Neil
Young compone con Bob Dylan e Bruce Springsteen la grande triade di voci
"morali" della musica popolare americana. Come per gli altri due, anche
l'arte di Young e` soprattutto una fusione di musica e parole che si
identifica con il zeitgeist della sua epoca. A differenza degli altri due,
pero`, Young prende di mira il caos interiore dell'individuo che e` stato
causato dal caos esteriore della societa`. Se Dylan trasduce gli eventi
della sua epoca in un universo metafisico, se Springsteen esprime il senso
epico della vita ordinaria, Young compie un'operazione psicologica piu`
complessa, che stende un ponte fra l'idealismo delle comuni hippie e la
nevrosi delle popolazioni urbane. La sua voce, i suoi testi, le sue melodie
e il suo stile alla chitarra compongono un messaggio di sofferenza e
redenzione che nei momenti migliori sfiora l'allucinazione, la visione
mistica, l'illuminazione filosofica, ma sempre da un contesto che e`
fondamentalmente infernale.
I diversi aspetti della carriera di Young (il folk-singer dei grandi spazi
liberi, il militante anti-razzista, il moralista degli eccessi dell'era
hippie, il visionario apocalittico, il pessimista universale, il loner
malinconico, il rocker dell'alienazione) sono semplicemente gli stadi di un
lungo calvario (personale e sociale).
Young ha fatto per la canzone intimista cio` che Dylan aveva fatto per
quella di protesta: come Dylan sposo` l'enfasi di Whitman e l'ottimismo
dell'era Kennedy ai temi del pubblico, cosi` Young ha sposato l'umanesimo di
Emerson e il pessimismo dell'era post-Kennedy ai temi del privato.
In aggiunta, Young ha inventato lo stile di chitarra distorto, cacofonico,
da incubo, che influenzera` la generazione grunge.
Young e` anche unico nella sua schizofrenia, che trova sfogo a diversi
livelli. Al primo livello, c'e` la dicotomia live/studio. Gli album dal
vivo, carichi di un'energia quasi nucleare, sembrano venire da un altro
artista, un terrorista musicale, un vero punk. All'interno degli album di
studio, si verifica un'altra dicotomia: la ballata country lineare,
graziosa, elegante, e la jam "acida", brutta, rumorosa. Questi due modi
coesistono raramente: si alternano al controllo della carriera (e della
mente?) di Young. Ciascun album in studio e` dominato dall'una o dall'altra.
Il suo alter-ego, infatti, e` forse un musicista piu` creativo di Young
stesso.
(Fonte: https://www.scaruffi.com/vol2/young.html)
Neil Young
Il cowboy solitario del rock
di Claudio Fabretti
Ha marchiato a fuoco la storia del rock con le sue ballate dolenti e le sue
cavalcate elettriche. E per alcune sue intuizioni è stato adottato come
"padrino" dal punk prima e dal grunge poi. La storia, la musica e i tormenti
di Neil Young, il canadese solitario
Neil Perceval Young (Toronto, 12 novembre 1945) è un cantautore canadese.
Compie le sue prime esperienze musicali in gruppi garage rock e in club del
circuito folk canadese.
Gli anni con i Buffalo Springfield
Si trasferisce a metà degli anni sessanta a Los Angeles dove forma con
Stephen Stills i Buffalo Springfield, destinati a diventare uno dei gruppi
di punta della scena folk-rock californiana. Tra le canzoni da lui scritte
per il gruppo, è da ricordare la classica Mr. Soul.
Il successo da solista e l'esperienza Crosby, Stills, Nash & Young
Young lascia i Buffalo Springfield per realizzare il suo primo album solista
a inizio del 1969 (Neil Young). Lo stesso anno recluta dal gruppo The
Rockets il chitarrista Danny Whitten, il bassista Billy Talbot e il
batterista Ralph Molina ribattezandoli Crazy Horse, e con questa formazione
realizza il suo secondo lavoro solista: Everybody Knows This Is Nowhere.
Dopo essersi unito al trio Crosby, Stills & Nash, con il quale ha inciso
Déjà Vu e Four Way Street (dal vivo), ed aver fatto uscire un terzo disco
solista (After the Gold Rush), raggiunge, infine, la testa delle classifiche
di vendita americane con l'album Harvest e il singolo Heart of Gold nel
1972.
Gli anni della "crisi"
A questo periodo di successo commerciale fa seguito un periodo di crisi e
depressione, dovuto anche alle morti per overdose del chitarrista dei Crazy
Horse, Danny Whitten, e di Bruce Barry, un roadie del suo entourage cui sarà
dedicata Tonight's the Night. Questa crisi si ripercuote nella musica che
Neil Young registra in quegli anni e soprattutto nell'atmosfera e nei testi
di album come Time Fades Away, Tonight's the Night e On the Beach. Questi
album, per tali motivi, furono al tempo degli insuccessi commerciali nonché
oggetto di aspre accuse da parte della critica, ma col passare degli anni
furono ampiamente rivalutati. Nel 1976 registra l'album Long May You Run che
lo vede riunito con il vecchio compagno di avventura Stephen Stills. Nel
1978 incide Rust Never Sleeps che ottiene un ampio successo di pubblico e di
critica ed è seguito dall'omonimo tour, di nuovo accompagnato dai Crazy
Horse. Da quello spettacolo ha origine il doppio live Live Rust; in entrambe
le opere Young si esprime sia in versione acustica che elettrica rinnovando
i fasti dei suoi tempi migliori.
Il nuovo millennio inizia con l'abituale folk-rock in Silver & Gold (2000),
nello stesso anno esce il live Road Rock Vol. 1, il primo senza i Crazy
Horse, supportato da una band di amici e parenti (chiamata appunto Friends &
Relatives). Dopo aver contribuito nel 2001 al concerto "America: A Tribute
To Heroes" con la cover "Imagine" di John Lennon, prosegue poi con la
dissertazione di Are You Passionate? che vede la collaborazione con Booker T
& the MG's.
