Michael Bernard Bloomfield

 
 

Il suo nome era Michael Bloomfield e ci lasciò il 15 Febbraio 1981. Era nato a Chicago il 28 Luglio 1943.
 


Noi lo ricordiamo oggi attraverso la voce di alcune delle persone che gli furono accanto:

Barry Goldberg (compagno di studi e comprimario dei KGB, presidente della Columbia negli anni ottanta e produttore)
EDP: come vi eravate conosciuti con Michael?
Barry Goldberg: Michael ed io ci ritrovammo alla Central YMCA High School. Ci avevano entrambi cacciato dai rispettivi collegi privati. Lui aveva 15 anni e già si parlava di lui in città. Io iniziai a suonare a Rush Street mentre Michael e Paul già si esibivano nei blues clubs come The Old Town. Bloomfield ci introduceva regolarmente a gente come Big Joe Williams che era per lui una specie di passpartù e che gli permise di conoscere personalmente tanti leggendari bluesmen sparsi qua e là per l’America. Era amico di tutti, attraverso lui conobbi musicisti come Steve Miller, Charlie Musselwhite e Harvey Mandel. Lui si faceva prestare la macchina dalla madre e mi chiedeva di seguirlo in questi locali pazzeschi, assolutamente inusuali per noi bianchi. Una sera mi portò in un posto dove suonava Howling Wolf che, naturalmente, riconobbe subito Michael e ci chiese ad entrambi di suonare. Io me la facevo sotto perchè quel pubblico di neri mi impauriva, ma non appena Howling Wolf sorrise la gente ci accettò con un gran appaluso. Lo stesso accadde tante volte con Muddy Waters e la sua band quando Otis Spann sedeva al piano. Una sera Muddy fermò la band e chiese a Otis di lasciarmi il pianoforte e io chiusi gli occhi e partii con loro. È stato uno dei grandi momenti della mia vita...Poi, di seguito conoscemmo altri giovani che cercavano la nostra stessa musica, gente come Robbie Robertson e Levon Helm. Dylan veniva a suonare a The Bear, il locale di proprietà del suo manager, Albert Grossman. La mia fidanzata e la fidanzata di Michael erano due care amiche...passavamo la notte ad ascoltare oscuri 45 giri di blues e a commentarli come non si fa più da tempo...mi ricordo perfettamente di una notte passata ad ascoltare “Shake Your Money Maker” nella versione di Otis Rush su Cobra records.
 

Elvin Bishop (chitarrista della Paul Butterfield Blues Band)
Fu una grande esperienza stargli al fianco perchè quando lo conobbi lui era già Michael Bloomfield e io ero intimorito dalla sua presenza. Ma lui faceva di tutto per metterti a proprio agio. Io ero il country boy della Butterfield blues band, ero arrivato là su con Steve Miller che veniva dal Texas, io dalla Georgia. Lui ci raccontava delle storie pazzesche e aveva solo 23 anni: Sembrava essere cresciuto nel delta del Mississippi e quando raccontava di Bukkha White, Sleepy John Estes, Freddie Mc Dowell, potevi sentire la loro presenza nella casa...

Mark Naftalin (tastierista della Paul Butterfield Blues band)
Arrivai a Chicago nell’inverno 1962 per frequentare l’università. Nei locali si ballava il twist, ma poi si esibiva una band dal vivo. Fra queste band ve ne era una con Mike alla chitarra che mi impressionò per la precisione con cui suonava e per la velocità tecnica di Bloomfield. Il mio primo approccio con lui fu quasi da fan, gli chiesi come faceva a suonare così e lui mi rispose che passava le giornate studiando cosa che scoprii poi essere falsa poichè Michael non provava mai e suonava solo d’istinto.
L’università di Chiacago è proprio nel bel centro del Southside e fu così che cominicia a notare la presenza di Paul Butterfield. Dove si esibiva c’era un pianoforte e io a volte li accompagnavo, ma ciò che suonavo era inaudibile e ci perdemmo di vista.

