MAGGIE'S FARM

SITO ITALIANO DI BOB DYLAN

THE MIGHTY ROAD TO ROCK'N'ROLL

di Paolo Vites

Caro Michele, mi vedo citato sulla tua rubrica lettere e allora, dopo un milione di tentennamenti, decido di intervenire.
Sono sempre restio a farlo, specie in siti come Maggie’s Farm, dichiaratamente siti di fan, perchè, come alcuni sapranno, sono un giornalista musicale, un critico professionista, uno scrittore di musica.. bah che orribili parole, ma comunque mi guadagno la pagnotta scrivendo di musica rock e perciò cerco sempre di trattenermi da interventi che possano sembrare del tipo “io sono un professionista per cui ne so più di voi tutti, io ho capito tutto e voi no”. No, non è così naturalmente: è vero che facendo il mio lavoro si ha occasione di ascoltare cento volte più dischi e concerti di quanto possano fare i semplici appassionati che dovendosi comprare i dischi e i biglietti dei concerti sono ovviamente tenuti a scegliere con oculatezza e quindi io ho una visione panoramica sulla musica rock più ampia (e ascolto dischi dalla metà degli anni 70.. sigh trent’anni...), ma certamente non ho il diritto di dire che le mie opinioni siano per forza di cose ‘più giuste’ di quelle di un qualunque visitatore di un sito come Maggie’s Farm. Perciò ho sempre paura che la gente possa intendere i miei interventi come dei presuntuosi sciorinamenti di un sapere superiore. Questa volta però ho voglia di intervenire lo stesso.
Inoltre, ormai alcuni di voi lo sanno, mi diverto a intervenire sul message board del sito Dylan Pool: ad esempio discutendo su quel sito del concerto di Dylan a Milano ho scambiato battute piuttosto dure con un paio di italiani. Non so se loro sapevano chi ero (Michele please tieni coperto il mio nickname..), perchè lì uso uno pseudonimo, ma vorrei chiarire che il gruppo di discussione del Pool non è uno di quei message board per ‘dylanologi’ assatanati: ce ne sono diversi di questi siti pretenziosi e io mi tengo ben alla larga da quei postacci. Il pool è un sito dedicato al gioco dello ‘scommettiamo cosa suona stasera dylan’, e anche il msgboard è un luogo simpatico e senza pretese, dove ci si trova tra amici e non a sparare per lo più cazzate, prendendosi in giro amichevolmente (non sempre...). E’ come essere al bar un po’ ubriachi a dire la propria, per cui se mi incontrate sul pool a dire che Bob Dylan deve ritirarsi... stavo scherzando...
Il sottoscritto poi non si reputa un esperto del Dylan live, tanto è vero che affidai all’amico Cavazzuti la parte del mio libro dedicato a Dylan dal vivo. Da questo punto di vista sono come tanti di voi un semplice appassionato.
Una lunga introduzione, sorry. Dunque sono stato citato su Maggie’s Farm perchè avrei detto che il Bob Dylan del 2005 è pronto per Las Vegas. Io credo che ogni tipo di esperienza, anche un concerto rock, vada messa nel suo giusto contesto, altrimenti si enfatizza un particolare e l’oggettività dell’esperienza stessa va a farsi benedire. Al recente concerto di Milano ero con un’amica che non lo vedeva da 5 anni, grande esperta di musica jazz e quindi una persona con un gusto musicale piuttosto raffinato: era assolutamente entusiasta del concerto. Io che lo vedo tutti gli anni dal 1984 e ascolto decine di concerti che non vado a vedere, ero del tutto annoiato. E’ come quando mi dicono che New Morning è un gran bel disco. Io lo trovo pessimo, perchè ho in mente quello che Dylan aveva inciso fino ad allora (dunque lo contestualizzo alla sua produzione e non come episodio a sè) e perchè metto New Morning nel contesto dei dischi usciti nello stesso anno, e allora, seppur New Morning possa suonare anche piacevole, nel contesto storico di Dylan e dei dischi dell’anno in cui fu pubblicato, esso sparisce miseramente.
Perciò lasciatemi mettere il concerto di Dylan del 12 novembre scorso a Milano nel suo contesto...
Mentre scrivo queste parole sto ascoltando un concerto di Bob Dylan a Parigi del 2000. Il modo in cui esegue To Ramona, arrotondando con veemenza le ultime parole di ogni strofa, o come si inventa una melodia del tutto nuova durante Love minus zero o fa diventare Trying to get to heaven una lounge ballad in chiave jazz, o come esplode Like a rolling stone con la convinzione esplicita di star cantando un brano che ha cambiato la storia del rock, mi manda fuori di testa.
