Sono considerati il gruppo più rappresentativo del sottogenere noto come
Surf, una forma di rock'n'roll/pop associata, nell'immaginario collettivo,
alla vita balneare sulle spiagge assolate della California. Hanno inciso
decine di singoli di successo; alcuni di essi sono considerati classici
della musica leggera di tutti i tempi e sono quasi paragonabili, per
popolarità, ai più noti brani firmati da Lennon/McCartney per i Beatles o da
Jagger/Richards per i Rolling Stones (fra tutti si possono citare Surfin'
U.S.A. e California Girls).
Durante la loro carriera, a volte burrascosa, si sono verificati molti
cambiamenti sia nello stile musicale che nella formazione: Brian Wilson, a
causa di un disturbo della personalità e dell'uso di droghe, ha dovuto
gradualmente ritirarsi dalle scene; Dennis Wilson è morto nel 1983 e Carl
Wilson nel 1998. Tra i componenti rimasti si sono verificate continue
battaglie legali: dopo la morte di Carl Wilson, il membro fondatore Al
Jardine fu cacciato da Mike Love. Attualmente, i diritti per il nome,
acquisiti dalla Brother Records, sono detenuti da Mike Love e Bruce
Johnston, che continuano a presenziare ai tour come Beach Boys.
Il debutto
I Beach Boys esordirono all'inizio degli anni '60. Tutti venivano da
Hawkthorne. La loro prima formazione era costituita dai tre fratelli Wilson
(Brian, Carl e Dennis), dal loro cugino Mike Love e da un loro amico e
vicino di casa Alan Jardine.
Pet Sounds
"Pet Sounds" è considerato il miglior album del gruppo e la celebre rivista
musicale Rolling Stone lo mette al secondo posto nella classifica dei 500
migliori album di tuttti i tempi. Lo stesso Paul McCartney ha più volte
dichiarato che senza questo disco probabilmente non sarebbe mai neanche nato
il tanto acclamato Sgt. Pepper's dei Beatles. C'è però anche da dire, in
base al libretto contenuto nel cd dello stesso, che per "Pet sounds" Brian
Wilson si sia ispirato al "Rubber soul" dei Beatles. Senza le atmosfere
presenti nell'opera dei Beatles probabilmente i Beach Boys non avrebbero
potuto dare quell'impronta così importante che ha caratterizzato "Pet
sounds", da cui sarebbe poi nato il "Sgt. Pepper's". Una catena da
analizzare.
Brian Wilson, Carl Wilson, Dennis Wilson
Figura centrale del gruppo fu Brian Wilson, uno dei massimi compositori di
canzoni dei primi anni '60, insieme ai già menzionati Lennon-McCartney, Lee
Hazlewood e pochi altri. Brian Wilson fu forse il primo musicista popolare a
eccellere tanto nella composizione quanto nell'arrangiamento (oltre a
inventare uno stile molto imitato al proprio strumento, il basso). In tal
senso, fu più un compositore classico (con una spiccata sensibilità per la
polifonia sinfonica) che un cantante di musica pop. Il formato originale
delle sue canzoni (la musica surf) servì a pagare i conti, ma ovviamente gli
crebbe rapidamente stretto.
Anche quando Wilson si emancipò da quel formato e cominciò a produrre
canzoni più elaborate (il singolo Good Vibrations e gli album Pet Sounds e
Smiley Smile, la sua carriera rimase sostanzialmente una carriera sprecata:
con quell'orecchio avrebbe potuto ben altro che semplici canzoni. Nel 1967
Brian stava lavorando a quello che sarebbe dovuto essere il disco definitivo
nella storia del Pop/Rock, Smile ma la pubblicazione e il grande successo di
Sergeant Pepper's da parte dei Beatles lo fece precipitare in una grave
forma di depressione e il disco non fu mai pubblicato nella sua forma
originale. Con la formazione rinnovata (nel 1972 esce dal gruppo Bruce
Johnston, che era nel frattempo subentrato a Brian) pubblicano 2 album,
forse gli ultimi capolavori del gruppo: So tough/Carl & the Passion (1972) e
Holland (1973), registrato interamente nei Paesi Bassi, con Brian che
produceva via telefono dalla California.
In questi album i Beach Boys abbandonano le sonorità e le tematiche che li
avevano resi celebri nella decade precedente (e che torneranno
prepotentemente dalla seconda metà dei 70 caratterizzando l'immagine del
gruppo fino ai giorni nostri): niente macchine, ragazze, spiagge ma temi
ecologici e di pesante denunica sociale (Student demostration time 1971,
Treader 1973) con decisi accenti R&B (Carl & the Passion, 1972). La seconda
metà dei '70 è un periodo assai caotico per il gruppo: Blondie e Rick
lasciano il gruppo mentre ritorna Brian, apparendo per un breve periodo
anche dal vivo (1976).
In formazione originale a 5 pubblicano una serie di album di scarso successo
(15 bigs one, Love You, M.I.U, LA album, Keeping the summer alive), mentre
l'attività live si concentra quasi esclusivamente sugli hit anni '60 "cars &
girls".
I Beach Boys, pur essendo un icona della musica anni '60, hanno partecipato
al Live Aid del 1985 a Philadelphia riscuotendo un notevole successo di
pubblico.
A partire dalla seconda metà degli anni 70, Dennis Wilson mostrò chiaramente
un incremento dell'abuso di alcol e droghe. Alcuni concerti furono rovinati
dalla presenza sul palco di Dennis completamente ubriaco o in preda a
sostanze stupefacenti (cosa a volte comune anche ad altri membri del
gruppo). La band fu costretta a chiedere pubblicamente scusa dopo un caotico
concerto a Sidney nel 1979 nel quale diversi membri si esibirono palesemente
ubriachi. I problemi di Dennis Wilson continuarono ed aumentarono (era
diventato nel frattempo amico di Charles Manson e della sua gang) fino alla
sua tragica scomparsa il 28 dicembre 1983. Era ospite a bordo di
un'imbarcazione di un amico, quando, ubriaco, nel tentativo di recuperare
alcuni oggetti che aveva gettato in mare in un eccesso di rabbia, cadde in
mare ed annegò.
Carl, il più giovane dei tre fratelli Wilson, seguì le sorti del gruppo
durante gli anni. Alla fine del 1996 gli fu diagnosticato un tumore al
cervello ed ai polmoni (era un forte fumatore). Nonostante la malattia e la
chemioterapia cui si sottopose, Carl continuò le sue performance come
fossero un regalo per i suoi fan. Carl suonò con i Beach Boys per tutto il
tour estivo del 1997, che terminò ad autunno inoltrato.
L'8 febbraio 1998 Carl perse la sua personale battaglia contro il cancro.
Lasciò la moglie Gina (figlia del cantante Dean Martin) e le due figlie
avute dal precedente matrimonio, Justyn e Jonah.
Era considerato come una delle migliori voci del panorama rock, e numerose
furono le sue apparizioni come backing vocal in diverse registrazioni di
altri cantanti e gruppi.
Riconoscimenti
I Beach Boys sono stati introdotti nella Rock and Roll Hall of Fame nel 1988
e nella Vocal Group Hall of Fame nel 1998. Nel 2001 il gruppo ha ricevuto il
Grammy Lifetime Achievement Award. In novembre del 2006 Brian Wilson è stato
introdotto nella UK Rock and Roll Hall of Fame.
Nel 2004, la famosa rivista Rolling Stone Magazine ha stilato la classifica
dei 100 Migliori Artisti di tutti i tempi (100 Greatest Artists of All Time)
posizionando i Beach Boys al 12° posto.
