John "Johnny" Winter III (Beaumont, 23
febbraio 1944) è un chitarrista e cantante statunitense, di blues e rock.
È celebre per il vituoso uso della chitarra slide e per i suoi lunghi
capelli bianchi; Winter, infatti, è affetto da albinismo L'esordio
discografico avviene nel 1968 con l'album omonimo in cui suonano autentiche
leggende (allora viventi) del blues: Willie Dixon al contrabbasso e Little
Walter all'armonica (entrambi membri della storica formazione della Muddy
Waters Band), Tommy Shannon al basso elettrico (futuro Double Trouble, la
band di Stevie Ray Vaughan). Nel disco suona anche il fratello Edgard
Winter, sassofonista, anch'egli affetto da albinismo. Dopo la pubblicazione
del successivo Second Winter del 1969, Johnny entra nella Muddy Waters Band
che nel bienno 1968-1970 aveva subito le gravi perdite di Little Walter e
Otis Spann.
Un chitarrista e cantante fenomenale che da oltre trent’anni incendia i
palchi di tutto il mondo con il suo sound unico. Dotato di una incredibile
velocità unita ad una precisione con cui spazia dal Boogie Blues, al Texas
Blues, fino a fare emergere la sua anima più rockettara, Winter continua a
interpretare i classici di questo genere come solo i grandissimi sanno fare.
Johnny Winter è una delle ultime leggende viventi del blues, e ne
rappresenta l’anima più ribelle e creativa.
Il debutto di Johnny Winter per la Columbia nel 1969 fu uno dei più
folgoranti della storia del blues con audaci cover dei classici del Blues
(omaggi a B.B.King, Sonny Boy Williamson, Robert Johnson e Lightin’ Hopkins)
e due canzoni originali “Dallas” e “I’m Yours and I’m Hers,” che vennero
trasmesse in continuazione nelle radio underground. Nato e cresciuto a
Beaumont (Texas) la città famosa per la “corsa all’oro”, ascolta molto la
radio locale diventando un cultore del Rock & Roll, del Blues rurale e
Cajun. Le tensioni razziali sono molto forti nella città che aveva ospitato
la più grave rivolta razziale nella storia del Texas con l’esecuzione
effettiva della legge marziale; ma Johnny è ben accetto nella comunità nera
perché ritenuto sincero e genuinamente posseduto dal Blues. Nel 1962 riesce
a salire sul palco di B.B. King e suonare la sua chitarra, ricevendo grandi
ovazioni dal pubblico. Forma un power trio con il batterista Uncle John
Turner e il bassista Tommy Shannon (in seguito solida colonna dei Double
Trouble di Stevie Ray Vaughan), che lo assecondava nelle sue sfuriate
selvagge eppure così legate alla tradizione, come ribadito dalla presenza in
studio di Willie Dixon. Autenticamente devoto al Delta Blues, nelle sue vene
scorre il Country Blues di Robert Johnson che mescola costantemente al
British Blues–Rock e il Rock dell’America del Sud a la Allman Brothers.
Durante gli anni ’70 e ’80 il chitarrista e cantante albino, scheletrico e
dedito alle droghe, si apprestava a rilanciare la carriera dei suoi idoli
Muddy Waters e John Lee Hooker. Ha il grande merito di aver introdotto il
gigante Blues Muddy Waters alle nuove generazioni di ascoltatori producendo
e suonando la chitarra in parecchi suoi album. Le collaborazioni sono state
di un tale successo che Waters si è spesso riferito a Johnny come al suo
figlio adottivo. Winter ha lavorato con la Columbia più di un decennio
pubblicando album memorabili quali “Johnny Winter And” (1970), “Still Alive
and Well” (1973) e “John Dawson Winter III” (1974). La sua recente
nomination al Grammy con il disco della Virgin/EMI “I’m A Bluesman”, ha
esteso ancora la sua già grande reputazione raccontando questa volta la sua
stessa storia.
Johhny è morto in una clinica di
Zurigo la sera del
16 luglio 2014.
