MAGGIE'S FARM sito italiano di BOB DYLAN |
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Il 68 , Bob Dylan e Alessandro Carrera |
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Al di là delle questioni ideologiche che vorrei focalizzare brevemente, non si può trascurare il fatto che il '68 non è stato solo un fenomeno cieco di protesta, violenza e rivolta tutto "sesso, droga e rock'n roll", ma soprattutto un tentativo di costruire un mondo nuovo, un'alternativa esistenziale basata sull'arte, sulla musica, sulla poesia. Così, se qualcuno oggi mi chiedesse provocatoriamente ("sai chi erano i Beatles?" canta Gianni Morandi che al '68 ha dato pure un brano, un inno politico come C'era un ragazzo) quali siano i prodotti culturali più significativi della Contestazione, oltre al Libretto Rosso di Mao e alla leggendaria figura del Che, potrei rispondere con una lunga lista definendo l'eredità spirituale del '68 come un nuovo Rinascimento. Stiamo infatti parlando di un fenomeno che non partì - si ricordi - dagli stadi e dalle borgate sottoproletarie, cui peraltro Pasolini ha dato nobile voce; ma fu innanzitutto un atto di rivolta culturale e di poesia. «La nostra era una rivolta che si richiamava più a Camus e all'esistenzialismo che a Marx» ha spiegato lo scrittore Uwe Timm , uno dei protagonisti del '68 tedesco, sul "Corriere della Sera" del 28 giugno 2007 (pag. 43). Fra i tanti, grandi nomi che mi vengono subito in mente (il cantore del '68 fu in Italia indubbiamente De André con la sua ballata contro la guerra La guerra di Piero) ce n'è uno in particolare che rappresenta non solo la testimonianza vivente del '68, ma anche l'attualità e la necessità di un nuovo Rinascimento e magari di una nuova contestazione: Bob Dylan. Ecco, Bob Dylan è da solo un buon motivo per giustificare, assolvere e tramandare il fenomeno della Contestazione alle future generazioni, come cura contro ogni forma di malessere sociale e per favorire la rigenerazione di una società vecchia e repressiva attraverso la poesia e la musica. La verità è che se non ci fossero stati il '68 e Bob Dylan, oggi saremmo culturalmente più poveri e totalmente asserviti ad un consumismo feroce che tollera la libertà "usa e getta" ma mette in discussione i principi di libertà sociali e individuali faticosamente conquistati. E forse saremmo già stati ridotti in cenere dalle "loro" bombe atomiche. Grazie anche, e forse soprattutto, a Dylan abbiamo per ora fermato la distruzione del mondo, anche se il ticchettio dell'orologio della fine nucleare continua ad allarmarci. Questo è il risultato del '68 con cui gli occhialuti critici devono fare i conti prima di criticare la Contestazione: la momentanea salvezza dell'umanità che quei milioni di giovani in piazza a Parigi, Washington, Berlino, Roma e - insisto - Praga resero miracolosamente possibile dando poderose spallate all'imperialismo occidentale e alla prigione comunista. Risultati? La fine della guerra e del massacro in Indocina e la caduta del comunismo sovietico, avvenuta venti anni dopo, ma sempre come effetto ritardato della contestazione che portò un forte desiderio di libertà. È pure comprensibile che la protesta
abbia assunto toni, simboli (il comunismo combattuto a Praga in nome della
libertà era il simbolo dei giovani occidentali che chiedevano più libertà) e
significati spesso contraddittori. In fin dei conti quelli che scendevano in
piazza erano in gran parte studenti liceali influenzabili ideologicamente e
portatori di un "vissuto" individuale, di bisogni e sogni, speranze ed
illusioni apparentemente antitetici al collettivismo e al mito della "massa"
manifestante. Ma io considero questo innesto del privato nel "collettivismo
politico" non come una contraddizione, bensì come un arricchimento del