Nella primavera 1965 me li ritrovai sul palco del Village Gate di New York City come Butterfield Blues Band e con Jerome Arnold e Sam lay alla ritmica, proprio quelli del disco d’esordio. Ciò che ascoltai quella sera fu la miglior musica che non sentivo da anni, musica pura, vero Butterfield Blues Sound. Nell’estate 1965 divennero resident band al Cafe au Go Go e Mike era con loro. Mi ammisero a ruolo di pianista “non amplificato”, quasi un gioco ma presto, doveva essere Settembre, Mike mi disse che per loro era ok avermi nel gruppo. Mi portarono in studio. Loro avevano già registrato interamente un vero album che però avevano rifiutato obbligando la casa discografica a non realizzarlo. Mi chiesero di suonare l’organo quel giorno, ma era tardi. Tornammo il giorno dopo per un brano che finì sul primo disco, "Thank You Mr. Poobah"; io vi suono un solo, ma se la vostra idea di organista è Jimmy Smith, allora dimenticatevelo! Avevo il fottuto terrore di non essere accettato dal gruppo, ma quel giorno steso registrammo 8 degli undici brani del disco d’esordio. A ripensarci mi sembra la storia di Cenerentola!…Lasciamelo dire: non esistevano band come la Butterfield Blues Band…”East west” come la conoscete su disco è solo la punta dell’iceberg, ascoltate quella su “Strawberry Jam”…e ve ne sono almeno altre due registrazioni dal vivo che potrebbero svegliare Mike!!! E pensare che per un pelo non suonai con loro a Newport quando accompagnarono Dylan...ma da qualche parte mi ricordo che esistono sicuramente delle fantastiche session con Big Joe Turner…
 

Al Kooper (comprimario di Supersession, fondatore dei BS &T, artista solista e produttore, suonò l’organo hammond per la prima volta nella sua vita in ”Higway61 revisited" di Bob Dylan)
EDP: mi ricordo di aver letto interviste con Bloomfield piuttosto esitante sulla vostra collaborazione
AK: conoscendo bene Mike lasciami pensare che aveva più a che fare con il successo che con il contenuto del nostro lavoro. Nessuno di noi voleva diventare una rock star !
EDP: sicuramente il vostro lavoro su Supersession è fra i più rappresentativi del suo stile…
AK: quello era il mio vero fine, infatti. Da produttore, oltre che da musicista, io volevo catturarlo al meglio perche, ascoltando le sue precedenti registrazioni, avevo l’idea che nessuno aveva mai colto il vero Bloomfield. Mi sentivo in missione: i dischi della Butterfield blues band non restituiscono il sound di quel gruppo dal vivo e l’album di The Electric Flag fu una buffonata per una band dal potenziale pazzesco che dal vivo poteva uccidere chiunque! Quello era il mio punto di vista e ancora oggi credo che Supersession rappresenti un preciso osservatorio del migliore Michael alla chitarra. La mia idea era quella di emulare il sound e lo stile della Blue Note degli anni cinquanta. Nella nostra mente il successo doveva essere la cosa più lontana da quel disco e da noi. E si è invece rivelato l’album di maggior successo della carriera di entrambi, più dei Blood, Sweat & Tears per me. Meglio di quello guadagnai solo con le mie produzioni dei Lynard Skynard, ma il coinvolgimento era un altro. Io penso che Supersession sia il più alto momento di Bloonmfield e mi auguro che presto la Columbia pubblichi un nostro fantastico concerto al Fillmore East di New York (13 e 14 Dicembre 1968, da cui sono tratte le foto di questo articolo). Poi, negli anni a venire Michael sarebbe lentamente sfumato via come persona prima ancora che come chitarrista.
EDP: cosa veramente accadde a Newport quella sera del 1965, anche lei era lì?
AK: Dylan non venne mai veramente fischiato. Fu la star di quei tre giorni, aveva una corte che lo seguiva dovunque. Furbo come è sempre stato fece solo infuriare il pubblico perchè dopo tre brani suonati in stile rock & roll salutò tutti e se ne andò! Ecco come andarono le cose. La verità è che si era passata la notte precedente al concerto provando solo tre canzoni e la mia idea personale è che Bob non volesse suonare più di quelle tre canzoni quella sera…
 

Barry Goldberg
EDP: cosa accadde a Newport ? Lei si unì al gruppo di Butterfield ma anche Al Kooper era dei vostri.
BG: io giravo spesso con loro, Nick (Gravenites) non suonava ancora con il gruppo, ma per Newport il produttore Paul Rotschild disse bruscamente che non voleva organisti fra le palle, quando mi vide però Michael, Paul e Bob in persona misero in piedi una specie di rappresaglia di soppiatto mentre Alan Lomax e Albert Grossman per poco non se le davano nel retro placo. Montammo tutti su e Michael alzò il volume del suo amplificatore a dieci e urlò ”Partiamo!”. Dopo quel momento non ricordo altro. Eravamo coscienti di essere in missione!

