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Springsteen a San Siro, |
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di Davide Imbrogno
E’ il 25 giugno 2008. Milano è immersa in un caldo afoso. Lo stadio di San
Siro resta come una cattedrale, sommersa nell’afa estiva. Una cattedrale, un
tempio, un luogo sacro in cui centinaia di anime, si affrettano a giungerci,
pronte a trovare beatitudine e risposte, lacrime e sorrisi. Era il 1985,
quando Springsteen suonò per la prima volta a San Siro.
Il primo brano è una cover Summertime blues di Eddie Cochran. Lo stadio si riscalda. Seguono Out in the street e Radio nowhere. E poi giungono pezzi mitici come Prove all night, Spirit in the night. E tutti a ballare sotto il cielo milanese, impregnati di sudore e gioia. Bruce stringe mani, bacia ragazze, getta acqua sul pubblico, quasi come un pastore protestante che benedice e purifica ogni anima, persa nella notte, smarrita nelle strade del mondo. Padri e figli. Generazioni che si scontrano, fino a congiungersi in una notte di passione, in cui il mondo resta fuori dallo stadio, a girare su se stesso, immerso nella propria atrocità. Ma San Siro è un rifugio per tutti coloro che si sono smarriti, per tutti gli obiettori di coscienza, che hanno deciso di abdicare anche solo per una notte l’indifferenza del mondo. Tutti a guardare Bruce, ad ascoltare quella voce ubriaca di poesia, ad ammirare il più grande performance di tutti i tempi, un poeta contemporaneo, un rocker dall’animo buono, che vive dalla parte dei sopravvissuti, dalla parte di coloro che si svegliano nella notte gridando la propria solitudine, dalla parte degli amanti incompresi, dalla parte degli amanti fuggitivi, dalla parte di coloro che cercano la redenzione sotto il cofano sporco di una macchina incidentata, destinata alla gloria. Tre ore di concerto, in cui ognuno ha pensato che forse la salvezza del mondo sarà possibile, in cui ognuno
ha continuato a credere nel proprio Sogno, nella propria Terra
Promessa. Attimi e minuti, in cui ogni anima solitaria ha cercato risposta
alla propria solitudine. Su None but the brave, una ragazza stringe tra le
sue mani una birra, guarda verso il palco e una lacrima malinconica esce dai
suoi occhi azzurri, fino a cadere nel fondo del bicchiere, a mescolarsi con
quella birra: metafora di un’ubriaca commozione.
Bruce è un guerriero che combatte la propria guerra da oltre trent’anni. E
anche se gli anni passano, la E-street band sembra non smarrire nulla, anzi
è sempre più ricca di consapevolezza, di complicità. Bruce stravolge la
scaletta, accogliendo richieste da parte del pubblico, e basta uno sguardo
ai suoi musicisti, e loro eseguono i brani in maniera perfetta, senza
seguire scalette e regole precostituite, tutto è libero, tutto si propaga
dalla prima fila fino al terzo anello.
E poi i pezzi del nuovo album, Girls in their summer clothes, dedicata alle
donne presenti. Una canzone, una poesia: giovinezza e vecchiaia che si
scontrano, felicità e malinconia, spensieratezza e rassegnazione. E Bruce
tra il pubblico stringe le mani alle ragazze, le quali commosse guardano
quegli occhi e per un attimo trovano risposta a tutto, trovano comprensione
alla loro incomprensione, magari alla loro vita da precarie, e Bruce è
pronto a risanare le loro ferite, anche solo in una notte, come un
cacciatore con un colpo solo, un solo concerto destinato a trafiggere ogni
cuore solitario in una notte d’estate. E poi batteria, chitarra, è il
momento di Long walk home, è un lungo cammino per tornare a casa, e la
musica ricorda una cavalcata da cow boy. Vediamo l’America, comprendiamo i
suoi delitti, comprendiamo che sarà lungo il cammino, ma si vede soprattutto
l’America pura, l’America della gente comune, l’America delle cittadine, dei
bar, dei barbieri che lavorano ogni giorno, di tutti coloro che lottano per
sopravvivere, per andare avanti e combattono con la quotidianità. Entra il
sax: sudore degli operai. Le morti bianche. L’America non è solo sbagli, ma
è un padre che dice al figlio “figliolo guarda questo città è un bel posto
per viverci”. Ma è lungo il cammino per tornare.
Bruce continua ininterrottamente a cantare, a vivere quell’attimo di musica.
Il pubblico fa il coro. E sul finale di Long walk home, entra Little Steven
con un coro straziante: dolore e sofferenza, morte e libertà. Angeli che
suonano i loro sax nella notte.
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