “La voce di Bob Dylan – Una spiegazione dell’America”,
Feltrinelli 2001
Michele Salimbeni “Il cinema di Andrzej Zulawski”, Res edizioni 2003
© Michele Salimbeni 2003
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NOTE:
(1) Definizione sempre respinta da Dylan.
(2) Alessandro Carrera, “Guida turistica al museo di Bob Dylan”. Si può
leggere questo saggio qui su www.maggiesfarm.it
(3) La parete illusoria che divide il palcoscenico dalla platea.
(4) Questa dichiarazione si trova su “Bob Dylan”, Howard Sounes, Guanda
2001.
(5) La ragazza di cui Dylan si innamorò è, secondo la biografia di Sounes,
la stessa a cui è ispirata la canzone “Girl from the North Country”.
Secondo altre fonti (la biografia di Anthony Scaduto), invece, sarebbe
dedicata a Echo Star Helstrom, la prima ragazzina importante per Bob
Dylan. Personalmente ed istintivamente concordo con quest’ultima
interpretazione
(6) Libera traduzione di Michele Salimbeni.
(7) “Mississippi”.
(8) Libro fondamentale per comprendere l’arte del teatro. Una bibbia per
l’attore.
(9) Nella stupenda traduzione di Eugenio Montale.
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