Tra i suoi progetti recenti il più ambizioso è sicuramente il lungo
Greendale (2003), un concept-album sulla vita in una piccola città americana
di provincia. Nello stesso anno, in agosto, i fan ricevono una gradita
sorpresa, infatti dopo lunghe insistenze vengono finalmente pubblicati e
rimasterizzati in alta qualità sul supporto Cd quattro album su sei mancanti
(detti "missing six")nella discografia che finora erano (difficilmente)
reperibli solo sul vinile. Essi sono: l'importante On the Beach, American
Stars 'n Bars, Hawks & Doves e Re-ac-tor. Rimangono, ad oggi, ancora su LP i
soli Time Fades Away e il trascurabile Journey Through The Past.
Nel 2005 viene colpito da aneurisma cerebrale, ma questo non gli impedisce
di pubblicare un nuovo album, l'acustico Prairie Wind. Nel 2006 esce
l'album, molto politicizzato, Living With War. Quest'ultimo album è un urlo
rabbioso contro il presidente Bush, la sua politica e la guerra in Iraq. È
prevista a breve la pubblicazione, a scaglioni, dei suoi immensi archivi.
Nel (2007) è stata prevista la pubblicazione di un album acustico, tratto
dagli archivi di young, "1971: Live at Massey Hall". In questo album sono
presenti live acustici di canzoni come Old Man (canzone che come dice lo
stesso Young, "this is my new song", è la prima volta che presenta al
pubblico), poi altri cavalli di battaglia fra i quali Cowgirl in the Sand,
Down by the River, The Needle and Damage Done, I Am a Child.
Nel 2008 Young ha programmeto due date in Italia: a Milano (24 febbraio) e
all'Arena di Verona (23 giugno).
"Rock'n'roll can never die": il rock'n'roll non può morire. Lo cantava nel
1979, Neil Young, e continua a gridarlo oggi. Una banalità? Forse, ma non in
bocca a lui. Nessuno come questo allampanato canadese, infatti, ha incarnato
il rock in tutte le sue anime; lo ha vissuto dentro: nei nervi, nella
pancia, nel cuore. Al punto che oggi ne porta addosso i segni: il viso
solcato dalle rughe, la schiena ingobbita, l'aspetto terribilmente
imbolsito. Tutto, in lui, mostra le tracce di una lunga battaglia: quella
contro l'alcol e le droghe, contro i fantasmi degli amici scomparsi, contro
le nevrosi e i dolori d'una vita.
Fin qui, si direbbe, il ritratto di una delle gloriose cariatidi che
continuano ad affollare l'arena del rock. Ma non è così. Young, infatti, ha
da sempre in sé il germe della modernità. Non esiste altro musicista che sia
riuscito ad attraversare quattro decenni di rock restando sempre un faro per
i contemporanei.Uno dei suoi capolavori, Tonight's The Night (1975), è stato
giudicato un album punk ante-litteram; "Out of the blue/ Into the black"
(1979) era dedicata a Johnny Rotten dei Sex Pistols; e "Sleep With Angels"
(1994) era un omaggio a Kurt Cobain, mito bruciato del grunge, nonché suo
massimo discepolo. Nel suo messaggio di addio, Cobain scrisse proprio la
frase di una canzone di Young ("My My, Hey Hey"): "Meglio bruciarsi che
svanire". Un anno dopo la morte del leader dei Nirvana, il maestro canadese
ricambiò commosso sul palco del "Rock'n'roll Hall of Fame":"Voglio
ringraziare Cobainper aver rinnovato la mia ispirazione". Ma la febbre
younghiana ha contagiato anche altri numi del rock degli anni 90, dai Sonic
Youth a Nick Cave, dai Dinosaur Jr. ai Pearl Jam, alcuni dei quali hanno
partecipato a "The Bridge", il disco-tributo in suo onore.
Forse, la grandezza di Young sta nella sua schizofrenia, il quel suo
costante dibattersi tra smania di rinnovamento e nostalgia del passato, tra
esplosioni di rabbia e pause di purificazione. Dal country degli esordi al
garage-punk di Rust Never Sleeps, dal rock'n'roll al synth-pop, dal soul al
blues, dall'hard-rock al metallo pesante di Re.ac.tor, non c'è genere
musicale che questo atipico rocker non abbia esplorato.Ma forse la sua
grandezza sta anche nell'aver saputo rappresentare le nevrosi e le
contraddizioni di un'epoca intera, sospesa tra l'utopia hippie e la
restaurazione post-'68. Profeta del sogno di "cambiare il mondo", ma anche
cantore degli abissi della disperazione individuale, Young ha costruito un
canzoniere universale, che unisce al fervore allucinato dei rocker il
messaggio "morale" dei folksinger più nobili, da Woody Guthrie a Bob Dylan.
I Buffalo Springfield, prima ancora gli Squires, poi i ripetuti approdi nel
"porto sicuro", come lui stesso definisce la pluripremiata ditta Crosby,
Stills, Nash & Young: il cantautore canadese ha messo la sua energia al
servizio di gruppi importanti. E ha voluto accanto a sé per trent'anni la
sua band, i Crazy Horse. Ma, in fondo, è sempre stato "The Loner", il
solitario, come si autodefiniva in una delle sue prime canzoni. Ogni sua
relazione è sempre destinata a una brusca fine, a causa del suo destino
errante che gli impedisce di inserirsi appieno in qualsiasi contesto. Sarà
questo il trait d'union di tutte le sue vicende, musicali e non.
Neil Young nasce a Toronto, in Canada, il 12 novembre 1945; il padre Scott è
un giornalista sportivo, la madre Edna una casalinga. A quattro anni, si
trasferisce con la famiglia a Omemee, villaggio dell'Ontario dove due anni
più tardi viene colpito dall'epidemia di poliomelite che contagia migliaia
di bambini canadesi, tra i quali anche Joni Mitchell. La musica è fin
dall'infanzia la sua passione: "Il mio primo strumento fu un ukulele, poi
ebbi un banjo, quindi, a 15 anni, la mia prima chitarra elettrica", ha
raccontato. Neil il giovane patisce presto il primo trauma, la separazione
dei genitori, diventando un adolescente timido e insicuro che cerca nella
musica il rifugio alle sue inquietudini. Trasferitosi con la madre a
Winnipeg, partecipa, in veste di cantante e chitarrista, a una serie
infinita di hi-school band. Dopo le superiori, approda negli Squires, una
formazione beat influenzata dai suoni della "British Invasion". Quindi,
comincia a frequentare il circuito folk canadese e conosce Rick James oltre
alla stessa Mitchell.
