Il suo nome era Michael Bloomfield e ci lasciò
il 15 Febbraio 1981. Era nato a Chicago il 28 Luglio 1943.
Noi lo ricordiamo oggi attraverso la voce di alcune delle persone che gli
furono accanto:
Barry Goldberg (compagno di studi e comprimario dei KGB, presidente della
Columbia negli anni ottanta e produttore)
EDP: come vi eravate conosciuti con Michael?
Barry Goldberg: Michael ed io ci ritrovammo alla Central YMCA High School.
Ci avevano entrambi cacciato dai rispettivi collegi privati. Lui aveva 15
anni e già si parlava di lui in città. Io iniziai a suonare a Rush Street
mentre Michael e Paul già si esibivano nei blues clubs come The Old Town.
Bloomfield ci introduceva regolarmente a gente come Big Joe Williams che era
per lui una specie di passpartù e che gli permise di conoscere personalmente
tanti leggendari bluesmen sparsi qua e là per l’America. Era amico di tutti,
attraverso lui conobbi musicisti come Steve Miller, Charlie Musselwhite e
Harvey Mandel. Lui si faceva prestare la macchina dalla madre e mi chiedeva
di seguirlo in questi locali pazzeschi, assolutamente inusuali per noi
bianchi. Una sera mi portò in un posto dove suonava Howling Wolf che,
naturalmente, riconobbe subito Michael e ci chiese ad entrambi di suonare.
Io me la facevo sotto perchè quel pubblico di neri mi impauriva, ma non
appena Howling Wolf sorrise la gente ci accettò con un gran appaluso. Lo
stesso accadde tante volte con Muddy Waters e la sua band quando Otis Spann
sedeva al piano. Una sera Muddy fermò la band e chiese a Otis di lasciarmi
il pianoforte e io chiusi gli occhi e partii con loro. È stato uno dei
grandi momenti della mia vita...Poi, di seguito conoscemmo altri giovani che
cercavano la nostra stessa musica, gente come Robbie Robertson e Levon Helm.
Dylan veniva a suonare a The Bear, il locale di proprietà del suo manager,
Albert Grossman. La mia fidanzata e la fidanzata di Michael erano due care
amiche...passavamo la notte ad ascoltare oscuri 45 giri di blues e a
commentarli come non si fa più da tempo...mi ricordo perfettamente di una
notte passata ad ascoltare “Shake Your Money Maker” nella versione di Otis
Rush su Cobra records.
Elvin Bishop (chitarrista della Paul Butterfield Blues Band)
Fu una grande esperienza stargli al fianco perchè quando lo conobbi lui era
già Michael Bloomfield e io ero intimorito dalla sua presenza. Ma lui faceva
di tutto per metterti a proprio agio. Io ero il country boy della
Butterfield blues band, ero arrivato là su con Steve Miller che veniva dal
Texas, io dalla Georgia. Lui ci raccontava delle storie pazzesche e aveva
solo 23 anni: Sembrava essere cresciuto nel delta del Mississippi e quando
raccontava di Bukkha White, Sleepy John Estes, Freddie Mc Dowell, potevi
sentire la loro presenza nella casa...
Mark Naftalin (tastierista della Paul Butterfield Blues band)
Arrivai a Chicago nell’inverno 1962 per frequentare l’università. Nei locali
si ballava il twist, ma poi si esibiva una band dal vivo. Fra queste band ve
ne era una con Mike alla chitarra che mi impressionò per la precisione con
cui suonava e per la velocità tecnica di Bloomfield. Il mio primo approccio
con lui fu quasi da fan, gli chiesi come faceva a suonare così e lui mi
rispose che passava le giornate studiando cosa che scoprii poi essere falsa
poichè Michael non provava mai e suonava solo d’istinto.
L’università di Chiacago è proprio nel bel centro del Southside e fu così
che cominicia a notare la presenza di Paul Butterfield. Dove si esibiva
c’era un pianoforte e io a volte li accompagnavo, ma ciò che suonavo era
inaudibile e ci perdemmo di vista.
