Un angelo caduto in volo: Chet Baker
(di Andrea Degidi)
Mentre precipitava, pensava che fosse
uno dei suoi soliti incubi scatenati dallo speedball. 'Ora mi sveglio'.
Invece stava morendo, il grande Chet Baker stava morendo.
La caduta dal terzo piano del Prins Hendrik, squallido alberguccio per
drogati di Amsterdam, fu l’ultimo volo dell’angelo dalla tromba d’oro.
Ultimo volo, ultimo mistero: perché il grande jazzista bianco, con le vene
delle braccia ridotte a fili di ferro, smagrite a forza di overdose, cadde
da quella finestra larga appena 40 centimetri sfracellandosi sul
marciapiedi? Lo ammazzò uno spacciatore, si suicidò, scivolò intontito
dall’eroina: le verità erano e restano tante, però nessuna oggi è quella
assoluta. Era il 13 maggio 1988, vent’anni fa. Ma il mito del trombettista
dal viso d’angelo è ancora vivo, e rimarrà intoccabile anche fra altri
vent’anni. È la parabola di un ragazzo invecchiato troppo presto e male,
capace, nella sua vita bruciata, di essere tutto: inaffidabile, buono,
crudele, dolce, egoista, appeso a quella voce esile come un filo di
tungsteno.
Chet vent’anni dopo, anniversario che non sarà celebrato né da cd, né da dvd
né da film: Hollywood parla da anni di girarne uno, ‘The prince of cool’,
con regista Bruce Beresford e Josh Hartnett, il pilota bellone di ‘Pearl
Harbor’ nei panni di Baker, ma il progetto è sfumato. Oggi solo i jazzisti
italiani rammentano la morte di Chet, con innumerevoli concerti. Ma il suo
destino è questo: essere ricordato più per la sua folle vita randagia,
polverizzata a 58 anni, che per la sua musica. E non è giusto, perché lui è
stato prima un grande trombettista, poi un grande cantante. Già, prima e
poi, perché Baker di vite musicali ne ha avute due. Si svezzò, rampante
trombettista alla corte di Charlie Parker. Componeva poco, ma la sua tromba
fu protagonista della rivoluzione del cool jazz nel celebre ‘pianoless
quartet’ di Gerry Mulligan, con cui però litigò aspramente e definitivamente
per una questione di soldi: infatti appena Mulligan, in cella per i soliti
affari di droga, uscì di prigione, trovò Baker a chiedergli 175 dollari
d’aumento, figurarsi… E anche la sua stella cometa, Miles Davis, lo detestò
pubblicamente, tanto da scriverlo nella propria autobiografia ("Baker
suonava peggio di me quando ero fatto").
Bello come un divo del cinema, in America Chet trovò durezza, disprezzo, e
anche i primi guai per droga, che lo accompagneranno dal 1957 fino alla
morte. In Italia invece era diverso. C’era più tenerezza per lui, almeno
fino a quel giorno di fine luglio del 1960, quando l’agente di polizia Neri
Gugliermino lo vide in un cantuccio della toilette di una stazione di
servizio di San Concordio, a Lucca: il lavandino sporco di sangue, le
maniche tirate su, la siringa fra le mani e la faccia tremante per
l’astinenza. Allora in Italia l’eroina non circolava, Baker però aveva
scoperto che poteva sostituirla con il Palfium, un potente analgesico. Dal
processo, il primo clamoroso caso di droga in Italia, emerse che 25 medici
compiacenti avevano prescritto il Palfium a Baker, e lui aveva rubato e
falsificato i ricettari: 'Faccia d’angelo, cuor di demonio', sintetizzò il
pm davanti alla corte, chiedendo per lui 7 anni di galera. Lo condannarono a
16 mesi. Quando uscì la sua vita era quella di prima: jazz, donne e tanta
droga.
E una volta tornato a casa, in America, andò anche peggio. Nel 1966 uno
spacciatore non pagato si vendicò spaccandogli la faccia a San Francisco
facendogli saltare tutti i denti. Finito, il grande Chet Baker era finito.
