MAGGIE'S FARM

SITO ITALIANO DI BOB DYLAN

Bob Dylan, 1967
di Ernesto De Pascale

Bob Dylan, 1967
di Ernesto De Pascale

In molti casi comprendere Dylan vuol dire capire noi stessi. Per esempio: io posso ascoltare "Sad Eyed Lady of the Lowlands" e capire precisamente cosa vuol significare la canzone ed apprezzarla; eppure io non ho idea di "my warehouse eyes my Arabian drums" o che precisa rilevanza quella frase possa avere.
Eppure anche quelle parole mi comunicano qualcosa. Od ancora: posso apprezzare la quartina "Once i used to care but now things have changed" senza sapere a cosa lui focalizzi la sua attenzione, ma essere certo che fra il Dylan di una volta dei "Times are a-changin'" e quello di "Things have changed" ci sono di mezzo anni di completo mutismo al di fuori dellecanzoni, eppure comprenderne il tentativo di comunicare uno stato d'animo e d'essere comune a molti.
Perchè l'esperimento di scrivere e di unire la scrittura alla musica è il frutto di una attenzione fuori dal comune che ricordo e riconduco solo alla poesia di Robert Frost. Poichè quello che accade in una canzone, o meglio nel testo di una canzone di Bob Dylan, non è mai accidentale, anche se apparentemente in modo incidentale esso avviene come evento musicale e perfino sillabico.

Oggi che ogni canzone storica del suo infinito repertorio appare reinventata casualmente Dylan riafferma incidentalmente il suo essere se stesso con parole che riascoltate all'ombra di ciò suonano più cariche di significato e strascisca "una volta ero solito prendermene cura ma adesso le cose sono cambiate". E dietro quello svogliato fraseggiare si riscopre un uomo che pur nella sua sfiducia nell'era contemporanea ha continuato a tenere fede agli insegnamenti di Cisco Houston, Sonny Terry & Browne McGee e Woody Gutrhie portando le sue canzoni alla gente sempre più frequentemente di persona in questo "never ending tour" iniziato nel 1989 e non ancora terminato.

Per sviluppare meglio queste considerazioni ho pensato di riportare alla luce uno dei periodi meno pubblici della carriera di Bob Dylan, quell' "anno sabbatico" che tra il 1966 e il 1968 vide Bob continuare la sua avventura all'ombra degli alberi secolari delle Woodstock Mountains.
Un viaggio si era concluso e un altro stava per cominciare. Dylan era diventato il simbolo della sua generazione. Già! Ma poi? Come continuare ad essere se stesso?
In quei mesi Dylan ritrovò se stesso e crebbe come per molto tempo non sarebbe poi accaduto, rimettendo in gioco se stesso, la sua musica, le proprie radici e reimpossessandosi di altre non così scontate che tali potessero essere considerate.
Dopo quel lungo anno, sarebbe tornato ad essere un simbolo per un'altra generazione, ma senza esservene più parte. Prendendone le distanze per salvare se stesso, per continuare a vivere da essere umano.

Nel nostro unico incontro, la conferenza stampa di Verona, in occasione della sua prima esibizione ufficiale nel nostro paese, alla mia unica domanda "Cosa fa nel suo tempo libero" lui senza espressione rispose "Vado a pescare".
Fu allora che ebbi la sicurezza che quell'anno sabbatico lo aveva salvato dal mostro pubblico che lui stesso aveva creato fra il 1962 e il 1966.

Questa è la storia di ciò che accadde in quell'anno:

Il 29 Luglio 1966 Bob Dylan è vittima di un incidente motociclistico, dalle parti di Woodstock, nello stato di New York. Un incidente non particolarmente disastroso ma che cambierà profondamente il suo modo di essere.
Sono i giorni della pubblicazione di "Blonde On Blonde", delle bozze del volume "Tarantula", della preparazione del documentario televisivo "Eat The Document" e del cinematografico, già editato, "Don't Look Back" del cineasta D.A. PennBaker, poi regista di "Monterey Pop".
Dylan ha solo 25 anni e per la prima volta dopo diversi anni, a causa del riposo forzato, riflette sull'opportunità di cambiare l'assetto di tutto ciò che gli gira intorno. Una giovane moglie (Sara) e il piccolo figlio gli appaiono dinanzi come se fosse il suo primo incontro con loro. Dylan, in una sorta di forzata segregazione, riaffronta criticamente la sua carriera.
È questo l'inizio di un periodo particolarmente felice e creativo per Robert Zimmermann. Mentre tutto fuori sta cambiando lui rivolge a se stesso le maggiori attenzioni dicendo "qui qualcosa deve cambiare" lasciandosi andare a un differente approccio compositivo, a una nuova vita.
Per il Dylan del dopo incidente non ci sono più contratti (per di più quello con la Columbia era in via di scadenza!), o manager (il rapporto con Albert Grossmann, nonostante i due vivessero entrambi a Woodstock non era dei migliori), obbligazioni, tournee, anche il mondo esterno è un extra.
Bob si dichiara svuotato, parla con poche persone, non rilascia dichiarazioni, permette qualsiasi tipo di illazione sull'incidente, fa scorrere su di se accuse dei movimenti sociali di tutto il mondo per il suo presunto ritiro dalla "lotta" eppure, mentre spende poche, misere, parole sul suo conto, inizia il più lungo periodo di gestazione musicale, assolutamente informale, della sua lunga storia di artista. Un periodo di
grandi canzoni scritte assieme all'amico Robbie Robertson e ai suoi Hawks (Garth Hudson, Rick Danko, Richard Manuel e il momentaneamente assente Levon Helm, già accompagnatori di Ronnie Hawkins) e che da lì a presto prenderanno il nome più semplice e conciso di "The Band", su suggerimento dello stesso Dylan.
Dalla primavera 1967 all'estate dello stesso anno Bob compone e suona più di trenta nuove canzoni. Lo fa - lo avrebbe confessato in seguito - senza un fine preciso, non si cura di volerle, un domani, interpretare. Mentre legge i libri che Allen Ginsberg gli ha portato dalla città e passa le giornata con la famiglia, si nutre di nuove composizioni che non hanno niente a che vedere con i brani antecedenti all'estate 1966.
In Dylan per la prima volta dopo tanto tempo non c'è la pressione quotidiana e anche il prossimo album, "John Wesley Harding", dell'Ottobre 1967, è lontano all'orizzonte. Le canzoni dello scantinato, "The Basement Tapes", sono in quel momento solo prove di fiducia personale a cui partecipano un ristretto cerchio di amici riunito intorno al camino tutti tesi a cercare un comune punto d'incontro. E se queste canzoni sarebbero poi divenute successi e/o avrebbero ricoperto un domani significati particolari (come ci illumina il più importante studioso dell'artista, Greil Marcus, in "La Repubblica Invisibile", ed. Giunti) non è cosa di quei giorni.
Già dopo l'estate Dylan è però cambiato ancora. Peter, Paul & Mary hanno portato al successo "Too Much of Nothing", a Londra Manfred Mann "The Mighty Quinn", Brian Auger, Julie Driscoll & The Trinity "This Wheel's on Fire", tutte canzoni composte nella primavera precedente ed allungate dal manager Albert Grossmann al suo editore nella paranoia completa di veder il suo artista, apparentemente, fuori da qualsiasi strategia discografica.
Le canzoni dello scantinato non sono già più sue: Dylan capisce per la prima volta che da quel momento in poi tutto quello che farà, forse tutto quello che ha già fatto, sin da quando verrà comunicato a terzi non gli apparterrà più. Una lezione, questa, che motiva il suo "Never Ending Tour" iniziato nel 1989 e non ancora terminato. Una lezione che lo porterà ad essere sempre più presente ed attento, a gestirsi con grande parsimonia.
Ma il cambiamento più profondo Bob lo esterna alle porte del 1968 con un album a suo modo rivoluzionario: "John Wesley Harding", un disco che Bob definì nel 1976 "il primo album di rock biblico della storia".
Dylan, che non sarà nuovo a sortite del genere nemmeno in anni insospettabili (come la riconversione al cristianesimo dei tardi anni settanta suggellata dall'album "Saved") rema quindi controcorrente affermandosi ancor di più - suo malgrado - come un Messia nei tempi di cambiamento.
"John Wesley Harding" nasce, sì!, dalle ceneri delle canzoni dello scantinato, ma cresce potente, solenne, pieno di momenti misticamente country, assolutamente insospettabili, grande disco sul Bene e sul male. Bob non lo promuoverà - naturalmente - ma deciderà, piuttosto, di partecipare, il 20 gennaio 1968, alla Carnegie Hall di New York a un tributo per l'appena scomparso Woody Guthrie, un suo maestro, un maestro delle minoranze. Le tre canzoni che interpreta quella sera valgono come forte sostegno a qualsiasi movimento, a partire dalla fiera "Dear Mr. Roosevelt".
Non contento decide, solo qualche mese dopo, di rilasciare, unica intervista dell'intero anno, una lunga dichiarazione al giornale per i senza tetto, "Sing Out", sperando di aumentare gli introiti di quello. Intanto, "John Wesley Harding", pur senza alcun altro aiutò, restò in classifica per tutto il 1968 diventando l'album più venduto della storia discografica di Robert.
Eppure, al di là di questi eventi, per Dylan quello fu un anno mesto, con pochissime nuove composizioni - una, "Lay Lady Lay" doveva far parte della colonna sonora del film "Un Uomo da Marciapiede" ma venne consegnata troppo tardi - poche emozioni. Woodstock cominciava a essere un posto amorfo, con poca ricarica, e "The Band" aveva intrapreso una strada autonoma, firmando per il management di Grossman. Troppa gente sconosciuta cominciava a girare per la cittadina montana.