Nella primavera 1965 me li ritrovai sul palco del Village Gate di New York
City come Butterfield Blues Band e con Jerome Arnold e Sam lay alla ritmica,
proprio quelli del disco d’esordio. Ciò che ascoltai quella sera fu la
miglior musica che non sentivo da anni, musica pura, vero Butterfield Blues
Sound. Nell’estate 1965 divennero resident band al Cafe au Go Go e Mike era
con loro. Mi ammisero a ruolo di pianista “non amplificato”, quasi un gioco
ma presto, doveva essere Settembre, Mike mi disse che per loro era ok avermi
nel gruppo. Mi portarono in studio. Loro avevano già registrato interamente
un vero album che però avevano rifiutato obbligando la casa discografica a
non realizzarlo. Mi chiesero di suonare l’organo quel giorno, ma era tardi.
Tornammo il giorno dopo per un brano che finì sul primo disco, "Thank You
Mr. Poobah"; io vi suono un solo, ma se la vostra idea di organista è Jimmy
Smith, allora dimenticatevelo! Avevo il fottuto terrore di non essere
accettato dal gruppo, ma quel giorno steso registrammo 8 degli undici brani
del disco d’esordio. A ripensarci mi sembra la storia di
Cenerentola!…Lasciamelo dire: non esistevano band come la Butterfield Blues
Band…”East west” come la conoscete su disco è solo la punta dell’iceberg,
ascoltate quella su “Strawberry Jam”…e ve ne sono almeno altre due
registrazioni dal vivo che potrebbero svegliare Mike!!! E pensare che per un
pelo non suonai con loro a Newport quando accompagnarono Dylan...ma da
qualche parte mi ricordo che esistono sicuramente delle fantastiche session
con Big Joe Turner…
Al Kooper (comprimario di Supersession, fondatore dei BS &T, artista solista
e produttore, suonò l’organo hammond per la prima volta nella sua vita in
”Higway61 revisited" di Bob Dylan)
EDP: mi ricordo di aver letto interviste con Bloomfield piuttosto esitante
sulla vostra collaborazione
AK: conoscendo bene Mike lasciami pensare che aveva più a che fare con il
successo che con il contenuto del nostro lavoro. Nessuno di noi voleva
diventare una rock star !
EDP: sicuramente il vostro lavoro su Supersession è fra i più
rappresentativi del suo stile…
AK: quello era il mio vero fine, infatti. Da produttore, oltre che da
musicista, io volevo catturarlo al meglio perche, ascoltando le sue
precedenti registrazioni, avevo l’idea che nessuno aveva mai colto il vero
Bloomfield. Mi sentivo in missione: i dischi della Butterfield blues band
non restituiscono il sound di quel gruppo dal vivo e l’album di The Electric
Flag fu una buffonata per una band dal potenziale pazzesco che dal vivo
poteva uccidere chiunque! Quello era il mio punto di vista e ancora oggi
credo che Supersession rappresenti un preciso osservatorio del migliore
Michael alla chitarra. La mia idea era quella di emulare il sound e lo stile
della Blue Note degli anni cinquanta. Nella nostra mente il successo doveva
essere la cosa più lontana da quel disco e da noi. E si è invece rivelato
l’album di maggior successo della carriera di entrambi, più dei Blood, Sweat
& Tears per me. Meglio di quello guadagnai solo con le mie produzioni dei
Lynard Skynard, ma il coinvolgimento era un altro. Io penso che Supersession
sia il più alto momento di Bloonmfield e mi auguro che presto la Columbia
pubblichi un nostro fantastico concerto al Fillmore East di New York (13 e
14 Dicembre 1968, da cui sono tratte le foto di questo articolo). Poi, negli
anni a venire Michael sarebbe lentamente sfumato via come persona prima
ancora che come chitarrista.
EDP: cosa veramente accadde a Newport quella sera del 1965, anche lei era
lì?
AK: Dylan non venne mai veramente fischiato. Fu la star di quei tre giorni,
aveva una corte che lo seguiva dovunque. Furbo come è sempre stato fece solo
infuriare il pubblico perchè dopo tre brani suonati in stile rock & roll
salutò tutti e se ne andò! Ecco come andarono le cose. La verità è che si
era passata la notte precedente al concerto provando solo tre canzoni e la
mia idea personale è che Bob non volesse suonare più di quelle tre canzoni
quella sera…
Barry Goldberg
EDP: cosa accadde a Newport ? Lei si unì al gruppo di Butterfield ma anche
Al Kooper era dei vostri.
BG: io giravo spesso con loro, Nick (Gravenites) non suonava ancora con il
gruppo, ma per Newport il produttore Paul Rotschild disse bruscamente che
non voleva organisti fra le palle, quando mi vide però Michael, Paul e Bob
in persona misero in piedi una specie di rappresaglia di soppiatto mentre
Alan Lomax e Albert Grossman per poco non se le davano nel retro placo.