Si ridusse a slavoricchiare in un distributore di benzina, finché un giorno
non impietosì il grande Dizzy Gillespie: "Con una dentiera - gli disse -
potrai tornare a suonare". Chet ci provò. Fu durissima, ma piano piano
rivide la luce. La sua tromba uscì dall’astuccio nel 1968, alba della sua
seconda vita musicale. L’Italia lo abbracciò di nuovo, ma siringa,
cucchiaino e laccio emostatico erano sempre a portata di mano. Lui diceva di
sì a tutti, esibendosi in bettole, puzzolenti club di quint’ordine,
incidendo centinaia di dischi, e tutto questo perché aveva sempre bisogno di
soldi per pagarsi la ‘roba’. Un giorno Elvis Costello gli chiese di suonare
un assolo di tromba in un pezzo (‘Shipbuilding’) del suo album ‘Punch the
clock’: Chet venne in sala d’incisione, non salutò, suonò la sua parte,
prese i soldi e se ne andò in silenzio. Era pesantemente invecchiato, le
rughe che a ragnatela coprivano il bel viso di una volta sembravano pagine
aperte della sua storia di autodistruzione, narrata nello spettrale
documentario ‘Let’s get lost’ di Bruce Weber. Il simbolo della sua fine
imminente divenne la voce: così angosciante, elegiaca, eterea. Eppure il suo
era un meraviglioso lirismo interiore, dipinto in pezzi simbolo come ‘Almost
blue’, ‘Everytime we say goodbye’, ‘My one and only love’ e ‘My funny
Valentine’.
Cantava il dolore come solo Billie Holiday aveva saputo fare e sempre senza
un soldo in tasca. Ma lui non ci faceva caso: 'Morirò al verde -
profetizzava - ed è giusto, perché è così che sono venuto al mondo'.
Chesney Henry "Chet" Baker Jr. (23
dicembre 1929 – 13 maggio 1988) è stato un trombettista statunitense del
genere jazz, noto per il suo stile lirico e rilassato e per i suoi
contributi al genere conosciuto come cool jazz.
Figlio di un chitarrista, nato e cresciuto a Yale nello stato americano
dell'Oklahoma, si trasferì successivamente nella California meridionale,
dove trovò successo come trombettista di rilievo a partire dal 1951, quando
fu scelto da Charlie Parker per suonare nella sua band in una serie di
concerti live nella West Coast. Nel 1952, Baker si unì al Gerry Mulligan
Quartet, divenendone in breve una delle punte di diamante, per via delle sue
capacità strumentali fuori dal comune. In particolare, fu portato alla
notorietà dall'assolo da lui eseguito nella registrazione di My Funny
Valentine eseguita dal Quartet. Dopo il declino quasi immediato del Quartet
per via dei problemi di droga di Mulligan (che fu in carcere per un certo
periodo) e per i disaccordi, economici e caratteriali fra lui e Chet, Baker
fondò una propria jazz band, in cui, oltre a suonare la tromba, faceva anche
le veci di cantante. Nel 1954, Chet Baker vinse il premio di migliore
strumentista nel sondaggio della rivista Down Beat, battendo tra gli altri
anche Miles Davis, Dizzy Gillespie e l'astro nascente Clifford Brown. A
partire dai primi anni sessanta, Baker iniziò anche a suonare il flicorno
durante le sue esibizioni.
Tuttavia, la carriera di Chet Baker fu anche caratterizzata dai suoi
problemi di droga, che ebbero un impatto notevole sul successivo declino
della stessa. In particolare, la sua dipendenza dall'eroina gli causò anche
numerosi problemi legali, inclusa una detenzione di oltre un anno in Italia
nel carcere di Lucca, e successive espulsioni da Germania Ovest e
Inghilterra.
Nel 1966, Baker fu gravemente ferito in una colluttazione mentre cercava di
acquistare droghe dopo un concerto a San Francisco. Baker, a causa di ciò,
si ritrovò anche completamente privo dei denti anteriori (che uno
spacciatore gli aveva fatto saltare con una bottiglia durante la rissa),
menomazione molto grave per un trombettista. Trovandosi anche in gravi
difficoltà economiche, Baker sparì per diverso tempo dalla scena, finché un
appassionato non lo riconobbe nel commesso di una pompa di benzina e lo
aiutò a rimettersi in sesto, facendogli anche trovare i soldi per sistemarsi
la bocca. Baker dovette imparare a suonare la tromba con la dentiera, cosa
considerata estremamente difficile. Parzialmente disintossicato, Chet Baker
si trasferì a New York, dove ricominciò a registrare con altri rinomati
musicisti jazz, come Jim Hall, per poi infine ritornare a vivere in Europa.