Ma la terra promessa per ogni musicista dell'epoca è la California. Così
Young abbandona le montagne del Canada per cercare fortuna nella West Coast.
Nel 1966, con Steven Stills e Richie Furay, fonda i Buffalo Springfield, che
diverranno uno dei gruppi di riferimento del country-rock in voga nel
periodo. Pur donando alla band le sue prime ballate ("Broken Arrow", "I Am A
Child", "Mr. Soul", "Nowadays Clancy Can't Even Sing"), Young resta sempre
in posizione defilata (sarà lui stesso a definire il suo ruolo come quello
di "indiano" della compagnia) e, dopo due anni e tre dischi, abbandona il
progetto.
I tempi sono maturi per l'esordio solista, che avviene nel 1968 con
l'omonimo album Neil Young, pubblicato dalla Reprise, l'etichetta che gli
resterà fedele per tutta la sua lunga carriera. Pur acerbo e discontinuo, il
disco mette già in luce molti degli ingredienti dell'arte younghiana:
melanconiche ballate country, inquieti bozzetti folk e un chitarrismo
bruciante. Svettano la lunga allucinazione di "Last Trip To Tulsa", dolente
blues per voce e chitarra acustica con un testo-fiume alla Dylan, e il
ruvido autoritratto di "The Loner" ("He's a perfect stranger/ like a cross
of himself and a fox/ He's a feeling arranger/ and a changer of the ways he
talks"). Il retaggio folk riaffiora invece nella tenera "Sugar Mountain",
che però resterà solo su 45 giri.
Prima di partire per una lunga tournée che lo vedrà esibirsi anche al fianco
di Joni Mitchell, Young sposa Susan Acevedo (1° dicembre 1968) e si
stabilisce con lei nella casa di Topanga Canyon.
All'inizio del 1969 esce Everybody Knows This Is Nowhere, primo album
prodotto da David Briggs e primo frutto della collaborazione di Young con i
Crazy Horse: Danny Whitten (chitarra), Billy Talbot (basso) e Ralph Molina
(batteria). Ne scaturisce un pugno di ballate marchiate a fuoco, che
uniscono alla sensibilità folk di Young un approccio più marcatamente rock.
La nevrotica "Cinnamon Girl", la sfibrante jam di "Cowgirl In The Sand"
(dieci minuti) e l'elettrofolk onirico di "Down By The River" sono i tre
nuovi capolavori.
Il 1970 è un anno cruciale per Neil Young: escono infatti due kolossal come
Deja Vu, primo capitolo della sua collaborazione con David Crosby, Stephen
Stills e Graham Nash nei CSN&Y, e il suo terzo album solista, After The Gold
Rush, che annovera la presenza di un diciassettenne Nils Lofgren alla
chitarra e segna il ritorno alle radici folk. "Only Love Can Break Your
Heart" è un valzer sghembo, apparentemente sereno, ma venato da una profonda
amarezza. La title track è un altro doloroso affondo, con la voce ferita di
Young che cerca requie in un'atmosfera onirica (il piano, i corni). "Birds"
è un'altra melodia toccante, che fa da cornice a una storia sospesa tra il
"tomorrow" e il "today". L'anima rock dei Crazy Horse riaffiora in "When You
Dance You Can Really Love", tra chitarre abrasive e un'impetuosa sezione
ritmica. Ma la vera pepita della "Corsa all'oro" è l'inno anti-razzista di
"Southern Man": una cavalcata elettrica folgorante, in cui l'invettiva di
Young, sorretta da un coro, è accompagnata da una chitarra acida e da cupi
rintocchi di piano. Un brano leggendario, destinato a infiniti trionfi nelle
esibizioni dal vivo.
Comincia a emergere anche il volto politico del cantautore canadese. Nella
primavera del '70, l'America protesta contro Nixon e la guerra in Vietnam.
All'Università di Kent, Ohio, la polizia spara su una folla di manifestanti
e uccide quattro studenti. Sull'onda emotiva, Young compone "Ohio" ("Quattro
morti in Ohio/ quanti ancora?").La casa discografica ne fa un instant
record, riuscendo a pubblicarlo in una sola settimana!
E' il preludio al grande successo mondiale, che arriva nel 1972 con Harvest
. Registrato a Nashville nel 1971 con gli Stray Gators (Ben Keith, Tim
Drummond, Kenny Buttrey, Linda Ronstadt e James Taylor), l'album viene
pubblicato un anno dopo per consentire a Young, che nel frattempo si è
separato dalla moglie, di sottoporsi a un intervento chirurgico alla
schiena.
Canzoniere bucolico di grande fascino lirico, Harvest segna un ritorno alle
origini country di Young e ne esalta i risvolti più teneri e umani. "Canto
questa canzone perché amo l'uomo/ So che qualcuno di voi non lo capisce.../
Ho visto l'ago e il danno compiuto/ Un po' di questo è in ognuno/ Ma ogni
drogato è come un sole che tramonta", canta in "The Needle And The Damage
Done", tentando di salvare l'amico Danny Whitten, leader dei Crazy Horse.Ma
Whitten morirà per overdose di eroina pochi mesi dopo. Harvest è uno
psicoviaggio nell'era hippie, una successione di aperture radiose e
ripiegamenti nell'ombra.
Le scene rurali, le ambientazioni di una provincia americana quasi
cinematografica, nascondono sempre una grande tensione emotiva. L'iniziale
"Out On The Weekend" scandaglia gli abissi della solitudine ("See the lonely
boy out on the weekend") e della malinconia. La tristezza si attenua per un
istante tra i suoni più morbidamente country della title track , ma il
pathos si fa nuovamente impetuoso sulle note di "A Man Needs A Maid",
ispirato da Carrie Snodgrass, l'attrice di "Diario di una casalinga
inquieta", dalla quale Young ha avuto il figlio Zeke: l'orchestrazione
aggiunge ulteriore enfasi, ma è il falsetto tremulo del canadese, sospeso
sul filo dell'emozione, a sciogliere il cuore. Seppelliti timpani, arpe e
violoncelli, Young veste poi i panni del country-singer romantico per la
ballata di "Heart Of Gold", una melodia perfetta accompagnata dalla pedal
steel di Ben Keith, dall'armonica e dalla chitarra acustica. Chiusa la prima
facciata con il divertissement di "Are You Ready For The Country?", tocca a
"Old Man" riprendere le fila del discorso, con un banjo, strumento principe
del country, a dettar legge. E se gli arrangiamenti per orchestra di Jack
Nietzsche appesantiscono "There's A World", "Alabama" mette a nudo il cuore
sanguinante del disco: un'altra invettiva antirazzista che, dopo "Southern
Man", torna ad accusare i "sudisti": "Alabama, you've got a weight on the
shoulder that's breaking your back/ your cadillac has got a wheel in the
ditch and a wheel on the track". I Lynyrd Skynyrd controbatteranno con
ardore patriottardo nell'altrettanto celebre "Sweet Home Alabama". Chiude il
disco un'altra folgorazione elettrica: "Words (beetween the lines of age)",
con sventagliate di chitarre, trascinanti cambi di tempo e il falsetto
vibrante di Young in primo piano.