Il 2000 è per me l’anno definitivo di Dylan il performer. Evito qui di citare il suo quarantennale percorso live, mi limito al never ending tour, quell’incredibile azzardo che, come dice lui stesso benissimo nelle pagine di Chronicles, gli ha permesso di azzerare la sua carriera e di ripartire da capo. Di fatto, si potrebbe fare a meno di pensare a quanto da lui fatto prima dell’inizio del NET (anche se è impossibile...) e divertirsi ad analizzare Dylan il performer a partire dal 1988. Non basterebbe un libro. Un percorso non solo artistico ma umano (che per Bob Dylan le due cose - caso forse unico nella storia del rock - coincidono completamente) ricchissimo di spunti e di svolte. Un incazzato quasi cinquantenne che nel 1988 prende a pugni con rabbia e amore il suo repertorio per cercare di impossessarsene di nuovo. Ci riesce perfettamente. Che nel 1989 e 1990 è già stufo e ha bisogno di trovare nuove vie espressive; mentre le cerca, con qualche caduta, sfodera a Parigi e a Londra nel 1990 concerti di una tale potenza artistica che oserei paragonarli a quelli del 1966 nei medesimi luoghi.
Poi ogni cosa sembra sfuggirgli di mano: tra la fine del 1990 e l’autunno del 1992 l’uomo sbanda e barcolla vistosamente. Pensa di sorreggersi con l’alcol ma tutto sembra andare a quel paese. Eppure ci sono anche qui momenti folgoranti, in cui, come nella scena di Like a rolling stone a Newcastle nel 1966 inclusa in NDH, la musica prende talmente possesso dell’uomo con le sue mille contraddizioni e umane debolezze, che fuoriescono momenti di intensità assoluta: alcuni concerti dell’autunno 1991 e 1992 appunto. Ho in mente certe versioni di Peggy-O del 92 mentre scrivo queste cose e proprio come i dischi in studio del periodo (Good as I been to you e World Gone Wrong) l’uomo, attaccandosi ai preziosi brani della tradizione popolare, trova una luce in fondo al tunnel.
Tutto sembra trovare, come già nel 1988, un senso compiuto nell’estate del 1993: come allora, Dylan capisce che non è quando fa finta di essere Bob Dylan che la musa tornerà a rivolgersi a lui, ma è quando lascia che “sia la musica a suonare i musicisti e non i musicisti a suonare della musica” (Greil Marcus) che il miracolo avviene. Dopo aver provato, nell’inverno del 1993, a usare la chitarra acustica come una solista, quasi imbarazzato del gesto, dice ‘fanculo e prende la chitarra elettrica e diventa il solista della band. I risultati hanno scandalizzato i benpensanti del rock (e chi si crede di essere? Eric Clapton?) e infatti lui la solista la suona malissimo ma non ha importanza, gli consente di entrare in un modo nuovo e diverso nelle sue stesse canzoni, per riscoprirne la struttura, decomporle come quando giri un guanto dall’altra parte e vedere dove esse, le canzoni,
possano portarti. E quando ci riesce, la vittoria è delle più sublimi. Un momento per tutti a cui ho avuto la possibilità di assistere in persona: Milano 27 giugno 1993, una cavalcata trionfale in cui Memphis blues again - un brano che negli ultimi anni è diventato una mortale strada verso l’annullamento di ogni pretesa artistica, qui si dilata in una giostra di colori senza fine. Crack-bam esplode il batterista, mentre Dylan è posseduto dalla magia della melodia e la sua chitarra guida tutti i musicisti con orgoglio. Ma anche la luce al calore bianco che è il vulcano di I and I e perfino brani minori come Cat's in the Well.
Con dei musicsti che riescono perfettamente a calarsi in quanto Dylan richiede, quasi leggendogli nella mente (John Jackson, Bucky Baxter e Winston Watson) il gioco provato nell’estate del 1993 diventa per tutto il 1994 una autrostrada verso la gloria.
Tra il 1995 e il 1999 sarà un susseguirsi di emozioni diverse (alcuni tour giocati più in chiave intima, altri più sguaiata e decisamente rock), da angolazioni diverse ma sicuramente Dylan sembra in grado di condurre la sua carriera all’infinito. Ogni sera è una avventura, e la sua voce domina, esplorando aperture - pur nella limitatezza del range vocale di Dylan - impensabili. A momumento di questa epoca straordinaria rimarrà quella Restless Farewell cantata davanti a Frank Sinatra con una trascendenza che ha pochi eguali nella storia della musica popolare del 900.
E’ nel corso del 2000 che, per dirla in modo un po’ biblico, tutto si compie: è stato un lungo viaggio, sembra dire Dylan, ora portiamo tutto a casa. Con un concerto diviso equamente tra acustico ed elettrico (1966 revisted?), nuovi musicisti di talento e intuito formidabili (Sexton e Campbell) Dylan (“ho sempre navigato in quel grande mare che è l’America) si erge come un momumento della sua America: i traditional che aprono ogni serata sono una festa, Dylan si mostra un armonizzatore incredibile prestandosi alle voci del suoi accompagnatori, come mai avremmo pensato. Le scalette emozionano, la punteggiatura orgogliosa con cui riveste ogni suo vecchio classico è da brivido, mentre nuove composizioni come Not Dark Yet superano di slancio anche le splendide versioni in studio. E’ una festa continua, un orgasmo che non manca di città in città, da Milano (un concerto strepitoso) alla California, passando per quella incredibile residenza a Wembley dove spunta una 4th time around da lacrime e Dylan si mette anche a scherzare su Winston Churchill. E’ il trionfo definitivo, una carriera riassunta in una serata.

