MAGGIE'S FARM

sito italiano di BOB DYLAN

 

Il 68 , Bob Dylan e Alessandro Carrera

 
 

Al di là delle questioni ideologiche che vorrei focalizzare brevemente, non si può trascurare il fatto che il '68 non è stato solo un fenomeno cieco di protesta, violenza e rivolta tutto "sesso, droga e rock'n roll", ma soprattutto un tentativo di costruire un mondo nuovo, un'alternativa esistenziale basata sull'arte, sulla musica, sulla poesia. Così, se qualcuno oggi mi chiedesse provocatoriamente ("sai chi erano i Beatles?" canta Gianni Morandi che al '68 ha dato pure un brano, un inno politico come C'era un ragazzo) quali siano i prodotti culturali più significativi della Contestazione, oltre al Libretto Rosso di Mao e alla leggendaria figura del Che, potrei rispondere con una lunga lista definendo l'eredità spirituale del '68 come un nuovo Rinascimento. Stiamo infatti parlando di un fenomeno che non partì - si ricordi - dagli stadi e dalle borgate sottoproletarie, cui peraltro Pasolini ha dato nobile voce; ma fu innanzitutto un atto di rivolta culturale e di poesia.

«La nostra era una rivolta che si richiamava più a Camus e all'esistenzialismo che a Marx» ha spiegato lo scrittore Uwe Timm , uno dei protagonisti del '68 tedesco, sul "Corriere della Sera" del 28 giugno 2007 (pag. 43).

Fra i tanti, grandi nomi che mi vengono subito in mente (il cantore del '68 fu in Italia indubbiamente De André con la sua ballata contro la guerra La guerra di Piero) ce n'è uno in particolare che rappresenta non solo la testimonianza vivente del '68, ma anche l'attualità e la necessità di un nuovo Rinascimento e magari di una nuova contestazione: Bob Dylan. Ecco, Bob Dylan è da solo un buon motivo per giustificare, assolvere e tramandare il fenomeno della Contestazione alle future generazioni, come cura contro ogni forma di malessere sociale e per favorire la rigenerazione di una società vecchia e repressiva attraverso la poesia e la musica. La verità è che se non ci fossero stati il '68 e Bob Dylan, oggi saremmo culturalmente più poveri e totalmente asserviti ad un consumismo feroce che tollera la libertà "usa e getta" ma mette in discussione i principi di libertà sociali e individuali faticosamente conquistati. E forse saremmo già stati ridotti in cenere dalle "loro" bombe atomiche. Grazie anche, e forse soprattutto, a Dylan abbiamo per ora fermato la distruzione del mondo, anche se il ticchettio dell'orologio della fine nucleare continua ad allarmarci. Questo è il risultato del '68 con cui gli occhialuti critici devono fare i conti prima di criticare la Contestazione: la momentanea salvezza dell'umanità che quei milioni di giovani in piazza a Parigi, Washington, Berlino, Roma e - insisto - Praga resero miracolosamente possibile dando poderose spallate all'imperialismo occidentale e alla prigione comunista. Risultati? La fine della guerra e del massacro in Indocina e la caduta del comunismo sovietico, avvenuta venti anni dopo, ma sempre come effetto ritardato della contestazione che portò un forte desiderio di libertà.

È pure comprensibile che la protesta abbia assunto toni, simboli (il comunismo combattuto a Praga in nome della libertà era il simbolo dei giovani occidentali che chiedevano più libertà) e significati spesso contraddittori. In fin dei conti quelli che scendevano in piazza erano in gran parte studenti liceali influenzabili ideologicamente e portatori di un "vissuto" individuale, di bisogni e sogni, speranze ed illusioni apparentemente antitetici al collettivismo e al mito della "massa" manifestante. Ma io considero questo innesto del privato nel "collettivismo politico" non come una contraddizione, bensì come un arricchimento del movimento.
Allora, emblematica della feconda commistione di impegno ed evasione, cultura e politica, ricerca di libertà individuale e lotta per i diritti di tutti è certamente la frase "storica" che Dylan, appena ragazzo in cerca di se stesso e dei suoi ideali, scrive sul fodero della sua chitarra: «L'unica arma che ammazza i fascisti». E giustamente il bel film appena uscito in sala, Io non sono qui di Tod Haynes, con una superlativa Cate Blanchett che (con Christian Bale, Richard Gere e Heath Ledger) interpreta la sfaccettatura femminile di un personaggio poliedrico come Bob, mette in evidenza l'importanza storica di un principio di libertà e di cultura che, naturalmente, non vuole ammazzare nessuno (parliamo di chitarre e non di pistole), ma convincere e commuovere - anche i fascisti - con la forza della poesia, cioè della verità.