Bob Dylan (Robert Zimmermann)
Era il 1959 o il 1960 e stavo esibendomi in un club di Chicago quando arrivò un giovanotto e mi disse di essere un chitarrista. Aveva lo strumento con sè ed io gli chiesi cosa era in grado di suonare e lui cominciò con cose tipo Big Bill Broonzy e poi nello stile di molti, citandomi Sonny Boy Williamson come influenza. Qualunque cosa io suonassi lui era in grado di accompagnarmi e se io suonavo un brano che lui conosceva lui mi seguiva nello stile dell’autore originale della canzone se quello era stato un chitarista lui stesso! Mi rimase impresso quel ragazzo...
Nel 1963, o forse era il 1964, io ero a New York per una registrazione e io avevo bisogno di un chitarrista e mi ricordai di lui e lo chiamai. Mi dissero che da poco faceva parte della prima band di blues bianco dell’area del Massachussettes, la Butterfield Blues band. Lo mandai a cercare. Fu lui a farmi conoscere Al Kooper e tutta la sua band. Aveva le idee molto precise. Mi fece capire molte cose sul significato del Blues nel rock & roll. A Newport il suo supporto fu essenziale. Poi ci perdemmo per molti anni e ci reincontrammo solo nel 1980, ma era molto molto cambiato.

Barry Goldberg
EDP: Michael ebbe il credito che si meritava in vita?
BG: Sicuramente dalla madre Dorothy e dal fratello Allen. Musicisti come B.B. King lo stimavano per quello che lui aveva fatto per loro. Il Blues ebbe un suo posto importante sul palcoscenico del Fillmore di Bill Graham grazie a Michael. Fu lui a convincere Bill ad aprire le porte a quei musicisti. Bloomfield chiamò personalmente quei musicisti uno ad uno. Il merito non è di nessun altro.
Bloomfield era una persona eccellente, con lui mi sentivo sempre al sicuro. Quando suonava era in grado di ispirarmi a livelli superiori, l’unico altro essere umano a darmi quello fu Hendrix. Aveva uno stile intenso e quando faceva vibrare le corde sui registri alti il suono che produceva, quello di un moderno, elettrificato B.B. King, non avevav pari. B.B. ha sempre riconosciuto a Michael questo! Senza Bloomfield Mr. King non avrebbe avuto lo stesso successo.

B.B. King
Era un fantastico essere umano e una persona emotivamente ricca. Un vero studioso del blues...sapeva cose che per me o, credo, per molti altri artisti della mia razza erano apparentemente poco importanti. Più di una volta ho pensato che se questo ragazzo bianco aveva assimilato così a fondo la conoscenza a molti musicisti aiutandoli quando era necessario e io l’ho visto prendere la nostra parte in situazioni spesso diffcili da difendere. Sono orgoglioso se qualcuno pensa che io ho dato a lui qualcosa, perchè lui mi diede tanto e mi fece capire il punto di vista del blues dei ragazzi bianchi aiutandomi a costruire un pubblico.

Charlie Musselwhite
Ho dei bellisssimi ricordi di Mike. Lui è quello che introdotto più giovani bianchi al blues di chiunque altro. Il suo era un lavoro sistematico e maniacale. Poi era una persona divertente, ma un attimo dopo cambiava completamente umore. Era come se la sua mente non staccasse mai. Magari un dottore potrebbe spiegartela con una vera diagnosi, ma in poche parole Mike non dormiva mai, la sua era insonnia cronica. La vita fu molto dura con lui.
 

Fabio Treves
Per me fu una grande ispirazione...ci incontrammo i primi di settembre 1980, Claudio (Trotta) lo aveva portato in Italia con Woody Harris e una violoncellista per una breve tournee acustica. Io mi presentai e lui mi disse che assomigliavo a Paul (Butterfield) e che gli davo delle buone vibrazioni. Gli dissi che ero armonicista. La sera mi chiamò sul palcoscenico per suonare con lui un brano che poi divennero due o tre e al termine mi abbracciò forte. Nelle sere successive mettemmo in piedi due date, Torino e Verona, con la TBB e registrammo un disco insieme. Non dava l’impressione di stare male, era sempre positivo.
Pensare a lui mi emoziona ancora oggi… è bello ricordarlo.

