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TEN YEARS AFTER

 

 

I Ten Years After furono un gruppo rock inglese attivo tra il 1965 ed il 1973, anno in cui il chitarrista Alvin Lee abbandonò la band.
I Ten Years After appartengono alla stagione d'oro del blues-rock inglese. Il gruppo si chiamava originariamente Jaybirds e nel 1961 sbarcavano il lunario ad Amburgo, come avevano fatto l'anno prima i Beatles. Quando esordirono, suonavano ancora nello stile del blues di Chicago, condito da ritmi jazz. Figure principali erano il chitarrista Alvin Lee, l'organista Chuck Churchill e Leo Lyons. Ten Years After (Decca Records, 1967) è considerato l'album più originale, ma il gruppo trovò il successo con il live Undead (Decca Records, 1968), forte della prima versione di Going Home.
A Space in Time del 1971 un amalgama di generi: blues, rock'n roll e rock psichedelico. In origine A Space in Time doveva essere un best-sellier anche grazie al pezzo I'd Love to Change the World, l'unico singolo prodotto nel 1971 e trasmesso dalle radio statunitensi, forse il brano più conosciuto dei TYA, dove convivono chitarra elettrica e chitarra acustica. A Space in Time é il lavoro in cui Alvin Lee trovò maggiore spazio per mettere in mostra la sua capacità alla chitarra.

Formazione
Alvin Lee - voce, chitarra
Chick Churchill - tastiere
Leo Lyons - basso
Ric Lee - batteria, percussioni