Ma oltre a consigliare la visione di questo film, in cui l'ansia, anche sessuale, di libertà assume una dimensione intellettuale e politica (l'individuo Dylan si impegna nel pubblico senza trascurare i propri bisogni e pulsioni, ecco le apparenti contraddizioni del "Menestrello" sempre in bilico tra politica e culto dell'Io), voglio parlare di un evento editoriale. Mi riferisco alla monumentale e splendida monografia pubblicata da Feltrinelli: Bob Dylan Lyrics 1962-2001, traduzione e cura di Alessandro Carrera, 1250 pagine - ripeto in lettere milleduecentocinquanta -, 60 Euro, una edizione ricchissima anche di materiali fotografici. Il volume, che consiglio a tutti di non perdere assolutamente (perché, come dichiara Bruce Springsteen, «Bob Dylan ci ha liberato la mente così come Elvis Presley ci aveva liberato il corpo»), presenta due sezioni. La prima, oceanica, è dedicata ai testi di tutte - dico, tutte! - le canzoni di Dylan scritte nel corso di un quarantennio, cioè dagli esordi fino ai primi anni 2000. I testi sono in lingua originale con traduzione italiana a fronte, una traduzione curata da un poeta in proprio come Alessandro Carrera, del quale parlerò tra poco. La seconda sezione più "contenuta" - si fa per dire, 200 pagine! - è una bellissima biografia del "Menestrello" raccontata però attraverso la storia cronologica delle sue canzoni. Una scelta molto felice in quanto è impossibile anche dal profilo biografico distinguere vita e opera artistica di questo geniale cantore del nostro secolo. Un po' come Omero e l'Odissea: dove finisce la storia del poeta comincia quella della sua poesia.

Dicevo del traduttore Alessandro Carrera, nato a Lodi nel 1954, trasferitosi negli Usa da molti anni dove attualmente insegna letteratura italiana presso l'università del Texas. Parlo diffusamente di Carrera perché sono convinto che il lavoro di un traduttore sia di per sé una forma di reinvenzione dell'opera originale: una trasformazione che va ben oltre la trasposizione da una lingua all'altra. Carrera è un poeta e un cantastorie, compone e canta ballate accompagnandosi alla chitarra e all'armonica con vero e proprio spirito "dylaniano". Nessuno meglio di lui poteva dunque entrare nel contesto artistico di un genio a volte anche oscuro come quello di Bob. È utile però ripetere che Carrera lega l'attività artistica a quella di docente di letteratura, il che comporta un grande rispetto filologico per il testo originale. In questo caso il traduttore Carrera sceglie una strada felice evitando la sovrapposizione artistica e limitandosi ad una funzione di chiarificazione e mediazione linguistica.

«Alessandro Carrera conosce la pazienza e la misura che, ben oltre il gesto, giungono a fare della scrittura un evento significativo... In tale universo l'energia semantica è in perenne attività, in atto cioè di continua e sorprendente capacità di trasformazione del senso nelle parole...» Alberto Cappi, "Poesia", Anno X, n. 110, ottobre 1997

Questa «capacità di trasformazione del senso nelle parole» chiaramente non si riferisce esclusivamente all'opera poetica originale di Alessandro Carrera (recente la pubblicazione della sua raccolta di liriche La stella del mattino e della sera, edita da Il Filo), ma anche alla sua attività di traduttore, in questo caso dei testi delle ballate di Bob Dylan. Se è vero come è vero che tradurre è un po' tradire, Carrera riesce a tradire il suo mito Dylan ma restandogli paradossalmente fedele. Mi spiego: i testi del "Menestrello" presentano una struttura fatta di assonanze fonetiche e semantiche, di rime baciate, talvolta ripeto oscure, ancorché spiegate dalla voce o dalla performance live dell'artista, ma di un'oscurità che improvvisamente s'irrora di una luce misteriosa, interiore. È la luce di un'anima poetica che vaga nei meandri della mente fino a trovare la via d'uscita, il senso, ossia l'illuminazione. Carrera fa allora una scelta drastica, rinuncia a tradire poeticamente l'originale evitando di ripristinare in italiano la struttura metrica e fonetica. A lui interessa più che altro il senso narrativo del testo e di conseguenza non strumentalizza Dylan per far la sua di poesia, bensì è come se "novellizzasse" l'originale inglese in un italiano senza fronzoli, senza tentativi lirici, insomma cercando di far capire la canzone trasmettendone il senso "filosofico", anche a costo di andare a scapito della forma lirica.
Faccio un esempio pratico sulla base della celeberrima ballata Knockin' on Heaven's Door confrontando testo originale inglese (in rima) e traduzione italiana in versi liberi:

Mama, take this badge off of me
J can't use it anymore
It's gettin' dark, too dark for me to see
J feel like J'm knockin' on heaven's door

Knock, knock, knockin' on heaven's door

Mama, put my guns in the grond
J can't shoot them anymore
That long black cloud is comin' down
J feel like J' m knockin' on heaven's door

Knock, knock, knockin' on heaven's door

Carrera traduce in un italiano comprensibile anche se poco cantabile:

Toglimi il distintivo, mama,
non mi serve più.
Si fa buio, troppo buio, non ci vedo più.
sento che sto per bussare alle porte del cielo.

Sto per bussare alle porte del cielo

Seppellisci le pistole, mama,
non le userò mai più.
C'è una lunga nuvola nera che arriva,
sento che sto per bussare alle porte del cielo.

