MAGGIE'S FARM

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UN ANGELO CADUTO IN VOLO : CHET BAKER

 
 

 

Un angelo caduto in volo: Chet Baker
(di Andrea Degidi)
 

Mentre precipitava, pensava che fosse uno dei suoi soliti incubi scatenati dallo speedball. 'Ora mi sveglio'. Invece stava morendo, il grande Chet Baker stava morendo.

La caduta dal terzo piano del Prins Hendrik, squallido alberguccio per drogati di Amsterdam, fu l’ultimo volo dell’angelo dalla tromba d’oro. Ultimo volo, ultimo mistero: perché il grande jazzista bianco, con le vene delle braccia ridotte a fili di ferro, smagrite a forza di overdose, cadde da quella finestra larga appena 40 centimetri sfracellandosi sul marciapiedi? Lo ammazzò uno spacciatore, si suicidò, scivolò intontito dall’eroina: le verità erano e restano tante, però nessuna oggi è quella assoluta. Era il 13 maggio 1988, vent’anni fa. Ma il mito del trombettista dal viso d’angelo è ancora vivo, e rimarrà intoccabile anche fra altri vent’anni. È la parabola di un ragazzo invecchiato troppo presto e male, capace, nella sua vita bruciata, di essere tutto: inaffidabile, buono, crudele, dolce, egoista, appeso a quella voce esile come un filo di tungsteno.

Chet vent’anni dopo, anniversario che non sarà celebrato né da cd, né da dvd né da film: Hollywood parla da anni di girarne uno, ‘The prince of cool’, con regista Bruce Beresford e Josh Hartnett, il pilota bellone di ‘Pearl Harbor’ nei panni di Baker, ma il progetto è sfumato. Oggi solo i jazzisti italiani rammentano la morte di Chet, con innumerevoli concerti. Ma il suo destino è questo: essere ricordato più per la sua folle vita randagia, polverizzata a 58 anni, che per la sua musica. E non è giusto, perché lui è stato prima un grande trombettista, poi un grande cantante. Già, prima e poi, perché Baker di vite musicali ne ha avute due. Si svezzò, rampante trombettista alla corte di Charlie Parker. Componeva poco, ma la sua tromba fu protagonista della rivoluzione del cool jazz nel celebre ‘pianoless quartet’ di Gerry Mulligan, con cui però litigò aspramente e definitivamente per una questione di soldi: infatti appena Mulligan, in cella per i soliti affari di droga, uscì di prigione, trovò Baker a chiedergli 175 dollari d’aumento, figurarsi… E anche la sua stella cometa, Miles Davis, lo detestò pubblicamente, tanto da scriverlo nella propria autobiografia ("Baker suonava peggio di me quando ero fatto").

Bello come un divo del cinema, in America Chet trovò durezza, disprezzo, e anche i primi guai per droga, che lo accompagneranno dal 1957 fino alla morte. In Italia invece era diverso. C’era più tenerezza per lui, almeno fino a quel giorno di fine luglio del 1960, quando l’agente di polizia Neri Gugliermino lo vide in un cantuccio della toilette di una stazione di servizio di San Concordio, a Lucca: il lavandino sporco di sangue, le maniche tirate su, la siringa fra le mani e la faccia tremante per l’astinenza. Allora in Italia l’eroina non circolava, Baker però aveva scoperto che poteva sostituirla con il Palfium, un potente analgesico. Dal processo, il primo clamoroso caso di droga in Italia, emerse che 25 medici compiacenti avevano prescritto il Palfium a Baker, e lui aveva rubato e falsificato i ricettari: 'Faccia d’angelo, cuor di demonio', sintetizzò il pm davanti alla corte, chiedendo per lui 7 anni di galera. Lo condannarono a 16 mesi. Quando uscì la sua vita era quella di prima: jazz, donne e tanta droga.

