Da qualche parte, nel bel
mezzo dello sterminato archivio fotografico di Elliott Landy, riposa un
vecchio scatto in bianco e nero. Impolverato e seducente, reclama un posto
d'onore, ma anche un nascondiglio, per essere scoperto e vissuto con la
sorpresa che merita. L'immagine è stata scattata nella campagna di
Woodstock, a West Saugerties, stato di New York, nel 1968.
Una fatiscente panchina di legno è al centro dell'obiettivo: potrebbe
accogliere al massimo tre persone, sedute pure scomode.
Quella mattina ce ne sono ben cinque, ritratte di spalle, mentre ammirano
meditabonde lo spettacolo naturale che si para loro innanzi: un laghetto
limpido e il sole mattutino che ne rischiara il manto argenteo. Sull'altra
sponda, ancora terra, alberi spogli per l'inverno, le Catskill Mountains a
chiudere l'idilliaco panorama. Quei cinque potrebbero essere stanchi
cercatori d'oro usciti da un romanzo di Mark Twain, oppure giovani
agricoltori vestiti di tutto punto nell'attesa di un domani migliore, come
gli orgogliosi reietti di William Faulkner, John Steinbeck e Walt Whitman.
Invece sono musicisti, e stanno incidendo il loro disco d'esordio.
Un piccolo passo indietro
Ronnie Hawkins, cantante e pianista dell'Arkansas, è rocker
ambizioso e arrogante, istrione di modesta fama e discrete qualità
artistiche. Folgorato dalla black-music, ha abbandonato l'università e, per
la prima volta, in un club dell'Oklahoma (1957) avuto modo di vedere e
unirsi a una band di soli neri, i Black Hawks.
La prima registrazione ufficiale esce nel '58 da un polveroso garage col
titolo di "Hey Bo Diddley" e la sigla Ron Hawkins Quartet. Alla batteria
siede il conterraneo Levon Helm, allora diciassettenne: il primo elemento
chiave di quella che si chiamerà
Band arriva dal profondo sud, testimone oculare di
mille spettacoli di strada ( minstrel shows ), dei concerti di
Elvis Presley (prima della fama) o Bill Monroe o Sonny Boy Williamson. Sarà
lui il motore di tante storie rurali, lui la fonte d'ispirazione delle fiabe
narrate da Robbie Robertson. Ribattezzata definitivamente Ronnie Hawkins &
The Hawks, la band incide per la Roulette i primi due album, un omonimo del
'59 e "Mr. Dynamo", soprannome del Nostro, l'anno successivo. La mossa
vincente, strategica, è pero un'altra: spostarsi dal circuito degli
squallidi bar e locali della zona di Memphis e andare a nord, verso il
Canada. Da quelle parti si vendono molti meno idoli rock n'roll, c'è meno
concorrenza e una tardiva voglia di certa gioventù di scuotersi e ballare.
Il gruppo, a bordo di una cadillac nera che sa di vecchia gang, trova
ingaggi con facilità, un mare di ragazze e parecchie situazioni da rissa
western aftershow.
La pesante routine di concerti provoca alcuni cambiamenti d'organico: uno
dopo l'altro entrano tutti i futuri membri di The Band. Robbie Robertson
(dal 1960) alla chitarra solista e Rick Danko al basso, seguiti entro il
Natale '61 dai tastieristi Richard Manuel e Garth Hudson. Purtroppo la
carriera stenta a decollare e vive una svolta nell'unico effimero momento di
gloria, una cover di "Who Do You Love" dell'amato Bo Diddley (1963). A quel
punto la band di supporto lo abbandona e comincia a girare Canada e States
con la nuova sigla Levon & The Hawks.
Una vera miniera di influenze diverse: rock 'n'roll ma anche rockabilly,
country, blues, gospel e r&b. I cinque Hawks si influenzano a vicenda,
tessendo progressivamente un mélange sonoro che di lì a poco cementerà un
sound inconfondibile. Suggestive anche le biografie: Robertson, figlio di un
giocatore d'azzardo ebreo (morto quando lui era bambino) e di un'indiana
Mohawk, vissuto in una riserva di Toronto con le orecchie perennemente
sintonizzate sulle onde radio di Nashville; Rick Danko poco più a nord,
germogliato insieme ai campi di tabacco sulle rive del lago Simcoe; poi
Manuel, con la sua ossessione per l'alcool e il canto di Ray Charles; quindi
Hudson, organista/bimbo prodigio, miscelatore folle di Bach e Chuck Berry
nell'impresa di pompe funebri di proprietà dello zio.