Sto per bussare alle porte del cielo

Ho detto del verso e della rima che non corrispondono nelle due versioni, ma c'è altro da notare in questo breve esempio. In primo luogo la punteggiatura. Nell'originale inglese essa è totalmente assente, mentre invece compare nella versione italiana. Viceversa, mentre tutti i versi inglesi cominciano con la maiuscola, quelli italiani alternano minuscola e maiuscola. Perché? A mio avviso perché l'intento del traduttore, che ha, dicevo, tutto il bagaglio lirico ed espressivo nonché la necessaria esperienza e sensibilità poetica per tentare la versione cantabile, giustamente si astiene e si eclissa dietro il senso, la semantica del testo che vuole rendere con estrema chiarezza, costi quel che costi.
Le problematiche legate alla traduzione di Dylan in italiano sono state del resto spiegate da Carrera in un saggio Del tradurre Bob Dylan in italiano che qui cito in ampia sintesi (l'edizione integrale è comparsa sulla rivista "Il Filo"). Mi scuso per la lunga citazione, ma ritengo che questo intervento di Carrera sia molto importante per qualsiasi traduttore poiché fa capire tutte le difficoltà da affrontare e risolvere prima di mettersi al lavoro.

Per chi traduce poesia l’esilio peggiore è quello dal paradiso della rima. Lì non c’è ritorno o riconquista possibile. Non ci sarà modo di dare a un’altra cassa armonica le stesse risonanze di quel liuto che era stato messo insieme con il legno dell’albero edenico. Peggio ancora, poi, se il Testo da tradurre era originariamente parte di una canzone. Perché in questo caso il traduttore non dovrà tradurre solo il verso rimato, ma anche la voce del cantante, la sua intonazione, le sue idiosincrasie vocali, i suoi silenzi e le sue debolezze, perché tutto concorre al significato di una canzone, non solo quel che c’è scritto, ma ancor di più quello che nemmeno si può scrivere.
Bob Dylan, del quale ho tradotto 355 canzoni dall’estate del 2002 all’inizio del 2006 (ora raccolte in
Lyrics 1962-2001, Feltrinelli 2006) è appunto l’incarnazione dell’incubo peggiore che possa assillare un traduttore: un autore nel quale tutta la scrittura è riassunta nella voce, anzi nelle voci, perché Dylan ne ha molte, una per ogni fase della sua carriera, al punto che spesso sembra mutare scrittura solo per rincorrere le metamorfosi della sua voce. E se una voce non si può mai adeguatamente trascrivere (autorevoli filosofi hanno così argomentato, in anni recenti), come si potrà addirittura tradurre?
Il criterio che ho seguito nella traduzione delle
Lyrics dylaniane è stato quello di attenermi contemporaneamente a molti criteri, senza privilegiarne nessuno e cercando di evitare il più possibile ostinazioni o partiti presi. Soprattutto, ho cercato "to get it right", di tradurre cioè con la maggior precisione possibile le espressioni idiomatiche che, data la loro appartenenza a una lingua così mutevole come l’americano parlato, sono sfuggite ai traduttori che si sono fermati ai testi degli anni sessanta o che non hanno potuto spingersi oltre gli ottanta. Al loro occasionale surrealismo traduttoriale ho spesso sostituito significati che non erano poi così oscuri, a patto di conoscere l’espressione idiomatica di riferimento. Non che fosse facile (a volte si tratta di espressioni poco note anche agli americani), e ammetto di avere lavorato in condizioni migliori delle loro, se non altro perché avevo a disposizione più passato, più letteratura critica, più banche dati su carta e in internet, nonché amici competenti e volonterosi. La preoccupazione di tradurre veramente, e non di inventarmi una traduzione, mi ha costretto però a ridurre talvolta le mie ambizioni. Dove ho sentito che potevo osare senza stravolgere il verso, ho osato. Ma se il prezzo da pagare per una traduzione più poetica e cantante era, un’altra volta, l’incomprensione di ciò che Dylan effettivamente dice, allora ho preferito non pagarlo. A traduttori futuri che vorranno riscrivere Dylan secondo i loro criteri e per i loro fini passo volentieri la mano. Nel corso di questo lavoro mi sono reso conto che un traduttore può riscrivere, rimodellare, ricreare, ri-soffrire il páthos
del testo originale, renderlo più fluido nella propria lingua, a volte perfino migliorarlo, ma che spesso deve abbassare la cresta e limitarsi a tradurre.