Famosa la sua collaborazione con l'artista inglese Elvis Costello, e celebre
il suo commovente assolo di tromba nella canzone Shipbuilding. Baker poi
trascorse i suoi ultimi anni di carriera in Brasile, suonando musica Bossa
Nova. In questi suoi ultimi anni di vita scopre un talento, una rarità del
jazz moderno, il flautista italiano Nicola Stilo.
Il 13 maggio 1988, Chet Baker morì, cadendo da una finestra del Prins
Hendrik Hotel di Amsterdam, probabilmente sotto l'effetto di droghe. La
targa eretta per ricordarlo all'esterno dell'albergo recita:
« Il trombettista e cantante Chet Baker morì in questo luogo il 13 Maggio
1988. Egli vivrà nella sua musica per tutti quelli che vorranno ascoltarla e
capirla »
(Didascalia sulla lapide commemorativa di Chet Baker)
Chet Baker fu sepolto nel cimitero di Inglewood, in California. Il 2 luglio
2005 è stato dichiarato "Chet Baker Day" dallo stato natio di Baker,
l'Oklahoma.
Chet Baker ha lasciato numerosissime registrazioni, molte delle quali
eseguite essenzialmente per il suo continuo bisogno di soldi per le droghe.
Di conseguenza, la sua discografia è considerata abbastanza poco omogenea,
sebbene sia intuibile, secondo alcuni critici, una maggiore maturità
artistica di Baker nelle sue ultime registrazioni.
(wikipedia)
Quando compie tredici anni suo padre torna a casa con un trombone.
Purtroppo, nonostante tutti gli sforzi, non c’è verso di riuscire a
suonarlo. Il trombone è uno strumento troppo grande per il piccolo Chet e
viene presto rimpiazzato da una "meno ambiziosa" tromba. Si è da poco
trasferito con la famiglia a Glendale, California, dopo un’infanzia
trascorsa in Oklahoma, diviso tra il coro parrocchiale e la partecipazione
ai concorsi cittadini per giovani talenti, che non riesce mai a vincere.
A Glendale suona per la banda della scuola, ma al termine delle lezioni si
precipita alla locale pista da bowling. Non è ancora venuto il momento delle
macchine automatiche, e i birilli, dopo ogni tiro, devono essere recuperati
e allineati di nuovo. Chet è velocissimo in questa operazione e a fine
serata si ritrova in tasca un bel gruzzolo di mance.
Nel ’46 si arruola e viene spedito a Berlino con la 298ª Armata, dove spende
gran parte del tempo a esercitarsi con la banda del reggimento. La vita da
soldato, con alterne vicende, si protrae fino agli inizi degli anni
Cinquanta, quando, dopo una serie di test psichiatrici, viene dichiarato
inadatto alla vita militare e ottiene un congedo onorevole.
Henry Baker jr, tornato civile, suona dovunque gli si presenti l’occasione.
Nel ’52 ha appena terminato la sua prima registrazione, a Los Angeles,
quando riceve un telegramma da Dick Bock, capo della World Pacific Records,
che annuncia per quel pomeriggio un’audizione di Charlie Parker al Tiffany
Club. Ci sono i migliori trombettisti in circolazione. Quando viene il turno
di Chet, "Bird" gli chiede di suonare due brani che conosce bene.
L’audizione si conclude lì. Chet viene assunto; ha soltanto 22 anni.
Dopo il tour con Bird, si unisce al grande quartetto di Jerry Mulligan.
Purtroppo l’esperienza di questa leggendaria band è di breve durata ma Chet
e Jerry hanno il tempo di creare quello stile che verrà poi chiamato "West
Coast sound", la versione bianca del cool jazz.