Maria Muldaur
Era un bel tipo, un uomo affascinante. Incidemmo insieme una colonna sonora, il film si chiamava “Steelyard Blues” con Jane Fonda e Donald Sutherland. Fu un periodo bellissimo perchè sperimentammo moltissime cose insieme a lui e a Paul. Per lui risuonare con Butterfield e Gravenites, che produsse il disco, era una cosa eccitante, si vedeva; voleva fare bella figura ed era sempre pieno di entusiasmo. Respiravamo l’aria della baia, erano i primi anni settanta.

Nick Gravenites (fondatore di The Electric Flag, produttore e amico di Bloomfield)
Io ho ricordi molto variegati: buoni, cattivi, alcuni addirittura di indifferenza. Quello che mi impressionò di più sin dalle prime volte fu il suo modo d’essere. Lui era qualcuno, e la gente ha fatto presto a dimenticarsi il suo carisma. Sopratutto quando muovevamo i primi passi musicali insieme lui aveva davanti a se una visione chiara di ciò che voleva. E la gente della nostra età voleva stargli accanto per beneficiare di qualche frangia di tutto ciò, della sua generosità, del suo straordinario essere. Ha cambiato profondamente alcune persone, e non poteva essere altrimenti. Michael ha aiutato molte persone a proprio scapito. Molte cose che erano importanti per gli altri non lo erano per lui. Era di una ottima famiglia ebrea e rifiutò qualsiasi beneficio e si ritrovò nel cannibalistico business della discografia con la sensazione che tutti gli stessero portando via qualcosa. Ma qualsiasi cosa gli portassero via nessuno poteva toccare la sua artisticità. Viveva perciò questa dimensione doppia fra ciò che poteva dare musicalmente e ciò che voleva dare a quegli squali.
 

Pensieri sulla morte di Michael Bloomfield

Charlie Musselwhite
EDP: quando lo incontrai a Firenze nel settembre del 1980 non dava certo l’idea di essere più un junkie. Tutti dicevano che stava bene già da un pò
Charlie: Posso dirti che andò in overdose in casa di qualcuno e che poi venne montato su una macchina e portato da qualche parte e lì abbandonato così che i padroni di casa non potessero essere connessi alla sua morte. È anche vero che aveva OD’d altre volte. C’era un diavolo che da anni stava tentando di portarselo via....Come avrei voluto che fosse rimasto con noi ancora....l’idea di non rivederlo più, di non sentire più il suo candore, la sua passione per il blues mi squarcia. Sono certo che aveva delle grandi idee musicali da comunicarci ancora.

Nick Gravenites
EDP: cosa c’era che non andava ?
Nick: Una strana chimicità muoveva il corpo di Michael. E molti problemi psicologici. Era un terribile insonne e questo lo minava moltissimo. Poi le droghe, parti delle quali erano tranquillanti per farlo dormire, non aiutavano certo! Non trovo una spiegazione singola alla domanda. E tutte le storie a propositi dei suoi problemi correlati alle droghe sono superficiali rispetto alla sua umana grandezza. La stampa nei confronti di ragazzi che morirono così giovani come Janis, Jim, Jimi o Michael non ha mai voluto scendere in profondità. Non sono personaggi che puoi liquidare a causa di una overdose!

Al Kooper
EDP: perchè rifuggi il successo ?
AK: tutto deve essere ricondotto alla storia della sua famiglia. Era una famglia immensamente ricca. La sua reazione fu staccarsene e prendere la strada per il Southside Chicago.