La prima decisione che dovevo prendere riguardava le allocuzioni affettive come "baby”, "mama”, "daddy”, "honey”, "love”. Ho scartato subito ogni variante di "bambina”, "bimba”, "dolcezza, "cara” o "tesoro” (a queste ultime due ho riservato solo un contesto ironico). In inglese si tratta di termini che non hanno età, non richiamano nessuna classe sociale e a volte non hanno nemmeno sesso, ma in italiano appartengono unicamente alla lingua della piccola borghesia o al lessico fortemente codificato del libretto d’opera primo Novecento e della canzone di consumo. "Bimba dagli occhi pieni di malia” si ascolta nella Madama Butterfly ma, visto che il personaggio che canta è un americano, non è detto che non sia un traduzione di "baby”. "Ciao, ciao, bambina, un bacio ancora” è stato il tentativo di Dino Verde e Domenico Modugno di tradurre "Bye, bye, baby” ma, nonostante il successo, l’espressione non ha avuto presa. In effetti non era nuova, e gli italiani avevano ancora nelle orecchie alcuni versi di canzoni degli anni trenta come "Bambina innamorata, stanotte ti ho sognata”. "Tesoro”, "cara” e "dolcezza”, poi, se non sono ironici (come in "cara mia”) sono semplicemente orribili, sanno di sceneggiato televisivo mal tradotto. "Amore” va usato con molta parsimonia, perché in inglese uno può dire indifferentemente che ama Dio, ama il suo cane o ama la crostata di mele di sua zia, ma in italiano bisogna andarci piano con l’amore (meglio "amore mio”). La lingua di Dylan, poi, non è quella della piccola borghesia americana, e in italiano necessita di uno strato più profondo, popolare senza essere per forza populista; quello che, se vogliamo restare nell’ambito della canzone, appartiene magari a Paolo Conte o a Enzo Jannacci.
In realtà la corrispondenza quasi perfetta con "baby” si avrebbe con le espressioni napoletane "nenna” o "nennella”, purtroppo inutilizzabili perché non diffuse su tutto il territorio nazionale (e sulla questione dei possibili apporti dialettali mi dilungherò più avanti). "Ragazza mia” si può usare se il tono non è troppo dolce. Quanto al maschile, "ragazzi” o "salve ragazzi” sa di oratorio e di trasmissioni per giovani alla radio negli anni sessanta, ed è quasi sempre meglio tradurlo con "amici” o "amici miei”. In definitiva, per trovare l’equivalente di "baby” mi sono letto l’antologia della poesia popolare italiana curata da Pier Paolo Pasolini nonché la raccolta di canti italiani curata da Roberto Leydi. L’unico possibile equivalente italiano, comune a tutti i dialetti e a tutte le tradizioni, è "bella” o "bella mia”. Ma anche "bella” non va inflazionato. Dylan canta, ha bisogno di riempire il verso e a questo scopo "baby” va sempre bene. Ma una volta che il suo testo viene letto, e letto in un’altra lingua, di simili riempitivi non c’è bisogno. Sulla pagina danno solo fastidio. Da qui la decisione di compiere un massacro degli innocenti e di eliminare quanti più "babies” possibile. Ho lasciato "bella”, "bella mia” o "ragazza mia” solo quando il verso e il senso lo richiedevano. Non l’ho usata neanche una volta in canzoni piene di "babies” come
It Ain’t Me, Babe o Baby, Stop Crying. Ho lasciato l’espressione in inglese, invece, quando aveva un effetto fonetico che non si poteva alterare, come in It’s All Over Now, Baby Blue o in Sugar Baby, perché "Baby Blue” non si può tradurre con "bambina triste” o "bambina blu”. Può avere il senso, se si vuole, di "perla dei miei occhi”, ma in realtà non vuol dire niente di preciso, è semplicemente un effetto della tavolozza fonetica dell’inglese. Cercare di tradurlo in italiano sarebbe come voler tradurre in inglese "c’era una volta un bambino piccino picciò”. E una "sugar baby” non è necessariamente una "zuccherina”.
Certo, qualcosa nel passaggio si perde. Data l’ambiguità di "babe”,
It Ain’t Me, Babe
è una canzone rivolta da un uomo a una donna solo perché la canta Dylan. In realtà può anche essere indirizzata da una donna a un uomo (così infatti, senza cambiare una virgola, la canta Joan Baez). Per lasciare la stessa ambiguità in italiano avrei però dovuto concludere ogni strofa con un verso che non mi piaceva. Invece di "l’uomo che cerchi tu non sono io” avrei dovuto dire "chi cerchi tu non sono io” con un effetto di chiusura troppo brusco e dal suono troppo secco. Pazienza per l’ambiguità.