Lineup
1961 - 1962
Mike Love - voce, sassofono
Carl Wilson - chitarra, voce
Al Jardine - basso, chitarra
Dennis Wilson - batteria, voce
Brian Wilson - tastiera, basso, voce
1962-1963
Mike Love - voce, sassofono
Carl Wilson - chitarra, voce
David Marks - chitarra, voce
Dennis Wilson - batteria
Brian Wilson - basso, tastiera, voce
1963-1964
Mike Love - voce
Carl Wilson - chitarra, voce
Al Jardine - chitarra, voce
Dennis Wilson - batteria
Brian Wilson - basso, tastiera, voce
1964-1965
Mike Love - voce
Carl Wilson - chitarra, voce
Al Jardine - chitarra, voce
Dennis Wilson - batteria
Brian Wilson - basso, tastiera, voce
Note:Brian Wilson sostituto da Glen Campbell - basso, tastiera, voce nei tour
1965-1968
Mike Love - voce
Carl Wilson - chitarra, voce
Al Jardine - chitarra, voce
Dennis Wilson - batteria
Brian Wilson - basso, tastiera, voce
note :
Brian Wilson sostituto da Bruce Johnston - basso, tastiera, voce nei tour
1968-1972
Mike Love - voce
Carl Wilson - chitarra, voce
Al Jardine - chitarra, voce
Dennis Wilson - batteria
Bruce Johnston - basso, tastiera, voce
Musicisti di supporto:
Mike Kowalski - batteria
Ed Carter - basso
1972-1974
Mike Love - voce
Carl Wilson - chitarra, voce
Blondie Chaplin - basso, voce
Al Jardine - chitarra, voce
Ricky Fataar - batteria
Dennis Wilson - tastiera, voce
Musicisti di supporto:
Mike Kowalski - batteria
Ed Carter - basso
Charles Lloyd - sassofono, flauto
1975-1976
Mike Love - voce
Carl Wilson - chitarra, voce
Al Jardine - chitarra, voce
Dennis Wilson - batteria
Musicisti di supporto:
Mike Kowalski - batteria
Ed Carter - basso
Billy Hinsche - tastiera, chitarra
Charles Lloyd - sassofono, flauto
1976-1980
Mike Love - voce
Carl Wilson - chitarra, voce
Al Jardine - chitarra, voce
Dennis Wilson - batteria
Bruce Johnston - basso, tastiera, voce
Musicisti di supporto:
Bobby Figueroa - batteria
Ed Carter - basso
Billy Hinsche - tastiera, chitarra
Charles Lloyd - sassofono, flauto
1981-1983
Mike Love - voce
Al Jardine - chitarra, voce
Dennis Wilson - batteria
Bruce Johnston - basso, tastiera, voce
Musicisti di supporto:
Bobby Figueroa - batteria
Ed Carter - basso
Mike Meros - organo
Adrian Baker - voce, chitarra
Billy Hinsche - tastiera, chitarra
1983-1988
Mike Love - voce
Carl Wilson - chitarra, voce
Al Jardine - chitarra, voce
Bruce Johnston - basso, tastiera, voce
Musicisti di supporto:
Mike Kowalski - batteria
Bobby Figueroa - batteria
Ed Carter - basso
Mike Meros - organo
Jeff Foskett - chitarra, voce
Billy Hinsche - basso, chitarra
1989-1994
Mike Love - voce
Carl Wilson - chitarra, voce
Al Jardine - chitarra, voce
Bruce Johnston - basso, tastiera, voce
Musicisti di supporto:
Mike Kowalski - batteria
Ed Carter - basso
Mike Meros - organo
Adrian Baker - chitarra, voce
Matt Jardine - percussioni, voce
Billy Hinsche - tastiera, voce
1995-1996
Mike Love - voce
Carl Wilson - chitarra, voce
Al Jardine - chitarra, voce
Bruce Johnston - basso, tastiera, voce
Musicisti di supporto:
Chris Farmer - basso
Mike Kowalski - batteria
Mike Meros - organo
Matt Jardine - percussioni, voce
1996-1998
Mike Love - voce
Carl Wilson - chitarra, voce
Al Jardine - chitarra, voce
Bruce Johnston - basso, tastiera, voce
Musicisti di supporto:
Chris Farmer - basso
Mike Kowalski - batteria
Mike Meros - organo
Matt Jardine - percussioni, voce
Tim Bonhomme - tastiera
1998-1999
Mike Love - voce
Bruce Johnston - voce
David Marks - chitarra, voce
Musicisti di supporto:
Adrian Baker - chitarra, voce
Chris Farmer - basso
Phil Bardowell - chitarra
Tim Bonhomme - tastiera
Mike Meros - tastiera
Mike Kowalski - batteria
1999-2000
Mike Love - voce
Bruce Johnston - voce
Musicisti di supporto:
Adrian Baker - chitarra, voce
Chris Farmer - basso
Phil Bardowell - chitarra
Mike Meros - tastiera
Mike Kowalski - batteria
2001-2004
Mike Love - voce
Bruce Johnston - voce
Musicisti di supporto:
Adrian Baker - chitarra, voce
Chris Farmer - basso
Scott Totten - chitarra
Tim Bonhomme - tastiera
John Cowsill - tastiera, voce
Mike Kowalski - batteria
2004-oggi
Mike Love - voce
Bruce Johnston - voce
Musicisti di supporto:
Chris Farmer - basso
Scott Totten - chitarra
Randell Kirsch - chitarra
Tim Bonhomme - tastiera
John Cowsill - tastiera, voce
Mike Kowalski - batteria
Discografia
Surfin' Safari (1962) #32 US
Surfin' USA (1962) #2 US, #17 UK
Surfer Girl (1963) #7 US, #13 UK
Little Deuce Coupe (1963) #4 US
Shut Down Volume 2 (1964) #13 US
All Summer Long (1964) #4 US
The Beach Boys' Christmas Album (1964) #6 US
The Beach Boys Today! (1965) #4 US, #6 UK
Summer Days (and Summer Nights!!) (1965) #2 US, #4 UK
Beach Boys' Party! (1965) #6 US, #3 UK
Pet Sounds (1966) #10 US, #2 UK
Smiley Smile (1967) #41 US, #9 UK
Wild Honey (1967) #24 US, #7 UK
Friends (1968) #126 US, #13 UK
Stack-O-Tracks (1968) (Did not chart)
20/20 (1969) #68 US, #3 UK
Sunflower (1970) #151 US, #29 UK
Surf's Up (1971) #29 US, #15 UK
So tough/Carl & the Passion (1972) #50 US, #25 UK
Holland (1973) #36 US, #20 UK
15 Big Ones (1976) #8 US, #31 UK
Love You (1977) #53 US, #28 UK
M.I.U. Album (1978) #151 US
L.A. (Light Album) (1979) #100 US, #32 UK
Keepin' the Summer Alive (1980) #75 US, #54 UK
The Beach Boys (1985) #52 US, #60 UK
Still Cruisin' (1989) #46 US
Summer in Paradise (1992)
Stars and Stripes Vol. 1 (1996) #101 US
Live
Beach Boys Concert (1964) #1 US
Live in London (1970) (released in America in 1976) #75 US
The Beach Boys in Concert (1973) #25 US
Good Timin': Live at Knebworth England 1980 (2002)
Songs From Here & Back (2006)
Compilation
Best of The Beach Boys (1966) #8 US; #2 UK
Best of The Beach Boys Vol. 2 (1967) #50 US; #3 UK
Best of The Beach Boys Vol. 3 (1968) #153 US; #9 UK
Endless Summer (1974 - unofficial) #1 US
Spirit of America (1975 - unofficial) #8 US
Good Vibrations - Best of The Beach Boys (1975) #25 US
Ten Years of Harmony (1981) US #156
Sunshine Dream (1982) US #180
Rarities (1983)
Made in U.S.A. (1986) US #96
Summer Dreams (1990) UK #2
Ultimate Christmas (1998)
The Greatest Hits - Volume 1: 20 Good Vibrations (1999) #95 US
The Greatest Hits - Volume 2: 20 More Good Vibrations (1999) #192 US
Greatest Hits Volume Three: Best of the Brother Years 1970-1986 (2000)
Classics selected by Brian Wilson (2002) #159 US
Sounds of Summer: The Very Best of The Beach Boys (2003) #16 US
Beach Boys furono il piu` grande dei gruppi di
surf music, ma non passerebbero alla storia per quel primato. I Beach Boys
furono soprattutto Brian Wilson, e Brian Wilson fu uno dei massimi
compositori di canzoni dei primi anni '60, insieme a Lennon-McCartney, Lee
Hazelwood e pochi altri. Brian Wilson fu forse il primo musicista popolare a
eccellere tanto nella composizione quanto nell'arrangiamento (oltre a
inventare uno stile molto imitato al proprio strumento, il basso). In tal
senso, fu piu` un compositore classico (con una spiccata sensibilita` per la
polifonia sinfonica) che un cantante di musica pop. Il formato originale
delle sue canzoni (la musica surf) servi` a pagare i conti, ma ovviamente
gli crebbe rapidamente stretto. Anche quando Wilson si emancipo` da quel
formato a comincio` a produrre canzoni piu` elaborate, pero`, la sua rimase
sostanzialmente una carriera sprecata: con quell'orecchio avrebbe potuto ben
altro che semplici canzoni.
I Beach Boys nacquero da un'idea semplice ma geniale, una di quelle idee che
finiscono per influenzare un'intera epoca: fondere i gruppi vocali e il rock
and roll. Brian Wilson era affascinato tanto dalle armonie in quattro parti
dei Four Freshmen (il gruppo di maggior successo degli anni '50) quanto dai
riff di chitarra e dal ritmo febbricitante di Chuck Berry. I Beach Boys non
furono altro che la fusione dei due. Ma fu la scintilla che scateno` una
rivoluzione musicale e sociale, che avrebbe partorito Beatles e Byrds, che
avrebbe cambiato per sempre il concetto di musica melodica.
I Beach Boys, piu` umilmente, rappresentarono anche l'inizio del periodo
d'oro della musica californiana. La California non era stata una delle
capitali della musica ma lo divenne dopo il loro successo e per il resto del
secolo la sua importanza non fara` che aumentare. Qualcosa dei Beach Boys
rimarra` nella musica delle generazioni successive.
La musica dei Beach Boys fu essenzialmente la musica della borghesia bianca
che aveva respinto e criminalizzato il rock and roll e i suoi divi
pornografici e delinquenti. Come nel caso dei Beatles, le eteree atmosfere
distillate da questi figli dei sobborghi metropolitani nascosero per un
attimo i subbugli dei ghetti e l'inquietudine di una generazione intera. Ma
costituirono un anello essenziale nella catena evolutiva del rock vocale,
che, partito dal rockabilly degli Everly Brothers, doveva approdare al
folk-rock dei Byrds.
I Beach Boys si affacciarono sulla scena della surf music nel dicembre del
1961 (Surfin', seguita da Surfin' Safari nel giugno 1962) come un tipico
gruppo a conduzione familiare (tre fratelli, un cugino e un vicino di casa)
dell'America conservatrice. Avevano scelto di cantare del surf perche' Dick
Dale era il fenomeno del momento a Los Angeles, ma in realta` non erano
neppure surfers.
Il gruppo rappresentava la continuita` con i gruppi vocali degli anni '50 e
non impensieriva l'America borghese come avevano fatto i rocker. Se il
formato era innocuo, le loro canzoni erano addirittura di una semplicita`
quasi grottesca: imperniate attorno a un ritornello orecchiabile, e a testi
da teenager, usavano tutte le voci per aumentarne l'effetto. La melodia
diventava qualcosa di etereo e celestiale grazie al timbro purissimo dei
cantanti, e a un'arte limpida di falsetti e controcanti. La strumentazione
contava poco o nulla. Era uno stile prettamente vocale, mutuato dall'innodia
sacra, dalle armonie del doo-wop e del gospel, e dal rockabilly antifonale,
chiaramente derivato da quello dei Four Freshmen. Cio` che era unico era lo
spirito, che sprizzava gioia di vivere da tutte le note.
Da un punto di vista marketing, l'idea era geniale: per la prima volta un
genere musicale era interamente dedicato al piu` innocente divertimento
adolescenziale, e ne rappresentava sonicamente l'entusiasmo. Il rock and
roll non era stato altrettanto innocente, e certamente non altrettanto
sereno e allegro.