Raggiunto l'apice del successo (Harvest conquisterà il n.1 sia negli Usa sia
in Gran Bretagna), il cantautore di Toronto entra in una fase oscura, in cui
la sua alienazione e il suo "mal di vivere" si acuiscono pesantemente, anche
a causa delle morti per overdose di Whitten e dell'amicoroadie Bruce
Berry.Journey Through The Past (1972) e Time Fades Away (1973) riflettono
inevitabilmente questa crisi, tra storie di droga e fantasmi di persone
scomparse. Quest'ultimo album, registrato dal vivo con contributi dei soliti
Nitzche, Crosby e Nash, riflette nelle sue nove composizioni inedite il
crescente malessere del canadese, che qui comincia quel processo di "messa a
nudo" della propria anima che troverà ampia realizzazione nei lavori
successivi fino a Zuma. Disco ingiustamente trascurato (a causa
probabilmente della sua difficile reperibilità), Time Fades Away offre
momenti notevoli come l'autobiografica "Don't Be Denied" e la classica
conclusiva cavalcata alla Young "Last Dance", passando per brevi episodi di
forte introspezione come "The Bridge" e "Love In Mind" che riportano alla
gloriosa produzione immediatamente precedente.
Il viaggio nell'oscurità prosegue con On The Beach (1974), disco che sarà
rimasterizzato in cd solo trent'anni dopo, ulteriore testimonianza di come
il dolore riesca a fornire a Young una livida vena creativa. Tutto è
desolato, a cominciare dalla copertina, con un mare opaco, un ombrellone
deserto, una Cadillac affondata nella sabbia e un Neil Young di spalle,
quasi a impersonificare la solitudine. Gli iniziali bagliori rock di "Walk
On", con i guizzi di Ben Keith alla slide guitar, si offuscano presto nel
brusio di "See The Sky About To Rain", una ballata commovente, solcata dal
piano Wurlitzer e dagli arpeggi malinconici della steel guitar, e con il
mesto drumming di Levon Helm ad assecondare il bisbiglio di Young. Più
movimentata "Revolution Blues", che vibra della chitarra dell'ospite David
Crosby e del basso funky di Rick Danko, prima che Young prenda l'iniziativa
con un assolo allucinato e con un lamento sorretto solo dalla forza dei
nervi, preludio al caos finale. Seguono due blues: "For The Turnstiles",
cartolina da un'America rurale anni 30 con Ben Keith al dobro e Young al
banjo, e la struggente "Vampire Blues", con il canto rasposo di Young, i
palpiti agonizzanti del basso di Tim Drummond e un organo "mistico" che
scioglie per un attimo la tensione. Dopo il requiem psichedelico della title
track (con Graham Nash al Wurlitzer) e la ballata notturna di "Motion
Pictures (For Carrie)", ecco gli otto minuti di "Ambulance Blues" a
riassumere i contenuti dell'intera opera: un atto d'accusa contro il
disfacimento morale americano, scandito dal battito a mani nude di Molina, e
cullato tra i sospiri del violino di Rusty Kershaw e i sibili dell'armonica
di Young.
Nel frattempo, è già pronto il materiale del successivo Tonight's The Night
, che il "Cavallo Pazzo" canadese propone in agonizzanti esecuzioni dal
vivo, al limite del collasso nervoso. Durante uno di questi concerti, offre
da bere a 8.000 persone. Alla fine del tour, sono in molti a darlo per
spacciato, compresa la stessa Reprise, che aspetta due anni prima di far
uscire il disco.Se On The Beach era un saggio sul dolore individuale,
Tonight's The Night (1975) è il lamento funebre di un'intera generazione:
l'epitaffio dell'evo hippie, con i suoi sogni sprofondati negli abissi della
droga e della violenza. Una "lunga notte dell'anima" resa anche graficamente
dalla copertina, nera come la pece. Una meditazione su rock'n'roll, droga e
morte, sintesi del punto di non ritorno della follia autodistruttiva in
musica.Tutto questo è Tonight's The Night.Ed ecco, allora, il lamento ebbro
della title track aprire il funerale, con i versi "Bruce Barry was a working
man/ he used to load that Encoline van", dedicati all'amico morto per
overdose di eroina. Si racconta che il canadese costringesse i musicisti a
suonare di notte, con poche ore di sonno all'attivo, e il blues dolente di
"Speakin'Out" lascia trasparire quel senso di stanchezza e nervosismo. Nella
struggente "Mellow My Mind", invece, il canadese, accompagnato
dall'armonica, sembra versare lacrime più che cantare. Anche i rock'n'roll
più trascinanti sono venati di dolore, come il boogie allucinato di "World
On A String", dove Young fa sfoggio del suo chitarrismo nervoso,
accompagnato da una batteria dal pestare metronomico. Ma il funerale vero e
proprio riprende con "Borrowed Tune", piano, armonica e voce sottile ancora
soffrente e nostalgica. La chitarra elettrica torna a sferragliare nel blues
di "Come On Baby Let's Go Downtown", registrato dal vivo durante un concerto
a Fillmore East con ancora Whitten al canto.Il country di "Roll Another
Number" si riallaccia invece alle ballate rurali di "Harvest", grazie alla
steel-guitar di Ben Keith e ai background vocals di Molina e Whitten.