Il 2001 mostra, come già accaduto in passato, un artista che si è già stancato di se stesso: la formula è identica a quella dell’anno precedente ma noia e trascuratezza interpretativa appaiono a ogni piè sospinto. tranne che nel glorioso tour dell’autunno (oh autunno, sempre così magico con dylan) dove l’uomo, probabilmente coinvolto dai tragici avvenimenti dell’11 settembre, si sente in dovere di assumere le proprie responsabilità di voce guida di un’America sconvolta regalando ancora esibizioni da antologia (Mississippi nel corso di questi concerti è cantata con tale autorità che davvero, come disse lo stesso Dylan nel corso di una intervista, questa canzone sembra avere a che fare con la costituzione degli Stati Uniti d’America), una su tutte quella a dir poco intensa al Madison Square Garden di New York (“Tutte queste canzoni sono state composte in questa città, la gente non ha bisogno di chiedermi cosa io provi per essa”).

Il 2002 ripete ancora una formula identica ma sempre più svogliata, fino all’autunno, dove accade l’impensabile: via la chitarra e Dylan è lì, in piedi, dietro a una tastiera elettronica. Da quel momento (che l’abbia fatto perchè ha bisogno di leggere i testi delle canzoni che sono appoggiati in modo evidente alle tastiere stesse o perchè in ricerca di possibili nuove vie sonore) sul palco non esiste più un leader e il suo gruppo, come tutta la storia del rock insegna, ma “un gruppo di musicisti”, e l’annullamento del concetto di leadership proprio di un esemble rock.
E’ il tour delle cover, ma dove Old Man di Neil Young e Brown Sugar degli Stones lasciano il tempo che trovano (un milione di cover band in un baretto di periferia le farebbe meglio e poi.. diamine... proprio i due brani più scontati di quegli artisti con tutti i capolavori che hanno inciso?) Dylan trascende se stesso ancora una volta nel quotidiano tributo a Warren Zevon: Mutineer rimarrà nella sua storia come uno dei suoi momenti più coinvolgenti di sempre. E’ durante questo tour che appaiono evidenti però i primi segni di una voce ormai allo stremo: ruggisce, invece di lasciar rotolare le parole, ci sono evidenti ‘buchi’, quando la voce cade nel vuoto.
E’ ovvio, è normale: l’uomo ha superato i sessant’anni e sfido chiunque dopo 40 di essi passati on the road a non avere gli stessi problemi. Chiunque smetterebbe lì, lui se ne infischia. Ma quel che è peggio è che da quel tour in poi anche la ricerca musicale sembra svanire nel nulla: sempre di più si assiste a un generico rock-blues di basso livello che avvolge ogni interpretazione nella nebbia dell’anonimato: il suono è quasi hard, ma soprattutto monotono, privo di alcun spunto (vedi gli assalti monolitici a brani come High Water che perdono tutta la gamma di colori che avevano nell’incisione di studio).
Andrà sempre peggio: il 2003 scorre in imbarazzanti esibizioni, le scalette sono sempre più simili sera dopo sera con la presenza assidua di molti brani di L&T, dimenticandosi quasi completamente di interi periodi storici come gli anni 70, la voce è sempre più un rantolo indistinguibile, con eccezione dell’autunno 2003 (autunno oh autunno): complice la presenza di un chitarrista formidabile come Freddy Koella (chi dice che i suoi accompagnatori non siano importanti per Dylan non ha mai capito granchè) che si assume la responsabilità di uscire allo scoperto elettrizzando ogni show con la sua presenza leader, Dylan stesso è costretto a uscire allo scoperto accettando la sfida: riesce incredibilmente a recuperare una buona verve vocale (le trovate melodiche in Desolation Row sono da brivido), si diverte a essere ‘solo uno della band’ e anche un ‘cavallo morto’ come Summer Days diventa una festa travolgente di note e colori. Fino alla ‘residenza londinese’, dove tira fuori dal cilindro addirittura Romance in Durango...
Ma è una illusione, perchè il 2004 con la partenza quasi immediata di Koella e l’arrivo di un musicista assolutamente anonimo come Stu Kimball che non riesce ad amalgamarsi per niente con Campbell e la standardizzazione di set list sempre più ‘greatest hits’ rende il tutto uno spettacolo buono per chi magari non ha mai visto Dylan in precedenza, ma assolutamente tedioso per chi ne ha un po’ di esperienza. E’ davvero il ‘Dylan Show’ come reclamizzano i manifesti dei suoi spettacoli: il senso di avventura e di rischio che aveva sempre caratterizzato l’uomo sono scomparsi, è davvero uno spettacolo buono per Las vegas e il prepensionamento. Niente di male, ok: l’età chiede un prezzo e l’uomo evidentemente si risparmia per riuscire a salire ancora su di un palco, però ci si domanda se non sarebbe stato meglio rallentare l’attività live dopo il 2000 con esibizioni selezionate che avrebbero salvaguardato voce e voglia di esibirsi.