Barry Goldberg
EDP: è morto vicino a San Francisco, ma è sotterrato a L.A:, un luogo che lui non amava. Non è ironico?
BG: è cremato in un cimitero che guarda l’autostrada. Recitai l’euologia mortuaria su richiesta dei genitori al suo funerale. È stato il momento più duro della mia intera vita quello…rimettere insieme le cose di Michael davanti alla sua famiglia, durissima!…a parte la madre e il fratello, io credo che la sua famiglia non aveva capito l’impatto di quel ragazzo nella musica, sulla gente e il suo alto senso religioso.
EDP: Un ultimo ricordo…
BG: non c’è un giorno della mia vita che passi che io non mi ricordi di lui, non mi rivolga a lui. Oltre a mia moglie e a mio figlio è stata per me la persona più importante. Difficile spiegare. Mi conforta solo l’idea che se ne parli, che si possa ascoltarlo ancora oggi

Gail Goldberg
EDP: come potè accadere tutto così in fretta ?
GG: non sono sicura che la fine sarebbe comunque tardata ad arrivare. Anche se fu un incidente lui era diretto verso quella destinazione. Ma visse una vita meravigliosa, questo lo posso dire, lui trasmetteva questo entusiasmo. Fu solo una vita troppo corta per noi che siamo rimasti.

Ernesto De Pascale

Tutte le interviste sono dell’autore escluso le dichiarazioni di Bob Dylan.

 

Al Kooper & Mike Bloomfield
Fillmore East: The Lost Concert Tapes 12-13-68
Autore: Marco Redaelli

Qualche volta dagli archivi delle case discografiche saltano fuori dei veri gioielli che si pensavano perduti. Al Kooper per 30 anni ha cercato il nastro di un concerto tenuto al mitico Fillmore East ( quello di New York) nel 1968 in coppia con Mike Bloomfield. Dalla Sony gli hanno sempre risposo che il nastro non c’era più fin quando un bel giorno questo master è saltato fuori da chissà dove. Il nostro Al si è messo di impegno ed è riuscito a ridare a questo nastro un suono degno della grandezza dei due musicisti. Se fin’ora la miglior interpretazione live dei due era quella di “Live Adventure” bene questo cd si mangia quello con tutta la custodia annessa! Qui possiamo sentire tutta la grandezza di Bloomfield nel suo periodo migliore accompagnato dal magico organo di Kooper anche lui in serata di grazia. Se a questo ci aggiungete una scaletta davvero splendida e la chicca di sentire un giovanissimo Johnny Winter (presentato da Bloomfield al pubblico) dettare alla grande con Mike, una performance a dir poco strepitosa tra due dei chitarristi più grandi e geniali di sempre, solo questo brano vale l’acquisto del cd credetemi! Ma analizziamo a fondo queste 10 tracce:
Dopo un breve intro si parte con “One Way Out” un classico del blues di Elmore James, Mike è in grande serata e lo si capisce subito, l’organo di AL crea un bel tappeto sonoro che la Gibson di Bloomfield squarcia con brevi e taglienti note prima di lanciarsi uno dei suoi incredibili assolo. Dopo questo favoloso inizio Mike prende il microfono e presenta al pubblico presente Johnny Winter prima di lanciarsi con lui in “It’s My Own Fault” un brano di BB King che i due interpretano in modo fenomenale. 11 minuti da sogno di cui si è favoleggiato per anni e che ora sono disponibili in tutta la loro bellezza. Winter nonostante sia giovanissimo ha gia una voce molto tosta e una tecnica chitarristica sopraffina. Bloomfield all’inizio lascia molto spazio al giovane collega poi entra di botto nella song. I due si scambiano i ruoli a vicenda dettano e duellano in modo fantastico, bisogna ascoltare per capire fidatevi! Bloomfield per la prima volta si misura dal vivo con un chitarrista coi fiocchi e ne esce una performance da urlo! Il quinto brano è quella “59th Street Bridge Song” di Paul Simon che i due avevano gia eseguito su “Live Adventure”, bella versione con Kooper grande protagonista all’organo e alla voce. Bloomfield assiste prima di far cantare la sua Gibson come solo lui sapeva fare, c’è spazio anche per un bel solo di organo prima che i due si lancino in vorticoso finale tra urla di Al e virtuosismi di Mike.Il brano successivo è a mio giudizio il secondo miglior pezzo del disco dopo quello con Johnny. La song in questione è “(Please ) Tell Me Partner” uno slow blues scritto da Bloomfield. Proprio Mike il mattatore si questa song, canta alla grande e suona da par suo, questo è il suo territori preferito e si sente. La band lo segue e lo supporta alla grande con un ottimo lavoro della ritmica e del piano di Paul Harris . Una delle esibizioni live più belle che io abbia mai sentito per intensità e coinvolgimento. Segue una bella versione di “That’s All Right Mama” un classico di Arnold Big Boy Cudrup che molti conosceranno nella versione di Elvis, un bel blues tirato e sporco a forti tinte R&R. Si prosegue con “ToTill The End of Time”, brano reso celebre dallo Spencer Davis Group. Brano lento e struggente ben cantato da Al che duetta bene con il piano di Harris. Il disco si chiude con “Don’t Throw Your Love on me so Strong” un omaggio al grande Albert King interpretao alla grandissima di Bloomfield sempre più in stato di grazia, lui con gli slow come questo ci è sempre andato a nozze. Ultima songè la celebre ”Season of the Switch” che su Supersession era interpretata da Stven Stills. Mike gli da un’impronta più blues che personalmente preferisco.
Che dire di più: Questo è un disco favoloso, un documento storico prezioso e l’ennesimo omaggio a Mike Bloomfield chitarrista fenomenale che non ha mai goduto del giusto riconoscimento. Un dieci e lode ad Al Kooper che ha recuperato questo favoloso concerto.
 