Fu così che pur di scappare dal paesello, a soli quindici mesi dalle session di "John Wesley Harding", Bob volò a Nashville per continuare il discorso musicale interrotto con il precedente disco e realizzare un album veramente country, duetti con Johnny Cash compresi!: "Nashville Skyline".
Dylan pareva non volerne sapere più di niente, rifiutare il mondo esterno, "Sgt. Pepper", "Beggars Banquet", il Rock & Roll, il suo amico Ginsberg e tutto il resto. Egli pareva rifugiarsi in un mondo a lui sconosciuto (quello del Nashville sound, per l'appunto) pur di non confondersi con le cose di tutti i giorni. Rispettava - ipotizziamo noi - solo la sua ferma intenzione di non farsi manipolare più di tanto. L'unica promozione che intraprese fu il partecipare dal Grand Ole Opry di Nashville al Johnny Cash Show. Una partecipazione che fuorviò ancor di più i suoi fans più accaniti.
È in questa ottica che va interpretata anche l'esibizione presso la seconda edizione del britannico festival dell'Isola di Wight, nel mese di agosto dello stesso anno, 1969.
Bob, preoccupato dall'idea di dover fronteggiare le processioni dei suoi fans in occasione dell'incipiente festival di Woodstock accettò di partecipare a quello dell'isoletta al largo della costa meridionale britannica considerando l'evento come una buona occasione di intraprendere una vacanza con la famiglia.
Il Dylan che si esibì assieme a "The Band" per sessanta minuti all'isola di Wight - con un cachet di sessantamila dollari, mille al minuto! - era un uomo svuotato, infilato dentro ad un abito bianco che lo rendeva più simile ad un rabbino che a un poeta contemporaneo di così vasta eco.
Fu una esibizione triste ed ebbe, forse, l'effetto che Dylan stava cercando: la più completa esclusione dalle cose del mondo, del quotidiano, una esclusione che costò a Bob molti anni a venire di diffidenza.
E chiusa con l'esibizione di Wight l'avventura e la permanenza a Woodstock, già meta di una nuova generazione, Dylan se ne tornò negli Stati Uniti con la ferma intenzione di iniziare un nuovo capitolo della propria vita.
Prossima fermata la cara vecchia New York City.

Ernesto De Pascale


Ernesto de Pascale (Firenze, 1958) giornalista musicale e produttore indipendente, è uno dei principali artefici del rock fiorentino. Voce storica di Rai Stereonotte, attualmente collabora con Radio Tre e con il canale televisivo satellitare RAI SAT SHOW. Scrive per "La Nazione" e per la testata britannica "Rocksbackpages" dopo anni di attività.
Ha pubblicato "Bessie Smith, la vita e le opere" (Stampa Alternativa, 1992), "Mondo beat" (Fuori Thema, 1993), "America musica" (Fuori Thema, 1994), "Pistoia Blues: le interviste" (Tarab, 1996), "Il Rock & Roll in Italia" (Pendragon, 2000), il volume di racconti "Parole di Notte Verso casa" (Le Pleiadi, 1994) e molti saggi.
Nel 1998 Ha dato vita al sito www.ilpopolodelblues.com in concomitanza con la nascita di una etichetta musicale dallo stesso nome. È stato curatore con Bruno Casini e Giancarlo Cauteruccio della mostra sugli anni '80 a Firenze.