Brian Wilson componeva le canzoni di persona, raramente consultandosi con
gli altri, che spesso si limitavano a eseguire i suoi ordini. Carl Wilson
suonava la chitarra e ha il merito di aver coniato un sound allo strumento
(anche se quel sound e` l'antitesi del virtuosismo). Mike Love, cugino di
Brian, era il "frontman" ufficiale, ma ben poca cosa paragonato a Presley o
ai Beatles. Dennis, il fratello di Brian, era un batterista tanto banale
quanto Ringo Starr nei Beatles.
Dapprima il tema delle sue canzoni era lo sport del surfing, ma presto
Wilson prese a spaziare su tutto l'universo del "fun" giovanile, che in
California era particolarmente innocente e spensierato.
Surfin USA, il disco che nel 1963 li catapulto` ai vertici delle
classifiche'di vendita, era un adattamento di Sweet Little Sixteen di Chuck
Berry, con le tipiche dodici battute blues, con il "walking bass" usato nel
boogie, e battiti di mani in controtempo (pausa, clap/clap, pausa,
clap/pausa, clap/clap, pausa, clap).
I primi tre album sono intitolati ad altrettanti singoli di successo. I
primi due sono Surfin' Safari (Capitol, ottobre 1962) e Surfin' USA
(Capitol, 1963). Surfer Girl (Capitol, settembre 1963) e` un album piu`
curato, che contiene le lente ballate romantiche In My Room e Surfer Girl,
nonche' Little Deuce Coupe. A questo punto Brian Wilson scriveva gia` quasi
tutto il materiale del gruppo, ma il ritmo di produzione era infernale.
Little Deuce Coupe (Capitol, ottobre 1963) contiene l'hit Be True To Your
School, ma usciva un solo mese dopo il precedente e non poteva vantare molto
di piu`.
Nel 1964 avevano gia` alle spalle diversi dischi d'oro e piccoli classici
della loro semplice e spigliata arte, in particolare
L'album del periodo e` Shut Down Volume 2 (marzo 1964). Fun Fun Fun e` un
altro capolavoro, con una tipica introduzione "scampanellante" di chitarra
alla Chuck Berry e contrappunti corali doo-wop. Don't Worry Baby (1964), con
Hal Blaine alla batteria, e` invece Wilson al suo piu` noiosamente pop, ma
un capolavoro per chi ama i Beatles di Revolver.
All Summer Long (Capitol, luglio 1964) e` il primo album "sperimentale" dei
Beach Boys, nel senso che non contiene soltanto scipite danze surf. In
particolare I Get Around (1964), il vortice vocale piu` complesso della loro
carriera e uno dei brani piu` spigliati, e` il capolavoro di questo periodo.
Wendy e All Summer Long sono piccoli gioielli di melodismo naive.
Brian Wilson era diventato il compositore del gruppo e non era piu`
interessato alla parte di bassista. Colpito da un primo esaurimento nervoso
(e notoriamente tossicodipendente), Wilson si ritiro` dalle scene e ridusse
il proprio ruolo a quello di compositore, un ruolo piu` unico che raro nella
musica rock. Mentre gli altri Beach Boys erano in tournee` (avendolo
sostituito con Bruce Johnston), Brian Wilson studiava nuove tecniche di
produzione e scriveva canzoni sempre piu` bizzarre. Il contributo dei Beach
Boys era puramente vocale. Tutto il resto era suonato da sessionmen
smaliziati, scelti e diretti da Brian Wilson.
Today (marzo 1965) contiene When I Grow Up, Please Let Me Wonder, e
soprattutto Help Me Rhonda, un altro capolavoro di contrappunto vocale (ma
la versione sull'album, intitolata senza la "h", e` piu` sfarzosa e piu`
lenta), ma con un andamento piu` goliardico da novelty di doo-wop. Dance
Dance Dance era il ponte con il passato, uno sbrigliato rock and roll con le
classiche armonie vocali in tre parti. Sul retro del singolo Help Me Rhonda
c'era anche Kiss Me Baby, un altro tour de force di arrangiamento romantico
alla Don't Worry Baby.
Summer Days (luglio 1965), influenzato dalle produzioni di Phil Spector,
sfodera California Girls, uno dei manifesti del loro modello di vita, ma
Wilson si fa sempre piu` eccentrico in canzoni come Let Him Run Wild e I'm
Bugged At My Old Man che ormai appartengono a un'altra era. Ciascuno di
questi album e` naturalmente pieno di "filler" e di hit.
Party (Capitol, novembre 1965) contiene Barbara Ann, lo scherzo da party
piu` famoso di tutti i tempi, in realta` cantato da Dean Torrence degli Jan
And Dean. Come Help Me Rhonda e California Girls, si trattava di uno
squisito saggio sul potere suggestionante dei riverberi vocali di I Get
Around.
Nei loro brani non c'era traccia della canzone di protesta di Dylan. I loro
testi tacevano la guerra nel Vietnam, le marce della pace e i sit-in. Il
loro era un mondo casalingo, fatto delle piccole stupide cose di tutti i
giorni. I loro hit erano miniature melodiche sui divertimenti dei giovani
della classe media. Con i Beach Boys il sogno americano si tingeva di
spiagge, di picnic, di feste e di estati senza fine.
L'operazione compiuta da Brian Wilson era di tipo completamente diverso.
Wilson affrescava un microcosmo, quello della middle-class californiana, e
lo elevava a "Promised Land" con un'operazione che era mitologica e quasi
biblica.
Ancor piu` sorprendente era il fatto che la loro musica fosse prodotta in un
modo cosi` palesemente amatoriale. Gli studi di registrazione delle major
impiegavano equipe sempre piu` smaliziate di arrangiatori e sessionmen per
ottenere il massimo dall'interpretazione di un cantante. I Beach Boys,
invece, furono portavoce di uno stile "familiare" di produzione (coro e
chitarre senza alcun trucco particolare). I loro bassi e falsetti erano
assai mediocri al confronto dei baritoni e dei tenori delle major, e i testi
erano certo meno forbiti dei melodrammi di Broadway, eppure fu in loro, fu
nel loro dilettantismo spensierato, che si riconobbero i giovani. Fu una
rivelazione per tutti.
Rubber Soul dei Beatles aveva pero` alzato la posta per la musica pop con i
suoi arrangiamenti certosini e Wilson era conscio che il loro stile da
sottoscala aveva i giorni contati in un mondo musicale sempre piu`
"elettrico". Wilson diede allora il suo tour de force come compositore e
arrangiatore: Pet Sounds (Reprise, 1966), uscito il 16 maggio 1966. Non solo
si trattava di un album concept (una raccolta di "mottetti rock", secondo
l'autore, che descrivano la maturazione di un giovane attraverso le sue
esperienze amorose e le sue amicizie, con un messaggio pessimista di fondo),
ma era ricco di suoni eccentrici e le canzoni sembravano quasi collage
ottenuti con una certosina arte di montaggio, facendo uso di una piccola
orchestra (trombone, armonica, clavicembalo, campanelli, violini). Le
canzoni si susseguono come in una fantasia melodica, alternando il Brian
Wilson romantico di Wouldn't It Be Nice, Caroline No (clavicembalo), You
Still Believe In Me, God Only Knows (che Paul McCartney considera la miglior
canzone di sempre, con corno francese, clavicembalo, sonagli, flauti e
clarinetto) al Brian Wilson nevroticamente autobiografico di I Just Wasn't
Made For These Times (con il Theremin) e That's Not Me. Lo strumentale Let's
Go Away For Awhile e` una sonata da camera per 12 violini, quattro
sassofoni, due bassi, piano, oboe, vibrafono, chitarra e percussioni. Sloop
John B e` l'unica concessione alle classifiche. Le liriche furono scritte da
Tony Asher. Naturalmente Pet Sounds fu il meno venduto di tutti i loro
album. Pet Sounds e` anche uno degli album piu` sopravvalutati di sempre.
Pet Sounds verra` ristampato nel 1996 in cofanetto quadruplo: il mono mix,
lo stereo mix, le parti vocali, etc.
Il manifesto della nuova, sofisticata stagione fu il ritornello incalzante
di Good Vibrations (ottobre 1966), orchestrato in modo rivoluzionario per i
tempi, complice il sintetizzatore. Arruolati uno stuolo di sessionmen
dell'entourage di Phil Spector, piu` musicisti jazz e classici, Wilson
trascorse mesi nello studio di registrazione, rifinendo le sue composizioni
in maniera maniacale. Good Vibrations e` stato spesso indicato dalla critica
internazionale come il massimo singolo di tutti i tempi.
Heroes And Villains (luglio 1967) e` un sofisticatissimo gioco vocale con
accompagnamento di clavicembalo che abbraccia per un attimo la religione
psichedelica.
Friends (giugno 1968) contiene ancora un bizzarro esperimento, Busy Doin'
Nothin'.
(di
Piero Scaruffi)
BEACH BOYS Pet Sounds (Capitol) 1966
(di Francesco Paolo Ferrotti)
Mostrando il gruppo ritratto in un'atmosfera
inconsueta e precocemente autunnale, già la copertina di "Pet Sounds"
lasciava presagire che l'estate celebrata dai californiani Beach Boys,
quella lunga estate che sembrava non dovesse conoscer mai fine, volgeva ora
al termine: i tanti fan dell'epoca, abituati alle esuberanti e spensierate
canzoni sul surf, si ritrovarono interdetti e disorientati di fronte a
quelle nuove melodie così introspettive e musicalmente complesse. Anche la
Capitol Records, la casa discografica che già da quattro anni traeva grandi
profitti dai continui hit dei Beach Boys, accolse l'album con scarsa
convinzione. Non potendo così contare su una promozione adeguata, uscito nel
maggio del 1966, "Pet Sounds" andò incontro in patria a un parziale flop
(sebbene in Inghilterra ebbe subito grande successo, soprattutto a livello
di critica). Quello che oggi è da moltissimi ritenuto uno dei massimi
vertici - quando non il massimo - della musica pop, risultò un lavoro troppo
complesso e profondo per l'ascoltatore medio dei tempi: certe opere, si sa,
vengono al mondo postume. Il suo artefice, Brian Wilson, sembrava averlo già
previsto nello stesso album, quando nella terzultima traccia cantava:
"Sometimes I feel very sad/ I guess I just wasn't made for these times" ("a
volte mi sento davvero triste/ temo di non esser fatto per il presente"). Ma
perchè egli, che fino all'anno precedente aveva collezionato una serie di
grandi successi, decise di stravolgere la fortunata ricetta? E soprattutto:
come poté la musica del gruppo che aveva cantato "Surfin' U.S.A." e "Fun,
Fun, Fun" tingersi d'improvviso di note così malinconiche?