 

 

E una volta tornato a casa, in America, andò anche peggio. Nel 1966 uno spacciatore non pagato si vendicò spaccandogli la faccia a San Francisco facendogli saltare tutti i denti. Finito, il grande Chet Baker era finito. Si ridusse a slavoricchiare in un distributore di benzina, finché un giorno non impietosì il grande Dizzy Gillespie: "Con una dentiera - gli disse - potrai tornare a suonare". Chet ci provò. Fu durissima, ma piano piano rivide la luce. La sua tromba uscì dall’astuccio nel 1968, alba della sua seconda vita musicale. L’Italia lo abbracciò di nuovo, ma siringa, cucchiaino e laccio emostatico erano sempre a portata di mano. Lui diceva di sì a tutti, esibendosi in bettole, puzzolenti club di quint’ordine, incidendo centinaia di dischi, e tutto questo perché aveva sempre bisogno di soldi per pagarsi la ‘roba’. Un giorno Elvis Costello gli chiese di suonare un assolo di tromba in un pezzo (‘Shipbuilding’) del suo album ‘Punch the clock’: Chet venne in sala d’incisione, non salutò, suonò la sua parte, prese i soldi e se ne andò in silenzio. Era pesantemente invecchiato, le rughe che a ragnatela coprivano il bel viso di una volta sembravano pagine aperte della sua storia di autodistruzione, narrata nello spettrale documentario ‘Let’s get lost’ di Bruce Weber. Il simbolo della sua fine imminente divenne la voce: così angosciante, elegiaca, eterea. Eppure il suo era un meraviglioso lirismo interiore, dipinto in pezzi simbolo come ‘Almost blue’, ‘Everytime we say goodbye’, ‘My one and only love’ e ‘My funny Valentine’.

Cantava il dolore come solo Billie Holiday aveva saputo fare e sempre senza un soldo in tasca. Ma lui non ci faceva caso: 'Morirò al verde - profetizzava - ed è giusto, perché è così che sono venuto al mondo'.
 

 

Chesney Henry "Chet" Baker Jr. (23 dicembre 1929 – 13 maggio 1988) è stato un trombettista statunitense del genere jazz, noto per il suo stile lirico e rilassato e per i suoi contributi al genere conosciuto come cool jazz.

Figlio di un chitarrista, nato e cresciuto a Yale nello stato americano dell'Oklahoma, si trasferì successivamente nella California meridionale, dove trovò successo come trombettista di rilievo a partire dal 1951, quando fu scelto da Charlie Parker per suonare nella sua band in una serie di concerti live nella West Coast. Nel 1952, Baker si unì al Gerry Mulligan Quartet, divenendone in breve una delle punte di diamante, per via delle sue capacità strumentali fuori dal comune. In particolare, fu portato alla notorietà dall'assolo da lui eseguito nella registrazione di My Funny Valentine eseguita dal Quartet. Dopo il declino quasi immediato del Quartet per via dei problemi di droga di Mulligan (che fu in carcere per un certo periodo) e per i disaccordi, economici e caratteriali fra lui e Chet, Baker fondò una propria jazz band, in cui, oltre a suonare la tromba, faceva anche le veci di cantante. Nel 1954, Chet Baker vinse il premio di migliore strumentista nel sondaggio della rivista Down Beat, battendo tra gli altri anche Miles Davis, Dizzy Gillespie e l'astro nascente Clifford Brown. A partire dai primi anni sessanta, Baker iniziò anche a suonare il flicorno durante le sue esibizioni.

Tuttavia, la carriera di Chet Baker fu anche caratterizzata dai suoi problemi di droga, che ebbero un impatto notevole sul successivo declino della stessa. In particolare, la sua dipendenza dall'eroina gli causò anche numerosi problemi legali, inclusa una detenzione di oltre un anno in Italia nel carcere di Lucca, e successive espulsioni da Germania Ovest e Inghilterra.