Il secondo problema consisteva nel rendere le espressioni di movimento come "I am walking”, "down the road”, "down the highway” o "along the line”. L’archetipo dylaniano è quello di un uomo che cammina lungo il ciglio di una strada di campagna. È così da I’m Walking Down the Line del 1962 a Love Sick del 1997, fino alla Ain’t Talking del recentissimo Modern Times ("Ain’t talking, just walking”; come a dire: "Parlare non parlo, cammino e basta”), perché è uno degli archetipi del blues e del country. Ma non è un archetipo italiano, e non è neanche una forma del moto che la lingua italiana abbia mai dovuto esprimere in quel modo. L’inglese pone un’enfasi tutta preposizionale (spero si possa dire così) su movimenti anche minimi che in italiano non può essere resa in parallelo. Non c’è modo di rendere letteralmente un verso come questo di Jim Morrison in The End: "And he walked on down the hall”. Bisogna ricorrere a "proseguì”, "mosse i suoi passi”, "avanzò”, "attraversò”, ma certo non si può tradurre "continuò a camminare lungo il salone” (per quanto ci siano esimi traduttori di testi rock perfettamente convinti che se tu non traduci così vuol dire che non sai l’inglese). Ma torniamo a Dylan e prendiamo un verso di Black Diamond Bay: "She walks across the marble floor”. Certo, si può tradurre: "Cammina sul marmo del pavimento”, ma si sente che non funziona, che in italiano l’espressione suona troppo generica, troppo meccanica, e che non dà nessun senso di direzione o di scopo. Diremo allora "attraversa la stanza dal pavimento di marmo” o, più concisamente, "attraversa la stanza di marmo”? Sì, pur di non usare "cammina”, perché in italiano non si cammina, si va a piedi. "È mezz’ora che cammino” va benissimo, perché descrive l’azione fisica e non la destinazione. Ma "si va a piedi” da Lodi a Milano, come dice la canzone della bella Gigogin. In italiano si "prende” una strada, si "fa” un certo tratto di strada, si "percorre una via”, anche, ma non fa parte del nostro bagaglio storico e linguistico dire di qualcuno che "camminava giù per l’autostrada”.
Anche perché (a parte il "giù” come traduzione sbrigativa di "down”), mentre il termine "highway” significa prima di tutto "strada maestra”, in Italia l’autostrada comincia ad esistere negli anni sessanta e corrisponde a "motorway”, "freeway” o "tollway” (autostrada a pedaggio). Quando Dylan parla di "highway” a volte si riferisce alla moderna autostrada, altre volte alla più antica strada maestra. Quello che Dylan ha in mente, in effetti, è la nostra "statale” (cosa che Guccini aveva capito benissimo quando ha scritto
Statale 17, la sua canzone di autostop chiaramente ispirata a Down the Highway), e ancora di più il nostro "stradone”, dove mi viene in soccorso l’autorità del Bartali di Paolo Conte: "mi piace restar qui sullo stradone / impolverato, se tu vuoi andare vai” (Dirty Road Blues, a tutti gli effetti). Oppure, cambiando registro, l’autorità del Canzoniere di Petrarca. Mi sono scervellato per ore su come rendere in un italiano vero, non posticcio, non inglesizzato, il primo verso di Standing in the Doorway: "I’m walking through the summer nights”, finché mi è venuto in mente che Petrarca aveva già risolto il problema per me: "Solo e pensoso i più deserti campi / vo misurando a passi tardi e lenti”. Da cui la traduzione che infine ho adottato: "Misuro coi passi le sere d’estate”. Ma, proprio perché non dovevo irrigidirmi su nessuna soluzione, mi sono accorto che il primo verso di Love Sick, "I’m walking through streets that are dead” doveva risultare il più possibile ricalcato sull’inglese: "Cammino su strade che sono morte”. Non per come il verso è scritto, ma per come Dylan lo canta. Nessuna traduzione può trascurare il modo in cui la voce di Dylan scandisce le parole: "I’m walking - through streets that are DEAD”. E, giusto perché il richiamo alla poesia "alta” non è mai fuori luogo quando parliamo di Dylan, aggiungerò che ho tradotto All Along the Watchtower con Dalla torre di vedetta (e non, pigramente, con "Lungo la torre di guardia” o simili) perché una poesia di Mario Luzi raccolta in Onore del vero
termina con il verso: "Tanto afferra l’occhio da questa torre di vedetta”.

