Vanilla Fudge è il nome di un gruppo
musicale psychedelic hard rock fondato dal 1966 a New York. Ne furono
fondatori: Tim Bogert (basso), Carmine Appice (batteria), Mark Stein
(tastiere) e Vince Martell (chitarra).
Grandi ammiratori dei Beatles, eseguirono in modo del tutto personale cover
di Ticket To Ride ed Eleanor Rigby ma il grande successo arrivò con una
versione dura e psichedelica di You Keep Me Hangin' On, brano portato al
successo dalle Supremes.
Un'altra cover che li ha consegnati alla storia della musica moderna è
quella di Some velvet morning, un brano morbido originariamente composto da
Lee Hazlewood, ed eseguito dall'autore in duetto con Nancy Sinatra. I
Vanilla ne danno un interpretazione personalissima, decisamente psichedelica
e portata alla ricerca di sonorità estremamente stridenti con l'originale e
che ne fanno un sorta di manifesto della psichedelia.
VANILLA FUDGE
(Atco - 1967)
Verso la metà degli anni ‘60, il pop/rock cominciò a sentirsi troppo stretti
addosso i panni della semplice musica di rivolta, di intrattenimento, di
musica per giovani o più semplicemente di musica 'popolare'. Cosi molti
gruppi intrapresero diverse strade per nobilitare l’arte della popular
music, per cercare contaminazioni che potessero elevarla al rango della
musica classica, del jazz: insomma, della musica che al tempo si scriveva
con la 'emme' maiuscola. Per questo motivo alcune bands cercarono di
scrollarsi di dosso l’etichetta del beat, del rock'n'roll, del
rhythm'n'blues, e provarono a proporre un particolare genere musicale che
mescolava il pop/rock con la musica classica, usandone gli strumenti o le
strutture simbolo: quindi abbondanza di archi, pezzi 'aperti' (che rompevano
il classico schema strofa/ritornello, eccetera), arrangiamenti
magniloquenti, testi epici e quant’altro.
Nelle sue varie sfumature questo genere è stato per comodità definito
pomp-rock, rock sinfonico, e cosi' via. Sulla sua effettiva sostanza si puo
discutere molto: nella maggior parte dei casi ha prodotto opere pretenziose,
estetiche, o comunque sia null’altro se non pop in 'confezione regalo'. E’
tuttavia vero, però, che, nell’albero genealogico della musica
contemporanea, il pomp-rock è il piu diretto antenato e maggiore fonte di
ispirazione del progressive rock (o 'prog' per gli aficionados) che si
sarebbe sviluppato intorno alla fine dei sixties, e che produsse dischi e
artisti spesso di grande livello. Tra i maggiori esponenti del cosiddetto
rock (o pop?) sinfonico vanno citati i Procol Harum, i Moody Blues e i
Vanilla Fudge, appunto. Tuttavia, questi ultimi si collocano in una sorta di
'terra di nessuno' e hanno poco da spartire con gli altri due: da certa
stampa definiti psichedelici e da altri, forse più correttamente, associati
alla corrente pomp-rock, anche se in versione 'acida'.
In ogni caso, al di là delle etichette, i Vanilla Fudge esordirono nel 1967
con quest’album omonimo composto esclusivamente da cover prese un po'
dappertutto (dall’easy listening al soul, dal beat al r’n’r’, dai Beatles a
Curtis Mayfield) e ne proposero una personalissima versione stravagante,
acida, pretenziosa, kitsch ma molto affascinante e originale. Il primo disco
dei Vanilla Fudge è uno di quegli album che, come tutte le opere molto
particolari ed eccessive (nel bene e nel male), o lo si ama o lo si
disprezza del tutto. Il mio parere è che, per le ragioni dette prima, si
tratti di una vera e propria piccola perla nella storia del rock.
La prima delle cover è "Ticket To Ride" dei Beatles: i Vanilla Fudge
propongono una versione rallentata, dilatata, molto potente, con la voce di
Stein sugli scudi. Misurarsi con i Beatles non è semplice per nessuno, ma in
questo caso i Vanilla Fudge fanno veramente centro: pomposa ma bellissima!