Messo sotto contratto dalla World Pacific Records, Baker forma un suo
quartetto, conquistando subito l’attenzione dei critici e degli appassionati
che lo eleggono più volte musicista dell’anno nelle classifiche di
«Metronome» e «Downbeat». Viene persino scritturato per un film, e arriva a
rifiutare, senza esitazioni, un contratto di sette anni con la Columbia
Pictures: "Non mi piace stare in giro tutto il giorno per girare pochi
minuti di pellicola. Voglio recitare e basta".
Dopo lo scioglimento del gruppo, nel ’55, cominciano i guai con la droga e
con la giustizia, eppure Chet continua a vincere premi e raccogliere
successi, finché decide di trasferirsi in Europa, dove si sente più
apprezzato come musicista. Lavora a lungo in Italia e incontra la sua futura
moglie, la modella inglese Carol Jackson, con cui avrà tre figli.
Di nuovo in carcere, prima a Lucca poi a Berlino, nel ’64 torna negli Stati
Uniti dalla Germania su mandato di estradizione.
Ma le cose in patria nel frattempo sono molto cambiate, soprattutto il
panorama musicale. Sono gli anni della "British invasion", è la musica rock
a dominare la scena e al jazz non resta che scavarsi la propria nicchia e
stare a guardare. Chet si ritrova quasi in mezzo a una strada, sfruttato da
un manager senza scrupoli che lo costringe a suonare e registrare musica che
non gli piace.
Ma il peggio deve ancora venire. All’uscita da un club, nel ’66, un gruppo
di balordi lo aggredisce e cerca di derubarlo. Chet resta sull’asfalto,
massacrato e con tutti i denti rotti.
Dopo due anni di convalescenza, riprende gradualmente contatto con lo
strumento, torna a suonare a New York, grazie all’intercessione di Dizzy
Gillespie, e riesce a strappare un contratto allo Strykers Pub. Ma l’America
non sembra interessata a questo James Dean del jazz, sempre in fuga, da se
stesso e dagli altri.
Il 1975 è l’anno in cui decide di trasferirsi in Italia, il paese europeo
che ama di più e che l’ha sempre accolto da trionfatore. Da questo momento
per Chet è un costante andare e venire, tra Europa e Stati Uniti, nella
speranza di trovare contratti in patria, che non arrivano mai; ma in fondo
questo è lo stile di vita che preferisce e poi non vuole rassegnarsi
all’idea di abbandonare la prospettiva di un ritorno definitivo.
Tre del mattino, 13 maggio 1988, Amsterdam. Chet Baker viene trovato morto
sul ciglio di una strada. Il rapporto della polizia parla di "presunto"
suicidio: si sarebbe gettato nel vuoto dalla finestra del suo hotel. Aveva
cinquattotto anni.
discografia essenziale
West Coast Live, Blue Note, 1953
Grey December, Pacific Jazz ,1953
Chet Baker Quartet Featuring Russ Freeman, Blue Note, 1953
Chet Baker and Strings, Columbia, 1953
Gerry Mulligan Quartet with Chet Baker, GNP, 1953
Chet Baker Sings, Pacific Jazz, 1954
Chet Baker Sextet, Pacific Jazz, 1954
Chet Baker Big Band, Pacific Jazz, 1954
My Funny Valentine, Blue Note, 1954
The Route, Pacific Jazz, 1956
Playboys, Pacific Jazz, 1956
It Could Happen To You – Chet Baker Sings, Riverside, 1958
Somewhere over the Rainbow, Bluebird, 1962
Groovin’, Prestige, 1965
Lonely Star, Prestige, 1965
On a Misty Night, Prestige, 1965
Boppin’ with the Chet Baker Quintet, Prestige, 1965
Baker’s Holiday: Plays & Sings Billie Holiday, Limelight, 1965
The Touch of Your Lips, Steeple Chase, 1979
Discografia completa, filmografia, galleria di foto, testi. Un sito che è
anche un tributo:
www.chetbaker.net
"Chet", la tromba dannata del jazz
A vent'anni, dalle patinate copertine dei primi 78 giri incisi a Los
Angeles, la patria del cool jazz "bianco", sembrava un angelo: bellissimo,
il volto liscio e paffuto, lo sguardo dolcemente assorto, gli abiti eleganti
di un damerino. Quindici anni dopo quell'angelo, salutato dal successo di
critica e pubblico dell'America dei magici "fifties", era diventato un
mostro: gli occhi lucidi e spenti, le guance scavate, le rughe precocemente
scolpite attorno agli occhi e sulla fronte. L'eroina, la stessa che aveva
ucciso a soli 34 anni il grande sassofonista nero Charlie "Bird" Parker, ma
che affliggeva decine e decine di jazzmen in una folle corsa collettiva
all'autodistruzione, lo aveva ridotto ad una larva tenuta in vita soltanto
dal filo sottile della musica.