Il terzo tormento consisteva nel decidere che soluzioni adottare riguardo alla rima e alla metrica. Come impostazione generale, ho cercato di resistere all’ossessione della rima a tutti i costi, e di usarla solo con prudenza, nei punti chiave, o quando il testo mi urlava nelle orecchie che la voleva assolutamente. Gli italiani sono stranamente convinti che la loro lingua abbia meno rime dell’inglese. T. S. Eliot (lo scrive nei suoi saggi su Dante) era convinto dell’esatto contrario. Certamente una volta l’italiano era una lingua straordinariamente flessibile, dato il grande numero di troncamenti e inversioni sintattiche che permetteva (altrimenti non sarebbe rimasto per due secoli la lingua franca dell’opera). Da quando però l’italiano si è slatinizzato, modernizzato e linearizzato, queste libertà si sono molto ridotte, e anzi oggi già troncare un infinito (come facevano ancora impunemente Mogol e Battisti alla fine degli anni sessanta) ci sembra una cosa vecchio stile, polverosa se non proprio brutta (De Gregori ha scritto Sotto le stelle del Messico a trapanar proprio per prendere in giro la scorciatoia dei troncamenti, e anzi voleva intitolare la canzone Infiniti tronchi). Io non so se l’inglese abbia o non abbia più rime dell’italiano. Certamente ha più rime tronche, ossitone, monosillabiche, e poiché la canzone rock è in gran parte modellata sul fraseggio dell’inglese, un testo italiano che voglia adattarsi al rock, evitando troncamenti ormai demodé, finisce per usare quelle poche parole ossitone che possono essere ficcate in fondo a un verso, oppure le solite rime morfologiche ottenute con i futuri e i passati remoti dei verbi. Per carità, è una soluzione alla quale ho fatto ricorso anch’io, e anche spesso, ma so che è una scorciatoia, un cavarsela con poco (più o meno l’equivalente delle quinte parallele in musica), e l’ho usata solo se mi sembrava che non disturbasse troppo, e anzi che si notasse il meno possibile.
La rima è un orologio interno. È un aiuto per l’ascoltatore che, non avendo il testo sottomano, sa quando aspettarsi la fine della strofa e, posto che l’autore del testo abbia lasciato cadere i segnali giusti, anche la fine della canzone. Ma una canzone resta una canzone anche alla lettura. A meno di non eliminare la divisione in strofe e spezzare la simmetria dei versi (come ha fatto ad esempio Giovanni Raboni nella sua traduzione dei
Fiori del male, con un coraggio che non tutti hanno apprezzato), la stessa forma delle strofe, allineate come tante scatolette, sembra richiedere a gran voce che l’orologio interno non venga lasciato a scaricarsi.
La soluzione, almeno per me , è consistita nel lavorare più sulla musica interna del verso che sulla stampella della rima. Quindi ho utilizzato i seguenti criteri:
1) Prosa versificata, all’occorrenza ritmata, quando la canzone ha versi lunghi e una forte spinta narrativa. Non ha senso tradurre in rima e metrica canzoni come
Hurricane o Brownsville Girl. Sono racconti che bisogna rendere leggibili e scorrevoli, senza l’impaccio di una struttura verbale appesantita da continui ritorni.
2) Verso libero, in canzoni dove ogni verso ha un’autonomia forte e non ha bisogno della rima per stare in piedi, come in
A Hard Rain’s A-Gonna Fall o nelle ultime canzoni che sono essenzialmente composte di one-liners, vale a dire versi singoli di significato compiuto e che potrebbero essere spostati da una canzone all’altra. Più il verso si fa aforistico e meno ha bisogno della rima – anche se a volte, se non suonava sforzata, l’ho utilizzata.
3)
Blank verse o versi sciolti, senza rima ma con una precisa struttura metrica. Dando una struttura metricamente omogenea alla canzone il bisogno della rima spariva, o si faceva sentire molto meno. Come esempio posso citare il ritornello di Tomorrow Is a Long Time: "E solo se il mio amore mi aspettasse, / se sentissi il suo cuore batter piano, / se solo si stendesse qui al mio fianco, / tornerei a dormire nel mio letto”. Sono quattro endecasillabi precisi, e l’unico modo di infilarci una rima consisteva nell’aggiungere una zeppa: "se sentissi il suo cuore batter piano nel mio petto”, giusto per far rima con "letto”. Per due canzoni narrative molto vivaci come Bob Dylan’s New Orleans Rag e Motorpsycho Nightmare ho usato l’ottonario o il settenario tronco, versi che in italiano hanno una storia illustre (Rolli, Metastasio, Carducci) ma che dopo Sergio Tofano e il suo Signor Bonaventura ("Qui comincia l’avventura / del signor Bonaventura”) sanno di vecchiotto e di comico, e quindi andavano benissimo per il tono di quelle canzoni. Del resto, Signor Bonaventura a parte, l’ottonario è una formidabile macchina metrica, molto facile da combinare e molto trascinante se si riesce a superare l’effetto cantilena. Ecco la prima strofa di Motorpsycho Nightmare: "Ho bussato a un podere / per un posto dove stare. / Ero stanco, stanco morto, / e venivo da lontano. / ‘Ehi, ehi’ dico, ‘voi lì dentro, c’è nessuno in questa casa?’ / Me ne stavo sui gradini / a sentirmi giù da cani. Poi arriva un contadino / che credeva fossi pazzo, / che mi guarda e che mi pianta / il fucile nei calzoni”.
4) Rime occasionali o strategiche, che danno coesione al testo senza doverlo gravare con consonanze cercate a tutti i costi.
Desolation Row, ad esempio, ha cominciato a funzionare solo quando per ogni strofa ho inserito almeno una rima con "desolazione”, che è sempre la parola conclusiva. Per lo stesso motivo, ho consapevolmente inserito una zeppa nell’ultima strofa di Boots of Spanish Leather. Poiché la rima "weather / leather”, con l’anticipazione in "—eather” del suono della parola che è nel titolo, avverte l’ascoltatore che la canzone sta per finire, un segnale ci doveva essere anche nella traduzione. Dunque ho tradotto "Take heed of the stormy weather” con "dunque attenta alla tempesta che ti bagna”, per lasciare la rima con "Spanish boots of Spanish leather”, cioè "stivali spagnoli, di cuoio di Spagna”. È chiaro che la tempesta "ti bagna”, non c’è bisogno di dirlo, e infatti Dylan non lo dice, ma lo dice Paolo Conte, ancora lui, in "Genova per noi, che stiamo in fondo alla campagna / e abbiamo il sole in piazza rare volte e il resto è pioggia che ci bagna”.
5) Rime "naturali”, cioè senza inversioni, all’occorrenza servendomi di infiniti, futuri e participi passati, ma solo se non sforzavano il verso, se non alteravano la linearità sintattica. Le ho usate soprattutto nei blues e nelle canzoni con versi brevi e molto ritmati, vicine alla filastrocca infantile, in particolare nell’ultima strofa giusto per chiudere in bellezza.
6) Rima e metrica in struttura rigorosa, quasi a specchio dell’originale. Mi ci sono avventurato solo poche volte, e proprio perché ero spinto dall’impulso all’autodistruzione che mi ha fatto passare notti su
My Back Pages e Love Minus Zero / No Limit. Perché proprio quelle canzoni? Non lo so, l’hanno voluto loro. Nel caso di Mozambique, invece, l’unica canzone che mi sono permesso di riscrivere, l’ho voluto io. Non mi è mai piaciuta e me ne sono voluto vendicare, finendo per metterci molto più tempo a tradurla di quanto probabilmente Bob Dylan e Jacques Levy abbiano impiegato a scriverla. Ma era anche inevitabile. Qualunque traduzione che evitasse il gioco delle rime faceva l‘effetto di un dépliant
da agenzia di viaggio.