Il secondo brano è "People Get Ready" (di Curtis Mayfield), un soul/doo-wop
tra i piu coverizzati della storia della musica pop. La versione dei Vanilla
Fudge si apre con un intro tipico, nella struttura, della musica sinfonica,
con l’organo in grande rilievo, e dei cori perfettamente doo-wop: pomp-soul
signori! Ne avevate mai sentito parlare?. "She’s Not There", un
semisconosciuto pezzo di Rod Argent, è uno dei momenti memorabili del disco:
aperto da un preludio stoppato di organo e chitarra, il pezzo sale alla
grande dominato dalla voce e dai virtuosismi tastieristici di Mark Stein.
Ascoltate la versione di Santana o degli Zombies e capirete cos'ha di grande
questo disco: esplosivo!
Ticket to Ride
La quarta traccia è addirittura "Bang Bang" di Sonny e Cher: qui, più che in
ogni altro brano, si deve parlare di pomp-rock. L’organo duetta con la
chitarra di Martell, in un intro epico, sinistro, dilatato, pinkfloydiano,
che sfuma per dare strada alla voce di Stein, perfetta e melodica, che
conduce il pezzo in mille cambi. Il ritmo è bassissimo, il pezzo sembra a
volte addormentarsi, fermarsi del tutto per impennarsi in stacchi nevrotici
di chitarra e organo: come trasformare un pop facile in una sinfonia acida!
"You Keep Me Hangin On" è il capolavoro del disco: i Vanilla prendono una
canzoncina stupida di bubblegum music resa famosa dalle Supremes e la
trasformano in un’orgia maestosa per chitarra e organo di sette minuti,
cantata da Stein in maniera teatrale, eccessiva, disperata e kitsch: hats
off! "Take Me For A Little While" è un altro pezzettino facile facile,
tipico stile fifties, infarcito di frasi mielose come "you treat me cruel" o
"baby i need you" che Stein sembra quasi parodiare, cantandole da vero
heartbreaker alla brillantina, ma soprattutto senza fare il capolavoro:
errare humanum est!
E come il disco si apre, cosi si chiude: cioè con un'altra cover dei
Beatles. Questa volta i Fudge si misurano addirittura con "Eleanor Rigby",
uno dei capolavori di "Revolver". I nostri riescono quasi a triplicarne la
durata, dilatandola all’estremo, togliendole gli archi e fornendo una
performance vocale da brividi. "Eleanor Rigby" viene stravolta dall’organo
solenne di Stein, dal basso minimale di Tim Bogert, dalla chitarra acida di
Vince Martell e dalla batteria gigantesca di Carmine Appice. Il pezzo si
chiude, tra l’altro, con una citazione di "Strawberry Fields Forever"
("nothing is real and nothing to get hung about"), quasi a rendere un
ulteriore omaggio a Lennon & Co: la miglior cover dei Beatles dopo "With A
Little Help From My Friends" di Joe Cocker!
Eleanor Rigby
L'omonimo dei Vanilla Fudge è un disco che, per essere composto da cover,
suona incredibilmente omogeneo e dimostra il loro originalissimo talento
'compositivo', per la bravura che dimostrano nel riscrivere e riconcepire
alla propria maniera pezzi altrui al punto da farli diventare propri: una
lezione su come si puo' fare una 'version' senza imitare. Forse non è un
disco fondamentale, ma è talmente godibile e fuori dai generi che chiunque
dovrebbe trovargli un posto nella sua discoteca personale.
Alfredo Scacchi
Vanilla Fudge
Out Through The In Door
(Escapi Music/Self - 2007)
Album, Psychedelic Rock
Quando nel dicembre del 1968 i mitici Led Zeppelin debuttarono a Denver
facevano da spalla ai già affermati Vanilla Fudge, storica ed importante
band che si rese protagonista sul finire degli anni '60 con ben cinque album
in poco più di tre anni. Nati nel 1966 a New York, dall'unione di Mark Stein
alle tastiere, Vince Martell alla chitarra, Tim Bogert al basso e
dell'estroso batterista Carmine Appice, i Vanilla Fudge si fecero fautori di
un psychedelic/hard rock al quanto unico per l'epoca. Infatti i quattro non
solo furono tra i primi ad esplorare le sonorità dell'hard rock,
contribuendo anch'essi all'ormai prossimo sviluppo, ma furono anche tra i
primi a mescolarlo con gli umori e i colori propri del rock psichedelico.