Nel 1966, Baker fu gravemente ferito in una colluttazione mentre cercava di acquistare droghe dopo un concerto a San Francisco. Baker, a causa di ciò, si ritrovò anche completamente privo dei denti anteriori (che uno spacciatore gli aveva fatto saltare con una bottiglia durante la rissa), menomazione molto grave per un trombettista. Trovandosi anche in gravi difficoltà economiche, Baker sparì per diverso tempo dalla scena, finché un appassionato non lo riconobbe nel commesso di una pompa di benzina e lo aiutò a rimettersi in sesto, facendogli anche trovare i soldi per sistemarsi la bocca. Baker dovette imparare a suonare la tromba con la dentiera, cosa considerata estremamente difficile. Parzialmente disintossicato, Chet Baker si trasferì a New York, dove ricominciò a registrare con altri rinomati musicisti jazz, come Jim Hall, per poi infine ritornare a vivere in Europa. Famosa la sua collaborazione con l'artista inglese Elvis Costello, e celebre il suo commovente assolo di tromba nella canzone Shipbuilding. Baker poi trascorse i suoi ultimi anni di carriera in Brasile, suonando musica Bossa Nova. In questi suoi ultimi anni di vita scopre un talento, una rarità del jazz moderno, il flautista italiano Nicola Stilo.

Il 13 maggio 1988, Chet Baker morì, cadendo da una finestra del Prins Hendrik Hotel di Amsterdam, probabilmente sotto l'effetto di droghe. La targa eretta per ricordarlo all'esterno dell'albergo recita:

« Il trombettista e cantante Chet Baker morì in questo luogo il 13 Maggio 1988. Egli vivrà nella sua musica per tutti quelli che vorranno ascoltarla e capirla »
(Didascalia sulla lapide commemorativa di Chet Baker)

Chet Baker fu sepolto nel cimitero di Inglewood, in California. Il 2 luglio 2005 è stato dichiarato "Chet Baker Day" dallo stato natio di Baker, l'Oklahoma.

Chet Baker ha lasciato numerosissime registrazioni, molte delle quali eseguite essenzialmente per il suo continuo bisogno di soldi per le droghe. Di conseguenza, la sua discografia è considerata abbastanza poco omogenea, sebbene sia intuibile, secondo alcuni critici, una maggiore maturità artistica di Baker nelle sue ultime registrazioni.

(wikipedia)
 