Se li sono dimenticati tutti, almeno qui da noi, ma ci fu un tempo in cui i Ten Years After erano famosi e riveriti, e non solo nei circoli esoterici del rock blues. Non fu proprio nel periodo che andiamo a raccontare, il 1967-68 degli inizi, ma un po' più in là, intorno a Woodstock; perché i TYA parteciparono a quella storica cerimonia e per sei minuti, non poco, trionfarono anche nel film con cui Michael Wadleigh immortalò il festival. Si vedeva il capelluto Alvin Lee, leader e fiammeggiante chitarra della band, vorticare senza pause sulle note di Goin' Home, uno dei brani più classici del repertorio; ed era uno spettacolo che piaceva, non proprio come i prodigi di Santana o Jimi ma un bel gioco di prestigio comunque. Fu quello il punto-chiave della loro carriera e, se vogliamo, anche la piccola maledizione. Si legarono mani e piedi a quel successo, si convinsero che non valeva la pena di essere creativi, bastando un po' di facile illusionismo. Vissero di rendita per cinque anni, trascurando progressivamente il rock blues con cui avevano cominciato per un pirotecnico rock molto plateale. Più hard che heavy, anzi, più fast che altro. Ai Ten Years After piaceva la velocità - la chitarra che inanellava giri su giri, il treno ritmico che correva più veloce della locomotiva famosa di Casey Jones. Il pubblico ci stava: quel pubblico degli anni Settanta che, davanti alla complessità e anche alla crisi della scena, aveva deciso di prendere la scorciatoia della semplicità. La Decca ha cominciato a ripubblicare il loro catalogo, con restauro digitale e bonus tracks, ed è arrivata al terzo album, Stonedhenge. È il periodo più interessante, creativo, che va dagli avventurosi inizi nella serie B della scena britannica al successo nei Top 10, dagli spettacoli in scalcinati pub londinesi al Fillmore East e alle arene americane. Il disco d'esordio è dell'ottobre 1967 ma prima c'è una lunga marcia di avvicinamento che inizia a Nottingham, nel 1961, con un trio di pop rock chiamato Jay Birds. In quell'uovo originario ci sono il già inquieto Alvin Lee e il bassista Leo Lyons, entrambi adolescenti. Seguono le onde delle musiche alla moda fino al 1965, quando imbarcano un terzo TYA, il batterista Ric Lee; poi decidono di farsi coraggio e si spostano verso cose nuove, trasferendosi contemporaneamente a Londra. Nella capitale non è facile. Per sbarcare il lunario, suonano in piccoli teatri del West End e fanno i turnisti in scena per gruppi-fantasma. Amano il blues, in realtà, e quando gli impegni di lavoro glielo concedono si buttano sull'amata black music e giocano a fare i Bluesbreakers, gli Yardbirds, i Cream. Una sera suonano al Marquee di spalla alla Bonzo Dog Doo Dah Band e provano a farsi chiamare Blues Yard; ma li convince di più un'altra sigla, Ten Years After, e con quella si impongono alla settima edizione del Festival Blues di Windsor, entusiasmando la platea e incuriosendo anche i discografici presenti. Nel frattempo è entrato un quarto elemento, il tastierista Chick Churchill, con la sua passione per il soul jazz di Jimmy Smith e Georgie Fame. Mike Vernon, il produttore di John Mayall, li porta in studio e li fa incidere. La libertà è massima ma la band non si sente completamente a proprio agio. Forse è perfezionismo, forse paura di volare; fatto sta che Alvin Lee e i suoi non ameranno mai troppo quel primo disco, privo a sentir loro del fuoco e sangue che infiammano le esibizioni dal vivo nello stesso periodo. Il pubblico non la pensa allo stesso modo, e neanche la critica. Quando Ten Years After (nella foto la copertina) esce, nell'autunno 1967, sono in diversi ad accorgersene, anche se è il momento forse più fulgido di tutta la storia del rock britannico e la concorrenza non manca. Piacciono la fantasia della band, il tiro secco dei ritmi, il tratto nitido della chitarra che si invola per le sue fantasie; e piace il repertorio, specie in quei brani che i TYA hanno preso a prestito da altri e personalizzato con puntiglio. Spoonful, di Willie Dixon, regge il confronto con la gigantesca versione che Eric Clapton e i Cream stanno scolpendo in quegli stessi mesi; e meglio ancora Help, di Sonny Boy Williamson, uno slow blues che esalta le doti di suggestione di Alvin Lee. Bello anche I Want To Know, un beat spiccio di Paul Jones composto sotto pseudonimo; e ancora meglio Can't Keep From Crying Sometimes, un Al Kooper in origine scritto per i Blues Project in cui si rivela l'anima più delicata del leader, il suo gusto per fluidi fraseggi alla Wes Montgomery. I brani originali sono più deboli, un compitino dovuto per fare pratica e cercare nuovi sbocchi, a cominciare dalla calligrafia Jimmy Smith di Adventures Of A Young Organ; ma non rovinano il quadro complessivo, e l'idea di un blues portato in the sky with diamonds, negli spazi che l'emergente psichedelia e il nuovo rock progressivo stanno delineando. La nuova edizione di Ten Years After aggiunge cinque brani, e due almeno sono interessanti. È il primo singolo della band, facciata A e facciata B, con accenti sorprendentemente diversi rispetto all'album. Portable People è un country blues molto morbido, lontano dal «superblues a 220 volt» in auge; mentre The Sounds è una stranita canzoncina con effetti (il titolo è eloquente) che ammicca al beat psichedelico e non sarebbe stata male in un 45 giri dei Tomorrow o dei Pretty Things. L'idea dello show come luogo ideale per la musica TYA diventa una piccola ossessione e così, a primavera del 1968, il gruppo decide di interrompere la preparazione del secondo LP in studio e registra al volo un disco dal vivo - c'è un tour americano in partenza e l'idea è che un live possa agevolare lo sbarco oltreoceano. Non ci sono però tanti mezzi e così

 

 