Tra scioglimenti, vari cambi e ritorni in line up, reunion e progetti
paralleli, uno dei quali vede impegnati Carmine Appice e Tim Bogert con i
Cactus, band alla quale fu attribuito l'epiteto di "American Led Zeppelin",
a sottolineare ancor di più l'ammirazione che essi nutrono nei confronti del
"dirigibile" più importante della storia del rock, il quartetto newyorkese è
arrivato al completo fino ai giorni nostri, e dalla brevissima analisi
appena fatta della loro storia non c'è molto da stupirsi se hanno deciso di
omaggiare i Led Zeppelin con questo Out Through The In Door. Si consideri
inoltre, che il combo americano non è nuovo ad operazioni di questo genere,
infatti la loro devozione anche per i Beatles li aveva portati a dare una
loro personalissima versione di alcuni brani dei "baronetti" ed avevano
persino rivisitato famosi brani di musica classica. Invece non è poi così
normale che quest'album di cover segua al come back del 2001 e a Then And
Now del 2004, che altro non sono che raccolte di loro vecchi successi, per
cui era lecito attendersi che partorissero dei nuovi pezzi, ma come ben si
sa molto spesso, fortunatamente non sempre, le reunion altro non sono che un
modo per riprendersi un po' di gloria e magari, perché no, un po' di soldi.
A parte questa doverosa critica però, i Vanilla Fudge se ne sono usciti con
un album davvero carino e ben fatto, dando come al solito una loro personale
versione di alcuni dei brani più belli e noti dei Led Zeppelin, da loro
scelti non si sa secondo quale criterio, visto che rimangono fuori dalla
tracklist molti storici highlight, quali Stairway To Heaven, Kashmir,
Communication Breakdown, Whole Lotta Love, Tangerine e tantissimi altri.
Poco importa, e soprattutto poco incide la scelta ricaduta su questi dodici
brani sulla buona riuscita dell'album, considerando anche che può ritenersi
impossibile racchiudere in un solo disco quanto di unico e grande gli
Zeppelin hanno fatto nella loro straordinaria carriera.
Ogni brano viene rivisitato secondo la loro personale visione
psychedelic/hard, senza andare a snaturare troppo le composizioni originali,
sempre facilmente riconoscibili ed apprezzabili, ma cercando sempre di
metterci del proprio, aggiungendo arrangiamenti ricercati e barocchi,
evidenti soprattutto in Dazed And Confused, Dancing Days e All My Love,
oppure virando verso sonorità soul e cori gospel (Fool In The Rain, Ramble
On, Your Time Is Gonna Come), o ancora verso il southern/blues (Trampled
Under Foot). Facile poi rimanere ipnotizzati di fronte alle rivisitazioni
psichedeliche di altri storici e bellissimi pezzi come Babe I'm Gonna Leave
You o Immigrant Song, mentre Carmine Appice mette in bella evidenza tutta la
sua caratura nelle strumentali Black Mountain Side e soprattutto Moby Dick.
Out Through The In Door rappresenta un tributo genuino e sentito verso
quello che può considerarsi uno dei gruppi più importanti ed amati della
storia del rock, fatto peraltro non da una giovane band agli esordi, ma da
gente che calca le scene da ben quaranta anni e che con loro aveva condiviso
i palchi e le classifiche di mezzo mondo, cosa che ancor di più contribuisce
a manifestare la grandezza dei Led Zeppelin. Per i Vanilla Fudge invece, i
quali hanno ampiamente dimostrato di essere ancora un bel gruppetto
deliziandoci con queste cover, è arrivato il momento di uscire con qualcosa
di inedito.
LINE UP:
- Mark Stein - voce, tastiere
- Vince Martell - chitarra, backing vocals, voce in Rock And Roll
- Tim Bogert - basso, backing vocals
- Carmine Appice - batteria, backing vocals, voce in Trampled Under Foot e
Dancing Days
Some velvet morning
di Federico Olmi
C’erano una volta la psichedelia e i suoi profeti: alcuni di loro, dopo
qualche anno di gloria, si sono spenti, altri hanno cambiato pelle e si sono
variamente riconvertiti, qualcuno è nato, morto e risorto una due tre volte
(e fermiamoci a tre…). I Vanilla Fudge – uno di quei nomi che per qualcuno
non significano nulla, per altri moltissimo –, nati nel 1966, sciolti nel
1970, riformati nel 1982, passati attraverso varie reunion, si ripresentano
in questi ultimi anni al loro pubblico: nostalgici e cultori del vecchio
rock.