La musica, tutto
un programma: da una parte la sezione ritmica, precisa e tuonante e solenne
ed evocativa; dall'altra l'organo di Garth Hudson, il più adulto e preparato
musicalmente (con studi classici alle spalle), ma anche carismatico
sperimentatore di sonorità e arrangiamenti. Nel mezzo, il lavoro di chitarra
di Robbie, serpeggiante come nessuno, virtuoso senza spocchia, appassionato
sostenitore di paesaggi melodici atipici. Le voci: il meraviglioso falsetto
romantico/solitario di Richard Manuel fa da contraltare all'allegria
campagnola/grossolana dei fascinosi Danko e Helm.
In due anni di tournée da soli, cinque ora a notte, i ragazzi hanno la
possibilità di incidere una manciata di singoli e, soprattutto, farsi
ammirare su un palco (estate '64) dal deliziato John Hammond Jr.
Quest'ultimo, figlio ventenne del leggendario talent scout della
Columbia John Hammond, offre loro la chance di incidere con lui a New York,
backing band di lusso per un modesto (ancora!) cantautore di blues bianco.
Quei due album saranno il preludio all'incontro decisivo con
Bob Dylan, durante la fatidica estate del 1965. Il
quintetto lo conosce a malapena, distante da quella nuova estetica
aggressiva, heavy ante litteram , che il cantautore propone.
Eppure…
Il nanetto di Duluth è in quel mentre nuovo profeta folk, osannato con la
stessa intensità da musicisti, fan, critica, addetti ai lavori, giovani e
anziani.
"I tempi" però, "stanno cambiando", come lui stesso del resto aveva
predetto: stanco della tradizione e della ballata di protesta, Bob imbraccia
per la prima volta una chitarra elettrica e si crea una band di supporto,
deciso a eguagliare (e in cuor suo superare) la scossa tellurica
socio/musicale ispirata dai
Beatles. Ecco allora "Bringing It All Back
Home", primo successo milionario, e il "battesimo rock" sul palco del
Newport Folk Festival alla fine di luglio, con Al Kooper, Mike Bloomfield e
3/5 della Butterfield Blues Band.
Il primo contatto reale con gli Hawks arriva grazie all'amicizia di Robbie
Robertson, emissario degli Hawks, tra l'altro fortemente sponsorizzati alle
orecchie di Bob da Mary Martin, segretaria del suo manager Albert Grossman.
Robbie si crea un ottimo rapporto con Dylan, divenendone compare
inseparabile: da qui ad apparire al suo fianco nel concerto di Forest Hills
(27/08), con Levon Helm alla batteria, il passo è breve. Due set distinti,
uno acustico e l'altro (fischiato dai vecchi fan "puristi") elettrico e
sferragliante. Bob è entusiasta e sceglie proprio gli Hawks (complice
l'abbandono di Kooper, Bloomfield e Harvey Brooks) per continuare le date
dell'estenuante, leggendario tour mondiale del '65/'66. Quel giro di
concerti, interviste, proteste e fusi orari sfianca profondamente il fisico
e gli animi dell'allegra brigata: Helm lascia quasi subito (fine novembre),
in perenne disaccordo con un nuovo leader che ha progressivamente usurpato
il suo prestigio di carismatico capo tribù.
E così, tra cambi di batteristi (da Bobby Gregg a Mickey Jones per la
tranche europea) e fischi giornalieri dai nemici dell'elettricità, si chiude
una delle più storiche tournée del rock, momento chiave nell'evoluzione del
giocattolo che prende consapevolezza di sé. Il tragico incidente
motociclistico di Dylan nella campagna di Woodstock (29/07/'66) fa il resto.
Il ricovero è prolungato e Bob preferisce restare in pianta stabile in quel
"buen retiro" di campagna, lontano da anfetamine e giornalisti. Impone il
silenzio artistico per un anno intero, crescendo figli con la compagna Sara.
Poi, qualcosa si sblocca. Hudson, Danko e Manuel decidono di prendere in
affitto una grande villa dipinta di rosa (ribattezzata appunto "Big Pink")
nelle vicinanze, e adibirne la spaziosa cantina a sala di
registrazione/rifugio musicale. A pochi chilometri c'è la magione di Albert
Grossman, con Robbie e consorte ospiti fissi, mentre Helm va e viene dal
sud. Da quella quiete bucolica prendono forma i demos dylaniani in seguito
editi col nome di "Basement Tapes" e, soprattutto, il materiale per il
debutto col nuovo nome: The Band. L'atmosfera è pigra e rilassata, il clima
mite permette piccole escursioni collettive nella macchia circostante, gite
e lunghe chiacchierate con i vicini di casa, tra un picnic e una partita di
football.