La lunga estate californiana: da "Surfin' " a "Pet Sounds"
Brian Wilson, cuore e anima dei Beach Boys, non era mai stato un vero "beach
boy": giovane dalla personalità fragile, sin dall'infanzia sordo da un
orecchio ma cresciuto in simbiosi con la musica, non aveva mai messo piede
su una tavola da surf. Eppure, dopo aver fondato il gruppo insieme ai due
fratelli minori Carl e Dennis, con l'aggiunta del cugino Mike Love e
dell'amico Al Jardine, aveva contribuito ad alimentare il mito della
California felice: un immaginario che, nella suggestiva cornice di una
perenne estate, vedeva spiagge assolate, dolci ragazze dai capelli color
oro, drive-in e hot rods , e tutto quello che faceva parte dell'immaginario
giovanile americano, nella sua versione californiana. Come elemento
caratterizzante questo paradiso terrestre, il surf: uno sport che affondava
le sue remote origini in alcune popolazioni indigene dell'America e che, tra
la fine degli anni 50 e i primissimi 60, era diventato simbolo di libertà.
Era l'espressione di quella stessa dirompente libertà che, appena alcuni
anni prima, aveva dato vita al rock'n'roll e alla nascita della cultura
giovanile.
Fu Dennis, l'unico del gruppo a saper andare sul surf, a suggerire l'idea di
scrivere canzoni sulla vita dei surfisti. Così, nel 1961, Brian compose
"Surfin'": chi lo avrebbe mai pensato che quella canzone così semplice e
ingenua, registrata in modo casalingo da cinque ragazzini (Carl, il minore,
aveva appena 15 anni), fosse l'inizio di un nuovo capitolo della storia del
rock? Poi, fu la volta di "Surfin' Safari" e di "Surfin' U.S.A." e il
successo non tardò ad attendere: nel giro di un paio di anni, i Beach Boys
divennero il gruppo più famoso tutti gli Stati Uniti.
Tuttavia, al di là dei contenuti giovanili proposti dalla sua musica, Brian
Wilson sembrava utilizzare alcuni temi in modo simbolico: il mito
dell'eterna estate californiana sembrava una versione moderna dell'antico
mito dell'eterna giovinezza, e il tema del surf - l'inesausto desiderio di
cavalcare l'onda più alta - incarnava la concezione della vita intesa come
sfida e continua messa alla prova delle proprie capacità; una tematica che,
in un paese coraggioso e giovane di storia come l'America, sin dai tempi dei
pionieri aveva assunto connotazioni epiche.
Sin dall'infanzia, Brian Wilson suonava il pianoforte, ma amava
particolarmente il canto: nei momenti liberi, spesso insegnava ai fratelli
minori ad armonizzare con le proprie voci; a volte, in particolare in
occasione delle festività natalizie, si univa nel canto anche il cugino Mike
Love. Questo fece sì che, in seguito, i Beach Boys avessero il loro vero
punto di forza nelle sempre più complesse armonie vocali che Brian andava
componendo: egli pensava alle voci dei propri compagni come ai migliori
strumenti musicali a sua disposizione. Nello stesso tempo, però, le armonie
e i contrappunti vocali di Brian si fondevano con la strumentazione del
rock'n'roll, ossia principalmente con la chitarra del fratello Carl. Le
prime canzoni dei Beach Boys, in particolare brani come "Surfin U.S.A.",
"Fun, Fun, Fun", "I Get Around", esprimevano la stessa energia e la stessa
vivace freschezza del primissimo rock'n'roll. Tuttavia con una differenza:
le loro canzoni trapelavano un'innocenza e un infantilismo, una giocosità e
una gioia di vivere che non sono riscontrabili allo stesso modo nella musica
dei primi rocker . A ben vedere, quell'immaginario tanto ingenuo era
determinato, paradossalmente, da una forma di sottile nostalgia per qualcosa
che si stava perdendo. In quegli stessi anni, infatti, la gioventù americana
stava cominciando a perdere la propria innocenza: l'assassinio di Kennedy e
l'inasprimento della guerra in Vietnam conducevano progressivamente verso
una stagione d'inquietudine; i tempi stavano davvero cambiando e, di lì a
poco, anche la cultura giovanile sarebbe cambiata radicalmente.
Quella immortalata dai Beach Boys fu allora un'estate la cui illusione di
essere eterna era generata proprio dal fantasma della fine: nella sua
spensieratezza, si trattò dell'ultima vera estate del rock'n'roll, perlomeno
di quello che affondava le proprie radici nella cultura degli anni 50 (e il
cui tramonto è stato deliziosamente dipinto da George Lucas in "American
Graffiti", che termina, e non poteva essere diversamente, con "All Summer
Long" dei Beach Boys: ecco come rivelare la componente nostalgica di quella
che, a prima vista, sembrerebbe soltanto una canzone felice). Sebbene le
prime canzoni dei Beach Boys siano effettivamente all'insegna dell'ingenuo
divertimento, a volte la malinconia affiorava timidamente tra un brano e
l'altro. Progressivamente, nei loro album le canzoni veramente spensierate
diventarono sempre di meno; aumentarono invece le canzoni intimiste e
d'amore; e l'amore, si sa, fa spesso rima con dolore…
D'altro canto, da un punto di vista più strettamente musicale, furono gli
stessi Beach Boys - nella figura del loro leader, Brian - ad accelerare
l'abbandono del rock'n'roll più semplice: le armonie e gli arrangiamenti
sempre più raffinati di canzoni come "Surfer Girl", "The Warmth Of The Sun",
"California Girls", "Please Let Me Wonder" conducevano già verso nuovi
territori musicali. "Pet Sounds" non scaturì dunque dal nulla, né dal punto
di vista formale, né da quello contenutistico: gli album che lo precedettero
- lo straordinario "The Beach Boys Today!" in particolare, con i suoi
arrangiamenti più sofisticati e il suo lirismo - mostrarono che la strada da
intraprendere era ormai segnata. Pur dovendo spesso far i conti con le
pressioni e le ingerenze della Capitol Records e di Mike Love, ben più
interessati agli aspetti commerciali che alla ricerca di nuove espressioni
artistiche, Brian Wilson stava progressivamente forzando gli angusti limiti
della canzone pop, con un coraggioso obiettivo: egli voleva trasformare i
suoi Beach Boys, da un gruppo per soli teenager, in un gruppo d'avanguardia
e, nel corso del 1966, l'anno che vide non solo l'uscita di "Pet Sounds", ma
anche dell'epocale "Good Vibrations", fu questa la più diffusa
considerazione della critica internazionale, inglese in particolare.
L'album precedente all'uscita di "Pet Sounds" fu "The Beach Boys Party"
(1965): registrato in fretta e privo di pretese, aveva per il giovane
compositore il solo scopo di rispondere alle pressioni della Capitol, in
modo da potersi garantire più tempo per il capolavoro che stava maturando.
Paradossalmente, proprio da quello che era l'album in cui il gruppo puntava
di meno, e in cui le doti di Brian non erano messe a frutto, fu tratto
quello che divenne inaspettatamente uno dei massimi successi della
formazione, vale a dire "Barbara Ann". Il grande successo di "Barbara Ann"
fu una precoce dimostrazione che il mercato di allora, perlomeno quello
americano, non era ancora pronto per un album rivoluzionario come "Pet
Sounds".
La sfida con i Beatles e con Phil Spector
Significativamente, "The Beach Boys Party" terminava con una cover di "The
Times They Are A-Changin'" di Bob Dylan. Era l'unico momento davvero
toccante di quell'album, perché sembrava esser molto più di una cover
qualsiasi, ma la più sincera espressione che, alla metà del decennio, i
tempi stavano veramente cambiando anche per i "ragazzi della spiaggia":
mentre Brian si andò sempre più chiudendo nel proprio mondo interiore, la
California felice del surf stava progressivamente lasciando posto a una
nuova generazione, quella hippy, molto meno innocente e spensierata; quella
stagione di lì a poco avrebbe cantato "California Dreamin'", un vero e
proprio inno al paradiso perduto.
Intanto, già da un paio di anni, avanzavano nuove tendenze d'oltreoceano: i
Beatles, ancora poco conosciuti negli States quando i Beach Boys scalavano
già le classifiche, cominciarono a riscuotere un grande successo. Il dominio
dei Beach Boys, che fino a quel momento era stato quasi incontrastato,
rischiava per la prima volta di essere messo in discussione. D'altro canto,
però, l'avvento dei Beatles nelle classifiche americane diede a Brian Wilson
una spinta positiva per migliorare sempre più la propria produzione. Nacque
così quella che fu una delle più fertili e salutari competizioni musicali
che la storia del rock ricordi, con reciproci apprezzamenti da parte dei
contendenti.
Album dei Beach Boys come "All Summer Long" (1964), il già citato "Today"
(1965), e "Summer Days (And Summer Nights!)" (1965) denunciavano già segni
evidentissimi di questa evoluzione musicale alla ricerca di nuovi traguardi.
Dopo che Brian ascoltò "Rubber Soul" dei Beatles, però, ne fu davvero
ammirato e colpito oltre misura: egli aveva già deciso di portare la sfida
su un livello mai raggiunto prima, ma rafforzò ancora più quella
convinzione.