la scelta cade sul Klook's Kleek, una gloriosa topaia jazz blues a West Hampstead, Londra. John Mayall ci aveva registrato il suo primo disco, e non per caso; il locale è fianco a fianco con gli studi Decca e con qualche filo volante si possono collegare i microfoni del palco con la consolle dello studio. Quella volta, a dire il vero, non va così liscia, la sala è occupata e bisogna inventarsi un desk di fortuna; ma il dado è tratto e il 14 maggio 1968 i Ten Years After vengono registrati in due appassionati set davanti a un pubblico su di giri. Solo una parte dello show però va su disco, Undead, qualche mese più tardi: il resto finisce nei cassetti, e qualcosa anche si perde. Il nuovo Undead di questi giorni ha una mezz'ora in più e rende meglio l'idea di quei giovani e frementi rocker «dieci anni avanti». I TYA suonano come desiderato, sporco e swingante. Non si calano negli abissi dell'intensità blues, curano poco le sfumature e badano piuttosto a pungere l'attenzione con rapide stilettate di chitarra, con il teso accompagnamento di basso e batteria e il gonfio suono Hammond di Chick Churchill. Più che Spoonful, comunque proposta con devozione, i brani-chiave sono I May Be Wrong e soprattutto Woodchopper's Ball, un lontano Woody Herman scoperto chissà come e fatto diventare un luogo classico degli show. Anche Can't Keep From Crying rende bene l'idea, intrecciata con una lunga Extension On One Chord di 12 minuti in cui finiscono citazioni di vario genere (anche gli Stones di Paint It Black). A Lee e alla sua banda piace dilungarsi, suonare in libera jam, alla californiana. Anzi, qui siamo agli inizi e l'approccio è perfino timido: i 5-10 minuti di molti brani diventeranno più avanti quarti d'ora, a cominciare dall'arcifamosa Goin' Home, che in Undead fa il suo debutto. Per avere un'idea dei cambiamenti Ten Years After nel periodo, prima e dopo Woodstock, si può confrontare questo live con il doppio Fillmore East 1970 che la Chrysalis ha pubblicato l'anno scorso. «Uno dei migliori show di tutta la nostra carriera», giurano i protagonisti, e in effetti suona così; più liberi, più esperti, più sicuri di sé quei Ten Years After '70 - anche se un po' compiaciuti e molto, troppo scaltri. Non per fare lo snob, ma con Stonedhenge, 1969, arriva il successo ma se ne va l'ispirazione. È un disco sbiadito, furbino, che poggia sulla trovata di legare tutti i brani fra loro con una serie di evanescenti intermezzi. Rare tracce di blues, nessuna avventura fuori schema; e una serie di anemici brani, tutti scritti in proprio, che hanno il solo scopo di innescare la chitarra di Alvin Lee per infiniti giri d'onore. Una galleria di luoghi comuni: lo scat di Skoobly-Oobly-Doobob, i riff prevedibili di Hear Me Calling, la batteria-locomotiva di Speed Kills, che va a schiantarsi con effetti speciali dopo 3' e 32". Il pubblico comunque mostra di gradire: sesto posto nelle classifiche e un bonus di popolarità che servirà anche per gli album successivi - Ssssh, Cricklewood Green, Watt". Non sono più un gruppo di culto, i Ten Years After, non si provano neanche a onorare la loro impegnativa sigla, «dieci anni avanti». Finiscono nel rock mainstream e ci resteranno fino al 1974, con una intensa produzione e concerti, cento-duecento ogni anno, una trentina di tournées nei soli Stati Uniti. Ai giorni di Undead il loro produttore Mike Vernon li aveva definiti bene «musical gimnasts», atleti rock capaci di combinare muscoli e inventiva. A un certo punto rimarranno solo i muscoli; ma certi creativi esercizi dei primi due album, quella eccentrica ginnastica rock blues, si può ricordarla ancora oggi con piacere. (riccardo bertoncelli) Ten Years After - Ten Years After e Undead(Deram)
(delrock.it)

 

 

I Ten Years After appartengono alla stagione d'oro del blues-rock inglese. Il gruppo si chiamava originariamente Jaybirds e nel 1961 sbarcavano il lunario ad Hamburg, come avevano fatto l'anno prima i Beatles. Quando esordirono, suonavano ancora lo stile lento e fumoso del blues di Chicago, condito da ritmi jazz. Al centro dell'attenzione era il chitarrista prodigio Alvin Lee, uno degli eroi strumentali di quell'anno, forse piu` veloce dello stesso Hendrix. Anche l'organista Chuck Churchill era superiore alla media, e gli arrangiamenti jazz di Leo Lyons avevano pochi eguali. Ten Years After (Decca, 1967) rimane il loro album piu` puro, ma il gruppo trovo` il successo con il live Undead (Decca, 1968), forte della prima versione di Going Home.
Stonedhenge (Decca, 1969), forte di un ritmo piu` sbrigliato e di brani come Hear Me Calling, stentoreo e ipnotico, e di una jam fluida e sinistra come No Title, in cui si alternano ciclicamente gli assoli dei vari membri (canto voodoo, chitarra distorta, organo lugubre, batteria jazz, e di nuovo la tetra nenia iniziale), e` forse il loro capolavoro.