"Albuquerque" è uno slo-core ante-litteram dall'incedere marziale, con le
chitarre dialoganti (acida quella di Young, desertica quella di Keith), che
trasudano psichedelia. Chiude l'opera lo strascinato "talking blues" funereo
di "Tired Eyes", in cui Young cerca di dar pace a quegli occhi stanchi che
hanno visto il rock devastare le vite di persone care; piano e chitarra
fungono da accompagnamento al canto, visceralmente doloroso, di Young,
mentre l'armonica dipinge una melodia tristissima. Tonight's The Night è
forse il primo concept-album sul dolore della storia del rock. Young riesce
a cogliere gli eccessi di un'idealità, spostando il tutto nel contesto del
suo vissuto personale ed entrando in dissonanza cognitiva con ciò in cui
aveva creduto (operazione analoga fu compiuta dal David Crosby di "If I
Could Only Remember My Name").
Dopo aver subito un'operazione alla gola, Young cambia rotta con Zuma
(1975). Interamente dedicato alle culture indigene americane, l'album è più
"solare" e sfodera un'altra invettiva politica: la leggendaria "Cortez The
Killer" che denuncia le violenze dei conquistadores spagnoli in uno
sfibrante tour de force di chitarre. "Looking For A Heart", "Danger Bird",
"Pardon My Heart" segnano il ritorno alle ballate elettriche degli esordi,
mentre "Through My Sails" documenta una fugace riapparizione del quartetto
CSNY.
Nel 1977 Young, su consiglio dell'amica Linda Ronstadt, ingaggia nel suo
entourage la giovane cantante Nicolette Larson, con la quale ha anche una
fugace relazione. Sono mesi turbolenti, a cause delle troppe sbornie.
American Stars'n'Bars propone una facciata da saloon country, con testi
banali e ubriachi, e un emozionante lato B, con brani come "Star Of
Bethlehem", "Homegrown", "Will To Love" e, soprattutto "Like A Hurricane":
uno dei più magici e trascinanti inni younghiani, con il suo testo immediato
e commovente ("I am just a dreamer, but you are just a dream.../ You are
like a hurricane/ There's calm in your eye/ And I'm gettin' blown away/ To
somewhere safer where the feeling stays/ I want to love you but I'm getting
blown away").
In autunno, Young suona dal vivo una toccante "Alabama", che si fonde con
"Sweet Home Alabama", in memoria della tragedia che pochi mesi prima ha
colpito i Lynyrd Skynyrd (tre membri della band sono morti in un incidente
aereo).
Il 1978 regala un nuovo album, Comes A Time (titolo scelto in extremis al
posto di "Gone With The Wind").Il disco ritrova la dimensione acustica di
Harvest con un pugno di country/mid tempo song, come "Four Strong Winds" e
"Already One", e con una dolce ballata come "Lotta Love".
Terminata la relazione con la Larson, Young sposa la sua vecchia amica e
vicina di ranch Pegi (2 agosto 1978). Poco dopo, parte con il "Rust Never
Sleeps Tour" che segnerà la sua grande resurrezione sulla scena mondiale.
Dalla tournée nascerà un memorabile live come Rust Never Sleeps: la "ruggine
che non dorme mai" è l'energia di Neil Young, curvo sulla sua chitarra, a
gridare al mondo la sua rabbia e la sua solitudine. Suddiviso come ogni suo
live in parte acustica solitaria e cavalcata elettrica con i Crazy Horse, il
disco si apre con la struggente sfida al tempo di "My my hey hey (out of the
blue)": "Rock and roll can never die", canta la sua vocina che quasi si
spezza; "the King is gone but is not forgotten.", ovvero Elvis Presley,
simbolo del rock and roll. Young è consapevole della fine di un'epoca, come
canta in "The Thrasher", ma altrettanto sicuro di difendere il vecchio rock
and roll, "like dinosaurs in the shrine".
Young è un dinosauro del rock, ma lo sguardo verso il nuovo è palese,
nell'inneggiare a Johnny Rotten (Sex Pistols) nella stessa "My My Hey Hey".
Il canadese si tuffa nel passato con i classici pezzi pro-indiani d'America,
come "Ride My Llama" e "Pocahontas", senza dimenticare la dolce "Sail Away",
con Nicolette Larson alla seconda voce. La rabbia per i teepee bruciati e
per la morte di tante pocahontas deflagra nel capolavoro dell'album,
"Powderfinger". E' la storia di un'invasione e di un ragazzo che chiede
invano aiuto ("shelter me from the powder and the finger"). I Crazy Horse
scatenati accompagnano la ruggente chitarra di Young in un'apoteosi
elettrica. "Welfare Mothers" e "Sedan Delivery" denunciano lati oscuri della
società (la prima inneggia al divorzio, la seconda racconta il degrado
metropolitano), mentre la conclusione è affidata alla versione elettrica di
"Hey Hey My My (into the black)", con gli amplificatori Fender ormai esausti
e con Young che picchia sulla chitarra incitando a vivere al massimo, "cause
rust never sleeps". Ma proprio quando ricomincia a respirare, Young viene
colpito al cuore da una nuova tragedia. Al suo secondo figlio Ben (il primo
avuto da Pegi) viene diagnosticata una grave forma di paralisi cerebrale, e
solo in quel momento Young scopre che anche il primogenito Zeke soffre di
una lieve forma della stessa malattia. Ben viene sottoposto negli anni a
moderne terapie di riabilitazione. Tecniche che influenzeranno anche la
carriera artistica di Young, tanto da indurlo a sperimentare per un certo
tempo il vocoder, lo strumento che permette di trasformare la voce in un
suono computerizzato. "Ben è il mio assistente, il mio collaudatore", dirà
affettuosamente in un'intervista a "Mojo". E lo stesso Young, insieme alla
moglie Pegi, costituirà nel 1986 la Bridge School, una scuola speciale per
bambini cerebrolesi.
Nel frattempo, escono due dischi fondamentali per chi desidera avere un
approccio sintetico alla sua opera: la tripla antologia Decade (1977) e
l'album Live Rust (1979), compendio ideale delle sue incendiarie esibizioni
dal vivo.
Ma lo Young che si affaccia sulla nuova decade ha perso gran parte delle
idee e del nerbo che lo avevano guidato nei suoi memorabili 70.