Il concerto scandianese era francamente uno di quegli appuntamenti con la
storia che non si perdono volentieri. Della formazione classica (Mark Stein
tastiere, Tim Bogert basso, Vince Martell chitarra, Carmine Appice batteria)
rimane il 50%: Bogert e Appice. All’organo Hammond troviamo il quanto mai
gigionesco Bill Pascali, anche lead vocal, alla chitarra Teddy Rondinelli,
che dallo scorso anno sostituisce Vince Martell. Di spalla alla band suonano
i Lizards, capitanati da Vinnie Appice, anche lui batterista come il più
famoso fratello. Suonano un robusto hard blues, piuttosto piacevole –
talvolta eccellente nell’uso dei controtempi –, ben sostenuto dalle qualità
individuali del quartetto. E, fortunatamente, le magagne acustiche tipiche
di un ambiente piccolo, grazie anche allo strumentale limitato (chitarra,
basso, batteria), non sono fastidiose.
Poi arrivano loro. Certo c’è folklore a volontà in questi appuntamenti:
batteria leopardata, occhialini con lenti colorate, abiti di scena demodé
(per i due “nuovi”, Pascali e Rondinelli), atteggiamenti e movenze da
rockers di una volta. Eppure, a pensare di avere di fronte uno che la doppia
cassa l’ha praticamente inventata, uno che sicuramente fa parte della
“sporca dozzina” dei più grandi nel suo mestiere, che ha diviso il palco
(insieme al compagno Bogert) con Jimi Hendrix, ha svezzato John Bonham e ora
si ripresenta in quell’Italia dove le note di “Some Velvet Morning”, nel
1969, fecero scalpore, chi non si sentirebbe un tantinello emozionato?
Si inizia col nuovo album “The Return” (2002) – il primo con materiale
parzialmente nuovo dai tempi di “Mystery” del 1984 – e ci si accorge che lo
stile è cambiato forse di mezza virgola: la versione di “I Want It That Way”
dei Backstreet Boys stupisce non poco, ma si capisce che si stanno scaldando
i muscoli in attesa delle “ammiraglie”, che puntualmente arrivano.
“Season of the Witch”, barocca e gonfiata interpretazione di un pezzo di
Donovan, “Shotgun”, che accende il pubblico fino a quel momento un po’
smorto, “Some Velvet Morning”, con le sue misteriose e sospese note d’organo
e quel sentore di fiori secchi, l’incedere imperioso… una delle mamme del
progressive. Si era alla fine dei sessanta, si cercavano nuove strade per il
rock, nuove complessità, nuovi arrangiamenti. I Vanilla furono tra i primi a
provarci, dapprima cone le cover – come “Ticket to Ride” dei Beatles o “You
Keep Me Hanging On” delle Supremes di questa sera – dilatate, reinterpretate
secondo i dettami della psichedelia trionfante, poi con un pastiche, uno
pseudo concept album dalle idee confuse (un piccolo cult del kitsch), “The
Beat Goes On”, omaggio-sberleffo a mostri sacri – e meno sacri - della
musica, da Beethoven ai Beatles, passando per Sonny & Cher; infine si
chiarirono definitivamente le idee con “Renaissance” e “Near The Beginning”.
Rimasero però in una specie di limbo, pionieri avventurosi dei tempi a
venire, con le loro distorsioni già hard, i cori, i falsetti, gli
arrangiamenti pomposi.
Ora che li abbiamo di fronte non si risparmiano, sudano copiosamente, si
esibiscono in mirabolanti assoli. E allora pensi: però, questa è gente che
sa suonare, e anche se occorrerebbero spazi più vasti e l’Hammond si sente
poco o niente, va bene lo stesso: se abbiamo avuto i Led Zeppelin e i Deep
Purple in fondo è anche un po’ merito loro.
You Keep Me Hanging On
Vanilla Fudge- Out Through The In Door
Escapi Music / Self - 2007
A quarant'anni di distanza dal debutto di questa incredibile band, in molti
continuano a chiedersi spiegazioni riguardo alle anomalie della carriera,
riflettute quasi automaticamente nel sound che Mark Stein, Carmine Appice,
Tim Bogert e Vince Martell contribuirono a creare.