A Woodstock Going Home divenne un'epilessi scalmanata di nove minuti sfregiata dalla maschia e fantasiosa pirotecnica, chitarristica e vocale, di Lee, che di fatto si esibi` in uno dei piu` grandi boogie del Dopoguerra, resero celebre la formazione.

Ssssh (Decca, 1969) e Cricklewood Green (Decca, 1970), contenente il loro unico hit, Love Like A Man, virarono verso l'hard-rock, che era la grande novita` di quegli anni e meglio si adattava allo stile di Lee.

A Space In Time (Columbia, 1971) Rock And Roll Music In The World (Columbia, 1972) e Positive Vibrations (Columbia, 1974) sono album molto piu` commerciali, che indeboliscono la fibra del loro blues-rock alla ricerca del successo di classifica.

Greatest Hits (Deram, 1977) contiene la leggendaria versione estesa di Going Home.
Fonte: www.scaruffi.com

 



Gli album “più sixties” che io conosca ? The Doors (1967), Surrealistic Pillow dei Jefferson Airplane (1966), Freak Out di Frank Zappa (1966) … e il sottovalutato primo album omonimo dei Ten Years After del 1967.
Il primo brano, “I Want To Know”, un blues frenetico arricchito da vivaci trame di organetto alla Manzarek e dai veloci assoli di Alvin Lee, offre un primo assaggio di quello che sarà un ascolto ricchissimo. La seconda traccia ,“I Can't Keep from Crying, Sometimes”, già dal titolo preannuncia una svolta rispetto alla solarità della traccia appena ascoltata. La trama blues del basso si intreccia con la chitarra che ancora offre bei momenti (sentire dal secondo minuto) e con le tastiere sommesse ma indispensabili a dare un tocco psichedelico alla canzone ( e all’album nel suo complesso).
“Adventures of a Young Organ” è il brioso intermezzo strumentale che con il suo jingle di tastiera, la piacevole performance alla batteria e l’immancabile chitarra ci riporta indietro ai ’60 facendocene cogliere gli aspetti migliori (anche se qualcuno potrà dire convenzionali). Si cambia di nuovo, però con “Spoonful”, ritornando ai toni cupi della seconda traccia. La struttura è simile, la solita chitarra riempie di colori l’intero brano e ci offre forse l’assolo migliore dell’intero album. A tre minuti e mezzo siamo in piena psichedelia east-coast (pur essendo inglesi...). Da notare anche la batteria che riesce a stare perfettamente dietro al brano senza però scavalcare mai gli altri elementi. Non è più tempo di essere tristi però: il rock’n’roll di “Losing the Dogs” non può non farci muovere con quel piano da saloon, forse ricordandoci qualche passaggio dei Creedence.
Ecco la solita struttura da Ten Years After nel brano successivo “Feel It for Me”, in cui quattro battute sui piatti ed una sul rullante accompagnano questo breve pezzo acid-blues. Il brano seguente, “Love Until I Die”, è un altro bel gioiello, arricchito da un buon uso di tastiere e dall’esordire di un’armonica blues molto Canned Heat. Di nuovo, è impossibile non scatenarsi. “Don't Want You Woman” è un brano “folkeggiante” e sbarazzino che ci introduce con un sorriso all’ultima canzone, la più lunga ed intensa dell’album.
“Help Me” inizia con il suono sommesso dei piatti e con spruzzate di organetto a cui si aggiunge subito il basso con il suo ritmo blues. Dopo poco il brano sarà caratterizzato da regolari esplosioni di chitarra che in un crescendo daranno un tono sempre più duro al pezzo. Ed ecco a due minuti e quaranta l’assolo, che finirà con il termine dell’album, divenuto oramai indispensabile per l’ascoltatore: mai monotono e sempre coinvolgente è soprattutto l’uso della chitarra che rende tanto bello questo cd.
Un ottimo album di acid blues, che se non si guadagnando del tutto il titolo di pietra miliare del rock anni’60, certamente resta gioiello da non dimenticare, e da riscoprire.
(di Matteo Castello)

 



Spesso, spessissimo anzi, navigando sul web o consultando vari libri che trattano di rock e blues, ci si imbatte, oltre che nella discografia, anche nella storia del gruppo Ten Years After. Sembra davvero incredibile, ma quasi tutti attribuiscono allo scioglimento di questa grande band una mancanza di idee e di originalità che, a detta di molti, ha caratterizzato gli ultimi lavori, tanto che gli stessi membri del gruppo, Alvin Lee in primis, sono arrivati ad esprimere questa linea di pensiero. Indubbiamente è vero che il terz'ultimo lavoro, lo scialbo "Alvin Lee And Company", altro non fu che una mera speculazione commerciale messa in atto dalla loro vecchia casa discografica, la Deram, che era ancora in possesso di materiale mai pubblicato, poiché i Ten Years After avevano simpaticamente levato le tende in favore della Chrysalis Records.