L'opaco Hawks And Doves (1980) non lascia il segno. E non bastano il fervore
heavy-metal di Re-ac-tor (1981) e la folgorazione tecnologica di Trans
(1982) a invertire la rotta. Privo delle certezze del passato e insicuro
sull'evoluzione futura del suo suono, Young sembra precipitato in un vicolo
cieco. Landing On Water (1986) segna un'ulteriore tappa nel suo
avvicinamento a sintetizzatori e drum machine.
Anche questo improbabile cowboy robotico soffre della nostalgia per un
passato ormai svanito. Ma i revival di Everybody's Rockin' (1983), Old Ways
(1985), This Note's For You (1988) e Life (1987), sospesi tra rock'n'roll,
country e blues, sono solo la nemesi di un musicista in crisi. In una
intervista del 1992 al New York Times, Young racconterà che la sua musica
"ermetica" degli 80 aveva rappresentato la sua frustrazione per non poter
comunicare con il figlio Ben.
Quando sembra ormai spacciato, Young ritrova smalto ed energia con Freedom
(1989), il primo disco dopo anni a sfoggiare un pezzo degno del repertorio
dei 70: la devastante progressione di "Rockin' In The Free World" (in
versione acustica e dal vivo), in cui torna l'orgoglio del rocker che
rivendica il suo spirito libero e solitario. La sorniona "Crime In The City"
è invece il nuovo apologo sulla desolazione metropolitana.
Una conferma dei segnali di ripresa viene da Ragged Glory (1990), che lo fa
conoscere anche alla generazione grunge, che identifica in lui il padrino
del Seattle-sound. In oltre un'ora di musica, Young sforna una decina di
pezzi al rumor bianco, densi di distorsioni e di feedback. "Love to Burn" e
"Over and Over", in paerticolare, resuscitano le emozioni degli anni
ruggenti.
A testimonianza del nuovo feeling con l'alternative rock contemporaneo,
Young invita i Sonic Youth,luminari del noise-rock, ad aprire i concerti
dello "Spook The Horse Tour". Anche da quelle esibizioni scaturiranno i
fragorosi live Weld e Arc (1991).
Ma Young ama spiazzare sempre tutti. E così l'anno dopo volta pagina, e
ripiomba nel passato con il sequel "notturno" di Harvest, Harvest Moon
(1992), una raccolta di tenere ballate acustiche che però, salvo qualche
rara eccezione ("Harvest Moon", "Such A Woman"), fanno rimpiangere quelle di
vent'anni prima.
Sleeps With Angels (1994), con un commovente ricordo di Kurt Cobain, e
Mirror Ball (1995), in compagnia dei Pearl Jam, servono essenzialmente a
celebrare il primato "morale" di Young sulle generazioni successive. "Sono
sempre rimasto aperto agli stimoli esterni e pronto a scriverci sopra una
canzone - spiega Young -. Non sono uno che rimanda, che se ha un brano in
mente va al cinema o altrove. Il rispetto del processo creativo,
dell'ispirazione, il coinvolgimento: sono questi i miei segreti". Un
istintivo, dunque. Che segue la propria immaginazione. Come nel 1995, quando
imbraccia la chitarra e compone in presa diretta, davanti ai fotogrammi
della pellicola, la colonna sonora per il western metafisico di Jim Jarmush
Dead Man. Passata quasi inosservata, è una delle sue prove migliori del
decennio, nel segno di una psichedelia ambientale e visionaria.
La nostalgia canaglia, però, torna a prendergli la mano in Silver & Gold
(2000), che raccoglie dieci ballate soul-country-rock, prevalentemente
acustiche, costruite attorno a pochi e semplici accordi. Qualcuna è inedita,
altre erano già pronte. Altre ancora ci dovevano essere e sono invece finite
nel disco dell'inaspettata riunione con Crosby, Stills e Nash dell'anno
scorso ("Looking forward"). Tutte sono dannatamente muffose e sembrano
uscite da una riunione di hippie nostalgici sulla West Coast. "Buffalo
Springfield Again" rievoca il gruppo in cui Young iniziò la carriera: "C'era
una radiolina sintonizzata su un'emittente country - ha raccontato Young - e
ho sentito la voce dello stesso dj che lavorava in quella radio trent'anni
fa, quando ero nei Buffalo. Ed era proprio lui. Ho scritto la canzone di
getto, ma senza rimpianti: non sono un nostalgico". E chissà se gli sono
tornati in mente quei giorni di febbraio del 1966, quel folle inseguimento
sulle strade della California a bordo di un carro funebre, alla ricerca di
Stephen Stills e Richie Furay, per formare la band.
Nel successivo Are You Passionate? (2002), si celebra invece il mito del
soul rock, com'era stato una quindicina d'anni fa con il pur diverso This
Note's For You. Un disco morbido, rilassato, con molti brani in falsetto, il
puntiglioso accompagnamento di Booker T. Jones alle tastiere, Donald Duck
Dunn al basso, Frank Poncho Sampedro alle chitarre e Steve Potts alla
batteria. La strascicata "My Disappointment", l'intensa "Two Old Friends" e
la toccante "Let's Roll" (brano già proposto in concerto e basato sulla
storia vera di Todd Beamer, l'uomo che guidò la rivolta sull'aereo il giorno
dell'attentato alle Torri Gemelle) offrono i momenti migliori.
Nel 2003, una nuova avventura con i Crazy Horse nel concept-album Greendale,
storia dell'omicidio irrisolto di un poliziotto in un villaggio rurale.I
dieci minuti di "Carmichael" mettono a dura prova la pazienza
dell'ascoltatore, ma brani come l'iniziale, suadente "Falling From Above" o
la ballata ecologista di "Be The Rain" recuperano, a tratti, il piglio dei
tempi d'oro. Nel frattempo, Young ha trovato un suo equilibrio: "Vivo nel
mio ranch in California e sono un padre di famiglia, ma questo non è un
freno alla mia arte. Mia moglie e i miei figli mi incoraggiano ad andare
avanti. Sono in controtendenza: oggi i matrimoni si celebrano e si bruciano
nel giro di pochi mesi; gli artisti vendono 20 milioni di dischi in un anno
e poi scompaiono. Ma sono le cose durature a far girare il mondo...".