La quarta necessità consisteva nell’essere più fedeli possibile a quei momenti in cui Dylan forza, consapevolmente o no, la lingua inglese, in senso grammaticale e per raggiungere inedite combinazioni di significato. Gli esempi, numerosissimi, coprono tutta la produzione degli anni sessanta e la prima degli anni settanta. A partire da Blood on the Tracks, che esce nel gennaio del 1975, la lingua di Dylan diviene più regolare, più "scritta”, il che non significa che non riservi sorprese, ma solo che non è più al limite del non-grammaticale come accade ad esempio nei Basement Tapes (il cui eloquio è talmente folle che in italiano li potrebbe cantare solo Jannacci, previa riscrittura nel suo milanese o nel suo italiano più lunatico).
In
Ballad of Hollis Brown troviamo ad esempio I versi "Your baby’s eyes look crazy / They’re a-tuggin’ at your sleeve”, dove non si capisce se sono gli occhi del bambino a tirare la manica del padre oppure, per ellissi narrativa, tutti i cinque figli, anche se in quella strofa non sono nominati. Per cui ho tradotto: "Il più piccolo ha occhi da pazzo, ti tirano la manica”, senza pretendere di risolvere un’ambiguità che deve rimanere tale. Allo stesso modo, in One Too Many Mornings troviamo costruzioni grammaticalmente ardite come "An’ the silent night will shatter / From the sounds inside my mind” o "From the crossroads of my doorstep / My eyes start to fade”. Difficile qui stabilire se Dylan avesse il controllo della lingua o se fosse la lingua ad avere il controllo di lui. Non è facile rendere la stranezza di questi versi, ma qui stranezza e bellezza sono alleate (non sempre è così) e un tentativo andava fatto, da cui: "E la sera silenziosa andrà in frantumi / per i suoni che avrò in testa”, nonché: "Dagli incroci della soglia / i miei suoni si fanno più fiochi”. Una corrispondenza più precisa si può ottenere in un verso di Boots of Spanish Leather
, nel quale "from the place that I’ll be landing” sta per "where I’ll be landing”, "quel luogo dove io sbarcherò”. Ma "that” e "che” possono essere polivalenti tanto in inglese quanto in italiano, per cui è possibile tradurre "quel luogo che io sbarcherò”. Non è corretto in nessuna lingua ma rende molto bene l’effetto di possesso fisico della terra "che” si sta sbarcando.

Il quinto rompicapo era dato dal livello parallelo dell’American English che è costituito dallo slang. Prendiamo ad esempio due versi di Hurricane: "If you're black you might as well not show up on the street / 'Less you wanna draw the heat”. Io ho tradotto: "se sei nero è meglio che neanche ti fai vedere in giro / se non vuoi tirarti addosso la questura”. Qui qualunque traduzione è discutibile, perché "less you wanna draw the heat” potrebbe voler dire "se non vuoi attirare l’attenzione” o addirittura "se non vuoi tirare fuori la pistola”. Ho scartato l’ipotesi della pistola perché, se l’idea è quella di non farsi notare visto che sei nero, allora non è il caso di pensare a tirar fuori la pistola. Ma rimaneva il problema di "heat” [calore] che in senso slang significa ”situazione scomoda o rischiosa” (conosciamo tutti i western o i polizieschi tradotti alla carlona nei quali poco prima di una sparatoria c’è sempre qualcuno che dice: "Qui tra poco comincerà a far caldo”) ma quando è con l’articolo ("the heat”) significa "la polizia”. Dylan usa il termine con lo stesso senso in Subterranean Homesick Blues, dove "Maggie comes… / Talkin' that the heat put / Plants in the bed” non vuol dire "Maggie arriva... / dice che il caldo le ha messo / piante nel letto”, come più o meno hanno tradotto tutti, bensì: "Ecco Maggie... / dice che la pula le ha messo / gli spioni nel letto” ("plants” è slang per "informatori della polizia”). Visto che tre versi prima avevo concluso un verso con un "ancora”, mi sono permesso un’italianizzazione ("questura” invece di "polizia”) per poter finire la strofa con un’assonanza. Quindi ho tradotto: "se non vuoi tirarti addosso la questura”. Altre traduzioni hanno: "a meno che tu non vada in cerca di guai”, chè è senz’altro accettabile, oppure: "se sei nero meglio che non ti si veda neanche per strada / o ti rifilano la patata”, intendendo probabilmente "heat” come "patata bollente”. Ma "trovarsi tra le mani una patata bollente” ha solo una vaghissima parentela con il non cercare guai o non voler attirare l’attenzione della polizia.