Gli arrangiamenti delle ‘ballate’ (spanish leather, dont think twice, tambourine man, etc) diventano tutti simili tra loro, ogni pezzo potrebbe essere l’altro, non c’è la benchè minima ricerca musicale; in più Dylan nei brani melodicamente più ricchi si trova in difficoltà evidenti: la sua voce rovinata non gli permette di seguire alcuna linea melodica, si spezza, si ritorce, si umilia in quello che un mio amico ha battezzato ‘l’upsinging’, cioè finte note alte che diventano fastidiose da sentire. La melodia è morta. Che la sua voce sia ormai irrimediabilmente andata per sempre lo testimonia, peraltro, la terribile incisione del nuovo brano Tell Ol’ Bill, una performance davvero tristemente imbarazzante.
Rendono meglio i brani più ritmati, specialmente i blues di L&T, dove Dylan dovendo tenere praticamente due, al massimo tre note, non sembra avere grosse difficoltà. Sarà così anche nel 2005, con l’impiego di validi musicisti country che però devono suonare sempre lo stesso rock blues e l’imbarazzo degli stessi sul palco è evidente. Un esempio su tutti là dove Watching the river flow nel 1993 era una esaltante rilettura in chiave rockabilly con una verve eccezionale e uno stomping da lasciare storditi, oggi è uno scialbo rock blues come milioni e milioni di brani anonimi dello stesso tipo.
Ho letto sul Pool qualcuno dire che i musicisti della corrente line-up di Dylan hanno lo stesso senso di musicianship di quelli di Blonde on Blonde, cioè non emergono come solisti ma si limitano a ricamare sul fondo della canzone. Oddio, una frase come questa rende evidente che ormai su Dylan si può veramente dire tutto e il contrario di tutto; potrei dire che questa line-up ha il senso musicale di The Band all’isola di Wight nel 1969. Ma non è così.
Ho sentito dire che nel corso di questo tour Dylan ha ritrovato una chiara esposizione vocale: chiunque sa che oggi con gli impianti audio a un concerto si può far di tutto, anche far sembrare Madonna intonata e Robert Plant cantare come quando era negli Zeppelin nei primi anni 70 (ho visto entrambi..). Chi poi non è stato su un palco a un concerto anche di amici e ha visto come si può maneggiare un impianto, cioè dar più forza a un musicista e meno a un altro allo stesso tempo? Era evidente ad Assago che quando Dylan cantava l’uomo del mixer alzava il volume del suo microfono, anche commettendo qualche errore di ingresso, e abbassava il volume delle chitarre e i microfoni del batterista, per alzare gli strumenti ogni volta che Dylan smetteva di cantare.
La selezione di canzoni presentata a Milano è a dir poco irritante, come a considerarci degli acquirenti di greatest hits che non hanno nesun altro disco suo tranne le compilation: la sera dopo a Zurigo si è divertito a tirar fuori brani rari impensabili. Per non parlare di quello che sta facendo a Londra in questi giorni mentre scrivo.
Certo, negli anni 80 imbecilli della nostra carta stampata scrivevano scandalizzati che Dylan non aveva eseguito i suoi brani più famosi (e pensare che ci graziava di cose come Joey o Pledging my Time o St Augustine...) e questo dimostra che Dylan sta bene attento a cosa si scrive su di lui, anche in Italia. Eccoci serviti dei suoi brani più famosi forever and ever.
Ma non è bello trattare un pubblico come quello italiano in questo modo. A meno che non ci reputi di bocca buona come il pubblico di Las Vegas... Il Dylan visto a Milano era un momumento, ma non come in passato: era un monumento consapevole di esserlo, che si permette di suonare una nota sfiancata dall’armonica limitandosi a fare il gesto ‘del suonatore di armonica’: il monumento del suonatore di armonica. E’ sul palco, ma è come se non ci fosse, è lui ma lui non c’è. Riemerge solo in un momento di bruciante consapevolezza quando Just like a woman gli fuoriesce con gioia spontanea, e ci si ricorda di che performer era Dylan.
Va benissimo anche così, per carità: Bob Dylan è stato il più significativo autore di canzoni rock della storia e non ha certo bisogno di dimostrare niente a nessuno. Tanto meno al sottoscritto. La prossima volta però vado a vederlo a Londra. Anche se un buon professionista dovrebbe garantire ogni sera uno spettacolo accettabile (vedi Paul McCartney o gli Stones, i suoi ‘coetanei’), non puoi correre per il mondo sperando di imbroccare la sua serata giusta. O suoni per tutti o non suoni per nessuno. Come peraltro ha fatto fino al 2000.