Montammo tutti su e Michael alzò il volume del suo amplificatore a dieci e
urlò ”Partiamo!”. Dopo quel momento non ricordo altro. Eravamo coscienti di
essere in missione!
Bob Dylan (Robert Zimmermann)
Era il 1959 o il 1960 e stavo esibendomi in un club di Chicago quando arrivò
un giovanotto e mi disse di essere un chitarrista. Aveva lo strumento con sè
ed io gli chiesi cosa era in grado di suonare e lui cominciò con cose tipo
Big Bill Broonzy e poi nello stile di molti, citandomi Sonny Boy Williamson
come influenza. Qualunque cosa io suonassi lui era in grado di accompagnarmi
e se io suonavo un brano che lui conosceva lui mi seguiva nello stile
dell’autore originale della canzone se quello era stato un chitarista lui
stesso! Mi rimase impresso quel ragazzo...
Nel 1963, o forse era il 1964, io ero a New York per una registrazione e io
avevo bisogno di un chitarrista e mi ricordai di lui e lo chiamai. Mi
dissero che da poco faceva parte della prima band di blues bianco dell’area
del Massachussettes, la Butterfield Blues band. Lo mandai a cercare. Fu lui
a farmi conoscere Al Kooper e tutta la sua band. Aveva le idee molto
precise. Mi fece capire molte cose sul significato del Blues nel rock &
roll. A Newport il suo supporto fu essenziale. Poi ci perdemmo per molti
anni e ci reincontrammo solo nel 1980, ma era molto molto cambiato.
Barry Goldberg
EDP: Michael ebbe il credito che si meritava in vita?
BG: Sicuramente dalla madre Dorothy e dal fratello Allen. Musicisti come
B.B. King lo stimavano per quello che lui aveva fatto per loro. Il Blues
ebbe un suo posto importante sul palcoscenico del Fillmore di Bill Graham
grazie a Michael. Fu lui a convincere Bill ad aprire le porte a quei
musicisti. Bloomfield chiamò personalmente quei musicisti uno ad uno. Il
merito non è di nessun altro.
Bloomfield era una persona eccellente, con lui mi sentivo sempre al sicuro.
Quando suonava era in grado di ispirarmi a livelli superiori, l’unico altro
essere umano a darmi quello fu Hendrix. Aveva uno stile intenso e quando
faceva vibrare le corde sui registri alti il suono che produceva, quello di
un moderno, elettrificato B.B. King, non avevav pari. B.B. ha sempre
riconosciuto a Michael questo! Senza Bloomfield Mr. King non avrebbe avuto
lo stesso successo.
B.B. King
Era un fantastico essere umano e una persona emotivamente ricca. Un vero
studioso del blues...sapeva cose che per me o, credo, per molti altri
artisti della mia razza erano apparentemente poco importanti. Più di una
volta ho pensato che se questo ragazzo bianco aveva assimilato così a fondo
la conoscenza a molti musicisti aiutandoli quando era necessario e io l’ho
visto prendere la nostra parte in situazioni spesso diffcili da difendere.
Sono orgoglioso se qualcuno pensa che io ho dato a lui qualcosa, perchè lui
mi diede tanto e mi fece capire il punto di vista del blues dei ragazzi
bianchi aiutandomi a costruire un pubblico.
Charlie Musselwhite
Ho dei bellisssimi ricordi di Mike. Lui è quello che introdotto più giovani
bianchi al blues di chiunque altro. Il suo era un lavoro sistematico e
maniacale. Poi era una persona divertente, ma un attimo dopo cambiava
completamente umore. Era come se la sua mente non staccasse mai. Magari un
dottore potrebbe spiegartela con una vera diagnosi, ma in poche parole Mike
non dormiva mai, la sua era insonnia cronica. La vita fu molto dura con lui.
Fabio Treves
Per me fu una grande ispirazione...ci incontrammo i primi di settembre 1980,
Claudio (Trotta) lo aveva portato in Italia con Woody Harris e una
violoncellista per una breve tournee acustica. Io mi presentai e lui mi
disse che assomigliavo a Paul (Butterfield) e che gli davo delle buone
vibrazioni. Gli dissi che ero armonicista. La sera mi chiamò sul
palcoscenico per suonare con lui un brano che poi divennero due o tre e al
termine mi abbracciò forte. Nelle sere successive mettemmo in piedi due
date, Torino e Verona, con la TBB e registrammo un disco insieme. Non dava
l’impressione di stare male, era sempre positivo.