Nel frattempo, la maggiore fonte d'ammirazione per il giovane compositore si
chiamava Phil Spector: il famoso produttore americano, ispirandosi
addirittura a Richard Wagner, già da alcuni anni aveva introdotto in fase di
produzione un sinfonismo - il cosiddetto "wall of sound" - che mirava a
elevare la canzone pop a opera d'arte. Accogliendo la lezione di Spector,
Brian raccolse la sfida con i Beatles. "Pet Sounds" fu il frutto di questa
sfida: con i Beatles, con il maestro Phil Spector, ma soprattutto con se
stesso. Egli era fermamente determinato nel suo obiettivo: "Voglio
realizzare il più grande album rock di tutti i tempi". Esprimendo anche il
proposito di voler portare un nuovo "valore spirituale" nella musica, il suo
lavoro fu concepito non soltanto come un livello superiore nella produzione
dei Beach Boys, ma come una nuova frontiera per la musica popolare tout
court. "Pet Sounds" rappresentò, inoltre, la raggiunta maturità del formato
"album": sebbene "Rubber Soul" dei Beatles avesse aperto la strada, mai
prima d'ora si era visto un disco con una tale coerenza interna, con una
tale qualità degli arrangiamenti e profondità dei testi. A quel punto,
furono i Beatles a dover tentare di contraccambiare: nelle parole di George
Martin, il celebre produttore del gruppo, "Sgt. Pepper's was an attempt to
equal Pet Sounds" ("Sgt. Pepper's fu un tentativo di eguagliare Pet
Sounds"). Un tentativo che, a parere di molti, non riuscì.
La genesi dell'album
Nel corso del 1965, l'anno in cui cominciò a lavorare sull'album, Brian
Wilson aveva 23 anni. Ritiratosi dall'attività concertistica per dedicarsi
esclusivamente alla composizione, egli maturò in una fertile solitudine
l'idea del proprio capolavoro, lasciando ai compagni il compito di portare
la propria musica in giro per il mondo. "Pet Sounds" fu, effettivamente,
quasi un album solista, concepito in modo più simile a un'opera classica che
a un consueto disco rock. Brian fu infatti non soltanto il compositore delle
musiche, ma anche l'arrangiatore e il produttore, oltre che l'interprete
vocale della maggior parte dei brani: voleva disporre del totale controllo
su ogni aspetto del proprio capolavoro, dall'inizio fino al prodotto finito.
In sostanza, egli riuniva in sé i compiti che in un gruppo come i Beatles
spettavano a persone diverse (McCartney e Lennon per le idee musicali,
George Martin per gran parte degli arrangiamenti e la produzione).
Ma se il vero linguaggio interiore di Brian Wilson era la musica, egli sentì
il bisogno di esser affiancato da qualcuno che eccellesse nel trasporre in
parole quelle stesse emozioni che egli esprimeva tramite le note: allo
scopo, reclutò il giovane e talentuoso Tony Asher e i due trascorsero un
paio di mesi a lavorare senza sosta, partendo ora da un testo, ora da
un'idea musicale. Tony Asher fu l'uomo che riuscì a tradurre il mondo
interiore di Brian Wilson, in un certo senso ne fu l'interprete. Nacque così
il nucleo principale di canzoni che compongono l'album e si poté passare -
sempre in assenza del resto del gruppo - alla fase di registrazione delle
parti strumentali.
Qui Brian ebbe a disposizione uno studio con una vera e propria orchestra,
scegliendo di utilizzare alcuni talentuosi musicisti appartenenti al "clan"
di Phil Spector; in realtà, non si trattava di una novità assoluta, perché
li aveva già progressivamente sperimentati nei dischi precedenti dei Beach
Boys. Rispetto ai lavori precedenti, però, la quantità di strumenti e di
timbri cresce a dismisura; le canzoni sembrano dilatarsi e diventare delle
piccole e variopinte sinfonie: l'architettura musicale non si regge allora
più sulle chitarre, ma su un letto di strumenti classici (violini, ottoni,
pianoforte, clavicembalo, armonica, fisarmonica, sassofono, flauto,
clarinetto e diversi altri), a cui si aggiungono due bassi (uno elettrico e
uno non), chitarre, batteria e percussioni varie. Infine, a volte si
registra anche la presenza di strumenti inconsueti; tra questi ultimi, a
spiccare è l'uso del theremin (sebbene pare si trattasse di una leggera
variante di quello strumento), adoperato in "I Just Wasn't Made For These
Times": sembra si tratti in assoluto del primo caso del suo uso in un album
rock; sarà poi usato ancora in "Good Vibrations", che venne registrata nel
corso delle stesse session.
Tra le diverse componenti di novità dell'album, spicca un uso del basso che
non si limita a seguire in modo ausiliario la melodia, ma forma contrappunti
imprevedibili che dosano la tensione emotiva: in "Don't Talk (put your head
on my shoulder)", per esempio, il basso sembra risuonare come un vero e
proprio "heartbeat" mentre Brian canta "listen to my heart… beat". Paul
McCartney dichiarò di essere stato molto influenzato dall'uso del basso in
"Pet Sounds".
Altro elemento rivoluzionario, uno di quelli che più rimangono impressi
nell'ascolto dell'album, è l'uso espressivo che Brian fece delle
percussioni, esplorandone la timbrica oltre ogni convenzione: di brano in
brano, fanno la loro comparsa piccoli strumenti come vibrafono, triangolo,
marimba, tamburello, campanelli, che impreziosiscono magicamente le canzoni
(si ascoltino in particolare "Let's Go Away For Awhile" e "Sloop John B."
per rendersene conto). A questo proposito, bisogna anche ricordare la
presenza del batterista Hal Blaine: quest'ultimo, grazie anche alla sua
cosiddetta "scatola delle meraviglie" (una serie di oggetti bizzarri con
suoni particolari), era sempre pronto a interpretare molte altre intuizioni
di Brian. Se ne ricorda una particolarmente curiosa: nel brano strumentale
"Pet Sounds", furono persino usate bottigliette vuote di aranciata come
percussioni.
Brian Wilson lavorò singolarmente con ogni musicista, per ottenere
esattamente ciò che voleva e nel modo esatto in cui lo aveva in mente.
Durante le session, egli diresse la sua orchestra facendo un uso della
dinamica mai visto in un disco rock, e mescolando timbri e strumenti in modo
da ottenere un suono ricco e unitario che fosse molto più della somma dei
singoli strumenti. Seguendo la lezione di Phil Spector (il cui insegnamento
fondamentale era stato "due strumenti combinati insieme danno un terzo suono
nuovo"), Brian Wilson ottenne il suo personale e straordinario "wall of
sound". Ma egli aveva in serbo ancora qualcos'altro, per rendere il tutto
ancora più magico: le voci dei Beach Boys.
Una volta registrate tutte le parti strumentali, il contributo degli altri
Beach Boys - una volta reduci da un estenuante tour in Giappone - fu
praticamente limitato alla loro prestazione vocale, seguendo le più
minuziose indicazioni di Brian: le loro voci furono davvero ridotte a
strumenti musicali, forse i più importanti, nelle mani di un unico demiurgo
che riassumeva in sé ogni aspetto della propria creazione. La giovane voce
di Carl Wilson fu scelta per la parte solista di quel miracolo di canzone
che è "God Only Knows" che, grazie anche alla straordinaria prestazione
vocale di Carl, fu ai tempi definita da Paul McCartney "la più bella canzone
d'amore mai scritta". A Mike Love fu affidata la prima voce in "That's Not
Me" e in "Here Today", più un paio di altre in cui si divideva il cantato
con Brian. Quest'ultimo riservò per sé la voce solista dei brani più
autobiografici: "You Still Believe in Me", "Don't Talk (put your head on my
shoulder)", "I Just Wasn't Made For These Times" e "Caroline, No".
I restanti Beach Boys, comprendenti anche Bruce Johnston che era entrato a
far parte della band per sostituire Brian nei concerti, dovettero
accontentarsi delle voci di controcanto. Per dare l'idea di quanto fosse la
meticolosità di Brian, pare che egli stesso abbia poi ri-registrato in
segreto alcune parti assegnate ai compagni, alla ricerca di qualcosa che si
avvicinasse il più possibile alla perfezione. La ricerca di un suono
perfetto fu anche uno dei motivi per cui l'album fu infine mixato in mono e
non in stereo: Brian voleva che il suono dell'ascoltatore non fosse
influenzato da fattori esterni (come il posizionamento dei due amplificatori
o la distanza da essi), ma che uscisse esattamente come egli lo aveva
concepito. In realtà, c'era anche un'altra ragione più radicale per
preferire la modalità mono: a causa della sua quasi totale sordità
dall'orecchio destro, Brian Wilson non riusciva a cogliere bene la
stereofonia.
I contenuti
Sebbene s'individui in "Pet Sounds" una svolta rivoluzionaria rispetto alla
produzione precedente del gruppo, d'altro canto è fuorviante pensare che
esso rinneghi radicalmente la musica passata dei Beach Boys; sarebbe meglio
parlare di una maturazione o, piuttosto, di un cambio di prospettiva: se
fino a quel momento infatti il gruppo aveva dato vita a un immaginario
musicale così vivido da diventare quasi "visivo", come può esserlo un sogno
ad occhi aperti, adesso "Pet Sounds" interiorizza e rende poetico quel mondo
fantastico. Nel farlo, getta una nuova luce anche sul periodo precedente,
perché ne rivela per la prima volta gli aspetti che fino a quel momento
erano stati tenuti nascosti: alla luce di "Pet Sounds", l'immaginario
precedente dei Beach Boys si scopre fondato sulla nostalgia, come se fosse
stato un tentativo per esorcizzarla. "Pet Sounds" contiene anche l'estate
(in "Wouldn't It Be Nice") ma, per la prima volta, esprime sopratutto
l'atmosfera di ciò che prima era rimasto escluso: le ombre lunghe gettate
dal sole californiano, le giornate di pioggia e le mareggiate,
l'inquietudine per qualcosa che si sta perdendo. A ben vedere, questa nota
di malinconia è un elemento che caratterizza anche l'icona del surfista, nel
suo romantico vagabondare alla ricerca della solitaria sfida con una natura
contemporaneamente amica e ostile. Già una delle primissime canzoni composte
e cantate da Brian Wilson, "Lonely Sea", sembrava rivelare l'altra faccia
del surf, anticipando l'atmosfera meditativa di "Pet Sounds". In un'altra
canzone, "In My Room", brano particolarmente autobiografico, Brian
confessava al pubblico il proprio carattere introspettivo; ecco cosa era la
California felice cantata dai Beach Boys: un mondo di fantasia nato nella
mente di Brian mentre, nella rassicurante solitudine della sua camera, era
sospeso tra ricordi dell'infanzia e sogni per il futuro. Ma, se fino ad
allora l'esuberanza della musica dei Beach Boys era stata per lui un
antidoto contro i fantasmi interiori, in "Pet Sounds" sembra rompersi quel
fragile equilibrio: qui la spensieratezza sembra durare solo un istante
perché, al posto dell'illusoria "endless summer", c'è la malinconica
consapevolezza di un'incombente fine. La fine dell'estate e, con essa, della
gioventù.