SUPERSESSION
Una jam session di qualità incomparabile sia per il livello tecnico degli artisti, sia per l'incredibile tendenza all'improvvisazione di gruppo.
Si parte con uno standard blues introduttivo, "Albert's shuffle" un climax ascendente per il diesel di Kooper e si continua con quell'indomabile riff r 'n b firmato "Stop" quasi a dire: < Hey non senti quest'intro? Hai un Hammond che ti gira nelle cervella, quindi fermati e ascolta! >.
Si passa dalla notevole cover della "It takes a lot to lough, it takes a train to cry" di Mr. Dylan alla psichedelica e quasi acida nonchè assolutamente geniale interpretazione di "Season of the witch" di Donovan, in cui le atmosfere sognanti del wah wah modulato su frequenze notevolmente variabili descrivono mondi, colori e realtà parallele.
L'apice creativo però si raggiunge con His Holy Modal Majesty, perfetta creazione di stampo jazzistico. Qui vengono infatti partorite le più diverse idee di Stills e Kooper che si alternano tra ritmica ed improvvisazione.
Chiudo con il semplice, divertente e diretto riff della celebre "You don't love me", in cui è da segnalare la splendida base ritmica del basso che non lascia mai la melodia iniziale, e che, tra uno stacco e un altro, si insinua in cromatismi classici del blues rock di fine anni '60.
Una jam degna di nota.
Come vuola lo stesso titolo dell'album, superba. 

°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°

Michael Bloomfield
If you love these blues

scrive "Sono stato un paio di settimane fa a Londra e nonostante la famiglia appresso sono riuscito a trovare un poco di tempo per arrivare fino a Denmark Street e vedermi, anche se di sfuggita i vari negozi di strumenti musicali. Devo dire che rispetto ad anni fa ho visto molte cose interessanti a prezzi che sembravano anche buoni nonostante il cambio, a ciò si aggiunga che qui si trovano chitarre abbastanza inusuali per le nostre abitudini e la cosa diventa stuzzichina. Comunque, la zona è ricca pure di librerie molto ben fornite e mentre aspettavo la moglie che si consumava su libri di Inglese da insegnare ai pargoli alunni mi sono trovato davanti ad un libro su Michael Bloomfield. "
 