Come in un'impressionante metamorfosi il James Dean della tromba si era
trasformato in un novello e maledetto Rimbaud, che dopo altri anni di
dissoluzione, disperazione e sofferenza, nel 1988, avrebbe concluso
tragicamente il suo "volo", planando sul selciato da una finestra d'albergo
di Amsterdam in una notte di primavera.
Sulla biografia di Chet Baker, il più grande trombettista jazz bianco,
indelebilmente segnato dal marchio della droga nella quale affogava il suo
male di vivere, non sono certo mancate le fioriture artistiche come
purtroppo spesso accade in questi casi. Si diventa grandi solamente quando
già il cielo ci ha consacrati tali!! Letteratura e cinema (si pensi al
film-documentario Let's get lost) si sono tuffate con morboso interesse nel
sondare l'esistenza travagliata di questo straordinario talento, figlio di
un musicista fallito e di un'impiegata dell'Oklahoma nato proprio nel '29,
anno della grande depressione, divenuto famoso per il suo sound melodico e
lirico, lontano dai virtuosismi del bepop. Insomma, un musicista sui
generis, privo di cultura musicale (non sapeva leggere il pentagramma) ma
capace di chiedere allo strumento - ma anche alla voce - suoni reconditi e
struggenti nonostante la perdita di un incisivo, dente fondamentale per
l'emissione sonora dei fiati. Ora, a togliere i veli che hanno circondato
questo "mostro sacro" della musica è uscito per la casa editrice Baldini &
Castoldi una ricca biografia con foto anche inedite curata da James Gavin
e un'utilissima scheda discografica sulla sterminata produzione
dell'artista. Un viaggio accurato e completo, con interviste mai pubblicate
sulla sua vita, partendo dall'enigma sulla sua morte. Un ritratto personale
che è anche un affresco della "caduta" dell'America dall'innocenza
postbellica e della perdizione dei suoi figli più fragili.
(Alex "the sinner" Gibelli)
Chet Baker, un Mito del Jazz, al Naima Club -Forlì 1 marzo 1984
(di Michele Minisci)
Nonostante le brutte vicissitudini in cui incappò, anche nel periodo
italiano, la fama di Chet, "musicista maledetto", bello e dannato, il James
Dean della musica jazz, perdurava ancora con forza, e le sue performances
alternavano momenti di grande intensità e lirismo ad altri di mediocre
rendimento. Ma in ogni modo sempre da vedere, da sentire.
Per noi era la prova del fuoco: un mito della musica jazz, Chet Baker stava
per venire a suonare nel nostro club. L'attesa fu veramente spasmodica e
l'emozione mi attanagliava le viscere.
La sera del concerto, la band di Chet era già al Ciaika, il flautista Nicola
Stilo, il contrabbassista Riccardo Del Fra, il pianista Michel Grailler,
avevano fatto già il sound check con Romano Lombardi al service, e al
seguito il giovane figlio Renato, allora appena diciottenne, ai suoi primi
smanettamenti sulle manopole rosse e nere del mixer luci, sotto l'occhio
sempre attento e burbero di suo padre.
Li avevamo accompagnati al ristorante vicino, il Baiocco, per la cena. Chet
non aveva bisogno di provare. Ed ora non rimaneva che aspettare la gente ed
andare a prendere Chet all'Hotel Masini, nel centro di Forlì.
Alle ore 21,30, con il sudore che mi scendeva per tutta la schiena, lo
stomaco rattrappito e le budella sottosopra, l'ansia che mi impediva di
respirare regolarmente, perché non sapevo se la gente sarebbe venuta in
massa, almeno per coprire le spese, era la nostra prova del fuoco, mi misi
in macchina per andare a prendere Chet in albergo.