Pensare a lui mi emoziona ancora oggi… è bello ricordarlo.
Maria Muldaur
Era un bel tipo, un uomo affascinante. Incidemmo insieme una colonna sonora,
il film si chiamava “Steelyard Blues” con Jane Fonda e Donald Sutherland. Fu
un periodo bellissimo perchè sperimentammo moltissime cose insieme a lui e a
Paul. Per lui risuonare con Butterfield e Gravenites, che produsse il disco,
era una cosa eccitante, si vedeva; voleva fare bella figura ed era sempre
pieno di entusiasmo. Respiravamo l’aria della baia, erano i primi anni
settanta.
Nick Gravenites (fondatore di The Electric Flag, produttore e amico di
Bloomfield)
Io ho ricordi molto variegati: buoni, cattivi, alcuni addirittura di
indifferenza. Quello che mi impressionò di più sin dalle prime volte fu il
suo modo d’essere. Lui era qualcuno, e la gente ha fatto presto a
dimenticarsi il suo carisma. Sopratutto quando muovevamo i primi passi
musicali insieme lui aveva davanti a se una visione chiara di ciò che
voleva. E la gente della nostra età voleva stargli accanto per beneficiare
di qualche frangia di tutto ciò, della sua generosità, del suo straordinario
essere. Ha cambiato profondamente alcune persone, e non poteva essere
altrimenti. Michael ha aiutato molte persone a proprio scapito. Molte cose
che erano importanti per gli altri non lo erano per lui. Era di una ottima
famiglia ebrea e rifiutò qualsiasi beneficio e si ritrovò nel cannibalistico
business della discografia con la sensazione che tutti gli stessero portando
via qualcosa. Ma qualsiasi cosa gli portassero via nessuno poteva toccare la
sua artisticità. Viveva perciò questa dimensione doppia fra ciò che poteva
dare musicalmente e ciò che voleva dare a quegli squali.
Pensieri sulla morte di Michael Bloomfield
Charlie Musselwhite
EDP: quando lo incontrai a Firenze nel settembre del 1980 non dava certo
l’idea di essere più un junkie. Tutti dicevano che stava bene già da un pò
Charlie: Posso dirti che andò in overdose in casa di qualcuno e che poi
venne montato su una macchina e portato da qualche parte e lì abbandonato
così che i padroni di casa non potessero essere connessi alla sua morte. È
anche vero che aveva OD’d altre volte. C’era un diavolo che da anni stava
tentando di portarselo via....Come avrei voluto che fosse rimasto con noi
ancora....l’idea di non rivederlo più, di non sentire più il suo candore, la
sua passione per il blues mi squarcia. Sono certo che aveva delle grandi
idee musicali da comunicarci ancora.
Nick Gravenites
EDP: cosa c’era che non andava ?
Nick: Una strana chimicità muoveva il corpo di Michael. E molti problemi
psicologici. Era un terribile insonne e questo lo minava moltissimo. Poi le
droghe, parti delle quali erano tranquillanti per farlo dormire, non
aiutavano certo! Non trovo una spiegazione singola alla domanda. E tutte le
storie a propositi dei suoi problemi correlati alle droghe sono superficiali
rispetto alla sua umana grandezza. La stampa nei confronti di ragazzi che
morirono così giovani come Janis, Jim, Jimi o Michael non ha mai voluto
scendere in profondità. Non sono personaggi che puoi liquidare a causa di
una overdose!
Al Kooper
EDP: perchè rifuggi il successo ?
AK: tutto deve essere ricondotto alla storia della sua famiglia. Era una
famglia immensamente ricca. La sua reazione fu staccarsene e prendere la
strada per il Southside Chicago.
Barry Goldberg
EDP: è morto vicino a San Francisco, ma è sotterrato a L.A:, un luogo che
lui non amava. Non è ironico?
BG: è cremato in un cimitero che guarda l’autostrada. Recitai l’euologia
mortuaria su richiesta dei genitori al suo funerale. È stato il momento più
duro della mia intera vita quello…rimettere insieme le cose di Michael
davanti alla sua famiglia, durissima!…a parte la madre e il fratello, io
credo che la sua famiglia non aveva capito l’impatto di quel ragazzo nella
musica, sulla gente e il suo alto senso religioso.