Qual è dunque il contenuto di "Pet Sounds"? Innanzitutto, si può dire che
esso contenga una "storia", ed è per questo motivo che viene da molti
considerato come il primo vero e proprio "concept-album". Ma, allo stesso
tempo, è anche qualcosa di più. Non soltanto contiene una storia, ma mette
in scena la storia delle storie: la "fabula dell'iniziazione", ossia una
trama così antica e universale che per alcuni semiologi costituisce il
nucleo profondo di qualsiasi narrazione. Si tratta cioè della vicenda
interiore di ciascun individuo, della dolorosa separazione da una condizione
d'innocenza originaria per intraprendere, attraverso una serie di esperienze
in cui centrale è il rapporto con l'altro sesso, il cammino della vita. "Pet
Sounds" è il racconto del passaggio dall'una all'altra cosa ossia, in
termini più semplici, del passaggio dall'adolescenza alla maturità (ma si
tratta in realtà di una storia sempre viva e attuale in ciascuno di noi,
perché è dal rapporto con quel nucleo essenziale che, secondo la teoria
psicoanalitica, noi ricaviamo la nostra personalità). Il primo e l'ultimo
brano sono i due momenti più forti dell'album ed è nella relazione verso
questi due poli oppositivi che gli altri trovano la loro collocazione e la
loro spiegazione. Nel brano che apre l'album, un giovane protagonista
esprime il desiderio pre-adolescenziale di crescere, di diventare adulto per
potersi sposare con la sua amata: "wouldn't it be nice if we were older"...
"come sarebbe bello se fossimo più grandi" (è interessante notare come il
concetto di "diventare grandi" sia espresso con la parola che in inglese
significa anche "invecchiare": quasi per voler suggerire sin dall'inizio
un'identità segreta tra le due cose, sebbene essa sia ancora sconosciuta al
protagonista che, in quanto ancora troppo giovane, desidera crescere).
Nell'ultimo brano, al contrario, la sopraggiunta condizione
post-adolescenziale è accompagnata dalla disillusione e dal rimpianto per
un'età dell'oro perduta e che mai più tornerà: il protagonista piange per
una ragazza di cui era innamorato in giovane età, ma che ora è cresciuta e
non corrisponde più all'ideale che in passato ella aveva rappresentato per
lui. In mezzo, in tensione tra i due opposti complementari, una serie di
esperienze simboleggiano il difficile percorso dell'adolescenza.
Non sappiamo quanto tempo trascorra dalla trepidante attesa di "Wouldn't It
Be Nice" al rimpianto per l'amore perduto in "Caroline No", né tantomeno
sappiamo se la ragazza sia la stessa. Non si tratta certo di un tempo reale,
ma di un tempo simbolico, interiore, il cui la dimensione sincronica prevale
su quella diacronica. Sembra infatti che spesso gli opposti siano
contemporaneamente presenti e, anche quando sembrano distinti (come nel
rapporto tra il primo e l'ultimo brano), sono tuttavia accomunati da
qualcosa che potrebbe esser definita come una perenne condizione
d'insoddisfazione: ora intesa come stimolo positivo e desiderio, ora invece
come rimpianto.
Il messaggio di grande profondità che l'album suggerisce sembra allora
questo: quanto più si è giovani, tanto più si desidera crescere; al tempo
stesso, però, più si cresce e più si rimpiange di non essere giovani. Il
paradosso è che non si può individuare il punto in cui l'una cosa si
trasforma nell'altra, eppure impieghiamo la metà della nostra vita a
desiderare di crescere, e l'altra metà a rimpiangere la giovinezza: in
perenne tensione, prima verso il futuro e poi verso il passato, ma incapaci
di vivere davvero l'unica dimensione certa, il presente (come è espresso in
"I Just Wasn't Made For These Times").
Se "Pet Sounds" è tutto questo, esso è al tempo stesso anche una puntuale
storia autobiografica del suo creatore: l'album della maturità musicale di
Brian Wilson fu anche l'opera in cui egli metteva in scena il proprio stesso
approdo alla maturità, il rapporto difficile con la figura paterna e con
l'altro sesso. Il suo genio consistette nell'esser riuscito a esprimere in
termini universali le proprie paure e le proprie emozioni più intime: non è
forse questo il segreto di ogni opera d'arte? Come ha scritto ottimamente
Peter Ames Carlin nel suo recente libro su Brian Wilson, "Pet Sounds fu
concepito come una tragedia sulla fine della giovinezza e sull'inevitabile
caducità della bellezza, e il suo eroe tragico era il giovane dagli occhi
tristi che siede timidamente al pianoforte nel retro di copertina".
L'album traccia per traccia
Come accennato, il disco si apre con l'esuberante cinguettio di chitarra che
introduce "Wouldn't It Be Nice": tripudio di armonia e simbolo di un nuovo
sinfonismo pop, è la canzone che più ricorda, sebbene in un contesto diverso
e con ben altra maturità musicale, lo stile precedente dei Beach Boys: è
quasi come se i Beach Boys rappresentino se stessi, eseguendo al tempo
stesso un omaggio e un congedo dal proprio repertorio passato.
La seguente "You Still Believe In Me" è forse il brano più carico di
connotazioni e significati nascosti, così come piuttosto misteriosa è la sua
stessa genesi: all'origine, s'intitolava infatti "In My Childwood" ("nella
mia infanzia"), ma Brian volle che Tony Asher componesse un testo
completamente diverso. Eppure, stranamente dell'infanzia contiene ancora
echi subconsci, che si fondono con il nuovo significato: a cominciare dal
suono iniziale che, risuonando come il fantasma di un vecchio carillon,
introduce la dolce cantilena infantile che fa da vero e proprio leitmotiv al
brano; pare che Brian e Tony ottennero quel suono pizzicando direttamente le
corde di un pianoforte. A metà della canzone, poi, sentiamo un campanello di
bicicletta che evoca un'altra indefinita sensazione di fanciullesca memoria.
In questo brano si vede anche come Brian Wilson e Tony Asher lavorarono
insieme su musica e testi: nel punto in cui Brian canta "I wanna cry", con
la voce di Mike Love che s'inserisce sulla sua, le sillabe si dilatano tanto
da non distinguersi più la parola dalla musica.
"That's Not Me", affidata alla voce di Mike Love, rappresenta un primo
momento di riflessione: il protagonista racconta di aver provato a vivere da
solo, per dimostrare di esser diventato grande e indipendente; salvo poi
scoprire che, in fondo, non è così bello esser lontano dalla propria città e
dall'unica ragazza che ama. Verrebbe da chiedersi se questo ripensamento sia
un sintomo del fatto che non sia ancora cresciuto o, piuttosto, un segno che
sta cominciando a crescere. Probabilmente, entrambe le cose allo stesso
tempo.
"Don't Talk (put your head on my shoulder)", è una canzone d'amore di
straordinario lirismo e di grande complessità musicale, ed è una delle due
tracce dell'album che non presentano voci di controcanto (l'altra è
"Caroline no", e sembra esserci un filo invisibile che lega le due). In
questo brano il rapporto con il tempo sembra essere già diverso perché, in
una notte in cui tutto può succedere, non è il futuro a essere al centro dei
pensieri del protagonista: "Being here with you feels so right/ we could
live forever tonight/ let's not think about tomorrow/ and don't talk, put
your head on my shoulder" (esser qui con te mi fa stare così bene/ potremmo
vivere in eterno stanotte/ non pensiamo a domani/ non parlare, poggia la tua
testa sulle mie spalle). Da notare che, quando poi Brian canta "listen…
listen… listen", produce un effetto molto intenso perché sembra rivolgersi
direttamente all'ascoltatore, invitandolo ad ascoltare la musica stessa per
cogliere quella che egli considerava l'espressione della spiritualità
contenuta nell'album.
"I'm Waiting For The Day" è sospesa tra una parte riflessiva e una
esuberante; questa è forse l'ultima canzone in cui si esprime un desiderio
giovanile per il futuro: "I'm waiting for the day, when you can love again"
(aspetto il giorno in cui potrai amare di nuovo").
"Let's Go Away For Awhile" è il primo dei due pezzi strumentali, e dimostra
come la musica contenuta nell'album, anche quando sprovvista di parole, è
così ricca da riuscire a comunicare direttamente con la fantasia
dell'ascoltatore. Questo brano è davvero uno straordinario caleidoscopio in
cui tutto l'immaginario californiano sembra specchiarsi e riverberare
languidamente. Come suggerisce il titolo, è anche il brano che traghetta
l'album verso un nuovo sviluppo.
Come preludio alla seconda parte del disco (l'ultimo brano dell'originale
"lato A"), troviamo "Sloop John B": si tratta di una vecchia canzone folk
tradizionale che, su suggerimento di Al Jardine, Brian Wilson aveva
brillantemente arrangiato nello stile dei Beach Boys. La circostanza che il
brano non fosse stato concepito specificatamente per "Pet Sounds" ha fatto
ritenere ad alcuni che questo sia anche l'unico di cui l'album avrebbe
potuto fare a meno; al contrario, a ben vedere, ne costituisce un tassello
fondamentale: considerato che abbiamo identificato l'album come un percorso
per tappe dall'adolescenza alla maturità, "Sloop John B.", il settimo su
tredici brani, rappresenta simbolicamente il tentativo di un primo deciso
passo oltre il confine. Riprendendo il tema del brano precedente, infatti,
racconta in modo bizzarro e visionario di un viaggio fantastico a bordo di
una nave, chiamata Sloop John. Sulle prime sembrerebbe un brano esuberante,
e sicuramente lo è; tuttavia, in questo contesto, a spiccare è sopratutto la
reiterata invocazione del ritornello "let me go home, I wanna go home"
("lasciami tornare a casa, voglio tornare a casa"): sembra voler suggerire
che, proprio quello che dovrebbe essere il primo grande passo verso la
maturità, verso nuove frontiere, contiene implicito già il primo rimpianto e
il primo desiderio di tornare indietro, "a casa". D'altro canto, questo
desiderio è un sintomo che ormai è già troppo tardi per tornare indietro.