movimento. Ma oltre a consigliare la visione di questo film, in cui l'ansia, anche sessuale, di libertà assume una dimensione intellettuale e politica (l'individuo Dylan si impegna nel pubblico senza trascurare i propri bisogni e pulsioni, ecco le apparenti contraddizioni del "Menestrello" sempre in bilico tra politica e culto dell'Io), voglio parlare di un evento editoriale. Mi riferisco alla monumentale e splendida monografia pubblicata da Feltrinelli: Bob Dylan Lyrics 1962-2001, traduzione e cura di Alessandro Carrera, 1250 pagine - ripeto in lettere milleduecentocinquanta -, 60 Euro, una edizione ricchissima anche di materiali fotografici. Il volume, che consiglio a tutti di non perdere assolutamente (perché, come dichiara Bruce Springsteen, «Bob Dylan ci ha liberato la mente così come Elvis Presley ci aveva liberato il corpo»), presenta due sezioni. La prima, oceanica, è dedicata ai testi di tutte - dico, tutte! - le canzoni di Dylan scritte nel corso di un quarantennio, cioè dagli esordi fino ai primi anni 2000. I testi sono in lingua originale con traduzione italiana a fronte, una traduzione curata da un poeta in proprio come Alessandro Carrera, del quale parlerò tra poco. La seconda sezione più "contenuta" - si fa per dire, 200 pagine! - è una bellissima biografia del "Menestrello" raccontata però attraverso la storia cronologica delle sue canzoni. Una scelta molto felice in quanto è impossibile anche dal profilo biografico distinguere vita e opera artistica di questo geniale cantore del nostro secolo. Un po' come Omero e l'Odissea: dove finisce la storia del poeta comincia quella della sua poesia. Dicevo del traduttore Alessandro Carrera, nato a Lodi nel 1954, trasferitosi negli Usa da molti anni dove attualmente insegna letteratura italiana presso l'università del Texas. Parlo diffusamente di Carrera perché sono convinto che il lavoro di un traduttore sia di per sé una forma di reinvenzione dell'opera originale: una trasformazione che va ben oltre la trasposizione da una lingua all'altra. Carrera è un poeta e un cantastorie, compone e canta ballate accompagnandosi alla chitarra e all'armonica con vero e proprio spirito "dylaniano". Nessuno meglio di lui poteva dunque entrare nel contesto artistico di un genio a volte anche oscuro come quello di Bob. È utile però ripetere che Carrera lega l'attività artistica a quella di docente di letteratura, il che comporta un grande rispetto filologico per il testo originale. In questo caso il traduttore Carrera sceglie una strada felice evitando la sovrapposizione artistica e limitandosi ad una funzione di chiarificazione e mediazione linguistica. «Alessandro Carrera conosce la pazienza e la misura che, ben oltre il gesto, giungono a fare della scrittura un evento significativo... In tale universo l'energia semantica è in perenne attività, in atto cioè di continua e sorprendente capacità di trasformazione del senso nelle parole...» Alberto Cappi, "Poesia", Anno X, n. 110, ottobre 1997 Questa «capacità di trasformazione
del senso nelle parole» chiaramente non si riferisce esclusivamente
all'opera poetica originale di Alessandro Carrera (recente la pubblicazione
della sua raccolta di liriche La stella del mattino e della sera,
edita da Il Filo), ma anche alla sua attività di traduttore, in questo caso
dei testi delle ballate di Bob Dylan. Se è vero come è vero che tradurre è
un po' tradire, Carrera riesce a tradire il suo mito Dylan ma restandogli
paradossalmente fedele. Mi spiego: i testi del "Menestrello" presentano una
struttura fatta di assonanze fonetiche e semantiche, di rime baciate,
talvolta ripeto oscure, ancorché spiegate dalla voce o dalla performance
live dell'artista, ma di un'oscurità che improvvisamente s'irrora di una
luce misteriosa, interiore. È la luce di un'anima poetica che vaga nei
meandri della mente fino a trovare la via d'uscita, il senso, ossia
l'illuminazione. Carrera fa allora una scelta drastica, rinuncia a tradire
poeticamente l'originale evitando di ripristinare in italiano la struttura
metrica e fonetica. A lui interessa più che altro il senso narrativo del
testo e di conseguenza non strumentalizza Dylan per far la sua di poesia,
bensì è come se "novellizzasse" l'originale inglese in un italiano senza
fronzoli, senza tentativi lirici, insomma cercando di far capire la canzone
trasmettendone il senso "filosofico", anche a costo di andare a scapito
della forma lirica. Mama, take
this badge off of me Carrera traduce in un italiano comprensibile anche se poco cantabile: Toglimi il distintivo, mama, Ho detto del verso e della rima che non
corrispondono nelle due versioni, ma c'è altro da notare in questo breve
esempio. In primo luogo la punteggiatura. Nell'originale inglese essa è
totalmente assente, mentre invece compare nella versione italiana.