Il quartetto americano, infatti, dopo un bruciante inizio fatto di sei album
in poco più di tre anni, compartecipando (insieme a Led Zeppelin e Black
Sabbath tra gli altri) alla nascita del nostro amato genere, tornò a
incidere solo nel 1976, per poi scomparire per altri 8 anni, fino al 1984,
quando usciva "Mistery". Altri diciotto anni di silenzio e il "Returns" del
2002 apriva un nuovo ciclo, seguito da "Then And Now", del 2004.
In realtà i Vanilla Fudge degli inizi erano un'altra band, se confrontati
con quelli dei vari come back. Il culto si era definito con i primi album
(il primo omonimo, per chi scrive), la cui originalità stava nel fondere
elementi di psichedelia con l'embrione dell'heavy, molto oscuro,
co-esplorato all'epoca solo da alcuni act inglesi.
Ad oggi risulta ancora più grottesco il fatto che il nuovo studio album
della band sia in realtà una raccolta di cover di uno di quegli act, i Led
Zeppelin!
Sulla scelta dei brani si potrebbe parlare a lungo, molti infatti
lamenteranno la mancanza di highlight quali "Stairway To Heaven", "Black
Dog", "Communication Breakdown", "Kashmir", "Whole Lotta Love", "The Song
Remains The Same" e chissà quante altre, ma trattandosi di una band che
vanta almeno un centinaio di classici, la tracklist di un solo CD offrirà
eternamente motivi di discussione.
Passato lo stupore iniziale, dunque, come se ci trovassimo davanti ad un
album di cover dei Judas Priest inciso dagli Iron Miaden, resta solo il
godersi le riletture in Fudge-style di questo "Out Through The In Door", in
primis riconoscibili per via della timbrica di Mark Stein, delicata,
raffinata, decisamente in contrasto con quella instabile e oscillante di
Robert Plant. Ovunque, poi, permea la psichedelia dei Vanilla, con synth
sparsi qua e là dove meno li si aspetti, senza dare in nessun frangente
quell'impressione di magniloquenza che peraltro i Vanilla Fudge non ebbero
mai, restando sempre vicini ad una minimalità sonora, che forse rappresenta
il geniale contrasto con la ricchezza e la raffinatezza negli arrangiamenti.
Anche la sperimentazione è presente in dosi massicce, con cori gospel/blues
ricorrenti, in "Ramble On", "Your Time Is Gonna Come", ma soprattutto in
"Fool In The Rain", esplosiva per quanto riguarda le voci, e candidata alla
palma di miglior brano.
Concorrono allo stesso titolo "Dazed And COnfused", impreziosita da un'intro
synth che farà discutere, e "Immigrant Song", azzecatissima nel ruolo di
opener. Rilette in chiave progressiva anche le strumentali "Black Mountain
Side" e "Moby Dick" (quest'ultima con un Carmine Appice eccezionale), mentre
l'Hammond di Stein invade pacificamente "All My Love" e "Rock And Roll".
In definitiva, uno dei migliori cover album che abbia mai ascoltato, sebbene
io non sia un amanto di questo tipo di uscite. Strano, bizzarro, se si pensa
al nome della band e al suo passato, ma difficilmente un nome meno
altisonante sarebbe riuscito in una simile impresa.
Tracklist:
1. Your Time Is Gonna Come
2. Immigrant Song
3. Ramble On
4. Trampled Under Foot
5. Dazed And Confused
6. Black Mountain Side
7. Fool In The Rain
8. Babe I'm Gonna Leave You
9. Dancing Days
10.Moby Dick
11.All My Love
12.Rock And Roll
Recensore: Mauro Gelsomini
Vanilla Fudge
Dimenticata band Americana di rock psichedelico anni ’60, i Vanilla Fudge
sono in realtà uno dei gruppi più influenti della storia del rock.
I suoi componenti sono tutti degli ottimi musicisti, dotati di grande
creatività e di solide basi blues e jazz. La formazione ufficiale è: Mark
Stein all’organo hammond, Tim Bogert al basso, Vince Martell alla chitarra e
l’italo-americano Carmine Appice alla batteria.
Nel 1965, Mark Stein e Tim Boogert decidono di fondare una band chiamata
“The Electric Pigeons” (I Piccioni Elettrici). I due sono accompagnati dal
batterista Joey Brennan ed, in seguito, dall’eclettico chitarrista Vince
Martell, che si unirà al complesso in seguito al cambio del nome in “The
Pigeons”. In questo periodo, il gruppo si specializzò in cover di artisti
blues di quel periodo.