Nella seconda parte del disco allora, insieme all'inevitabile crescita,
anche la "paura della perdita" aumenterà sempre di più.
Nella seguente "God Only Knows", l'inquietudine per il futuro comincia ad
affacciarsi alla coscienza del protagonista, anche se sembra stemperarsi in
una condizione estatica: "God only knows what I'd be without you" (soltanto
Dio sa cosa sarei senza di te). Si tratta di uno dei momenti più sublimi e
meritatamente celebri dell'album. Pare che Brian Wilson, durante le session
vocali, avesse persino previsto dei momenti di preghiera insieme al fratello
Carl; quest'ultimo, come si è ricordato, consegnò a questa canzone quella
che fu la migliore interpretazione della propria carriera.
"I Know There's An Answer" è una canzone scritta prima ancora della genesi
dell'album. Pur se sofisticata dal punto di vista musicale, è forse quella
che risulta meno chiara nel contesto dell'opera, anche perché il testo
originale fu alla fine modificato in seguito alle richieste di Mike Love. La
parte modificata è proprio quella che, dando anche il titolo al brano, ne
esprime il concetto fondamentale: "I Know there's an answer/ I know but I
have to find it by myself" (so che c'è una risposta, lo so ma devo trovarla
da solo). Ognuno interpreti ciò come vuole…
"Here Today" manifesta esplicitamente la disillusione per l'amore, messo in
pericolo dal tempo: "Love is here today/ and it's gone tomorrow/ It's here
and gone so fast" ("l'amore oggi c'è, ma domani non c'è più, viene e va così
in fretta"). Si ascolti in particolare il bridge strumentale della canzone,
che sembra quasi tradurre in musica l'idea di "fugacità".
In "I Just Wasn't Made For These Times", come si è accennato in precedenza,
il protagonista prova la sensazione di non essere capace di vivere il
presente e di non riuscire a esprimere se stesso nel modo in cui vorrebbe.
Quando Brian canta "sometimes I feel very sad", è davvero uno dei momenti
più intensi e toccanti dell'album.
"Pet Sounds" è il secondo brano strumentale: reca il nome dell'album, ma in
realtà è un inquieto e trepidante preludio all'ultimo brano, in cui si
troverà una spiegazione per quel titolo.
Alla fine, "Caroline, No": è quella che Brian Wilson ha sempre considerato,
e considera tuttora, la sua canzone preferita dell'album; non a caso, fu
anche l'unico singolo di quegli anni a esser pubblicato sotto il suo nome da
solista: era un brano troppo intimo per andare sotto il marchio "Beach
Boys". "Carol, I Know": era questo il titolo originale della canzone, e
sembra che Carol fosse il nome della prima ragazza di cui Brian si era
innamorato, ai tempi della scuola. Era forse sempre lei a nascondersi dietro
la solare icona della "surfer girl" che egli aveva celebrato negli anni
precedenti? In ogni caso, qui Carol incarna un simbolo ancora più
universale: è il simbolo della perdita originaria, della fine
dell'innocenza, dello scontro tra gli ideali e la realtà. Fu così che "Carol
I Know" divenne "Caroline No": il suono delle parole è lo stesso, ma diverso
è il concetto. Brian infatti reinterpetrò il testo di Tony Asher, che a
partire dal titolo verteva più sull'accettazione della crescita, e lo rese
ancora più intenso e toccante: in "Caroline, No" il rimpianto è accompagnato
da un rifiuto, espressione di un conflitto interiore non ancora sopito e che
mai potrà essere del tutto risanato. "Caroline, No" rappresenta dunque
l'altra faccia della crescita, quella tenuta nascosta in "Wouldn't It Be
Nice": il protagonista sembra quasi voler accusare la ragazza di esser
cambiata rispetto a come la ricordava, a cominciare dal fatto che non porta
più i lunghi capelli come una volta; in realtà, è solo un tentativo di
nascondere a se stesso che il vero motivo è un altro, ed è qualcosa che
anche la ragazza subisce: il tempo. Caroline è cambiata sì, ma soltanto
perché è cresciuta come tutti gli altri. Il suo cambiamento rivela allora il
volto inesorabile del tempo che non risparmia la bellezza degli ideali,
quegli stessi ideali che quando si è giovani sembrano imperituri. Vale la
pena riportare integralmente il testo della canzone, accompagnato dalla
traduzione:
Where did your long hair go?
Where is the girl I used to know?
How could you lose that happy glow?
Oh, Caroline, no.
Who took that look away?
I remember how you used to say
You'd never change, but that's not true
Oh, Caroline you
Break my heart, I wanna go and cry
It's so sad to watch a sweet thing die
Oh, Caroline why?
Could I ever find in you again
The things that made me love you so much then?
Could we ever bring 'em back once they have gone?
Oh, Caroline, no.
_________________________
Dove sono i tuoi lunghi capelli?
dov'è la ragazza che conoscevo un tempo?
come hai potuto perdere la tua aria felice?
oh, Caroline, no.
Chi ti ha portato via quell'aspetto?
mi ricordo il modo in cui mi dicevi
che non saresti mai cambiata, ma non è vero
oh, Caroline tu
mi hai spezzato il cuore, voglio andar via e piangere
è così triste veder morire qualcosa di dolce
perché, Caroline?
Potrò mai più ritrovare in te
tutto ciò che faceva sì che ti amassi così tanto allora?
potremo mai recuperare queste cose una volta che sono andate via?
oh, Caroline, no.
Mentre l'ascoltatore è ancora sospeso nell'atmosfera dolce-amara della
canzone che si dilegua quasi fino al silenzio, improvvisamente con moto
contrario viene spiazzato dal rumore crescente di un treno che passa; si
sentono anche due cani abbaiare, quasi come per voler accompagnare fino
all'ultimo il passeggero in partenza. Prima ancora di chiederci il
significato, sappiamo già cosa rappresenta il treno: sancisce la fine
dell'estate, la partenza definitiva, l'addio alla gioventù. Il passaggio
dalla musica al rumore sembra simboleggiare la brusca separazione dalla
condizione d'innocenza originaria, quella che i fanciulli condividono con
gli animali (qui rappresentati dai due cani di Brian che sentiamo abbaiare…
ed ecco finalmente i veri "pet sounds" cui si riferisce il titolo
dell'album: è allora quasi come se tutto il disco fosse soltanto il frutto
di un ricordo, o di un sogno, del passeggero nel treno). Dopo quel treno,
niente potrà esser più lo stesso. Nemmeno l'ascoltatore.
Eppure, proprio dal rumore finale del treno a ritroso, è impossibile
descrivere in modo univoco le indefinite e contrastanti sensazioni,
frammiste di dolcezza e di nostalgia, di commozione e di catarsi, che
suscita l'ascolto di "Pet Sounds": se è vero che finora si è riscontrato un
messaggio a sfondo pessimistico, è vero anche che l'album sembra possedere
un potere segreto che lo rende, al tempo stesso, rassicurante e benefico.
Una delle spiegazioni di questa complessa ambivalenza potrebbe esser riposta
anche nel fatto che, durante la genesi dei brani (come abbiamo visto a
proposito di "You Still Believe In Me", "Sloop John B.", "I Know There's An
Answer" e infine "Caroline, No"), spesso ad alcuni significati originari se
ne sono aggiunti e sovrapposti altri, mantenendo tuttavia una velata traccia
dei precedenti.
Carl Wilson disse, a proposito della musica composta dal fratello, "l'idea
di comporre musica che potesse far star meglio le persone era diventata come
una missione". Brian, dal canto suo, ha sempre insistito sul valore
spirituale e, addirittura, sul grande messaggio d'amore contenuto in "Pet
Sounds". Continuando su questa linea, il suo nuovo traguardo si sarebbe
chiamato "Smile". Ma quella, come molti sapranno, è un'altra storia.
"Pet Sounds" oggi: seconda vita di un album immortale
Se "Pet Sounds" è un disco che ha cambiato la vita di tanti ascoltatori,
dopo di esso, anche il suo autore non fu più lo stesso: scoraggiato per
l'insufficiente risposta del pubblico del tempo in quella che era stata la
massima espressione di se stesso, e nonostante il grande successo di "Good
Vibrations", cominciò per lui una lunghissima crisi creativa e personale
(sebbene intervallata da alcuni lampi di genialità), da cui cominciò a
riprendersi soltanto trent'anni dopo, alla metà degli anni 90. In quegli
anni, che videro la diffusione di "Pet Sounds" in cd, anche il suo
capolavoro cominciò a vivere una seconda vita. Una tappa significativa fu la
pubblicazione, nel 1997, del box-set delle "Pet Sounds sessions": in
quell'occasione, fu anche presentata la prima versione in stereo dell'album.
Nel 2000, spiazzando critica e pubblico, Brian Wilson riprese l'attività
concertistica, con un entusiasmo sempre crescente: fino a qualche anno
prima, sembrava qualcosa di assolutamente inconcepibile. Ma, dato che alla
meraviglia non c'è mai fine, Brian maturò anche la decisione di portare
tutto "Pet Sounds" in tour con un gruppo di musicisti affiatati: chi ha
avuto la fortuna di assistere, ne parla come di un'esperienza irripetibile e
quasi mistica. Per avere un'idea di quel tour, si può ascoltare il cd "Pet
Sounds Live": è un "Pet Sounds" diverso da quello del '66, e la voce di
Brian denuncia il peso degli anni, ma il risultato è altrettanto commovente;
per certi versi, anche di più. Forse proprio grazie alla lunga assenza dalle
scene e alle tante avversità cui è andato incontro, oggi la sua
interpretazione di "Pet Sounds" appare non soltanto credibile e autentica,
ma ancora capace di stupire e di emozionare.