Viceversa, mentre tutti i versi inglesi cominciano con la maiuscola, quelli
italiani alternano minuscola e maiuscola. Perché? A mio avviso perché
l'intento del traduttore, che ha, dicevo, tutto il bagaglio lirico ed
espressivo nonché la necessaria esperienza e sensibilità poetica per tentare
la versione cantabile, giustamente si astiene e si eclissa dietro il senso,
la semantica del testo che vuole rendere con estrema chiarezza, costi quel
che costi. Per chi traduce poesia
l’esilio peggiore è quello dal paradiso della rima. Lì non c’è ritorno o
riconquista possibile. Non ci sarà modo di dare a un’altra cassa armonica le
stesse risonanze di quel liuto che era stato messo insieme con il legno
dell’albero edenico. Peggio ancora, poi, se il Testo da tradurre era
originariamente parte di una canzone. Perché in questo caso il traduttore
non dovrà tradurre solo il verso rimato, ma anche la voce del cantante, la
sua intonazione, le sue idiosincrasie vocali, i suoi silenzi e le sue
debolezze, perché tutto concorre al significato di una canzone, non solo
quel che c’è scritto, ma ancor di più quello che nemmeno si può scrivere. La prima decisione che dovevo
prendere riguardava le allocuzioni affettive come "baby”, "mama”, "daddy”,
"honey”, "love”. Ho scartato subito ogni variante di "bambina”, "bimba”,
"dolcezza, "cara” o "tesoro” (a queste ultime due ho riservato solo un
contesto ironico). In inglese si tratta di termini che non hanno età, non
richiamano nessuna classe sociale e a volte non hanno nemmeno sesso, ma in
italiano appartengono unicamente alla lingua della piccola borghesia o al
lessico fortemente codificato del libretto d’opera primo Novecento e della
canzone di consumo. "Bimba dagli occhi pieni di malia” si ascolta nella
Madama Butterfly ma, visto che il personaggio
che canta è un americano, non è detto che non sia un traduzione di "baby”.
"Ciao, ciao, bambina, un bacio ancora” è stato il tentativo di Dino Verde e
Domenico Modugno di tradurre "Bye, bye, baby” ma, nonostante il successo,
l’espressione non ha avuto presa. In effetti non era nuova, e gli italiani
avevano ancora nelle orecchie alcuni versi di canzoni degli anni trenta come
"Bambina innamorata, stanotte ti ho sognata”. "Tesoro”, "cara” e "dolcezza”,
poi, se non sono ironici (come in "cara mia”) sono semplicemente orribili,
sanno di sceneggiato televisivo mal tradotto. "Amore” va usato con molta
parsimonia, perché in inglese uno può dire indifferentemente che ama Dio,
ama il suo cane o ama la crostata di mele di sua zia, ma in italiano bisogna
andarci piano con l’amore (meglio "amore mio”). La lingua di Dylan, poi, non
è quella della piccola borghesia americana, e in italiano necessita di uno
strato più profondo, popolare senza essere per forza populista; quello che,
se vogliamo restare nell’ambito della canzone, appartiene magari a Paolo
Conte o a Enzo Jannacci. Il secondo problema
consisteva nel rendere le espressioni di movimento come "I am walking”,
"down the road”, "down the highway” o "along the line”. L’archetipo
dylaniano è quello di un uomo che cammina lungo il ciglio di una strada di
campagna. È così da I’m Walking Down the Line
del 1962 a Love Sick del 1997, fino alla Ain’t Talking del
recentissimo Modern Times ("Ain’t talking, just walking”; come a
dire: "Parlare non parlo, cammino e basta”), perché è uno degli archetipi
del blues e del country. Ma non è un archetipo italiano, e non è neanche una
forma del moto che la lingua italiana abbia mai dovuto esprimere in quel
modo. L’inglese pone un’enfasi tutta preposizionale (spero si possa dire
così) su movimenti anche minimi che in italiano non può essere resa in
parallelo. Non c’è modo di rendere letteralmente un verso come questo di Jim
Morrison in The End: "And he walked on down the hall”. Bisogna
ricorrere a "proseguì”, "mosse i suoi passi”, "avanzò”, "attraversò”, ma
certo non si può tradurre "continuò a camminare lungo il salone” (per quanto
ci siano esimi traduttori di testi rock perfettamente convinti che se tu non
traduci così vuol dire che non sai l’inglese). Ma torniamo a Dylan e
prendiamo un verso di Black Diamond Bay: "She walks across the
marble floor”. Certo, si può tradurre: "Cammina sul marmo del pavimento”, ma
si sente che non funziona, che in italiano l’espressione suona troppo
generica, troppo meccanica, e che non dà nessun senso di direzione o di
scopo. Diremo allora "attraversa la stanza dal pavimento di marmo” o, più
concisamente, "attraversa la stanza di marmo”? Sì, pur di non usare
"cammina”, perché in italiano non si cammina, si va a piedi. "È mezz’ora che
cammino” va benissimo, perché descrive l’azione fisica e non la
destinazione. Ma "si va a piedi” da Lodi a Milano, come dice la canzone
della bella Gigogin. In italiano si "prende” una strada, si "fa” un certo
tratto di strada, si "percorre una via”, anche, ma non fa parte del nostro
bagaglio storico e linguistico dire di qualcuno che "camminava giù per
l’autostrada”. Il terzo tormento consisteva
nel decidere che soluzioni adottare riguardo alla rima e alla metrica. Come
impostazione generale, ho cercato di resistere all’ossessione della rima a
tutti i costi, e di usarla solo con prudenza, nei punti chiave, o quando il
testo mi urlava nelle orecchie che la voleva assolutamente. Gli italiani
sono stranamente convinti che la loro lingua abbia meno rime dell’inglese.