Non so quanti lo conoscano, essendo morto il 14/2/1981 a soli 37 ed essendo stato una star anomala. Questo libro si intitola "Michael Bloomfield - If you love these Blues an oral history" scritto (o raccolto se vogliamo) da Jan Mark Wolkin & Bill Keenom, edizioni Mille Freeman Books - San Francisco. Al libro è allegato anche un CD con 7 tracks riconducibili al 1964 mai pubblicate. Il libro è in Inglese, anzi in Americano. La storia di Bloomfield viene raccontata attraverso le interviste di moltissime persone a lui vicine, dai familiari ai musicisti che condivisero il suo cammino a tutto un sacco di persone che vennero in contatto con lui. La prefazione è di Carlos Santana ma c'è anche BB King, Bob Dylan e moltissimi musicisti che, coloro i quali hanno acquistato i suoi album ben conosce. La lettura non è facile (visto che è in Inglese) ma comprensibile. Ne esce uno spaccato interessantissimo di un'America a partire dal 1943 che ci fa conoscere un paese ben diverso da come lo immaginiamo e sopratutto ci fa capire come sia nato il blues elettrico e quanto questo sia dovuto a musicisti come Bloomfield.
Quest'uomo, ebreo di famiglia ricca, è stato forse il catalizzatore fondamentale perchè il blues (elettrico) diventasse un fenomeno musicale capace di imporsi. La sua capacità musicale era comunque infinita e gli permetteva di riproporre qualsiasi genere musicale americano. Personalmente ho trovato estremamente toccante tutto il racconto della visita di Dylan a Bloomfield nel 1980 e l'invito, accolto, a raggiungerlo allo spettacolo per suonare con lui. Attimi di commozione che corrono fino alla vicina fine del libro e quindi alla sua morte.
Il libro è intenso e interessante, chi conosce Bloomfield dai dischi, potrà veramente conoscerlo sorprendendosi, trovare una persona di grande sensibilità ed intelligenza intenta a scendere gli scalini più che a salirli ma sempre con un atteggiamento di grande amore e rispetto per gli altri specie i più deboli. Nel libro ci sono anche alcune foto inedite ed una discografia accurata. Molto ci sarebbe da dire ma io non ne sono capace, spero solo di contribuire a far conoscere questo musicista a coloro che lo ignorano. Volevo anche dire che non è la prima volta che Bloomfield incrocia la mia vita, da giovane l'ho molto amato, avevo l'ufficio coperto dalle sue foto, un giorno ne trovai una dove suonava una telecaster chiara, a quel tempo io cercavo una strato usata e risposi ad un annuncio, grande fu la sorpresa quando mi trovai davanti una tele 66 identica a quella della foto, ferma da diversi anni nella sua custodia come fu lasciata l'ultima volta. Quasi che ci fosse stata una connessione, che mi fosse stata inviata in regalo. Ugual cosa per questo libro, se ne stava li nascosto e ci son finito davanti proprio per caso. Non è facile trovare materiale su Mike Bloomfield ma quel libro era come li ad aspettare.
 

Se per caso nasci a Chicago non puoi che amare il blues.
Mike Bloomfield nacque a Chicago e subito si innamorò della sacra musica del diavolo, eccelso chitarrista venne svezzato nella band dell'armonicista Paul Butterfield, presto' il suo talento a Bob Dylan e Nick Gravenites, fece grandi gli Electric Flag e si rese eroico in jam session in studio con un altro gigante del mondo musicale e amico, alias Al Kooper, e nello specifico con il disco Super Session dove il buon Bloomfield riusci' nell'impresa di incenerire un altro grande della 6 corde come Stephen Stills.
Celebri poi furono gli show al Fillmore da cui sono stati ricavati importanti documenti come il Live at Bill Grahaman's Fillmore West, o nell'ancor piu' scintillante Live Adventures sempre in compagnia dell'amico Kooper.
Nonostante la grande ribalta, amava suonare nei piccoli club, difronte a pochi intimi, dove non c'e' platea e la gente ascoltava musica seduta ai tavoli, bevendo, a pochi metri da questo musicista su di uno sgabello che accarezzava dolcemente una Gibson o una Fender, che per uno come lui non faceva differenza.
Mike Bloomfield era un timido, ma interpretava il blues in modo sfacciatamente sublime, insieme a Peter Green era il bianco dall'animo piu' nero del mondo musicale, e sul finire di carriera ha suonato fra l'indifferenza totale anche in Italia quando il blues qui da noi non era una moda per festival all'aperto ma una cultura che veniva da troppo lontano.
E' morto ha soli 38 anni ma pareva ne avesse 80 per quanto era riuscito ad esprimere.
Quella vendetta lunga una canzone Così Bob Dylan creò «Like a Rolling Stone»
Il pezzo nasceva da una riserva di rabbia. Forse contro una donna Paul McCartney: «Sembrava infinita era bellissima»
 