EDP: Un ultimo ricordo…
BG: non c’è un giorno della mia vita che passi che io non mi ricordi di lui,
non mi rivolga a lui. Oltre a mia moglie e a mio figlio è stata per me la
persona più importante. Difficile spiegare. Mi conforta solo l’idea che se
ne parli, che si possa ascoltarlo ancora oggi
Gail Goldberg
EDP: come potè accadere tutto così in fretta ?
GG: non sono sicura che la fine sarebbe comunque tardata ad arrivare. Anche
se fu un incidente lui era diretto verso quella destinazione. Ma visse una
vita meravigliosa, questo lo posso dire, lui trasmetteva questo entusiasmo.
Fu solo una vita troppo corta per noi che siamo rimasti.
Ernesto De Pascale
Tutte le interviste sono dell’autore escluso le dichiarazioni di Bob Dylan.
Al Kooper & Mike Bloomfield
Fillmore East: The Lost Concert Tapes 12-13-68
Autore: Marco Redaelli
Qualche volta dagli archivi delle case discografiche saltano fuori dei veri
gioielli che si pensavano perduti. Al Kooper per 30 anni ha cercato il
nastro di un concerto tenuto al mitico Fillmore East ( quello di New York)
nel 1968 in coppia con Mike Bloomfield. Dalla Sony gli hanno sempre risposo
che il nastro non c’era più fin quando un bel giorno questo master è saltato
fuori da chissà dove. Il nostro Al si è messo di impegno ed è riuscito a
ridare a questo nastro un suono degno della grandezza dei due musicisti. Se
fin’ora la miglior interpretazione live dei due era quella di “Live
Adventure” bene questo cd si mangia quello con tutta la custodia annessa!
Qui possiamo sentire tutta la grandezza di Bloomfield nel suo periodo
migliore accompagnato dal magico organo di Kooper anche lui in serata di
grazia. Se a questo ci aggiungete una scaletta davvero splendida e la chicca
di sentire un giovanissimo Johnny Winter (presentato da Bloomfield al
pubblico) dettare alla grande con Mike, una performance a dir poco
strepitosa tra due dei chitarristi più grandi e geniali di sempre, solo
questo brano vale l’acquisto del cd credetemi! Ma analizziamo a fondo queste
10 tracce:
Dopo un breve intro si parte con “One Way Out” un classico del blues di
Elmore James, Mike è in grande serata e lo si capisce subito, l’organo di AL
crea un bel tappeto sonoro che la Gibson di Bloomfield squarcia con brevi e
taglienti note prima di lanciarsi uno dei suoi incredibili assolo. Dopo
questo favoloso inizio Mike prende il microfono e presenta al pubblico
presente Johnny Winter prima di lanciarsi con lui in “It’s My Own Fault” un
brano di BB King che i due interpretano in modo fenomenale. 11 minuti da
sogno di cui si è favoleggiato per anni e che ora sono disponibili in tutta
la loro bellezza. Winter nonostante sia giovanissimo ha gia una voce molto
tosta e una tecnica chitarristica sopraffina. Bloomfield all’inizio lascia
molto spazio al giovane collega poi entra di botto nella song. I due si
scambiano i ruoli a vicenda dettano e duellano in modo fantastico, bisogna
ascoltare per capire fidatevi! Bloomfield per la prima volta si misura dal
vivo con un chitarrista coi fiocchi e ne esce una performance da urlo! Il
quinto brano è quella “59th Street Bridge Song” di Paul Simon che i due
avevano gia eseguito su “Live Adventure”, bella versione con Kooper grande
protagonista all’organo e alla voce. Bloomfield assiste prima di far cantare
la sua Gibson come solo lui sapeva fare, c’è spazio anche per un bel solo di
organo prima che i due si lancino in vorticoso finale tra urla di Al e
virtuosismi di Mike.Il brano successivo è a mio giudizio il secondo miglior
pezzo del disco dopo quello con Johnny. La song in questione è “(Please )
Tell Me Partner” uno slow blues scritto da Bloomfield. Proprio Mike il
mattatore si questa song, canta alla grande e suona da par suo, questo è il
suo territori preferito e si sente. La band lo segue e lo supporta alla
grande con un ottimo lavoro della ritmica e del piano di Paul Harris . Una
delle esibizioni live più belle che io abbia mai sentito per intensità e
coinvolgimento. Segue una bella versione di “That’s All Right Mama” un
classico di Arnold Big Boy Cudrup che molti conosceranno nella versione di
Elvis, un bel blues tirato e sporco a forti tinte R&R. Si prosegue con
“ToTill The End of Time”, brano reso celebre dallo Spencer Davis Group.