T. S. Eliot (lo scrive nei suoi saggi su Dante) era convinto dell’esatto
contrario. Certamente una volta l’italiano era una lingua straordinariamente
flessibile, dato il grande numero di troncamenti e inversioni sintattiche
che permetteva (altrimenti non sarebbe rimasto per due secoli la lingua
franca dell’opera). Da quando però l’italiano si è slatinizzato,
modernizzato e linearizzato, queste libertà si sono molto ridotte, e anzi
oggi già troncare un infinito (come facevano ancora impunemente Mogol e
Battisti alla fine degli anni sessanta) ci sembra una cosa vecchio stile,
polverosa se non proprio brutta (De Gregori ha scritto
Sotto le stelle del Messico a trapanar proprio per
prendere in giro la scorciatoia dei troncamenti, e anzi voleva intitolare la
canzone Infiniti tronchi). Io non so se l’inglese abbia o non abbia
più rime dell’italiano. Certamente ha più rime tronche, ossitone,
monosillabiche, e poiché la canzone rock è in gran parte modellata sul
fraseggio dell’inglese, un testo italiano che voglia adattarsi al rock,
evitando troncamenti ormai demodé, finisce per usare quelle poche
parole ossitone che possono essere ficcate in fondo a un verso, oppure le
solite rime morfologiche ottenute con i futuri e i passati remoti dei verbi.
Per carità, è una soluzione alla quale ho fatto ricorso anch’io, e anche
spesso, ma so che è una scorciatoia, un cavarsela con poco (più o meno
l’equivalente delle quinte parallele in musica), e l’ho usata solo se mi
sembrava che non disturbasse troppo, e anzi che si notasse il meno
possibile. La quarta necessità
consisteva nell’essere più fedeli possibile a quei momenti in cui Dylan
forza, consapevolmente o no, la lingua inglese, in senso grammaticale e per
raggiungere inedite combinazioni di significato. Gli esempi, numerosissimi,
coprono tutta la produzione degli anni sessanta e la prima degli anni
settanta. A partire da Blood on the Tracks,
che esce nel gennaio del 1975, la lingua di Dylan diviene più regolare, più
"scritta”, il che non significa che non riservi sorprese, ma solo che non è
più al limite del non-grammaticale come accade ad esempio nei Basement
Tapes (il cui eloquio è talmente folle che in italiano li potrebbe
cantare solo Jannacci, previa riscrittura nel suo milanese o nel suo
italiano più lunatico). Il quinto rompicapo era dato dal livello parallelo dell’American English che è costituito dallo slang. Prendiamo ad esempio due versi di Hurricane: "If you're black you might as well not show up on the street / 'Less you wanna draw the heat”. Io ho tradotto: "se sei nero è meglio che neanche ti fai vedere in giro / se non vuoi tirarti addosso la questura”. Qui qualunque traduzione è discutibile, perché "less you wanna draw the heat” potrebbe voler dire "se non vuoi attirare l’attenzione” o addirittura "se non vuoi tirare fuori la pistola”. Ho scartato l’ipotesi della pistola perché, se l’idea è quella di non farsi notare visto che sei nero, allora non è il caso di pensare a tirar fuori la pistola. Ma rimaneva il problema di "heat” [calore] che in senso slang significa ”situazione scomoda o rischiosa” (conosciamo tutti i western o i polizieschi tradotti alla carlona nei quali poco prima di una sparatoria c’è sempre qualcuno che dice: "Qui tra poco comincerà a far caldo”) ma quando è con l’articolo ("the heat”) significa "la polizia”. Dylan usa il termine con lo stesso senso in Subterranean Homesick Blues, dove "Maggie comes… / Talkin' that the heat put / Plants in the bed” non vuol dire "Maggie arriva... / dice che il caldo le ha messo / piante nel letto”, come più o meno hanno tradotto tutti, bensì: "Ecco Maggie... / dice che la pula le ha messo / gli spioni nel letto” ("plants” è slang per "informatori