Anticipiamo alcuni brani tratti da Down the Highway di Howard Sounes che uscirà da Guanda alla fine di agosto con il titolo Bob Dylan - Una biografia. Nel corso delle contrattazioni per l' acquisto della casa a Hi Lo Ha, Bob stava lavorando a New York a quella che sarebbe diventata forse la sua canzone più famosa, Like a Rolling Stone. «Vomito» è la parola più usata da Dylan quando parla della canzone. Quell' esplosione di disprezzo, dice, gli uscì come «un lungo getto di vomito»: ne risultò un testo alla Kerouac con «una struttura assai vomitosa», «...un pezzo ritmico su carta tutto incentrato sul mio odio e - sono ancora le sue enigmatiche parole - diretto a un fine onesto. Perciò non era odio, ma dire a qualcuno una cosa che non sapeva, dirgli che era fortunato. Rivincita, forse, è un termine più corretto». Insomma, era una canzone che nasceva da quella riserva di rabbia che era una parte importante dell' insolita personalità di Bob. Certo, Like a Rolling Stone poteva essere interpretata come una canzone misogina. Il bersaglio designato era evidentemente un bersaglio femminile e a ispirarla possono essere state molte delle donne di Bob, compresa la Baez. Ma è più probabile che il pezzo fosse diretto a quelle persone che Bob considerava «finte», e il suo successo dipese in buona parte dall' empatia che crea nell' ascoltatore l' idea della rivalsa. Per ironia della sorte, una delle più famose canzoni dell' epoca del folk-rock - che predicò gli ideali di pace e armonia - parla di vendetta. Like a Rolling Stone venne registrata a New York durante un acquazzone estivo il 16 giugno 1965. Bob era arrivato allo studio della Columbia insieme al giovane Mike Bloomfield, che doveva suonare la chitarra come solista. Musicista blues di Chicago dal talento prodigioso, Bloomfield aveva un ottimo rapporto con Bob, con il quale non era facilissimo lavorare: nessuno dei due amava le prove né spiegare prima quel che aveva in mente di realizzare. (...) Il singolo Like a Rolling Stone uscì il 20 giugno. Benché durasse quasi il doppio dei singoli dell' epoca, con i suoi cinque minuti e cinquantanove secondi, e fosse poco adatto ai passaggi radiofonici, scalò inesorabile le classifiche e, soprattutto, ebbe grande influenza sugli altri musicisti. «Era la voce più potente che avessi mai sentito», ricorda Bruce Springsteen, che all' epoca era un ragazzo e viveva a Freehold, nel New Jersey. John Lennon e Paul McCartney avevano sentito il disco un giorno in cui si erano incontrati per scrivere dei brani. «Sembrava immensa, infinita. Era bellissima», dice McCartney. «Bob ha fatto vedere a tutti che ci si poteva spingere ancora un po' più in là». Quattro giorni dopo l' uscita di Like a Rolling Stone Bob andò al Newport Folk Festival. I ritmi, di solito piuttosto tranquilli e prevedibili della manifestazione, in quel 1965 furono sconvolti dalla decisione di Bob di eseguire amplificati i suoi nuovi brani. Non era arrivato a Newport con quell' idea in mente: gli era venuta così, per caso. Nel pomeriggio di sabato 24 luglio Bob aveva suonato All I Really Want to Do da solista, alla chitarra acustica come sempre. Quello stesso pomeriggio la band blues elettrica di Paul Butterfield - c' era anche l' amico di Bob, Mike Bloomfield - suonava all' interno del Bluesville Workshop. Alan Lomax, che nutriva lo sdegno del purista nei confronti dei ragazzi bianchi medioborghesi che suonavano il blues, schernì il gruppo al momento della presentazione. Albert Grossman, che pensava di proporsi come loro agente, si sentì oltraggiato: affrontò Lomax e i due vennero alle mani. «Si rotolavano per terra», ricorda divertita Sally Grossman. «Era uno scontro tra l' élite e il popolo». Bob a quel punto prese una decisione epocale: avrebbe eseguito le sue canzoni nuove con l' amplificatore, per dimostrare a Lomax e agli altri che quel tipo di musica esisteva e non si poteva liquidare così. Aveva già inciso un disco composto in parte di brani rock, ma esibirsi sul palco di Newport era un insulto ai tradizionalisti che consideravano il rock musica commerciale. «Stavolta Dylan si era proprio rotto: "Be' , che vadano affanculo. Se pensano di poter tenere fuori di qui la musica elettrica, se ne accorgeranno", disse», racconta Jonathan Taplin, roadie e in seguito road manager dei gruppi di Grossman. «Di punto in bianco decise che voleva suonare con strumenti elettrici».