Autore: Marco Redaelli
Sarà che sono un nostalgico, uno di quelli che amano un certo tipo di musica
che al giorno d’oggi sempre meno persone suonano, ma ho sempre pensato che
un musicista per essere davvero grande non deve solo fare dei bei dischi ma
deve soprattutto fare grandi concerti. Scrivere belle canzoni è essenziale
ci mancherebbe altro, ma questo non ti rende un grande musicista semmai un
grande compositore. Fare un bel disco in studio è anch’esso basilare, ma al
giorno d’oggi con i potenti mezzi che la tecnologia ci mette a disposizione
è abbastanza facile confezionare un buon prodotto da studio; in fondo se si
ha un produttore con gli attributi ci vuole davvero poco. Ma il concerto è
un’altra cosa. Dal vivo o sei bravo o non lo sei, o sai suonare o no. Per
questo da sempre amo i dischi live, soprattutto quelli un po’ datati, e amo
andare ai concerti. Nel mondo del blues tutto quello che ho appena detto si
moltiplica all’ennesima potenza perché ci sono delle regole non scritte alle
quali chiunque voglia suonare il blues, ad un certo livello, deve
sottostare. Un bluesman per poter essere considerato bravo deve misurarsi
con i classici: ci sono alcune canzoni che da sempre sono ritenute dei
banchi di prova, se sei capace di suonarle bene, allora vai avanti, se non
ne sei in grado cambia mestiere. Negli anni 70 un ragazzo che si presentava
imbracciando una chitarra a fare un provino per una casa discografica si
sentiva fare sempre la stessa richiesta: “suonami Hide Away” oppure, se era
uno slider “The Sky is Crying”. Se eri un armonicista dovevi confrontarti
con Juke di Little Walter e via dicendo. Lo stesso accadeva nei
concerti: uno
sconosciuto che saliva su un palco dopo poche canzoni doveva eseguire
qualcuno dei classici per dimostrare di essere davvero in gamba. Giusto o
sbagliato che sia questo metodo di “selezione naturale” ha permesso che solo
i più dotati andassero avanti e la prova del pubblico ha sempre fatto la
differenza. Faccio tutto questo discorso perché il disco che sto per
presentarvi racchiude in sè questa tradizione. Che Johnny Winter sia un
chitarrista e cantante fenomenale non lo scopro certo io, da 35 anni il
musicista albino incendia i palchi di tutto il mondo col suo sound davvero
unico. Anche se al giorno d’oggi non esiste nessuno che possa tenergli testa
quando c’è da imbracciare chitarra e bottleneck, nei suoi concerti il nostro
continua a riporre i grandi classici, non perché non abbia sue canzoni da
interpretare, ne ha scritte di memorabili, ma perché questo è un modo di
omaggiare se stesso, il pubblico e la tradizione. Questo “Live in NYC 1997”
è uno splendido esempio di tutto quello che ho detto in precedenza. Johnny
prende 9 classici del blues e li esegue da par suo. Si tratta di brani che
solo i grandissimi sanno interpretare come si deve e Winter è certamente un
grandissimo: All’epoca di questa registrazione il nostro veniva da un lungo
periodo di inattività, alcuni dicevano che i troppi anni di abusi ne avevano
minato le capacità. Johnny non si è scomposto più di tanto, si è rimesso in
sesto ed è tornato sul palco. Tanto per far capire agli scettici che il più
grande era ancora lui, il nostro decide di attaccare con nientedimeno che
“Hide Away”. Introdotta dal suo classico “yeaaaaahhhh” , bastano i primi due
minuti e tutti i dubbi svaniscono: interpretazione da fantascienza, di
musicisti che sanno fare questa canzone in questo modo ce ne sono stati
davvero pochi. Una velocità pazzesca unita alla precisione di un chirurgo.La
serata è di quelle di grazia e Winter subito dopo snocciola un fantastico
medley “Sen-Sa-Shun/Got My Mojo Working”, la prima sempre di Freddie King,
mentre la seconda non ha certo bisogno di presentazioni. Le note prodotte
dalla sua firebird sono vera poesia, la voce ha perso un pochino della
potenza dei tempi d’oro ma rimane sempre di grandissimo livello. Altra
esecuzione da manuale del blues. Dopo il torrido boogie blues di “She Likes
to Boogie Real Low”,un classico di Frankie Lee Sims, Johnny ci regala una
fenomenale “Blackjack” (di Ray Charles),
oltre 8 minuti
per uno slow mozzafiato, la conferma che i più grandi sanno rendere omaggio
alle leggende. “Just a Little Bit” è invece un texas blues bello tirato che
fa emergere l’anima più rockettara del nostro. Dopo questa bella
interpretazione Johnny Winter si rivolge al pubblico e annuncia “ e ora
slide guitar”. Inutile dire che i fortunatissimi presenti non aspettavano
altro. Si parte con “The Sun Is Shining” , nella versione di Elmore James, e
a questo punto pare chiaro a tutti che il re è davvero tornato sul trono.