Brano lento e struggente ben cantato da Al che duetta bene con il piano di
Harris. Il disco si chiude con “Don’t Throw Your Love on me so Strong” un
omaggio al grande Albert King interpretao alla grandissima di Bloomfield
sempre più in stato di grazia, lui con gli slow come questo ci è sempre
andato a nozze. Ultima songè la celebre ”Season of the Switch” che su
Supersession era interpretata da Stven Stills. Mike gli da un’impronta più
blues che personalmente preferisco.
Che dire di più: Questo è un disco favoloso, un documento storico prezioso e
l’ennesimo omaggio a Mike Bloomfield chitarrista fenomenale che non ha mai
goduto del giusto riconoscimento. Un dieci e lode ad Al Kooper che ha
recuperato questo favoloso concerto.
SUPERSESSION
Una jam session di qualità incomparabile sia per il livello tecnico degli
artisti, sia per l'incredibile tendenza all'improvvisazione di gruppo.
Si parte con uno standard blues introduttivo, "Albert's shuffle" un climax
ascendente per il diesel di Kooper e si continua con quell'indomabile riff r
'n b firmato "Stop" quasi a dire: < Hey non senti quest'intro? Hai un
Hammond che ti gira nelle cervella, quindi fermati e ascolta! >.
Si passa dalla notevole cover della "It takes a lot to lough, it takes a
train to cry" di Mr. Dylan alla psichedelica e quasi acida nonchè
assolutamente geniale interpretazione di "Season of the witch" di Donovan,
in cui le atmosfere sognanti del wah wah modulato su frequenze notevolmente
variabili descrivono mondi, colori e realtà parallele.
L'apice creativo però si raggiunge con His Holy Modal Majesty, perfetta
creazione di stampo jazzistico. Qui vengono infatti partorite le più diverse
idee di Stills e Kooper che si alternano tra ritmica ed improvvisazione.
Chiudo con il semplice, divertente e diretto riff della celebre "You don't
love me", in cui è da segnalare la splendida base ritmica del basso che non
lascia mai la melodia iniziale, e che, tra uno stacco e un altro, si insinua
in cromatismi classici del blues rock di fine anni '60.
Una jam degna di nota.
Come vuola lo stesso titolo dell'album, superba.
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Michael Bloomfield
If you love these blues
scrive "Sono stato un paio di settimane fa a Londra e nonostante la famiglia
appresso sono riuscito a trovare un poco di tempo per arrivare fino a
Denmark Street e vedermi, anche se di sfuggita i vari negozi di strumenti
musicali. Devo dire che rispetto ad anni fa ho visto molte cose interessanti
a prezzi che sembravano anche buoni nonostante il cambio, a ciò si aggiunga
che qui si trovano chitarre abbastanza inusuali per le nostre abitudini e la
cosa diventa stuzzichina. Comunque, la zona è ricca pure di librerie molto
ben fornite e mentre aspettavo la moglie che si consumava su libri di
Inglese da insegnare ai pargoli alunni mi sono trovato davanti ad un libro
su Michael Bloomfield. "
Non so quanti lo conoscano, essendo morto il 14/2/1981 a soli 37 ed essendo
stato una star anomala. Questo libro si intitola "Michael Bloomfield - If
you love these Blues an oral history" scritto (o raccolto se vogliamo) da
Jan Mark Wolkin & Bill Keenom, edizioni Mille Freeman Books - San Francisco.
Al libro è allegato anche un CD con 7 tracks riconducibili al 1964 mai
pubblicate. Il libro è in Inglese, anzi in Americano. La storia di
Bloomfield viene raccontata attraverso le interviste di moltissime persone a
lui vicine, dai familiari ai musicisti che condivisero il suo cammino a
tutto un sacco di persone che vennero in contatto con lui. La prefazione è
di Carlos Santana ma c'è anche BB King, Bob Dylan e moltissimi musicisti
che, coloro i quali hanno acquistato i suoi album ben conosce. La lettura
non è facile (visto che è in Inglese) ma comprensibile. Ne esce uno spaccato
interessantissimo di un'America a partire dal 1943 che ci fa conoscere un
paese ben diverso da come lo immaginiamo e sopratutto ci fa capire come sia
nato il blues elettrico e quanto questo sia dovuto a musicisti come
Bloomfield.