Il resto dell'avventura
La prima cosa che stupisce il pubblico rock è proprio il contenuto del disco
d'esordio della Band (1/07/68, n. 30 nelle chart Usa), distante
miglia da ciò che si era abituati a sentire sino a quel momento: non ci sono
raga indiani, né brani lunghi dieci minuti o riferimenti a droghe che
espandono la mente. In "Big Pink" non trovano spazio abiti sgargianti o
strumenti etnici. I termini "virtuosismo", "solipsismo", "divismo" sono
banditi dal vocabolario. Al contrario, ciò in cui gli ascoltatori (curiosi
all'inizio più della presenza/evento di Dylan che altro) si imbattono è una
"bittersweet celebration of old & young americas". La storia nascosta dietro
quella strana copertina ad acquerello (regalo di Bob, accreditato in tre
brani) riguarda il presente letto con gli occhi del passato, odora forte di
vecchio west, cowboy e indiani, di Grande Depressione e ampi spazi aperti,
senso di appartenenza e anelito all'evasione.
Nulla, neanche dieci anni di "professionismo" alle spalle, avrebbe lasciato
pensare a un affresco così spettacolarmente nitido, da ascoltare parecchio
prima di essere assimilato. C'erano le premesse, c'era il background
. Dylan aveva preparato la strada col suo criptico "John Wesley Harding",
registrato con musicisti locali a Nashville e uscito l'inverno precedente.
In "Big Pink" c'è un collettivo in assoluta confidenza con i propri mezzi
tecnici, con tutti i diversi linguaggi musicali imparati nel tempo (country,
folk, blues, gospel, rock, soul, r&b), con un songwriting finalmente maturo.
Più di tutto, una conoscenza profonda dell'America, dei suoi vizi e virtù,
analisi rese acute e possibili grazie anche alla privilegiata prospettiva
"esterna" di questi canadesi speciali, più statunitensi degli stessi nativi.
I temi chiave dell'album sono la famiglia, la fede, l'amicizia, la
discendenza, la libertà di scelta e la voglia di fuggire da un ordine
schematico e precostituito. La guerra è lontana eppure presente sullo
sfondo: la tragedia e l'ansia sono palpabili attraverso quei testi
sfuggenti, enigmatici. Dalla musica si percepisce un sensazione di libertà,
di jam session svagata tra vecchi amici polistrumentisti che scambiano le
parti vocali come fossero spinelli: "Big Pink" è il frutto di cinque
personalità fuse in una sola, cinque diverse visioni della patria
compenetrate l'una con l'altra.
Sono undici canzoni che vanno dritte al cuore, che commuovono per
semplicità, sincerità e immediatezza esecutiva. Il dialogo, il mettere in
discussione le proprie radici si dimostra impegno populista che, alla lunga,
finirà per influenzare parecchi colleghi e battezzare il risorgimento della
roots music , il Grande Suono Americano codificato una volta per
sempre.
Questo "antico libro dei giovani antenati" si apre con l'indolenza,
l'amarezza di "Tears Of Rage", primo paragrafo della storia, con Dylan
coautore.
L'elemento a venir fuori è la chitarra elettrica di Robbie filtrata
attraverso uno speaker Leslie (altoparlante ad azione rotatoria
originariamente concepito per modificare le sonorità dell'organo Hammond,
poi sperimentato anche su voce e altri strumenti) che ne altera il suono, il
tappeto d'organo di Garth e lo splendido lavoro di batteria di Levon, uno
dei più grandi e sottovalutati batteristi di sempre. La voce di Manuel, a
metà strada tra sentimentalismo e depressione da "grande freddo", inizia a
inquadrare un conflitto padre-figlio. La faccenda sembra prendere una brutta
piega: il desiderio di riconciliazione trascolora in risentimento, la rabbia
per un dialogo tardivo e non favorito è evidente. Il figlio, un "homo novus"
originale dell'America democratica, è alla ricerca di sé stesso, dell'amore
e dell'amicizia dei suoi simili. La delusione del genitore è ineluttabile,
punteggiata dal pianoforte e dal bel lavoro di ricamo dei due sassofoni
nella seconda strofa. La festa dell'indipendenza evocata nel testo è
rovinata dall'addio, ma è l'America intera a piangere lacrime amare, la
patria afflitta dalla guerra.