Stati d'animo, sensazioni ed emozioni che mi avrebbero poi accompagnato per
tutti i concerti che ho organizzato, da allora ad oggi.
Arrivato in albergo, colpo apoplettico: il portiere mi assicura che "il
signor Baker è appena uscito". All'ansia si accumula altra ansia, momento
drammatico, spasmodico. Mi precipito fuori, guardo a destra ed a sinistra,
con l'angoscia che mi si spande sempre più nel petto e mi prende la gola, ma
non vedo nessuno con una custodia nera per tromba sotto l'ascella, un
giubbottino grigio sulle spalle ricurve, jeans scoloriti, il passo incerto e
ciondolante.
La paura mi attanaglia le gambe, la paura di averlo perso, infilato in
chissà quale bar a bere un altro cicchetto, la paura di non ritrovarlo in
tempo per il concerto, con tutte le conseguenze del caso. Il mio angelo
custode, però, forse l'angelo di tutti i jazzisti, mi dice che devo andare a
destra, verso il fondo di Corso Garibaldi.
Mi incammino frettolosamente facendo capolino dentro tutti i bar del corso
e…finalmente lo vedo: è seduto nel bar di piazza Melozzo che sorseggia un
Trebbiano, seduto con l'astuccio della tromba tra le gambe, lo sguardo fisso
sul bicchiere, come se aspettasse qualcuno, o dovesse far passare il tempo.
Mi viene voglia di piangere, per un po' mi si annebbia la vista e poi, dopo
due o tre forti sospiri, mi avvicino con fare goffo ed impacciato e dico a
Chet, col mio inglese approssimativo che sono il "promoter" del Naima club e
che ci aspettano per il concerto.
Il resto è storia. Storia della musica in questa città, anche se non è stato
un concerto "storico". Chet stava certamente bene, stava attraversando un
buon momento, ma il suo momento magico era però passato.
Aveva lasciato al piano di Michel Grailler le prime battute del pezzo e poi
era subito entrato lui, in maniera soffusa, quasi con noncuranza, come
stesse continuando un discorso musicale interrotto qualche tempo prima, per
riannodare qualche filo rimasto sospeso, aggrovigliato.
Era come se niente fosse successo in questi suoi ultimi, travagliati, anni,
tra successi travolgenti, amori disperati, l'eroina, i problemi con gli
spacciatori, il carcere. Niente. Tutto dietro le spalle, in quel momento
soffiava dentro la sua tromba solo il respiro della sua anima, non gliene
fregava niente di sapere che, nonostante tutto, esercitava ancora sul
pubblico un fascino quasi morboso non solo per la sua storia musicale ma
anche per la sua "vita spericolata", esisteva solo lui e la sua tromba.
E mentre le note di un'eccellente "Petit Fleur", di Sidney Bechet, sfumavano
dolcemente tra gli applausi scroscianti del pubblico del Ciaika, ecco che
Chettie, così lo chiamava spesso sua madre, Vera, inizia a cantare, senza
alcun accompagnamento, la mitica "Blue Moom", pezzo per sola voce, che
raramente proponeva nei suoi ultimi concerti. Un momento veramente magico.
Poi aveva concesso molto spazio ai suoi compagni, anche troppo, forse per
riposare, riprendere fiato perché si vedeva che si stancava presto. Ma non
appena rientrava nel pezzo, ti sembrava di sentirlo suonare come avesse
ancora accanto Gerry Mulligan o Stan Getz, e di rivederlo sui palchi di
tutto il mondo, osannato come il miglior rappresentante di quella "lost
generation" che aveva tracciato negli anni cinquanta un nuovo corso musicale
nella storia del jazz.
Chet aveva suonato per tutto il tempo seduto su una sedia, con le gambe a
cavalcioni, con quegli stivaloni da cow boy che ogni tanto mandavano un
luccichio strano, per alcune borchie argentate incollate sui lati, e quella
sera aveva cantato più del solito, cinque brani, invece delle solite tre
canzoni d'ogni suo concerto, con una memorabile "My Funny Valentine", verso
la fine, forse per farsi perdonare della paura e della sofferenza che mi
aveva inflitto.