della polizia”). Visto che tre versi prima avevo concluso un verso con un "ancora”, mi sono permesso un’italianizzazione ("questura” invece di "polizia”) per poter finire la strofa con un’assonanza. Quindi ho tradotto: "se non vuoi tirarti addosso la questura”. Altre traduzioni hanno: "a meno che tu non vada in cerca di guai”, chè è senz’altro accettabile, oppure: "se sei nero meglio che non ti si veda neanche per strada / o ti rifilano la patata”, intendendo probabilmente "heat” come "patata bollente”. Ma "trovarsi tra le mani una patata bollente” ha solo una vaghissima parentela con il non cercare guai o non voler attirare l’attenzione della polizia. La sesta incognita era
costituita dai livelli stilistici. In inglese io posso dire "I made a
grievous mistake” oppure "I screwed up”. La prima frase è di tono più alto,
la seconda è un colloquialismo. Ma dicono tutt’e due la stessa cosa: "Ho
fatto un grave errore”, oppure: "Ho proprio fatto uno sbaglio”. Il problema
è che "I screwed up” è molto più colloquiale di: "Ho proprio fatto uno
sbaglio”, e anzi corrisponde anche a: "Ho incasinato tutto”. Solo che se in
italiano dico: "Ho incasinato tutto” faccio ricorso a un registro che in
molte circostanze sarebbe considerato eccessivamente basso, mentre in
inglese "I screwed up” è accettabile anche in occasioni semi-ufficiali.
L'American English ha la grande forza di essere una lingua dove un livello
costamente colloquiale e gergale non è visto come "basso stile”. L’italiano
ha perso in parte quel livello diciamo così "americano” diventando lingua
standard e lasciandolo ai dialetti. Ad esempio, io ho tradotto "Miss Lonely”
di Like a Rolling Stone con "Miss Malinconia”
perché volevo che ci fosse un’allitterazione in italiano (Mi-ma-li), visto
che c’è in inglese (Mi-lo-ly), e perché una di quelle canzoni degli anni
trenta che una volta potevano far piangere le signorine comincia con
"Buongiorno tristezza, amica della mia malinconia”. Il termine poteva
giocare da controcanto ironico alla "Miss Lonely” della canzone, che è una
borghese di buona famiglia ignara del destino al quale sta per andare
incontro. La "Miss Liceo” degli Articolo 31, nella loro versione rap di
Like a Rolling Stone, va altrettanto bene. Ma quando ho letto sul sito
dylaniano www.maggiesfarm.it la traduzione in romanesco di Michele
Murino, nella quale Miss Lonely diventa "Miss-puzza-al-naso” l’ho trovata
formidabile, al punto di rivedere l’intera mia traduzione in chiave più
colloquiale di quanto non fosse all’inizio (è da lì, per esempio, che mi è
venuta l’idea di tradurre "thinkin’ that they got it made” con "gente
convinta di andare alla grande”). Condivido in gran parte la nota del
traduttore Carrera che spiega bene le ragioni e i presupposti del suo lavoro
sui versi di Dylan. Non sono però certo della validità degli stessi criteri
in generale. Penso che la struttura, la forma di un'opera vada sempre e
comunque rispettata. Al contrario di Carrera, che la cita a mo' di buon
esempio, ritengo pessima la traduzione de Le fleur du mal di
Giovanni Raboni che ha mistificato e ridotto in cenere il genio poetico di
Baudelaire che si esprime in versi metrici e in rime per un preciso scopo
lirico. La forma, diceva Pirandello, è tutto e - parafrasando il Siracusano
- chi non rispetta la forma di un'opera non fa traduzione ma distruzione
dell'originale. Che cosa diremmo di una Divina Commedia tradotta in
inglese in prosa? Come minimo che è un'altra cosa e che il povero Dante non
c'entra niente. E, se mi si permette la sfrontatezza, tra Baudelaire e
Raboni preferisco il primo e pretendo da lettore italiano una traduzione
felice e fedele. ( Enrico Bernard )
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