La sesta incognita era costituita dai livelli stilistici. In inglese io posso dire "I made a grievous mistake” oppure "I screwed up”. La prima frase è di tono più alto, la seconda è un colloquialismo. Ma dicono tutt’e due la stessa cosa: "Ho fatto un grave errore”, oppure: "Ho proprio fatto uno sbaglio”. Il problema è che "I screwed up” è molto più colloquiale di: "Ho proprio fatto uno sbaglio”, e anzi corrisponde anche a: "Ho incasinato tutto”. Solo che se in italiano dico: "Ho incasinato tutto” faccio ricorso a un registro che in molte circostanze sarebbe considerato eccessivamente basso, mentre in inglese "I screwed up” è accettabile anche in occasioni semi-ufficiali. L'American English ha la grande forza di essere una lingua dove un livello costamente colloquiale e gergale non è visto come "basso stile”. L’italiano ha perso in parte quel livello diciamo così "americano” diventando lingua standard e lasciandolo ai dialetti. Ad esempio, io ho tradotto "Miss Lonely” di Like a Rolling Stone con "Miss Malinconia” perché volevo che ci fosse un’allitterazione in italiano (Mi-ma-li), visto che c’è in inglese (Mi-lo-ly), e perché una di quelle canzoni degli anni trenta che una volta potevano far piangere le signorine comincia con "Buongiorno tristezza, amica della mia malinconia”. Il termine poteva giocare da controcanto ironico alla "Miss Lonely” della canzone, che è una borghese di buona famiglia ignara del destino al quale sta per andare incontro. La "Miss Liceo” degli Articolo 31, nella loro versione rap di Like a Rolling Stone, va altrettanto bene. Ma quando ho letto sul sito dylaniano www.maggiesfarm.it la traduzione in romanesco di Michele Murino, nella quale Miss Lonely diventa "Miss-puzza-al-naso” l’ho trovata formidabile, al punto di rivedere l’intera mia traduzione in chiave più colloquiale di quanto non fosse all’inizio (è da lì, per esempio, che mi è venuta l’idea di tradurre "thinkin’ that they got it made” con "gente convinta di andare alla grande”).
Però non avrei potuto appropriarmi di una soluzione come "Miss puzza-al-naso”. L’espressione è accettabile, anzi è perfetta, nel contesto di una parlata regionale e gergale, ma è troppo bassa per l’italiano standard, dove apparirebbe stonata. A meno, naturalmente, di non prendere il coraggio a due mani e riscrivere tutto Dylan in chiave di italiano il più possibile "basso”. Ma a queste operazioni bisogna avvicinarsi con molta cautela, perché l’italiano è una lingua che ha troppa storia e troppe storie. Eduardo De Filippo ha tradotto la
Tempesta di Shakespeare nel napoletano del Seicento con un risultato straordinario, ma il napoletano del Seicento non era un dialetto, era una grande lingua, che possedeva tutti i livelli e li poteva giocare tutti assieme. Un tentativo di "abbassare” costantemente la lingua dylaniana ci porterebbe verso un linguaggio in ultima analisi povero e costretto a sostituire con un continuo ammiccare la complessità di significati che in realtà non sa dire.
Nemmeno Pasolini riusciva a mantenere un tono basso costantemente credibile nei suoi romanzi romani, e Gadda ci riusciva solo perché lo colorava di sarcasmo e di sapienza multilinguistica. Una fiducia eccessiva nel tono unicamente "basso” finisce con il tradurre il nome "Georgia Sam”, che compare in
Highway 61 Revisited, con un orrendo "Bingo-Bongo” (l’esempio non è inventato). Per chiarire: "Georgia Sam” è un nome probabilmente ispirato a due cantanti blues che in alcune occasioni si erano fatti chiamare "Georgia Bill” (Blind Willie McTell) e "Georgia Tom” (Thomas A. Dorsey), e non ha nessuna delle connotazioni offensive e perfino razziste che invece si ricavano da quel personaggio di una canzonetta dell’epoca coloniale che parla con gli infiniti come una volta parlava la mamie di Via col vento: "Bingo Bango Bongo stare bene solo al Congo non mi muovo no no…”).
E poi, Dylan non è solo un imitatore degli imitatori di François Villon. In
Lay Down Your Weary Tune circolano R. W. Emerson e la grande innodia protestante, Chimes of Freedom risuona di passaggi alla Walt Whitman, Mr. Tambourine Man riporta precisi echi di John Keats, All Along the Watchtower è fatta del libro di Isaia più T. S. Eliot più Wallace Stevens, Every Grain of Sand sarebbe impensabile senza William Blake alle spalle, Angelina, Jokerman e I and I
sono ardite costruzioni intertestuali tenute insieme dall’intero tessuto della Bibbia e scritte nell’inglese più "alto” che il genere della canzone abbia mai potuto reggere. Del resto, se così non fosse, se Dylan non fosse anche questo, non esisterebbero le decine e decine di libri scritti su di lui, né i traduttori di mezzo mondo sarebbero così ansiosi di spaccarsi la testa per trovare, nella loro lingua, la resa migliore dei suoi versi."

Condivido in gran parte la nota del traduttore Carrera che spiega bene le ragioni e i presupposti del suo lavoro sui versi di Dylan. Non sono però certo della validità degli stessi criteri in generale. Penso che la struttura, la forma di un'opera vada sempre e comunque rispettata. Al contrario di Carrera, che la cita a mo' di buon esempio, ritengo pessima la traduzione de Le fleur du mal di Giovanni Raboni che ha mistificato e ridotto in cenere il genio poetico di Baudelaire che si esprime in versi metrici e in rime per un preciso scopo lirico. La forma, diceva Pirandello, è tutto e - parafrasando il Siracusano - chi non rispetta la forma di un'opera non fa traduzione ma distruzione dell'originale. Che cosa diremmo di una Divina Commedia tradotta in inglese in prosa? Come minimo che è un'altra cosa e che il povero Dante non c'entra niente. E, se mi si permette la sfrontatezza, tra Baudelaire e Raboni preferisco il primo e pretendo da lettore italiano una traduzione felice e fedele.
Non è naturalmente questo il caso di Dylan-Carrera, perché qui la traduzione serve a farci entrare nel background anche psichico del geniale "Menestrello" con un rispetto semantico - ripeto - che mette il senso del verso al riparo della forma. Senza considerare il fatto che continueremo sempre a cantare i testi di Dylan nella versione originale, magari reinterpretando col tono di voce, il canto e l'accompagnamento musicale, le emozioni indicibili e soggettive di una canzone che al di là di ogni lirismo resta espressione di un'esperienza unica e sempre soggettivamente mutevole.

( Enrico Bernard )