Il dolore del padre continua in "To Kingdom Come", nient'altro che una
riflessione zen sulla morte: l'anziano ammonisce le nuove generazioni a non
commettere errori, a non rivelare anzitempo le proprie carte. Le parti
vocali sono affidate alla gracchiante, stridula verve di Robertson, con
Richard nei controcanti. Il tono è ironico e scherzoso, più naif
rispetto al precedente. Il ritmo è girotondo vorticoso, con un bel ritmo
dettato dal piano. Il vitello dorato è il primo di una serie di inquietanti
figure bibliche e mitologiche a tormentare il sonno di Robbie, con Manuel
l'autore principale dei testi: in questo caso la bestia è fuori della
finestra e squadra minacciosamente il malcapitato vecchietto. "In A
Station", annunciata dal piano elettrico e dal clavinette, è un'altra
stupenda prova del "loner" Richard Manuel: si tratta di un'onirica ballad
annacquata ancora di tristezza e senso d'abbandono.
C'è una gran voglia di nascondersi tra la folla e scomparire, immedesimarsi
con chiunque si incontri per strada. Purtroppo il desiderio "cristiano" si
scontra con il sospetto, la divisione di una società che smette di credere
nell'amicizia.
Per quanto lui si sforzi (ancora un riferimento al frutto proibito
dell'Eden), non c'è possibilità: ecco allora insoddisfazione e senso di
debolezza. Il brano gioca tutto su questo senso di sospensione angelica.
Il "road trip" del protagonista si fa più reale con "Caledonia Mission",
amarcord di un amore sfiorito. Il timone della storia lo prende Rick Danko:
una ragazza di buona famiglia ebraica vive soddisfatta e autoreclusa in una
missione del Sud. Viziata e conservatrice, non ha il coraggio di
abbandonarsi alla fuga promessa dal musicista romantico e lavora
infaticabile e prigioniera del suo giardino, del suo cancello chiuso a
chiave. Il brano prende corpo e si infiamma nel ritornello, in cui si
aggiunge anche Manuel ai backing vocals . Per quanto le voci si
intreccino con vigore, unite a piano ed elettrica, la prospettiva
ipertestuale non cambia.
Il centro, il messaggio di tutto l'album è racchiuso in "The Weight", edito
anche a 45 giri, unico hit in carriera, poi inserito nella colonna sonora di
"Easy Rider". Qui basterebbe la musica: apertura di chitarra acustica, pochi
inimitabili arpeggi e ingresso ("Ba-dum-badum-dum") della batteria. Quindi
il pianoforte e le voci. Nel mezzo splendidi cori a tre, fragili ed effimeri
come un soffio di vento. E' la parafrasi del sound: artigianale, immediata,
costruita sul felice equilibrio di pochi ingredienti azzeccati. Nell'Antico
Libro c'è spazio per tutti, si lavora in squadra come provetti boy-scout.
L'allucinazione dei testi è comica: gli incontri dell'eroe pellegrino (un
po' Gesù Cristo, un po' Paperino o Don Chisciotte) a Nazareth in cerca di
riposo e rifugio. Da notare la volontà del protagonista di assorbire senza
interessi il dolore della gente, togliere il peso della vita dalle schiene
stanche della società. La risposta ancora negativa, è tuttavia gestita con
ironia e fatalismo.
La seconda metà dell'Antico Libro insiste sui temi enunciati all'inizio,
sfumando e perdendo un po' del sapore nel finale. In "We Can Talk", un
mid-tempo gospel sorretto da organo e piano/batteria, torna in scena il
conflitto, ora tra coetanei: al posto dell'amata, un amico schiavo
dell'opprimente condizione di lavoro. Il consiglio è ripensare a ciò che si
è fatto, convincendosi che non è mai troppo tardi, ché il dialogo favorito
nel titolo può sbaragliare l'aratro, le mucche e il giogo di un padrone
ignorante.
Caso a parte è "Long Black Veil", unica cover del lotto (hit country per
Lefty Frizzell nel '59, idolo di Robertson). L'atmosfera lugubre da
murder ballad è reinterpretata senza pathos, in un'inedita chiave
rilassata, con armonie vocali che crescono e la bella alternanza di tastiere
e chitarra acustica. Solo un sinistro bordone di basso-tuba (?) incrina le
onde.