La sua voce sottile, delicata, sofferta, a volte infantile, mi è rimasta
dentro il cuore per molto tempo, così come mi si sono rimaste impresse nella
memoria le rughe del suo viso, profonde ed antiche, come se solcate da fiumi
impetuosi di dolore, ma che nello stesso tempo mi sembravano rifugi, anse,
porti, dove la sua anima poteva trovare pace e tranquillità. La pace del
genio, la pace del mito, al riparo delle tragedie che incombevano sulla sua
vita.
Dopo qualche anno Chet sarebbe "volato" dal quarto piano di un albergo di
Amsterdam, forse spintonato da un corriere della droga, mai pagato, mettendo
fine alla sua vita e spezzando un pezzetto della nostra.
Era il 13 maggio del 1988.
“Volto d'angelo cuor di demonio!”, così
il pm all'indomani dell'arresto di Chet Baker, in un autogrill della riviera
toscana, definì la più grande faccia da schiaffi che il jazz ha conosciuto.
A Chet Baker (1929-1988) è dedicata l'ultima fatica letteraria, saggistica
documentaria di James Gavin (Chet Baker, La lunga notte di un mito, Baldini
& Castoldi), un libro che non si lascia andare alla solita, monotona
sindrome del mito, ma che anzi rincara la dose, riempie i contorni sfumati
di quello che fu il mito degli anni sessanta, il boom economico ed un'Italia
che ammiccava grata agli Stati uniti. Chet Baker di questi anni è stata
un'icona blasè, romantica e sensuale, la sua tromba è stata in quegli anni
la panacea degli universitari innamorati, il grido composto di una
generazione in bilico fra Kerouac e Sordi, fra l'hot dog e l'amatriciana.
Voce d'efebo & eroina
Ma chi era Chet Baker? Il sonnolento belloccio che sbirciava dalla campana
del suo strumento, incendiando l'ennesima sigaretta ad occhi bassi, cantando
con voce d'efebo ed intonazione verginale o l'eroinomane cattivo e violento,
il tritacuori e arraffagrana, il bugiardo patentato o la vittima di un
sistema incapace di accettare il diverso, l'ambiguo, il fragile?
Interrogativi fino ad oggi rimasti appesi per anni alla sua faccia col tempo
mutata incredibilmente, distorta come una tela d'artista che sgocciola
colore su un termosifone: un sudario di rughe, negli ultimi anni della sua
vita non c'è che un palinsesto, una matrice lontana di quei lineamenti
gentili e raffinati: mai la droga produsse effetti così corrosivi, come per
riprendersi un'anima che si era concessa al demonio per un po' di metadone.
La droga per Chet Baker non è stata la solita macchietta jazzistica, il
tormentone che rimpinza le biografie di mille musicisti per cui prima o poi
tutti si sono fatti. E' stato di più: un leit motiv funebre, una scommessa
continua, una devastante coazione a ripetere, che non lasciava spazio a
nessuno, forse solo alla musica, non tanto perché è catarsi e liberazione,
ma perché suonare è sempre stata l'unica cosa che Baker abbia saputo fare
bene, con grazia elementare, una superbia che solo l'autodidatta, il dotato,
poteva avere.
Molti fra coloro che lo hanno conosciuto non riuscivano a capire perchè si
comportasse come un irresponsabile,
privo di qualsiasi forma di metodo. Chet suonava e basta, e poteva far
risuonare la sua voce esattamente con lo stesso timbro della sua tromba,
quasi che fosse un imprinting naturale, una dote che poteva
negromanticamente trasmettere a tutti gli oggetti; come il Dottor Dolittle o
San Francesco, Chet Baker parlava, non tanto con gli animali (spacciatori a
parte) ma con le sue note e con quelle comunicava, in uno stato di trance
che non era frutto di mistiche vette d'ispirazione ma di speedball, palfium,
mescalina e benzedrina: insomma di qualsiasi cosa ci si potesse iniettare in
una vena.