Quando compie tredici anni suo padre torna a casa con un trombone. Purtroppo, nonostante tutti gli sforzi, non c’è verso di riuscire a suonarlo. Il trombone è uno strumento troppo grande per il piccolo Chet e viene presto rimpiazzato da una "meno ambiziosa" tromba. Si è da poco trasferito con la famiglia a Glendale, California, dopo un’infanzia trascorsa in Oklahoma, diviso tra il coro parrocchiale e la partecipazione ai concorsi cittadini per giovani talenti, che non riesce mai a vincere.
A Glendale suona per la banda della scuola, ma al termine delle lezioni si precipita alla locale pista da bowling. Non è ancora venuto il momento delle macchine automatiche, e i birilli, dopo ogni tiro, devono essere recuperati e allineati di nuovo. Chet è velocissimo in questa operazione e a fine serata si ritrova in tasca un bel gruzzolo di mance.
Nel ’46 si arruola e viene spedito a Berlino con la 298ª Armata, dove spende gran parte del tempo a esercitarsi con la banda del reggimento. La vita da soldato, con alterne vicende, si protrae fino agli inizi degli anni Cinquanta, quando, dopo una serie di test psichiatrici, viene dichiarato inadatto alla vita militare e ottiene un congedo onorevole.
Henry Baker jr, tornato civile, suona dovunque gli si presenti l’occasione. Nel ’52 ha appena terminato la sua prima registrazione, a Los Angeles, quando riceve un telegramma da Dick Bock, capo della World Pacific Records, che annuncia per quel pomeriggio un’audizione di Charlie Parker al Tiffany Club. Ci sono i migliori trombettisti in circolazione. Quando viene il turno di Chet, "Bird" gli chiede di suonare due brani che conosce bene. L’audizione si conclude lì. Chet viene assunto; ha soltanto 22 anni.
Dopo il tour con Bird, si unisce al grande quartetto di Jerry Mulligan. Purtroppo l’esperienza di questa leggendaria band è di breve durata ma Chet e Jerry hanno il tempo di creare quello stile che verrà poi chiamato "West Coast sound", la versione bianca del cool jazz.
Messo sotto contratto dalla World Pacific Records, Baker forma un suo quartetto, conquistando subito l’attenzione dei critici e degli appassionati che lo eleggono più volte musicista dell’anno nelle classifiche di «Metronome» e «Downbeat». Viene persino scritturato per un film, e arriva a rifiutare, senza esitazioni, un contratto di sette anni con la Columbia Pictures: "Non mi piace stare in giro tutto il giorno per girare pochi minuti di pellicola. Voglio recitare e basta".
Dopo lo scioglimento del gruppo, nel ’55, cominciano i guai con la droga e con la giustizia, eppure Chet continua a vincere premi e raccogliere successi, finché decide di trasferirsi in Europa, dove si sente più apprezzato come musicista. Lavora a lungo in Italia e incontra la sua futura moglie, la modella inglese Carol Jackson, con cui avrà tre figli.
Di nuovo in carcere, prima a Lucca poi a Berlino, nel ’64 torna negli Stati Uniti dalla Germania su mandato di estradizione.
Ma le cose in patria nel frattempo sono molto cambiate, soprattutto il panorama musicale. Sono gli anni della "British invasion", è la musica rock a dominare la scena e al jazz non resta che scavarsi la propria nicchia e stare a guardare. Chet si ritrova quasi in mezzo a una strada, sfruttato da un manager senza scrupoli che lo costringe a suonare e registrare musica che non gli piace.
Ma il peggio deve ancora venire. All’uscita da un club, nel ’66, un gruppo di balordi lo aggredisce e cerca di derubarlo. Chet resta sull’asfalto, massacrato e con tutti i denti rotti.
Dopo due anni di convalescenza, riprende gradualmente contatto con lo strumento, torna a suonare a New York, grazie all’intercessione di Dizzy Gillespie, e riesce a strappare un contratto allo Strykers Pub. Ma l’America non sembra interessata a questo James Dean del jazz, sempre in fuga, da se stesso e dagli altri.
Il 1975 è l’anno in cui decide di trasferirsi in Italia, il paese europeo che ama di più e che l’ha sempre accolto da trionfatore. Da questo momento per Chet è un costante andare e venire, tra Europa e Stati Uniti, nella speranza di trovare contratti in patria, che non arrivano mai; ma in fondo questo è lo stile di vita che preferisce e poi non vuole rassegnarsi all’idea di abbandonare la prospettiva di un ritorno definitivo.
Tre del mattino, 13 maggio 1988, Amsterdam. Chet Baker viene trovato morto sul ciglio di una strada. Il rapporto della polizia parla di "presunto" suicidio: si sarebbe gettato nel vuoto dalla finestra del suo hotel. Aveva cinquattotto anni.
 


discografia essenziale
West Coast Live, Blue Note, 1953
Grey December, Pacific Jazz ,1953
Chet Baker Quartet Featuring Russ Freeman, Blue Note, 1953
Chet Baker and Strings, Columbia, 1953
Gerry Mulligan Quartet with Chet Baker, GNP, 1953
Chet Baker Sings, Pacific Jazz, 1954
Chet Baker Sextet, Pacific Jazz, 1954
Chet Baker Big Band, Pacific Jazz, 1954
My Funny Valentine, Blue Note, 1954
The Route, Pacific Jazz, 1956
Playboys, Pacific Jazz, 1956
It Could Happen To You – Chet Baker Sings, Riverside, 1958
Somewhere over the Rainbow, Bluebird, 1962
Groovin’, Prestige, 1965
Lonely Star, Prestige, 1965
On a Misty Night, Prestige, 1965
Boppin’ with the Chet Baker Quintet, Prestige, 1965
Baker’s Holiday: Plays & Sings Billie Holiday, Limelight, 1965
The Touch of Your Lips, Steeple Chase, 1979

Discografia completa, filmografia, galleria di foto, testi. Un sito che è anche un tributo:
www.chetbaker.net
 


"Chet", la tromba dannata del jazz
A vent'anni, dalle patinate copertine dei primi 78 giri incisi a Los Angeles, la patria del cool jazz "bianco", sembrava un angelo: bellissimo, il volto liscio e paffuto, lo sguardo dolcemente assorto, gli abiti eleganti di un damerino. Quindici anni dopo quell'angelo, salutato dal successo di critica e pubblico dell'America dei magici "fifties", era diventato un mostro: gli occhi lucidi e spenti, le guance scavate, le rughe precocemente scolpite attorno agli occhi e sulla fronte. L'eroina, la stessa che aveva ucciso a soli 34 anni il grande sassofonista nero Charlie "Bird" Parker, ma che affliggeva decine e decine di jazzmen in una folle corsa collettiva all'autodistruzione, lo aveva ridotto ad una larva tenuta in vita soltanto dal filo sottile della musica.