Nell’estate del ’66, i Pigeons registrano il loro unico LP, contenente 8
canzoni prodotte in fretta e chiamato “While the whole world was eating
Vanilla Fudge”. La qualità audio è scarsa, ma questo disco è una vera
rarità.
In quel periodo, la musica dei Pigeons è molto influenzata dai Vagrants, una
cover-band che riproduce le canzoni di artisti R&B cambiandone il ritmo. E
così, Bogert e Stein hanno la geniale idea di riarrangiare un pezzo delle
Supremes, You Keep Me Hangin’ On, in chiave soul/bluesy e con il ritmo
rallentato.
Nel frattempo, sorgono i primi problemi per il gruppo, che deve trovare un
nuovo batterista: Joey Brennan ha lasciato, trasferendosi alla Younger
Brothers Band. Boogert scoprì in un club il giovane Carmine Appice, a quel
tempo appena 20enne, e lo presentò al resto della band che decise di
accoglierlo.
Nell’aprile del 1967, i Pigeons diventano i Vanilla Fudge. Il nome è
suggerito dalla vocalist di una band locale, amica dei “quattro”, a cui
piaceva molto il gelato appunto alla “Crema alla Vaniglia”.
Nel settembre dello stesso anno, i Vanilla Fudge rilasciano il loro omonimo
primo album, un vero e proprio capolavoro.
Nella tracklist dell’album si riconoscono
solo cover: Ticket to ride ed Eleanor Rigby dei Beatles, People get Ready di
Curtis Mayfield, She’s not there di Rod Argent, Bang Bang di Sonny Bono, You
Keep Me Hangin’ On delle Supremes e Take me for a little While, di Trade
Martin.
Il sound del lavoro è influenzato dal movimento psichedelico underground di
allora, ma sono presenti anche tratti di Hard Blues ed Art Rock. E’ un LP
fortemente rivoluzionario, può essere considerato come uno dei pionieri
dell’Hard Rock e del Progressive Rock, nonchè uno dei più efficaci
“Manifesti Psichedelici”.
Nel febbraio dell’anno successivo, i Fudge producono il loro lavoro più
enigmatico: il concept album “The Beat Goes On”. Un azzardato tentativo di
racchiudere in un LP più di 50 anni di storia e oltre 200 anni di musica: da
Beethoven ai Beatles, passando per i classici della musica Country e Jazz.
Tutto ciò unito dal filo conduttore, la canzone di Sonny Bono “The Beat Goes
On”, appunto, la title-track.
In definitiva, un disco “intellettuale”, il primo concept album della
storia, un disco molto progressive e poco Fudge.
In quegli anni i Vanilla Fudge, originari della “Costa Est” americana,
tentano di acquisire più prestigio e fama in tutta la California, zona che a
quel tempo ha una forte dominanza sul mercato mondiale. A questo scopo,
intraprendono un tour con Jimi Hendrix e gli Experience, forti del loro
nuovo LP: Renaissance.
In effetti, questo disco è una vera e propria rinascita per i Vanilla Fudge:
The Beat Goes On è risultato indigesto al mercato di quegli anni, un lavoro
troppo sofisticato.
In Renaissance si notano le prime canzoni composte interamente dai Vanilla
Fudge: la suite The Sky Cried / When I was a boy, composta dal duo
Stein/Bogert, la splendida Thoughts, ad opera del chitarrista Martell,
Paradise, lavoro di Stein ed Appice, That’s what makes a man, sempre di
Stein, e Faceless People, del batterista Appice. La canzone che avrà più
successo è però Season of the Witch, una cover di Donovan Leitch.
Renaissance è da molti considerato come il miglior lavoro dei Vanilla Fudge,
pieno di freschezza ed innovazione.
Nel 1969, i Vanilla Fudge sbarcano anche in Europa, facendosi notare in
Italia per la “Gondola d’oro” al festival di Venezia, grazie ad
un’impeccabile versione di Some Velvet Morning che impressiona la giuria
italiana ed il pubblico, a quei tempi abituati ai vari Claudio Villa e
Orietta Berti!
Il 5 febbraio dello stesso anno, i Vanilla Fudge rilasciano il loro quarto
LP, Near The Beginning.