Eppure, tendenzialmente contro corrente rispetto a tutti, anche nei confronti degli stessi Ten Years After, secondo me gli ultimi due dischi rappresentano un esempio di rock illuminato ed in articolare la penultima fatica di studio prima della fine dei giochi, ossia "Rock & Roll Music To The World" del 1972.

L'originalità c'è eccome. La novità più grande è sicuramente l'introduzione di un uso più massiccio delle tastiere sintetizzate, come lo straordinario assolo di organo prima, e di synth poi nel brano Standing At the Station. Anche Convention Prevention è un pezzo fantastico, dotato di un incredibile ritmo, anche qui con la novità dei sintetizzatori, che si sentono anche nell'ottima Religion, dalle lyrics critiche contro la religione (I never really understood religion / Except it seems a good excuse to kill). Alcuni reputano fuori luogo questo nuovo uso degli strumenti a tasti, tanto che anche i Ten Years After ci stanno stretti e nel disco successivo abbandoneranno i synth. Ma è innegabile che apportino una ventata di freschezza al suono del gruppo.

Certo, la partenza del disco è in stile Ten Years After classico con You Give Me Loving, mentre il riempitivo blues non manca (Turned Off T.V. Blues), ma che è un marchio di fabbrica di ogni loro album. Gran crescendo in atmosfere rollingstoneggianti in You Can't Win Them All. Ma l'ultima parte del disco merita molto, con tre ottimi rock'n'roll dai toni molto personali, ossia Choo Choo Moma, Tomorrow I'll Be out Of Town e la title-track. Non si vede minimamente traccia di una band in crisi compositiva, forse lo stesso Alvin Lee usa questa scusa per non dire che la sua grandissima personalità stava stretta in una band come i Ten Years After (guardare la copertina per credere... chi è quell'omino con la chitarra che si vede nel rullante di batteria? Esatto!). Non a caso gli assoli dell'allora chitarrista più veloce del rock trovano meno spazio.

 

 

Le vendite, dunque l'eterno e maledetto denaro, sembrano quindi essere il vero motivo della lenta parabola discendente, poiché non resero giustizia all'album che è.

I Ten Years After se ne andranno in sordina. Nessuno se li filerà più, soprattutto dopo l'uscita del disco dal vivo "Recorded Live". Certo, forse il successivo "Positive Vibrations" è un poco sottotono rispetto al presente disco recensito, ma non da giustificare lo scioglimento del gruppo. Per quanto riguarda "Rock & Roll Music To The World", siamo di fronte ad un disco di pregevole fattura.
Recensione di: the green manalishi  (Fonte: www.debaser.it)

Discografia

Album in studio e dal vivo
1967 - Ten Years After
1968 - Undead
1968 - Stonedhenge
1969 - Ssssh
1970 - Live At The Fillmore East
1970 - Cricklewood Green
1970 - WATT
1971 - A Space In Time
1972 - Alvin Lee & Co.
1972 - Rock & Roll Music To The World
1973 - Recorded Live
1974 - Positive Vibrations
1989 - About Time
2004 - Now
2005 - Roadworks live

Raccolte
1970 - Double Deluxe
1971 - Ten Years After
1976 - Classic P
erformances
1977 - Goin' Home
1977 - Greatest Hits
1979 - Profile
1980 - Ten Years After
1983 - Timewarps
1985 - The Collection
1987 - At Their Peak
1987 - Universal
1988 - Portfolio
1991 - The Collection
1991 - Essential
1995 - Pure Blues
1996 - I'm Going Home
1998 - Premium Gold Collection
2000 - The Best of
2001 - Very Best Ten Years After Album Ever
2002 - Ten Years After Anthology