Quest'uomo, ebreo di famiglia ricca, è stato forse il catalizzatore
fondamentale perchè il blues (elettrico) diventasse un fenomeno musicale
capace di imporsi. La sua capacità musicale era comunque infinita e gli
permetteva di riproporre qualsiasi genere musicale americano. Personalmente
ho trovato estremamente toccante tutto il racconto della visita di Dylan a
Bloomfield nel 1980 e l'invito, accolto, a raggiungerlo allo spettacolo per
suonare con lui. Attimi di commozione che corrono fino alla vicina fine del
libro e quindi alla sua morte.
Il libro è intenso e interessante, chi conosce Bloomfield dai dischi, potrà
veramente conoscerlo sorprendendosi, trovare una persona di grande
sensibilità ed intelligenza intenta a scendere gli scalini più che a salirli
ma sempre con un atteggiamento di grande amore e rispetto per gli altri
specie i più deboli. Nel libro ci sono anche alcune foto inedite ed una
discografia accurata. Molto ci sarebbe da dire ma io non ne sono capace,
spero solo di contribuire a far conoscere questo musicista a coloro che lo
ignorano. Volevo anche dire che non è la prima volta che Bloomfield incrocia
la mia vita, da giovane l'ho molto amato, avevo l'ufficio coperto dalle sue
foto, un giorno ne trovai una dove suonava una telecaster chiara, a quel
tempo io cercavo una strato usata e risposi ad un annuncio, grande fu la
sorpresa quando mi trovai davanti una tele 66 identica a quella della foto,
ferma da diversi anni nella sua custodia come fu lasciata l'ultima volta.
Quasi che ci fosse stata una connessione, che mi fosse stata inviata in
regalo. Ugual cosa per questo libro, se ne stava li nascosto e ci son finito
davanti proprio per caso. Non è facile trovare materiale su Mike Bloomfield
ma quel libro era come li ad aspettare.
Se per caso nasci a Chicago non puoi che amare il blues.
Mike Bloomfield nacque a Chicago e subito si innamorò della sacra musica del
diavolo, eccelso chitarrista venne svezzato nella band dell'armonicista Paul
Butterfield, presto' il suo talento a Bob Dylan e Nick Gravenites, fece
grandi gli Electric Flag e si rese eroico in jam session in studio con un
altro gigante del mondo musicale e amico, alias Al Kooper, e nello specifico
con il disco Super Session dove il buon Bloomfield riusci' nell'impresa di
incenerire un altro grande della 6 corde come Stephen Stills.
Celebri poi furono gli show al Fillmore da cui sono stati ricavati
importanti documenti come il Live at Bill Grahaman's Fillmore West, o
nell'ancor piu' scintillante Live Adventures sempre in compagnia dell'amico
Kooper.
Nonostante la grande ribalta, amava suonare nei piccoli club, difronte a
pochi intimi, dove non c'e' platea e la gente ascoltava musica seduta ai
tavoli, bevendo, a pochi metri da questo musicista su di uno sgabello che
accarezzava dolcemente una Gibson o una Fender, che per uno come lui non
faceva differenza.
Mike Bloomfield era un timido, ma interpretava il blues in modo
sfacciatamente sublime, insieme a Peter Green era il bianco dall'animo piu'
nero del mondo musicale, e sul finire di carriera ha suonato fra
l'indifferenza totale anche in Italia quando il blues qui da noi non era una
moda per festival all'aperto ma una cultura che veniva da troppo lontano.
E' morto ha soli 38 anni ma pareva ne avesse 80 per quanto era riuscito ad
esprimere.