L’assolo centrale è un vero inno alla slide elettrica, una prova da
leggenda. Abbiamo raggiunto l’apice? Macchè, il grande bluesman albino ha
ormai innestato la quarta e si misura con la monumentale “The Sky Is
Crying”. Di questa incredibile canzone ne avrò sentite centinaia di versioni
ma che eguaglino quella che Johnny Winter ci regala in questo album a mio
parere ci sono solo quelle del suo autore Elmore James. Certo SRV e Albert
King ne hanno fatte di meravigliose, ma non erano degli slider. Nessuno al
mondo sa suonare la slide come Johnny, nessuno ha la sua precisione, la sua
velocità e il suo tocco, in questi 7 minuti abbondanti c’è la summa di un
musicista strepitoso, se qualcuno pensava di sottrargli il trono prego si
riaccomodi al suo posto, queste cose sa farle solo lui; sentite l’ovazione
che il pubblico gli regala alla fine del pezzo.
Dopo tanta maestosa grandezza il nostro si esibisce nel suo inno: la celebre
ed irresistibile “Johnny Guitar”, un R&R davvero travolgente. “Drop the
Bomb”, una strumentale tutta suonata sulle note basse, chiude il disco con
gli ultimi funambolici numeri di Johnny e della sua 6 corde.
Live in NYC ’97 è la giusta celebrazione di uno dei più grandi chitarristi
di tutti i tempi, un’ora di blues di eccezionale livello in cui spiccano
almeno due interpretazioni davvero da leggenda.
Il blues non era di moda nel 1977 di queste registrazioni e Muddy Waters, il
leggendario re dello stile moderno, a 62 anni veniva giudicato
un’impolverata mummia (per inciso, Jagger e Richards oggi hanno due anni di
più). Qualcuno però non ci stava e continuava a professare la sua fede:
Johnny Winter, per esempio, che aveva appena fondato l’etichetta Blue Sky e
steso un tappeto rosso sotto i piedi del vecchio bluesman per farlo uscire
degnamente di scena.
Waters aveva appena inciso un album per Winter, Hard Again, e ne avrebbe
pubblicati altri tre prima della morte, nel 1983. Fate conto che questo sia
il quinto: un emozionante inedito live di quel periodo, il meglio di tre
concerti di uno specialissimo tour che vedeva in scena nella stessa band il
maestro (Waters), l’allievo (Winter), un invitato di lusso (l’armonicista
James Cotton) e quattro comprimari de luxe (il chitarrista Bob Margolin e la
sezione ritmica composta da Pinetop Perkins, Willie Big Eyes Smith e Charles
Calmese).
Il disco apre con l’unico pezzo di Winter, Black Cat Bone, in medley con la
Dust My Broom di Robert Johnson griffata da Elmore James. Poi, subito, il
picco: Can’t Be Satisfied, il diecino originale dello zio Waters, in una
versione più vibrante, calda, muscolosa della prima fatidica volta, 1948.
Muddy ama tornare ai suoi classici (Trouble No More, Got My Mojo Workin’) ma
si diverte anche e soprattutto a riprendere altri autori, in una
estemporanea lezione di storia del blues moderno ai confini con il rock:
così Lowell Fulsom e JB Lenoir, così la gloriosa Rocket 88 di Jackie
Brenston. Altro che polvere dalle piramidi: un blues incisivo e divertente
invece, con l’esuberante Johnny W che per una volta sceglie di non esagerare
e piuttosto di fare squadra con quei grandi al suo fianco.