Ed è questo il suo segreto tumefatto e lacerante che spunta fuori dai
ricordi, dalle testimonianze che questo libro insegue e raggiunge: la sua
non è stata una vita drammatica nel senso stretto del termine, ma
un'esistenza sospesa ed esausta semplicemente messa lì ad avvizzire come uno
stoccafisso al sole. Le mogli, i figli, i genitori, gli amici più stretti, i
sentimenti più prossimi alla vita di ciascun essere umano semplicemente non
riguardavano l'uomo Chet, non lo interessavano, o almeno mai quanto le belle
macchioline e i piaceri notturni ed il jazz naturalmente, quello che portò a
vette sublimi con il suo timbro di cotone fresco, con le sue collaborazioni
storiche (quella con il baritonista Gerry Mulligan e del loro quartetto che
fece la rivoluzione cool: jazz che chiamarono da camera, privo del sostegno
del pianoforte) ma anche una musica sorda alle ispirazioni artistiche,
wagneriane, musica invece trattata da mercenario. Chet era il lanzichenecco
del pentagramma, il jazz lo usava negli ultimi anni per qualche spicciolo in
più, per colmare immensi debiti e per non farsi tallonare dalla mala
all'ennesimo debito promesso e mai rispettato, pochi sono i dischi italiani
degli anni ottanta che non lo annoverino come ospite speciale, e a lui
andava bene così, un paio di soffi e poi in albergo a bucarsi. E la presenza
dei pusher nella vita di Chet Baker rappresenta la sintesi junghiana per
eccellenza dell'ombra, di tutto ciò che ci insegue dall'inconscio e viene
espettorato nella vita di tutti i giorni.
A Chet costò caro non aver rispettato gli impegni con i propri creditori,
costò una svolta nella sua carriera, costò una dentiera a quarant'anni
perché i denti erano rimasti sul pavimento di un lurido albergo diurno. Il
suo suono non fu più lo stesso: ed uno dei dischi più maledetti e commoventi
è proprio l'album del ritorno She was good to me (C.T.I.), un disco
manifesto di tutto ciò che era Baker, un uomo in dentiera che non è più
capace di suonare il suo strumento che usa la voce come mantra per scaldare
le note, note che escono con difficoltà, biascicate da una bocca di
ceramica.
Il soffio letale ed algido della tromba che lascia presagire un ritorno che
sarebbe stato anche il culmine dell'aberrazione, quella che lo costringeva
negli ultimi anni romani a girare insieme ai tossici di Monte Mario senza
sapere più che vena usare: finite le scorte si passava direttamente al
collo, veloce e potente. Potente come un assolo di Charlie Parker che una
leggenda dello stesso Baker vuole l'avesse accreditato come unico
trombettista in grado di poter suonare nella sua band.
Una fine da film noir
Di bugie Baker ha sempre campato, anzi sopravvisuto, e le testimonianze di
questo libro sono allucinanti per chiarezza ed evidenza. Per Diane (a cui
Baker dedicò il bellissimo disco in duo con Bley), una delle sue ultime
compagne, era “il diavolo incarnato”, una figura mefistofelica che lasciava
sul campo morte e disperazione, chi stava intorno prima o poi sarebbe
incappato in un guaio: ed è questa la cronaca più toccante del libro, quella
delle mille anime che Chet si è lasciato lungo la strada, dei mille grovigli
di vita con cui si è pian piano strozzato.
E la fine è arrivata in modo assolutamente conforme a quello che sembra
essere un libro noir, una rincorsa e poi il volo dalla finestra di un
albergo vicino alla stazione di Amsterdam. La foto di quella notte ce lo
mostra in posizione fetale, scarpe fradicie in primo piano ed un lenzuolo
steso sopra: una sindone blasfema, con gli occhi appena socchiusi, ruffiano
fino alla fine sembra stia dormendo. Anche quest'ultimo viaggio nel libro è
trattato in maniera documentata, con un vero e proprio scoop, un colpo di
teatro finale: Chet quella sera di eroina non ne aveva un solo grammo in
corpo, pulito come un pupo, e la ringhiera era davvero troppo alta perché si
trattasse di un incidente.
Ed allora cosa successe la notte del 13 maggio 1988? successe semplicemente
quello che tutti si aspettavano: qualcuno ha voluto fargli passare la voglia
di fare il guitto, qualcuno non ne poteva più di promesse rassicuranti,
fatte con un fil di voce, con l'espressione bloccata in una specie di
smorfia angelica. Quella notte qualcuno, inconsapevolmente, ha ucciso anche
il jazz.
(Francesco Mandica)
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