La parte migliore della sfrenata "Chest Fever" è l'inizio, un'occasione per
Garth Hudson di mostrare il proprio talento: infernale incipit di organo
hammond, un virtuosismo da mosca bianca (che ricorderanno i Led Zeppelin al
momento di incidere "Your Time Is Gonna Come") verniciato su impalcature,
come abbiamo visto, piuttosto corali. Nel testo, così come nel dolcissimo
slow tune "Lonesome Suzie" che seguirà, ennesimo tentativo di
salvataggio eroe/principessa in pericolo. In "Fever" è la femme fatale
autolesionista e distruttrice, una belva feroce da far tremare le ginocchia;
"Suzie" è la solitaria-triste-anziana zitella bisognosa di calore umano. In
entrambi i casi, la soluzione adottata dal protagonista è la medesima: fuga,
libertà, nuova vita.
Peccato per gli ultimi due numeri, scritti in combutta con Dylan: si perde
un po', come detto, l'unità narrativa, oltre agli arrangiamenti, sofferenti
nel doversi confrontare troppo agli originali già in cantiere ai tempi dei
"Basement Tapes". "This Wheel's On Fire" si distingue per l'arrembante tempo
veloce, le armonie e l'affilata elettrica di Robertson. L'angoscioso testo
minaccia un nuovo incontro tra nemici, due immaginari pistoleri nell'attesa
di affrontarsi prima della fine, prima che il buio e la distruzione
avvolgano ogni cosa. Il commiato di "I Shall Be Released", cantato da
Manuel, riassume coi toni della "torch song" le fila del discorso:
l'insanabile dicotomia debolezza/speranza, le distanze del cuore da colmare,
il bisogno di dare e ricevere amore (simboleggiato nel brano dalla luce), la
libertà come chimera da afferrare con un ultimo, titanico sforzo.
Riesci a immaginarti quella notte di tanti anni fa: l'illuminazione fioca
delle candele, la cantina polverosa, cinque tempestosi Heatcliff con barba,
cappelli e quel sorriso amaro capace di sgretolare la più dura delle rocce.
"Any Day Now, Any Day Now, I Shall Be Released"…
A forza di cantare ed eccitarsi, commuoversi, è scesa la notte.
Silenzio nelle verdi vallate di Woodstock, la luna si nasconde e le stelle
giocano la solita gara di bellezza. Non un alito di vento, soltanto i gufi
tra gli alberi secchi, il fiume che scorre, le foglie sul terreno asciutto.
Da qualche parte, nelle vicinanze, l'uomo che un tempo chiamavano Dylan
smette di scrivere a macchina. I suoi bambini dormono, è troppo tardi per
cercare una melodia alla chitarra. L'album cui sta pensando sarà un'altra
rivelazione: Johnny Cash, country-rock, voce morbida.
Parole inedite che escono piano dalla sua mente e si confondono in una
nebbiolina di mercurio e argento vivo, eccitandolo. Ma è ora di dormire,
domani è un altro giorno, non si sa mai. Via i vestiti, gli occhialini, le
scarpe. L'ultimo sguardo assonnato è per un mucchio di negativi sparsi sulla
scrivania di legno, lasciati lì da un amico fotografo. Sono le foto dei suoi
amici della Band. La preferita, nemmeno a dirlo, riguarda una vecchia
panchina scalcinata. "Quel bastardo è maledettamente bravo", esclama, prima
di avvolgersi nelle lenzuola. "Devo assolutamente lavorarci".
Extra : musica influenzata dalla Big Pink: Fairport
Convention, "Liege
& Lief" (stesse premesse della Band, con la voglia
però di riscoprire le proprie di radici, traghettandole nella vecchia
Inghilterra vittoriana);
The Byrds, "Sweetheart Of The Rodeo";
Rolling Stones, "Beggar's
Banquet"; Elton John, "Tumbleweed Connection";
Grateful Dead, "Workingman's Dead" o "American
Beauty"; Paisley Underground versante Green On Red; Alt. Country di sponda
Uncle Tupelo, poi
Wilco, Jayhawks, Lambchop. Insospettabili come
Eric Clapton o Procol Harum, rei confessi del calibro di Will Oldham o
Mercury Rev, superstar come Ryan Adams o Norah
Jones. E la lista potrebbe essere lunga più del Mississippi, molto più di
quei quarantadue minuti che, a questo punto, avrete una matta voglia di
riscoprire.
|