Come in un'impressionante metamorfosi il James Dean della tromba si era trasformato in un novello e maledetto Rimbaud, che dopo altri anni di dissoluzione, disperazione e sofferenza, nel 1988, avrebbe concluso tragicamente il suo "volo", planando sul selciato da una finestra d'albergo di Amsterdam in una notte di primavera.

Sulla biografia di Chet Baker, il più grande trombettista jazz bianco, indelebilmente segnato dal marchio della droga nella quale affogava il suo male di vivere, non sono certo mancate le fioriture artistiche come purtroppo spesso accade in questi casi. Si diventa grandi solamente quando già il cielo ci ha consacrati tali!! Letteratura e cinema (si pensi al film-documentario Let's get lost) si sono tuffate con morboso interesse nel sondare l'esistenza travagliata di questo straordinario talento, figlio di un musicista fallito e di un'impiegata dell'Oklahoma nato proprio nel '29, anno della grande depressione, divenuto famoso per il suo sound melodico e lirico, lontano dai virtuosismi del bepop. Insomma, un musicista sui generis, privo di cultura musicale (non sapeva leggere il pentagramma) ma capace di chiedere allo strumento - ma anche alla voce - suoni reconditi e struggenti nonostante la perdita di un incisivo, dente fondamentale per l'emissione sonora dei fiati. Ora, a togliere i veli che hanno circondato questo "mostro sacro" della musica è uscito per la casa editrice Baldini & Castoldi una ricca biografia con foto anche inedite curata da James Gavin e un'utilissima scheda discografica sulla sterminata produzione dell'artista. Un viaggio accurato e completo, con interviste mai pubblicate sulla sua vita, partendo dall'enigma sulla sua morte. Un ritratto personale che è anche un affresco della "caduta" dell'America dall'innocenza postbellica e della perdizione dei suoi figli più fragili.
(Alex "the sinner" Gibelli)
 


Chet Baker, un Mito del Jazz, al Naima Club -Forlì  1 marzo 1984

(di Michele Minisci)
Nonostante le brutte vicissitudini in cui incappò, anche nel periodo italiano, la fama di Chet, "musicista maledetto", bello e dannato, il James Dean della musica jazz, perdurava ancora con forza, e le sue performances alternavano momenti di grande intensità e lirismo ad altri di mediocre rendimento. Ma in ogni modo sempre da vedere, da sentire.

Per noi era la prova del fuoco: un mito della musica jazz, Chet Baker stava per venire a suonare nel nostro club. L'attesa fu veramente spasmodica e l'emozione mi attanagliava le viscere.

La sera del concerto, la band di Chet era già al Ciaika, il flautista Nicola Stilo, il contrabbassista Riccardo Del Fra, il pianista Michel Grailler, avevano fatto già il sound check con Romano Lombardi al service, e al seguito il giovane figlio Renato, allora appena diciottenne, ai suoi primi smanettamenti sulle manopole rosse e nere del mixer luci, sotto l'occhio sempre attento e burbero di suo padre.

Li avevamo accompagnati al ristorante vicino, il Baiocco, per la cena. Chet non aveva bisogno di provare. Ed ora non rimaneva che aspettare la gente ed andare a prendere Chet all'Hotel Masini, nel centro di Forlì.

Alle ore 21,30, con il sudore che mi scendeva per tutta la schiena, lo stomaco rattrappito e le budella sottosopra, l'ansia che mi impediva di respirare regolarmente, perché non sapevo se la gente sarebbe venuta in massa, almeno per coprire le spese, era la nostra prova del fuoco, mi misi in macchina per andare a prendere Chet in albergo.