Poi leggo pareri contrastanti tra loro su internet, ad esempio questo: “Sono davvero sorpreso di come la gente continui a dire che questi concerti (quelli europei dell’autunno 2005) siano grandi concerti. Sono andato a Glasgow, credo sia stato ok. La voce di Bob era meglio che in passato ma il gruppo era penoso. Odio quel rock boogie da pub che è privo di ogni sostanza. I chitarristi hanno zero presenza scenica e suonano un rock stereotipato (...). Un muro di chitarre mischiate insieme con Dylan che abbaiava le parole. Gli assolo di armonica di Dylan erano orribili. Poi c’erano i pezzi lenti, alcune di quelle cose mi sono piaciute. Ma credo che questo spettacolo sia per un tipo diverso di fan rispetto a me. (..) Credo che Dylan dal vivo oggi sia diventato molto banale e del tutto diverso dall’artista che amavo”.

E poi leggo questo: “Non avevo mai visto Bob dal vivo prima e non ero sicura di sapere cosa aspettarmi. Avevo letto molti dire quanto il Bob Dylan di oggi non sia un bel concerto. Be’, sono stata letteralmente trasfigurata per le due ore. Ballavo, cantavo e sorridevo. E’ stato stupendo! La sua voce era molto buona e sebbene ho notato un po’ di ‘upsinging’, non mi ha dato fastidio”.

Penso alla prima volta che vidi Bob Dylan in concerto. Era il 29 maggio 1984, Arena di Verona. Tutti dicevano che era stato un pessimo concerto, ma io mi sentivo proprio come questa ragazza, per me era stato stupendo.
Credo di aver capito la lezione e credo sia il mio momento di passare la mano. Bob, keep on keepin’ on senza quelli che come me ti hanno visto troppe volte in passato.

Paolo Vites