Il disco contiene solamente quattro canzoni, che restano facilmente impresse
nella memoria di ogni ascoltatore. Il lato A presenta Shotgun, Some Velvet
Morning e Where is Happiness, tre fantastiche performance della band. Il
lato B è dominato dalla storica suite “Break Song”, un’indimenticabile
dimostrazione delle capacità tecniche di tutti i musicisti della band. La
canzone veniva spesso suonata durante i live e presenta una base blues sulla
quale tutti i componenti del complesso si esibiscono in vibranti
improvvisazioni.
Purtroppo, Near The Beginning pone fine a quella che è la carriera artistica
e il percorso creativo della band, che lascia la scena musicale regalando al
mondo un altro capolavoro.
Ps. Lo so... dopo Near The Beginning vennero rilasciati altri due lavori:
uno è datato settembre 1969 e si intitola Rock & Roll e l’altro risale al
1984, quando i Fudge decisero una clamorosa reunion che durò solo il tempo
di produrre “Mystery” e di organizzare qualche concerto.
Comunque, questi due dischi sono ampiamente al di sotto delle capacità
produttive della band e sono da considerarsi prodotti mediocri, al di fuori
di quanto i Fudge riuscirono a fare nei 3 anni di attività.
AND THE BEAT GOES ON...
By Dude
Carmine Appice
La sua formazione musicale è influenzata da giganti del jazz come Buddy
Rich, Gene Krupa e Stanley Clarke col quale ha anche collaborato.
La sua carriera inizia con il gruppo dei Vanilla Fudge nel 1967, con cui
suonò in importanti esibizioni come "The Ed Sullivan Show" e "American
Bandstand". Quando il gruppo si scioglie nel 1970, assieme al bassista Tim
Bogert, forma i Cactus, da alcuni critici soprannominati "I Led Zeppelin
Americani"[2]. Lasciati i Cactus nel 1972 si uniscono a Jeff Beck e creano
Beck, Bogert & Appice che produce un solo disco. Nel 1975 fa parte dei KGB
un supergruppo in cui sono presenti anche Mike Bloomfield e Rick Grech.
Tra gli altri artisti con cui ha collaborato sono da citare Stanley Clarke,
Ozzy Osbourne, Ted Nugent, King Kobra, John Entwistle, Pink Floyd e Rod
Stewart. Carmine ha un fratello più giovane, Vinny Appice, anch'egli un
batterista molto apprezzato che vanta collaborazioni con artisti come i Dio
e i Black Sabbath.
Nel 2005, Appice è diventanto supporter di "Little Kids Rock", associazione
no profit che provvede strumenti musicali e lezioni gratuite ai ragazzini
delle scuole pubbliche statunitensi. Altri sostenitori di questa
organizzazione sono Joe Satriani, Jason Newsted, Brad Delson, Bob Weir,
Steve Vai, Jesse McCartney ed altri. Dal 2003, è legato sentimentalmente con
Leslie Gold, soprannominata "The Radio Chick", che lavora in una stazione
radio di New York.
Lo Stile [modifica]
Carmine Appice è un batterista dotato di un livello tecnico elevato. Oltre
alla tecnica, è molto apprezzato per la sua originalità e per la sua
sperimentazione di nuovi grooves batteristici, estrapolando tutto quel che
può dai generi più disparati: rock, jazz, fusion, heavy metal... I suoi
assoli sono molto musicali, in quanto egli bada più sulla pulizia del suono
che sulla velocità di esecuzione.
Grazie alla sua versatilità musicale, è un musicista che sa suonare anche in
maniera semplice ed essenziale, delle testimonianze sono "Do Ya Think I'm
Sexy?" e "Young Turks", due brani registrati da Carmine con Rod Stewart,
dove esegue grooves apparentemente banali ma che nascondono un grande
portamento del tempo. Molti musicisti lo definiscono anche un valido
insegnante e i suoi metodi sono considerati tra i migliori del rock.
"Realistic Rock", un suo video didattico, è stato oggetto di studio di
batteristi famosi, come Gregg Bissonette e Dave Weckl[2]. Carmine è anche
considerato uno dei primi "showmen del rock"[2] creando spettacoli vivi ed
entusiasmanti. Un suo "trademark" è il far roteare le bacchette con le dita
(anche se molti attribuiscono l'invenzione di questa forma di
intrattenimento a Keith Moon degli Who).
Carmine Appice drum solo
|