Stati d'animo, sensazioni ed emozioni che mi avrebbero poi accompagnato per tutti i concerti che ho organizzato, da allora ad oggi.

Arrivato in albergo, colpo apoplettico: il portiere mi assicura che "il signor Baker è appena uscito". All'ansia si accumula altra ansia, momento drammatico, spasmodico. Mi precipito fuori, guardo a destra ed a sinistra, con l'angoscia che mi si spande sempre più nel petto e mi prende la gola, ma non vedo nessuno con una custodia nera per tromba sotto l'ascella, un giubbottino grigio sulle spalle ricurve, jeans scoloriti, il passo incerto e ciondolante.

La paura mi attanaglia le gambe, la paura di averlo perso, infilato in chissà quale bar a bere un altro cicchetto, la paura di non ritrovarlo in tempo per il concerto, con tutte le conseguenze del caso. Il mio angelo custode, però, forse l'angelo di tutti i jazzisti, mi dice che devo andare a destra, verso il fondo di Corso Garibaldi.

Mi incammino frettolosamente facendo capolino dentro tutti i bar del corso e…finalmente lo vedo: è seduto nel bar di piazza Melozzo che sorseggia un Trebbiano, seduto con l'astuccio della tromba tra le gambe, lo sguardo fisso sul bicchiere, come se aspettasse qualcuno, o dovesse far passare il tempo.

Mi viene voglia di piangere, per un po' mi si annebbia la vista e poi, dopo due o tre forti sospiri, mi avvicino con fare goffo ed impacciato e dico a Chet, col mio inglese approssimativo che sono il "promoter" del Naima club e che ci aspettano per il concerto.

Il resto è storia. Storia della musica in questa città, anche se non è stato un concerto "storico". Chet stava certamente bene, stava attraversando un buon momento, ma il suo momento magico era però passato.

Aveva lasciato al piano di Michel Grailler le prime battute del pezzo e poi era subito entrato lui, in maniera soffusa, quasi con noncuranza, come stesse continuando un discorso musicale interrotto qualche tempo prima, per riannodare qualche filo rimasto sospeso, aggrovigliato.

Era come se niente fosse successo in questi suoi ultimi, travagliati, anni, tra successi travolgenti, amori disperati, l'eroina, i problemi con gli spacciatori, il carcere. Niente. Tutto dietro le spalle, in quel momento soffiava dentro la sua tromba solo il respiro della sua anima, non gliene fregava niente di sapere che, nonostante tutto, esercitava ancora sul pubblico un fascino quasi morboso non solo per la sua storia musicale ma anche per la sua "vita spericolata", esisteva solo lui e la sua tromba.
 

E mentre le note di un'eccellente "Petit Fleur", di Sidney Bechet, sfumavano dolcemente tra gli applausi scroscianti del pubblico del Ciaika, ecco che Chettie, così lo chiamava spesso sua madre, Vera, inizia a cantare, senza alcun accompagnamento, la mitica "Blue Moom", pezzo per sola voce, che raramente proponeva nei suoi ultimi concerti. Un momento veramente magico.

Poi aveva concesso molto spazio ai suoi compagni, anche troppo, forse per riposare, riprendere fiato perché si vedeva che si stancava presto. Ma non appena rientrava nel pezzo, ti sembrava di sentirlo suonare come avesse ancora accanto Gerry Mulligan o Stan Getz, e di rivederlo sui palchi di tutto il mondo, osannato come il miglior rappresentante di quella "lost generation" che aveva tracciato negli anni cinquanta un nuovo corso musicale nella storia del jazz.

Chet aveva suonato per tutto il tempo seduto su una sedia, con le gambe a cavalcioni, con quegli stivaloni da cow boy che ogni tanto mandavano un luccichio strano, per alcune borchie argentate incollate sui lati, e quella sera aveva cantato più del solito, cinque brani, invece delle solite tre canzoni d'ogni suo concerto, con una memorabile "My Funny Valentine", verso la fine, forse per farsi perdonare della paura e della sofferenza che mi aveva inflitto.