Quella vendetta lunga una canzone Così Bob Dylan creò «Like a Rolling Stone»
Il pezzo nasceva da una riserva di rabbia. Forse contro una donna Paul
McCartney: «Sembrava infinita era bellissima»
Anticipiamo alcuni brani
tratti da Down the Highway di Howard Sounes che uscirà da Guanda alla fine
di agosto con il titolo Bob Dylan - Una biografia. Nel corso delle
contrattazioni per l' acquisto della casa a Hi Lo Ha, Bob stava lavorando a
New York a quella che sarebbe diventata forse la sua canzone più famosa,
Like a Rolling Stone. «Vomito» è la parola più usata da Dylan quando parla
della canzone. Quell' esplosione di disprezzo, dice, gli uscì come «un lungo
getto di vomito»: ne risultò un testo alla Kerouac con «una struttura assai
vomitosa», «...un pezzo ritmico su carta tutto incentrato sul mio odio e -
sono ancora le sue enigmatiche parole - diretto a un fine onesto. Perciò non
era odio, ma dire a qualcuno una cosa che non sapeva, dirgli che era
fortunato. Rivincita, forse, è un termine più corretto». Insomma, era una
canzone che nasceva da quella riserva di rabbia che era una parte importante
dell' insolita personalità di Bob. Certo, Like a Rolling Stone poteva essere
interpretata come una canzone misogina. Il bersaglio designato era
evidentemente un bersaglio femminile e a ispirarla possono essere state
molte delle donne di Bob, compresa la Baez. Ma è più probabile che il pezzo
fosse diretto a quelle persone che Bob considerava «finte», e il suo
successo dipese in buona parte dall' empatia che crea nell' ascoltatore l'
idea della rivalsa. Per ironia della sorte, una delle più famose canzoni
dell' epoca del folk-rock - che predicò gli ideali di pace e armonia - parla
di vendetta. Like a Rolling Stone venne registrata a New York durante un
acquazzone estivo il 16 giugno 1965. Bob era arrivato allo studio della
Columbia insieme al giovane Mike Bloomfield, che doveva suonare la chitarra
come solista. Musicista blues di Chicago dal talento prodigioso, Bloomfield
aveva un ottimo rapporto con Bob, con il quale non era facilissimo lavorare:
nessuno dei due amava le prove né spiegare prima quel che aveva in mente di
realizzare. (...) Il singolo Like a Rolling Stone uscì il 20 giugno. Benché
durasse quasi il doppio dei singoli dell' epoca, con i suoi cinque minuti e
cinquantanove secondi, e fosse poco adatto ai passaggi radiofonici, scalò
inesorabile le classifiche e, soprattutto, ebbe grande influenza sugli altri
musicisti. «Era la voce più potente che avessi mai sentito», ricorda Bruce
Springsteen, che all' epoca era un ragazzo e viveva a Freehold, nel New
Jersey. John Lennon e Paul McCartney avevano sentito il disco un giorno in
cui si erano incontrati per scrivere dei brani. «Sembrava immensa, infinita.
Era bellissima», dice McCartney. «Bob ha fatto vedere a tutti che ci si
poteva spingere ancora un po' più in là». Quattro giorni dopo l' uscita di
Like a Rolling Stone Bob andò al Newport Folk Festival. I ritmi, di solito
piuttosto tranquilli e prevedibili della manifestazione, in quel 1965 furono
sconvolti dalla decisione di Bob di eseguire amplificati i suoi nuovi brani.
Non era arrivato a Newport con quell' idea in mente: gli era venuta così,
per caso. Nel pomeriggio di sabato 24 luglio Bob aveva suonato All I Really
Want to Do da solista, alla chitarra acustica come sempre. Quello stesso
pomeriggio la band blues elettrica di Paul Butterfield - c' era anche l'
amico di Bob, Mike Bloomfield - suonava all' interno del Bluesville
Workshop. Alan Lomax, che nutriva lo sdegno del purista nei confronti dei
ragazzi bianchi medioborghesi che suonavano il blues, schernì il gruppo al
momento della presentazione. Albert Grossman, che pensava di proporsi come
loro agente, si sentì oltraggiato: affrontò Lomax e i due vennero alle mani.
«Si rotolavano per terra», ricorda divertita Sally Grossman. «Era uno
scontro tra l' élite e il popolo». Bob a quel punto prese una decisione
epocale: avrebbe eseguito le sue canzoni nuove con l' amplificatore, per
dimostrare a Lomax e agli altri che quel tipo di musica esisteva e non si
poteva liquidare così. Aveva già inciso un disco composto in parte di brani
rock, ma esibirsi sul palco di Newport era un insulto ai tradizionalisti che
consideravano il rock musica commerciale. «Stavolta Dylan si era proprio
rotto: "Be' , che vadano affanculo. Se pensano di poter tenere fuori di qui
la musica elettrica, se ne accorgeranno", disse», racconta Jonathan Taplin,
roadie e in seguito road manager dei gruppi di Grossman. «Di punto in bianco
decise che voleva suonare con strumenti elettrici».
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