Riccardo Bertoncelli
Nel 1969 l'idea che potesse esistere un blues bianco era ancora tutta
inglese. Negli Stati Uniti si accolse con freddo interesse la rivoluzione
del brit-blues dei pionieri Alexis Korner e John Mayall con tutta la loro
fucina di talenti, e la segregazione razziale in campo musicale restava
ancora evidente fin dal persistere di classifiche di vendita separate per
musica bianca e musica nera. Giusto per rispettare i corsi e ricorsi
storici, la rivoluzione partì ancora una volta dal sud, da una parte a New
Orleans con la nascita di una nuova generazione di chitarristi (Tony Joe
White in testa) impegnati ad aprire una via bianca della musica delle
paludi, dall'altra in Texas. E' qui che nasce Johnny Winter ed è da qui che
nel 1969 con questo disco di esordio, innescò un meccanismo oggi
oliatissimo. Bastò ascoltare i quattro minuti e passa di quella I'm Yours
And I'm Hers che apre il disco per capire che le cose stavano cambiando:
c'era un vocalist rauco e grintoso che dialogava con una slide guitar che
riusciva per la prima volta a mettere d'accordo Elmore James con Jimi
Hendrix, c'era un mid-tempo tendente all'hard rock che sapeva molto di
brit-blues (con Jeff Beck e i Led Zeppelin nel motore) e ben poco di blues
nero, ma con una linea melodica che succhiava sangue a decenni di musica
rurale nera del sud. L'influenza degli Experience di Hendrix era evidente
anche nella scelta della formazione , un trio con Winter assoluto
protagonista e una sezione ritmica martellante impersonata da Tommy Shannon
al basso e "Uncle" John Turner alla batteria, uno schema che rimarrà una
regola fino ai giorni nostri e che troverà in Stevie Ray Vaughan l'adepto
più illustre. Ma questo album tutto rappresenta una specie di catalogo di
tutte le possibilità stilistiche del nuovo blues del Sud: il secondo brano
era una cover presa dal repertorio di BB King, una Be Careful With A Fool
rozza, strascicata e distorta che rappresenta una delle migliori performance
chitarristiche del nostro. Dallas invece era un brano dello stesso Winter
che definiva l'a-b-c dello slide-blues in contemporanea con quanto Duane
Allman stava facendo altrove…e il southern rock cominciava ad essere dietro
l'angolo anche in questi solchi. Ma è con il classico Mean Mistreater che si
celebrava il definitivo matrimonio tra bianchi e neri, in un bluesaccio
lento impreziosito dalla presenza di due icone del blues classico come
Willie Dixon al basso e Walter "Shakey" Horton all'armonica. Con
Leland Mississippi Blues
(altro brano autografo) Johnny si spostava nel delta e s'inventava un riff
che servirà di ispirazione a molte band americane che passeranno dal blues
prima di approdare al rock roccioso delle radio FM degli anni 70. Ma le
sorprese non finivano: una canzone strafatta e rifatta come Good Morning
Little School Girl di Sonny Boy Williamson trovava qui la sua versione
definitiva: una batteria pulsante che sapeva di soul e ben poco di blues
introduceva uno splendido dialogo tra fiati (con il fratello Edgar in
session) e chitarra, più o meno come se avessero messo Peter Green a suonare
nella band di Wilson Pickett. Il delta-blues acustico (con un dobro in
evidenza) di When You Got A Good Friend pagava il doveroso pegno al genio di
Robert Johnson, ma c'era ancora da esaltarsi con l'incredibile numero di
I'll Drown My Tears, vale a dire Ray Charles coperto dalla polvere del
Texas, una splendida ballata rhythm & blues con una prova vocale
insolitamente emozionata. Un momento altissimo che prelude alla più
convenzionale chiusura di Back Door Friend, un blues che vede Johnny
impegnato a duettare con sé stesso con chitarra e armonica. Splendido come
al solito il packaging di questa riedizione della Repertoire, una serie
capace di dare la giusta cornice ai classici, poche invece le sorprese in
fatto di bonus track (le versioni mono di I'm Your And I'm Hers e I'll Drown
My Tears uscite su singolo), ma d'altronde le mille sessions fatte da Winter
tra il 1968 e il 1969 sono già state ampiamente documentate dall'album The
Progressive Blues Experiment che uscì nello stesso anno sull'onda del
successo di critica e pubblico di questo disco. Ma quest'opera prima rimane
lo stampo su cui si è modellato tutto il blues texano degli ultimi 40 anni,
e anche se i suoi dischi successivi, con le aperture al funky e al rock di
marca Rolling Stones, rimangono i più accessibili al grande pubblico,
probabilmente rimane questo il suo titolo più importante. A giusta chiusura
la presentazione scritta dal manager Steve Paul nelle note di copertina
originali: "La musica di Winter è basilarmente blues. Coloratela di nero. Ma
nero, nero, nero. Johnny Winter invece è bianco. Ma bianco bianco bianco."