Infine, gli ultimi eventi: nell'estate del 2006, per celebrare i
quarant'anni dell'album, "Pet Sounds" è uscito in una nuova edizione. Nel
frattempo, Brian Wilson ha anche annunciato che il 2006 sarà l'ultimo anno
in cui porterà l'intero album in tour. Forse è un po' triste pensarlo, ma
per ogni cosa bella, come sembra insegnarci lo stesso "Pet Sounds", c'è
sempre un'ultima volta. Dopo, l'immortalità.
THE BEACH BOYS
PET SOUNDS CAPITOL 1966
Brian Wilson rimase sconfortato dopo aver ascoltato SGT. PEPPER'S LONELY
HEARTS CLUB BAND (1967) dei Beatles. Pensava di essere il migliore
compositore dei suoi tempi. Pensava di averlo dimostrato con PET SOUNDS, la
miglior risposta americana al contemporaneo REVOLVER. Viveva in continua
competizione con se stesso e con gli altri. Il produttore Phil Spector gli
indicò la strada dell'utilizzo artistico dello studio di registrazione. E
lui la percorse trasformando, presto, l'improvvisazione dell'autostoppista
in un comodo viatico.
Le continue sovraincisioni di percussioni ed orchestra caratterizzarono il
sound di Fun Fun Fun (1964) , Don't Worry Baby (1964) e culminarono
nell'album del 1965, SUMMER DAYS (AND SUMMER NIGHTS). Voleva dimostrare
quanto fosse bravo, ma, più di tutto, voleva scrollarsi di dosso l'etichetta
che i Beach Boys stavano rappresentando. Ragazzi di spiaggia, appunto. Tra
Surfin', Surfin' Safari, Surfin' U.S.A., Surfer Girl, c'era più divertimento
e spensieratezza che fantasia e genialità. Lui voleva (solo!), superare i
Beatles. E non c'era altro da fare che studiare, nel senso di rintanarsi
nello "studio" (quello di registrazione). Ma la continua rivalità con gli
inglesi (evidentemente affrontata ad armi impari) lo stava snervando
oltremodo. E PET SOUNDS risente degli sbalzi umorali di un'artista mai
contento di sé.
Non c'è più l'evocazione della mitica "terra promessa". Il "surf" viene
appeso al chiodo. L'estate californiana viene sostituita dal freddo ed
instabile sole autunnale. Le certezze vacillano, l'ombra della solitudine e
il bisogno di sicurezza fanno capolino nelle liriche - Don't Talk (Put Your
Head On My Shoulder) -.
Wilson sembra anticipare lo spirito e le allusioni di Big Wednesday (da noi
"Un mercoledì da leoni", 1978) del regista John Milius. Un film non casuale
(California, surf, beach boys) sulla fugacità dell'adolescenza.
Il brano iniziale (Wouldn't It Be Nice) è lo specchio delle gioie della vita
coniugale. Dura poco. Si frantumerà nel corso del disco (You Still Believe
In Me, God Only Knows, Caroline No). E il disincanto a volte apocalittico,
visibile già dai titoli - I'm Waiting For The Day, I Know There's An Answer
- viene amplificato dalle scelte timbriche che faranno dell'album uno dei
più influenti di sempre. Se ne accorgeranno tutti. Dopo.
Agli strumenti convenzionali si aggiungono: bizzarri "campanelli di
bicicletta", l'esotico Koto, i flauti, l'harpsicord, il Theremin.
L'album non vende molto. Il pubblico americano gli volta le spalle. La
storia, no. Ma Brian Wilson non è ancora contento. Il successivo singolo
Good Vibrations (originariamente destinato a quest'album) metterà d'accordo
tutti, tranne il compositore che nel massimo del suo genio registrerà SMILE.
Un album che non vedrà mai la luce (se non parzialmente negli anni '90)
perché, in preda ad un raptus, distruggerà i nastri della registrazione. Non
poteva proprio sopportare che qualcun altro fosse più bravo di lui. Così
schiacciante questo peso da non accorgersi che proprio i "più" bravi stavano
scrivendo SGT. PEPPER'S (quell'album che lo sconvolgerà) ispirati da PET
SOUNDS.
I brani:
WOULDN'T IT BE NICE
YOU STILL BELIEVE IN ME
THAT'S NOT ME
DON'T TALK (PUT YOUR HEAD ON MY SHOULDER)
I'M WAITING FOR THE DAY
LET'S GO AWAY FOR A WHILE
SLOOP JOHN B
GOD ONLY KNOWS
I KNOW THERE'S AN ANSWER
HERE TODAY
I JUST WASN'T MADE FOR THESE TIMES
PET SOUNDS
CAROLINE NO
(Michele Chisena.)
(di Raffaele Meale)
Sì, va bene, tutti sappiamo le gesta del buon Brian Wilson il “pazzo”, le
sue cadute rinascite (ri)cadute nella droga, la sua paranoia, il suo senso
di inferiorità nei confronti dei contemporanei baronetti Lennon/McCartney,
il suo esilio, la sua aura mitica inattaccabile. Ma perché un album come
“Pet Sounds” continua a dover essere obbligatoriamente citato in ogni storia
del rock? Perché è un gran bell’album, dovrebbe essere la risposta
immediata. Ma può veramente bastare “solo” questa affermazione? Bisogna
cercare di comprendere appieno il significato stesso di un’operazione
musicale come quella dei Beach Boys.
Tipico quintetto venuto alla luce agli albori del R’n’R, i tre fratelli
Wilson, Mike Love e Al Jardine compongono musica per teenagers, per la
bubblegum-generation. Il loro surf-rock è adatto allo sbaciucchiarsi acerbo
e liberatorio nei drive-in. Ed ecco dunque che il senso dei Beach Boys
inizia già a mutare. Tra la strada che porta ad una musica aliena,
sperimentatrice, ostica e quella che porta al commercio come anima della
società i “Wilson Boys” non hanno timore di scegliere la seconda.
Diventando, forse anche loro malgrado, a distanza di quarant’anni simboli di
un’epoca, non a caso ripetutamente citati in quel glossario degli anni ’60
che è American Graffiti, capolavoro cinematografico di George Lucas. Ed è
sul loro attecchimento sullo strato più borghese della società che riesce
finalmente bene il paragone con i Beatles.
Questa digressione non deve comunque far perdere di vista l’obiettivo
principale della recensione: lodare e innalzare agli onori “Pet Sounds”,
l’album che segnò la rovina definitiva della mente instabile di Brian
Wilson, il loro primo insuccesso commerciale. Insuccesso del tutto
incomprensibile, visto che l’opera non presenta in sé alcun germe
avanguardista, portando semplicemente alle estreme conseguenze il discorso
sul pop intrapreso in precedenza, acuendone in maniera netta i riflessi
elegiaci. Basterebbe l’attacco dell’ormai celeberrima “Wouldn’t It Be Nice”
per genuflettersi di fronte a questa lezione di musica popular: tintinnii
che sembrano provenire da paradisi (artificiali?) traversati da putti armati
di chitarra e batteria. L’uso dei coretti, che da sempre contraddistingue
l’approccio musicale della band perde qui gran parte della sua componente
carnale, sovrastando angelicamente i tempi spezzati, i rallentamenti e le
improvvise frenesie della voce di Brian. Tutto questo mondo viene declamato
in due minuti e mezzo: nulla risulta sovraccarico o eccessivamente
strutturato, anzi la linearità e l’essenzialità rimangono pietra fondante
dell’architettura musicale del quintetto. Ma sarebbe ingiusto relegare a
questo straordinario brano il compito di rappresentare l’intera epopea
musicale presente in quest’album: errore commesso anche dalle penne più
argute e attente, e che inficia in buona parte la comprensione stessa
dell’importanza capitale di questo lavoro.
“You Still Believe in Me” è il pop nel suo mènage pacato e rilassante con la
strumentazione classica, tra organi e clavicembali, eppure così attaccato
alla contemporaneità (e all’ironia, o follia gentile, come preferita
chiamarla) della mente di Wilson, rappresentata da clacson e campanelli
d’ogni genere. Stessa sensazione di intercomunicabilità tra le attitudini
musicali che si respira nella dolenza infinita e inconsolabile di “Don’t
Talk (Put Your Head On My Shoulder)”. Quando alla voce si esercita Mike Love
le acidità che stanno prendendo piede nella scena musicale che li circonda –
anche e soprattutto in California – attaccano il corpo strumentale del combo
producendo quella perla che risponde al nome di “That’s Not Me”.
E’ stupefacente come qualsiasi diramazione musicale, nella (ri)lettura dei
Beach Boys si adatti allo schema mentale di questi ragazzotti del ceto medio
statunitense, finendo per diventare parte integrante del DNA della band. E
su questa lunghezza d’onda si assestano anche brani come la delicata “Let’s
Go Away For Awhile”, “Sloop John B.” (per chi scrive una delle canzoni
migliori di sempre partorite da Brian Wilson), “I Know There’s an Answer” e
l’avvolgente e scatenante “Here Today”, sempre sul punto di deflagrare. La
title-track è semplicemente la dimostrazione ultima del genio di Wilson,
spesso e volentieri non compreso per via di quella sua abitudine a rendere
tutto melodia, tutto facilmente decodificabile. Malattia dell’uomo, dirà
qualcuno, pregio immane oserà arguire qualcun altro. Io non mi pongo su
nessuna delle due linee di pensiero; l’unica cosa che ho voglia di rimarcare
è la grandezza di quest’album dai mille colori, a metà tra la melanconia
delle prime foglie morte autunnali e il verde quasi virgineo dei lampi di
sole primaverili.
Prima i Beach Boys ci avevano regalato sei anni di estate, in seguito
arriverà l’inverno, freddo, freddissimo, che si porterà via due dei
fratellini Wilson lasciando in vita solo Brian. E proprio lui, il genio
pazzo (ma quale genio non lo è, secondo svaccata abitudine della cultura
occidentale?), quest’anno ci ha regalato altri due scrigni di perle, uno
nuovo di zecca e uno, “Smile”, recuperato dagli oceani della memoria.
|