La sua voce sottile, delicata, sofferta, a volte infantile, mi è rimasta dentro il cuore per molto tempo, così come mi si sono rimaste impresse nella memoria le rughe del suo viso, profonde ed antiche, come se solcate da fiumi impetuosi di dolore, ma che nello stesso tempo mi sembravano rifugi, anse, porti, dove la sua anima poteva trovare pace e tranquillità. La pace del genio, la pace del mito, al riparo delle tragedie che incombevano sulla sua vita.

Dopo qualche anno Chet sarebbe "volato" dal quarto piano di un albergo di Amsterdam, forse spintonato da un corriere della droga, mai pagato, mettendo fine alla sua vita e spezzando un pezzetto della nostra.

Era il 13 maggio del 1988.
 

 

“Volto d'angelo cuor di demonio!”, così il pm all'indomani dell'arresto di Chet Baker, in un autogrill della riviera toscana, definì la più grande faccia da schiaffi che il jazz ha conosciuto. A Chet Baker (1929-1988) è dedicata l'ultima fatica letteraria, saggistica documentaria di James Gavin (Chet Baker, La lunga notte di un mito, Baldini & Castoldi), un libro che non si lascia andare alla solita, monotona sindrome del mito, ma che anzi rincara la dose, riempie i contorni sfumati di quello che fu il mito degli anni sessanta, il boom economico ed un'Italia che ammiccava grata agli Stati uniti. Chet Baker di questi anni è stata un'icona blasè, romantica e sensuale, la sua tromba è stata in quegli anni la panacea degli universitari innamorati, il grido composto di una generazione in bilico fra Kerouac e Sordi, fra l'hot dog e l'amatriciana.

Voce d'efebo & eroina

Ma chi era Chet Baker? Il sonnolento belloccio che sbirciava dalla campana del suo strumento, incendiando l'ennesima sigaretta ad occhi bassi, cantando con voce d'efebo ed intonazione verginale o l'eroinomane cattivo e violento, il tritacuori e arraffagrana, il bugiardo patentato o la vittima di un sistema incapace di accettare il diverso, l'ambiguo, il fragile? Interrogativi fino ad oggi rimasti appesi per anni alla sua faccia col tempo mutata incredibilmente, distorta come una tela d'artista che sgocciola colore su un termosifone: un sudario di rughe, negli ultimi anni della sua vita non c'è che un palinsesto, una matrice lontana di quei lineamenti gentili e raffinati: mai la droga produsse effetti così corrosivi, come per riprendersi un'anima che si era concessa al demonio per un po' di metadone.

La droga per Chet Baker non è stata la solita macchietta jazzistica, il tormentone che rimpinza le biografie di mille musicisti per cui prima o poi tutti si sono fatti. E' stato di più: un leit motiv funebre, una scommessa continua, una devastante coazione a ripetere, che non lasciava spazio a nessuno, forse solo alla musica, non tanto perché è catarsi e liberazione, ma perché suonare è sempre stata l'unica cosa che Baker abbia saputo fare bene, con grazia elementare, una superbia che solo l'autodidatta, il dotato, poteva avere.

Molti fra coloro che lo hanno conosciuto non riuscivano a capire perchè si comportasse come un irresponsabile, privo di qualsiasi forma di metodo. Chet suonava e basta, e poteva far risuonare la sua voce esattamente con lo stesso timbro della sua tromba, quasi che fosse un imprinting naturale, una dote che poteva negromanticamente trasmettere a tutti gli oggetti; come il Dottor Dolittle o San Francesco, Chet Baker parlava, non tanto con gli animali (spacciatori a parte) ma con le sue note e con quelle comunicava, in uno stato di trance che non era frutto di mistiche vette d'ispirazione ma di speedball, palfium, mescalina e benzedrina: insomma di qualsiasi cosa ci si potesse iniettare in una vena.