Il risultato del mix fu tutt'altro che grigio.
www.johnnywinter.net
INFO: Break Live Music - Management•Via del Commercio 70•Ascoli
Piceno•InfoBands: 0736/349971•348/3890192•
Nato John Dawson Winter III il 23
febbraio 1944 a Beaumont, Texas, questo bluesman si è imposto nel corso
degli anni '60 come uno dei più importanti musicisti blues bianchi della
storia.
Iniziò a suonare da bambino insieme al fratello Edgar, con il quale fondò il
suo primo gruppo.
Nel 1968, accompagnato dal bassista Tommy Shannon e dal batterista Uncle
John Turner, venne recensito dalla rivista Rolling Stone; l'improvvisa
attenzione da parte dei media gli valse un contratto con la Columbia, per la
quale incise "Johnny Winter", ben accolto dal pubblico.
Successivamente fondò il gruppo "Johnny Winter And", nome con il quale
pubblicò due album, uno in studio ed uno dal vivo.
Dopo un periodo di dipendenza dalle droghe, nel 1973 tornò sulle scene con
quello che si sarebbe rivelato il suo successo più grande, l'album "Still
Alive and Well".
Grande appassionato di blues, oltre che grande esecutore, produsse nel 1977
l'album "Hard Again" di Muddy Waters e tre anni dopo "King Bee", ultimo
album di Muddy.
Prolifico dal punto di vista di album e sempre in tournee, nel 1988 venne
introdotto nella Blues Foundation Hall of Fame.
Nel corso della sua vita è stato più volte tormentato da varie malattie che
l'hanno di recente costretto ad esibirsi stando seduto.
(Matteo Di Cristofaro)
Johnny Winter: Live @ Rocce
Rosse Blues Festival, Arbatax 01.08.2008
Recensione di: RocKnR0ll , (Saturday, August 02, 2008) | Voto: * * * ° °
Come un fulmine a ciel sereno, due domeniche fa un mio amico mi dice che
Johnny Winter si sarebbe esibito qui in Sardegna al Rocce Rosse Blues
Festival. Arbatax si trova molto lontano da dove abito io e il viaggio
sarebbe stato lungo e faticoso.Ma poi mi sono chiesto, ma quando mi capita
di vedere una leggenda vivente come lui, uno che ha duettato con Duane
Allman, ha suonato a Woodstock ed ha prodotto uno degli ultimi capolavori
del maestro Muddy Waters, cioè Hard Again? Partenza la mattina per Nuoro e
poi verso sera si arriva al luogo del concerto. Davanti ai cancelli la gente
sembra pochina davvero ma non mi lascio scoraggiare, purtroppo la fama del
chitarrista albino in Italia e soprattutto nella mia isola non sono state
mai stratosferiche. Il concerto dovrebbe iniziare alle 22 ma il Nostro si fa
un po' aspettare ma la cosa non mi stupisce visto le condizioni di salute
non proprio ottimali, visto che l'artrite l'ha colpito qualche anno fa.
Ma ecco che a un tratto entra un terzetto chitarra-basso-batteria che
comincia a macinare rock blues strumentale, ma la sedia al centro del palco
è ancora vuota. Il batterista si avvicina al proprio microfono e ci dice
"ladies and gentlemen, please welcome the king of Texas blues, mister Johnny
Winter", e il sessantaquattrenne siede sulla sedia e imbraccia la sua bianca
e famosissima chitarra senza paletta e ci suona una Hideway si Freddie King
giusto per scaldarsi le mani.