Personaggio scontroso, laconico - è stato capace di portare a termine interi
concerti senza profferire una sola parola - Young non si presta a facili
schemi. Dedito a importanti cause sociali (Live Aid, Farm Aid), spiazzò
tutti nel 1984 elogiando Ronald Reagan, e, qualche anno dopo, dichiarando
che avrebbe votato per il miliardario Ross Perot. Si imbestialì quando
Clinton disertò un appuntamento del Farm Aid. Negli ultimi anni, ha abbinato
un ritrovato patriottismo al sistematico attacco al potere (Greendale, ad
esempio, è ferocemente anti-Bush).
Prairie Wind (2005) si può considerare il completamento della trilogia
"acustica", avviata con Harvest e proseguita con Harvest Moon. L'accoppiata
di disastri accaduti a Young avrebbe potuto stendere chiunque: in primavera
gli viene diagnosticato un aneurisma al cervello che lo costringe a
un'operazione d'urgenza; a giugno scompare l'amato padre Scott, gettando
ulteriormente Neil in uno stato di prostrazione emotiva. Tutto sembra nero e
inutile, senza senso. Poi, come sempre, arriva la Musica e salva la
situazione. Neil inizia a comporre, lentamente, prima, durante e dopo il
ricovero all'ospedale di New York.
Ne scaturisce un disco che ha bisogno della tranquillità della campagna, la
rilassatezza dei cieli delle praterie di Nashville. Si parte in sordina, con
il pigro andamento del singolo "The Painter", ricco di armonie vocali,
chitarre acustiche e svolazzi di pedal steel. Si sale pian piano, con
l'apocalittica "No Wonder" e i cori femminili che si librano verso il cielo
con il violino e la chitarra ad attorcigliarsi come serpenti. La tenera,
leggerissima "Falling Off The Face Of The Earth" è un ringraziamento ma
anche una lettera da condannato a morte, suonata con svagato piglio
pop-country. Si prosegue nel viaggio ed ecco i pezzi migliori: "Far From
Home", un up-tempo country-rock con sezione fiati. "It's A Dream" è il
culmine del pessimismo onirico del disco, un sortilegio fatto di archi,
piano, organo e pedal steel. La title track è invece l'altra faccia della
medaglia: un numero di infernale western fuorilegge, tutto polvere e fango:
sette minuti di ritornelli ripetuti dalle voci femminili, l'armonia e la
chitarra acustica decisa e circolare. Le nuvole scompaiono assieme a "Here
For You", dolcissima dedica di un padre ai suoi figli, ormai indipendenti e
lontani. C'è persino uno spazio per le dediche: "This Old Guitar" è una ode
alla vecchia sei corde di Hank Williams, suonata e raccontata da Neil con
tutto il doveroso rispetto reverenziale. La voce si arrochisce e si abbassa
di tonalità, mentre la chitarra tratteggia mini citazioni dal riff base di
"Harvest Moon". Il secondo omaggio, "He Was The King", è ovviamente per
Elvis Presley, figura mitologica e metafora di innocenza rock perduta. "When
God Made Me" chiude le pagine del disco con un'inaspettata virata verso il
soul-gospel.
Living With War (2006), giunge al termine di un'altra tappa del calvario di
Young (colpito da un aneurisma cerebrale nel 2005) ed è totalmente proteso
verso l’attualità della politica internazionale statunitense, orientata alla
tenacia bellicista dell’amministrazione Bush-Rice. Young esclude i Crazy
Horse e adotta trombettista, sezione ritmica e addirittura un coro di un
centinaio di voci. Dall’attacca deciso di "After The Garden", un riff caldo
e sporco, un folk-southern-fuzz che ingloba la batteria in seconda battuta e
il refrain del coro trattato con levità alla fine della strofa, al toccante
spiritual conclusivo di “America The Beautiful”, ciò che conta è soprattutto
una gerarchia strumentale. In primis viene la chitarra di Young, il
propulsore energetico di queste personali concertazioni di protesta. E’
questa a scodellare brani come il già citato “After The Garden”, o il
dialogo esacerbato tra Young e il coro di “The Restless Consumer”, o
“Lookin' For A Leader”, o l’anthem di “Shock And Awe”, il tutto con
poche-minime divagazioni, ma anzi limitandosi a fornire un vibrante corredo
accordale. Nella quasi dylaniana “Roger And Out”, la stessa chitarra riesce
a far placare l’impeto della batteria e a far emergere l’ennesima
reincarnazione del folksinger attivista. Il coro, in ogni caso, svolge una
parte non secondaria. “America The Beautiful” è il punto di massima
inversione gerarchica (tacciono tutti gli altri, Young compreso), in cui i
cento cantanti sembrano tratteggiare l’inno nazionale statunitense con
afflato pastorale. Prima ancora ci sono “Families”, cavalcata consapevole e
sguardo commosso di Young dai risvolti gospel, e “Flags Of Freedom”, sua
logica continuazione e ideale cerchio morale di condivisione con le altre
due grandi voci americane: Dylan e Springsteen. La tromba di Tommy Bray,
oltre a rafforzare questi momenti accorati, emerge anche e soprattutto nei
registri eroici da inno civile. E’ il caso di “Shock And Awe” e della
canzone più pubblicizzata (ma anche la meno interessante), “Let's Impeach
The President”, con unisono tra Young, coro e tromba.
Le critiche sono spesso confuse, ma l’esasperazione e la spontaneità sono
fatte salve. Neil Young è vivo e lotta con il suo popolo. A modo suo, come
sempre.
A 62 anni, tra le riedizioni di vecchi concerti (“At Fillmore East” con i
Crazy Horse e l’immaginifico “Live At Massey Hall, 1971” in solitaria),
Young pubblica Chrome Dreams II, figlio nel titolo di quel “Chrome Dreams”
che progettò dopo Zuma senza però mai pubblicarlo e le cui canzoni (una
tracklist da favola, per inciso..) finirono su album successivi.
I primi tre brani sono cose che i suoi giovani successori pagherebbero per
saper scrivere e interpretare.
Prendi “Beautiful Bluebird”, ballata per armonica e lap steel, una di quelle
canzoni per cui il sottoscritto baratterebbe buona parte del nuovo revival
folk di oggi; dipinto di grano e sole, strade solitarie e ingenui amori.