Ed è questo il suo segreto tumefatto e lacerante che spunta fuori dai ricordi, dalle testimonianze che questo libro insegue e raggiunge: la sua non è stata una vita drammatica nel senso stretto del termine, ma un'esistenza sospesa ed esausta semplicemente messa lì ad avvizzire come uno stoccafisso al sole. Le mogli, i figli, i genitori, gli amici più stretti, i sentimenti più prossimi alla vita di ciascun essere umano semplicemente non riguardavano l'uomo Chet, non lo interessavano, o almeno mai quanto le belle macchioline e i piaceri notturni ed il jazz naturalmente, quello che portò a vette sublimi con il suo timbro di cotone fresco, con le sue collaborazioni storiche (quella con il baritonista Gerry Mulligan e del loro quartetto che fece la rivoluzione cool: jazz che chiamarono da camera, privo del sostegno del pianoforte) ma anche una musica sorda alle ispirazioni artistiche, wagneriane, musica invece trattata da mercenario. Chet era il lanzichenecco del pentagramma, il jazz lo usava negli ultimi anni per qualche spicciolo in più, per colmare immensi debiti e per non farsi tallonare dalla mala all'ennesimo debito promesso e mai rispettato, pochi sono i dischi italiani degli anni ottanta che non lo annoverino come ospite speciale, e a lui andava bene così, un paio di soffi e poi in albergo a bucarsi. E la presenza dei pusher nella vita di Chet Baker rappresenta la sintesi junghiana per eccellenza dell'ombra, di tutto ciò che ci insegue dall'inconscio e viene espettorato nella vita di tutti i giorni.
 

A Chet costò caro non aver rispettato gli impegni con i propri creditori, costò una svolta nella sua carriera, costò una dentiera a quarant'anni perché i denti erano rimasti sul pavimento di un lurido albergo diurno. Il suo suono non fu più lo stesso: ed uno dei dischi più maledetti e commoventi è proprio l'album del ritorno She was good to me (C.T.I.), un disco manifesto di tutto ciò che era Baker, un uomo in dentiera che non è più capace di suonare il suo strumento che usa la voce come mantra per scaldare le note, note che escono con difficoltà, biascicate da una bocca di ceramica.

Il soffio letale ed algido della tromba che lascia presagire un ritorno che sarebbe stato anche il culmine dell'aberrazione, quella che lo costringeva negli ultimi anni romani a girare insieme ai tossici di Monte Mario senza sapere più che vena usare: finite le scorte si passava direttamente al collo, veloce e potente. Potente come un assolo di Charlie Parker che una leggenda dello stesso Baker vuole l'avesse accreditato come unico trombettista in grado di poter suonare nella sua band.

Una fine da film noir

Di bugie Baker ha sempre campato, anzi sopravvisuto, e le testimonianze di questo libro sono allucinanti per chiarezza ed evidenza. Per Diane (a cui Baker dedicò il bellissimo disco in duo con Bley), una delle sue ultime compagne, era “il diavolo incarnato”, una figura mefistofelica che lasciava sul campo morte e disperazione, chi stava intorno prima o poi sarebbe incappato in un guaio: ed è questa la cronaca più toccante del libro, quella delle mille anime che Chet si è lasciato lungo la strada, dei mille grovigli di vita con cui si è pian piano strozzato.

E la fine è arrivata in modo assolutamente conforme a quello che sembra essere un libro noir, una rincorsa e poi il volo dalla finestra di un albergo vicino alla stazione di Amsterdam. La foto di quella notte ce lo mostra in posizione fetale, scarpe fradicie in primo piano ed un lenzuolo steso sopra: una sindone blasfema, con gli occhi appena socchiusi, ruffiano fino alla fine sembra stia dormendo. Anche quest'ultimo viaggio nel libro è trattato in maniera documentata, con un vero e proprio scoop, un colpo di teatro finale: Chet quella sera di eroina non ne aveva un solo grammo in corpo, pulito come un pupo, e la ringhiera era davvero troppo alta perché si trattasse di un incidente.

Ed allora cosa successe la notte del 13 maggio 1988? successe semplicemente quello che tutti si aspettavano: qualcuno ha voluto fargli passare la voglia di fare il guitto, qualcuno non ne poteva più di promesse rassicuranti, fatte con un fil di voce, con l'espressione bloccata in una specie di smorfia angelica. Quella notte qualcuno, inconsapevolmente, ha ucciso anche il jazz.

(Francesco Mandica)