Il cantante e chitarrista ci delizia con più che buone performance di grandi
classici (in ordine sparso) come una lunga e dilatata Black Jack di Ray
Charles, Red House di Jimi Hendrix, Johnny Guitar, It's all over now , la
grande Miss Ann di Little Richard e molte altre. Ma forse la più grande
emozione è stata vederlo suonare nei due bis (Mojo blues e una grande
Highway 61 di Bob Dylan) con la sua mitica Firebird suonata nello stile
slide di cui è forse uno dei migliori della storia della chitarra blues
insieme a gente come Duane Allman e pochi altri.
All'occhio salta fuori ovviamente la straordinaria magrezza e la immobilità
dovuta alla malattia , ma all'orecchio tutto è diverso. Johnny ha un tocco
che solo pochi chitarristi bianchi blues ancora in vita hanno, la velocità
non è la stessa di un tempo ma alcuni trucchetti spettacolari ancora li sa
togliere dal cappello (che letteralmente porta, ma che non copre i capelli
ancora lunghi dietro la schiena). La sua voce, a sorpresa è sempre intonata
e non cerca ovviamente di strafare.Un grande plauso va al bassista e al
batterista che sapevano adattare la canzone alla scorribande soliste alcune
volte magari troppo prolungate rispetto al previsto dal leader, facendo
sembrare tutto liscio come l'olio. Johnny fa ottimamente il suo compito
senza strabiliare ma l'emozione di chi come me lo idolatra va al di là del
parere oggettivo della performance, e poi il sentir introdurre con estrema
efficacia e con poche parole le canzoni, e sentire i suoi "thank you" e
soprattutto il suo contare "one, two, three , four" per dare il tempo alle
canzoni hanno dato quel tocco di umano al tutto. Per un fan come me un
concerto indimenticabile e scusate se non sono stato molto critico musicale
ma più ragazzino entusiasta davanti a un eroe personale come Winter. Per i
non fan e gli amanti del genere che però non lo conoscono una prova molto
buona. Grazie Giovannino Inverno.
(Fonte: www.debaser.it)
Johnny Winter a Savona? Io c'ero!
Athos è andato a vedere il concerto del vecchio chitarrista, che suonò a
Woostock. SUl palco anche John Lee Hooker Jr. Indimenticabile
di Athos Enrile
SAVONA, 16 LUGLIO 2008
Mai come in questa occasione dire Io c’ero è azzeccato. È qualcosa di più
che l’amore per il blues a farmi avvicinare a questo concerto. Ricordo
perfettamente quando, da adolescente, la copertina di Ciao 2001 proponeva la
foto dei fratelli Winter, Johnny ed Edgar, i due musicisti albini che
attraverso i lunghi capelli bianchi colpivano la fantasia di noi
ragazzi,affascinati dai personaggi, non solo dalla musica. E poi, trovarsi
davanti un musicista che ha suonato a Woodstook non è roba per tutti.
Ma io c'ero!
Ancora una premessa. Mi ritrovo alla fortezza del Priamar martedì 15 luglio,
ad una settimana di distanza dal concerto di Sheryl Crow e devo evidenziare
un'enorme differenza di comportamento della security. Non so se dipenda
dall'organizzazione differente, o sia volontà dell’artista, ma qui sembra
sia permesso tutto ciò che era noiosamente vietato qualche giorno prima. È
possibile fotografare, è possibile filmare e, ad un certo punto della
serata, è possibile persino superare la barriera che divide il palco dalle
prime sedie. Tutto ciò provoca un travaso umano che aumenta sino a riempire
a tappo lo spazio da keep out.
La gente ha voglia di ballare, di muoversi, di avere un contatto diretto con
Johnny. Alcuni si fanno fotografare dal basso, riempiendo l’inquadratura col
chitarrista in piena performance. Un ragazzo più agitato, riesce persino a
guadagnare il palco e ad abbracciare il chitarrista, che continua,
noncurante della dimostrazione di affetto, ed in questo caso gli addetti
alla sicurezza intervengono, ma senza eccessiva rigidità. Non c’è il pienone
al Priamar, ed è un vero peccato che certe occasioni vengano buttate al
vento. Ad aprire la serata un figlio d’arte, John Lee Hooker Jr.