Colonna sonora ideale per il viaggio di Richard Fansworth nel lynchiano “Una
storia vera”, orgoglio e pace interiore fatta di cose semplici. Ricordi più
recenti (ma non di molto) sollevano la polvere e il banjo di “Boxcar”,
ancora America rurale, western di perdenti e lavoratori; “Ordinary People”,
allora, l’inaspettata energia di questo vecchio cavallo pazzo che ci regala
diciotto minuti di elettricità come quando furoreggiava con i Crazy Horse:
stavolta sono i BlueNote a fornire appoggio informale con sax, cornette e
fiati vari, ma c'è quella chitarra inconfondibile a ricordarti chi stai
ascoltando. Diciotto minuti di svisate e assoli con Neil a cantare come ai
vecchi tempi, populista forse, prolisso, magari, ma tant’è.
Poi, purtroppo, l’uomo di Toronto ritorna quello degli ultimi anni e ci
rifila “Shining Light” e “The Believer”, due ballate melense incrociate con
pop e soul che fanno quasi svanire il fresco ricordo del trittico iniziale.
Non è finita, però, perché il vecchio leone ha ancora qualche ruggito in
serbo: si risolleva con “Spirit Road” e “Dirty Old Man”, tutte grinta, poi,
tra l’innocuo country di “Even After” e la trascurabile ballata finale per
piano e fanciullesco coro “The Way”, si rilancia ancora in un’ultima
cavalcata. “No Hidden Path”, gemella di “Ordinary People” ma meno
multiforme, è un altro pezzo di quasi quindici minuti in cui la chitarra
elettrica si libra in voli d’improvvisazione che ci ricordano un’altra fetta
della carriera del loner canadese.
Incallito "primitivista", Neil Young è la dimostrazione che la semplicità
non è sempre semplice. Ma è soprattutto l'eroe del rock inteso come
espressione del dolore, delle paranoie e delle nevrosi dell'individuo. "I
need a crowd of people, but I can't face them day today (...)/ I went to the
radio interview, but I ended up alone at the microphone", cantava in "On The
Beach".
The Loner, dunque. Un cowboy solitario lungo i sentieri più impervi del
rock.
Contributi di Antonio Puglia ("Time Fades Away"), Antonio Ciarletta
("Tonight's The Night") e Angelo Pierantoni ("Rust Never Sleeps"), Ariel
Bertoldo ("Prairie Wind"), Michele Saran ("Living With War"), Gianni
Candellari ("Chrome Dreams II").
Il rocker dai mille volti e dagli
infiniti suoni
di Antonio Lodetti
Esistono e convivono mille Neil Young. Il rocker solitario («Quando lo
incontrerai capirai che niente può liberarlo/ cedigli la strada, è il
solitario», canta nell’antico classico The Loner), l’indiano metropolitano
dei Buffalo Springfield, la cattiva coscienza di Crosby Stills Nash & Young,
il leader dei Crazy Horse (come dice lui: «La terza garage band del mondo:
la prima sono i Rolling Stones, la seconda un gruppo là fuori in strada che
nessuno ancora conosce»), il country boy disincantato di Harvest e di mille
esaltanti pagine acustiche, il rocker di Rust never Sleeps che accosta
arditamente la figura di Elvis a quella di Johnny Rotten.
Ci sono anche molti altri Neil Young, pronti ad incontrarsi tutti domani
sera al Teatro Arcimboldi, per l’unico concerto italiano del cantautore
canadese simbolo della West Coast californiana. Arriva con uno show
attesissimo; l’ultima sua apparizione quasi 5 anni fa allo Smeraldo, in
mezzo l’aneurisma cerebrale che ha fatto temere per la sua vita. «Facevo il
maestro di cerimonie per l’ingresso di Chrissie Hynde nella Rock and Roll
Hall of Fame - ricorda Young -, ho fatto tardi e il mattino dopo ho sentito
come dei pezzi di vetro rotto negli occhi. Sono andato da un neurologo
cinese che mi ha detto: “La buona notizia è che sei qui, la brutta che hai
un’aneurisma al cervello. Vivrai sino a cent’anni ma dobbiamo toglierlo”».
In attesa dell’operazione Young scrive canzoni e poi pubblica un album
sofferto e intriso di dolore come Prairie Wind, con brani come il pezzo che
dà il titolo al disco, atto d’amore per il padre scomparso da poco, e la
preghiera When God Made Me.
Neil comunque non è abituato a piangersi addosso; la lucida vena melanconica
copre i suoi drammi personali e interiori e sostiene i suoi inni di
battaglia con quel tono disinvolto in cui mette d’accordo il rock più duro e
il country, con la voce che è (e deve essere) più rantolo che bel canto.
Molti aspettano il rocker dalla affilata chitarra elettrica che per il suo
sound in classici come Southern Man, Alabama, Like a Hurricane e molti
altri, oltre che per le collaborazioni coi Pearl Jam è stato definito «papà
del grunge»; altri aspettano l’aedo folk in camicia di flanella e stivaloni
che volteggia tra After the Goldrush, Harvest e Harvest Moon; altri ancora,
omelie come Down By the River, senza parlare delle «pazzie» rockabilly ed
elettroniche. Nel suo carniere anche capolavori disperati come Tonight’s the
Night, disco difficile in memoria di un amico («inciso con l’aiuto della
tequila, l’elemento aggiuntivo della band, e le frittelle di marijuana e
miele fritte alla piastra»), che solo nel 1987, ovvero dodici anni dopo,
Rolling Stone inserisce nell’elenco degli album più belli del ventennio.
Sembra contraddittorio ma lui esprime, senza perdere intensità e profondità,
questi mille volti apparentemente antitetici, e li esprime ancora con una
incessante attività dal vivo e discografica. Alla fine dello scorso anno è
uscito l’aggressivo cd Chrome Dreams e, prima e dopo, una serie di
energetici e ruvidi album dal vivo dei tempi d’oro riportati alla luce dai
suoi archivi, senza contare il bel documentario di Jonathan Demme Heart of
Gold (dal titolo di uno dei suoi brani celebri tratti da Harvest). Young
domani è pronto a scuoterci e a cullarci con il suo sogno americano che non
fa sconti. Partirà sua moglie Pegi, fresca debuttante con il primo disco.
Poi arriverà Neil, voce e chitarra acustica e, nell’ultima parte, la
cavalcata elettrica con i Crazy Horse. Una scaletta in viaggio tra ricordi e
buone vibrazioni.
|