Meriterebbe spazio adeguato perché non è un comprimario del blues e, sul
palco lui dimostra il suo valore. Uomo di spettacolo, capace di coinvolgere
un pubblico ancora freddo, dirige una band molto giovane (il chitarrista
sembra un bimbo) che spazia dal blues al funky, passando per il R & B.
Dimostra in diverse occasioni di sapere di essere a Savona (non è scontato
per chi viaggia e suona in continuazione) e di amare l’Italia. Qualcuno dal
pubblico (il solito esagitato che avrà poi il coraggio di salire on stage)
gli grida: Boom Boom Boom, vecchio cavallo di battaglia del padre, e lui
risponde: Certo, 10 volte, 11 volte… lasciando intendere ironicamente che
non è previsto. Ma alla fine Boom... arriverà, col pubblico pronto a battere
le mani ritmicamente, accontentando il volere di Hooker. Molto bravi e gente
soddisfatta. John si dirige verso il banco del merchandise, per firmare
personalmente i suoi CD, mentre sul palco viene sistemata la sedia per
Winter.
Passano pochi minuti ed ecco la nuova band.
I quattro musicisti attaccano con grande vigore, con un bravo chitarrista
che suonerà solo in 2 occasioni, inizio e fine concerto. Al termine del
primo brano viene annunciato, con estrema enfasi, l’arrivo di Johnny Winter.
È una grande emozione per me.
Arriva traballante, camminando con grande fatica. È pelle ed ossa e sotto al
suo cappello nero l'antica chioma non sembra aver perso il suo fascino. Pare
sia quasi cieco e pieno di problemi fisici, ma è sul palco. Spesso ho
immaginato di poter realizzare i miei sogni, con una bacchetta magica, ed il
dubbio è sempre stato: calciatore o musicista? Vedere un uomo avanti con
l’età, pieno di acciacchi seri, dopo una vita condotta al limite, e
soprattutto con tali fantastici risultati, mi fa pensare che questo sia un
grande mestiere, capace di dare energia a chi lo pratica e soddisfazione a
chi lo subisce.
Lo spettacolo inizia ed è un’evoluzione continua che porta da un primo
atteggiamento distaccato di Winter (ma forse non è la parola giusta), sino
ad una situazione di fluidità ed interattività tra noi presenti ed un uomo
che, nonostante calchi la scena da più lustri, trova ancora il contenuto
entusiasmo per fornire un grande spettacolo.
Le sue dita volano sulla sua particolare (bruttina ma efficace) chitarra e
la velocità sulla tastiera provoca valanghe di note che nascondono qualche
errore veniale. Anche la voce perde ogni tanto la tonalità, ma mi pare
mantenga una certa potenza e la timbrica di un tempo. I sui famosi riff si
susseguono mentre il suo blues ci pervade l’anima. Arriva anche il momento
del tributo ad Hendrix ed ancora una volta Woodstook ritorna tra di noi. Ad
un certo punto ha tutti ai suoi piedi, a pochi passi da lui.
E un’immagine molto bella, un segno che va oltre l’esibizionismo, debolezza
umana, ma l’immagina diventa un’icona, col vecchio musicista idolatrato dai
suoi sostenitori.
Certo, è un pubblico ben disposto, presente per amore del blues e di chi ne
è stato protagonista attivo,ma la scena è da album dei ricordi. Si arriva
alla fine, lui si alza a fatica e si allontana salutando. Ho pensato
all’impossibilità di un bis, viste le difficolta’ a camminare. Ma Johnny è
nuovamente tra noi e ci sciorina la tecnica di cui è forse il massimo
esponente: la slide guitar. Lo ammiro da pochi metri, provando sentimenti
differenti: ammirazione per la grande abilità, stupore per la capacità di
trasmettere emozioni, tenerezza immaginando alle difficoltà in cui si trova,
felicità di poter dire, anche io c’ero!
Indimenticabile.
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