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La triste morte di Emmett Till
"The Death of Emmett Till" e un brano del 1962 in cui Bob Dylan racconta la
tragica morte di un ragazzo di colore ucciso nel 1955 nel Mississippi per aver
osato fare della avances ad una donna bianca. La melodia del brano era stata da
Dylan "presa in prestito" da un brano di Len Chandler, come lo stesso Dylan
ammise in una intervista rilasciata a Cynthia Gooding. Fu Suze Rotolo, che
all'epoca era la ragazza di Dylan e che lavorava per il CORE (Congress on Racial
Equality), a raccontare a Bob la storia di Emmett Till.
"The Death of Emmett
Till" è stata pubblicata su vari bootleg tra cui "Genuine Bootleg Series Vol.
3".
Quello che segue è un articolo di Piero Sansonetti che ricostruisce
tutta la storia, preceduto dal testo di Dylan e dalla traduzione in italiano.
Michele Murino
Avvenne giù nel Mississippi non molto tempo
fa, quando un ragazzo di Chicago entrò attraverso una porta del Sud. La spaventosa tragedia di questo ragazzo me la ricordo ancora bene il colore della sua pelle era nero ed il suo nome era Emmett Till Degli uomini lo portarono in una baracca e cominciarono a
picchiarlo Poi fecero rotolare il suo corpo giù in una baia sotto
una pioggia rosso sangue Poi perchè gli Stati Uniti cessassero di reclamare un
processo Lessi i giornali del mattino ma non sopportai di vedere i
due fratelli sorridenti mentre scendevano le scale del tribunale.
Se non siete in grado di protestare contro una cosa
simile, un delitto così odioso, Questa canzone è solo un monito per ricordare al vostro
prossimo |
Twas down in Mississippi no so long ago,
Some men they dragged him to a barn and there they beat
him up. Then they rolled his body down a gulf amidst a
bloody And then to stop the United States of yelling for a
trial, I saw the morning papers but I could not bear to
see If you can't speak out against this kind of thing, a
crime that's so unjust, This song is just a reminder to remind your fellow
man |
MISSISSIPPI, STORIA DEL PICCOLO EMMETT UCCISO DAL
RAZZISMO
di Piero Sansonetti,
da “l’Unità” 27 giugno 2004
[…] Sì, sì, la conosce benissimo. Minuto per minuto. Il giovane si chiama Clay, ha 35 anni, è nero (anche il vecchio è nero e anche i suoi amici). Gli dico: «E’ una cosa di cinquant’anni fa, come fai a conoscerla?». Mi risponde che la conoscono tutti e che la storia di Emmett Till è ancora viva perché il razzismo è una bestia maledetta e viva e immortale. Specie qui al sud, specie in Mississippi è immortale. Il giovane se ne sta appoggiato coi gomiti sul parapetto del portico di casa sua, una di quelle baracchette di legno che abbiamo visto in tanti film. Assi dipinte di celeste chiaro. Due stanze bagno e cucina. La casa sta nel quartiere nero di Greenwood, 20mila abitanti, regno del cotone. Mi hanno detto di non andare nel quartiere nero di sera, non è sicuro. Invece è sicuro. C’è la ferrovia che separa il quartiere nero dal quartiere bianco. La ferrovia taglia in due Fulton street, che è la via principale di Greenwood: a sud gli afroamericani a nord gli anglosassoni. A sud baracchette, a nord quelle ville col giardino, un po’ di legno e un po’ di pietra, lussuose e con tante colonne finte a imitare il Partenone. Clay dice che in questo mezzo secolo non è cambiato niente, niente, e che i bianchi sono delle canaglie più canaglie che mai. Poi si scusa imbarazzato: «non dicevo a te…». Non ti preoccupare. Parlami di Emmett.
LA TRAGEDIA CANTATA DA DYLAN
Clay mi dice di aspettare un attimo, entra in casa ed esce con
la chitarra. Si fa vedere anche la moglie. Ora Clay mi racconta la storia di
Emmett. Finalmente il vecchio si è chetato e anche i suoi amici. Il vecchio
scuote la testa, gli amici dicono a Clay di cantare. E’ molto intonato. Canta
una canzone di Bob Dylan del ’63. Dice più o meno così: «La mattina dopo ho
visto i giornali / ma non li potevo sopportare / C’era la foto dei due fratelli
che sorridevano / mentre scendevano le scale / La giuria ha detto che sono
innocenti / che se ne possono andare / mentre il corpo di Emmett fluttua nella
schiuma orrenda / del Jim Crow, giù fino al mare…».
I due
fratelli di cui parla Dylan sono due fratellastri bianchi assassini, con nome e
cognome: Roy Bryant e J.W. Milam. All’epoca dei fatti avevano uno 24 e uno 36
anni. Emmett era invece un ragazzino che aveva appena compiuto 14 anni, di
cognome si chiamava Till, di soprannome Bobo. Bryant e Milam lo hanno rapito,
torturato, ucciso, e gettato nel fiume con un peso al collo, perché aveva fatto
un complimento alla moglie di Bryant. Bryant era bianco, Emmett era nero. Un
nero non può infastidire la moglie di un bianco, oppure paga con la vita. Che
legge è? E’ la legge di Jim Crow. Chi era Crow? Lo vediamo tra un po’.
Dice ancora la canzone di Dylan: «Degli uomini lo hanno rapito,
torturato / solo per fargli del male / Loro dicono che avevano una ragione / ma
adesso non ricordo quale… / Loro hanno spiegato perché lo hanno ucciso: / e non
mentivano per niente / La ragione è che si divertivano a ucciderlo / e a vederlo
morire lentamente».
Clay mi chiede perché mi occupo di Emmett.
Gli dico che non conoscevo questa storia e che l’ho conosciuta perché il
ministro della Giustizia ha deciso di riaprire le indagini, dopo mezzo secolo, e
dopo che due film hanno riportato l’attenzione del pubblico su Emmett Till. La
notizia l’ho letta sui giornali americani in questi giorni. Il senatore Shumer,
democratico di New York, ha fatto una lunga battaglia per riottenere la
riapertura delle indagini e l’ha vinta.
Allora Clay mi racconta
per filo e per segno la storia di Emmett. E non è una ricostruzione di fantasia.
Tutti i particolari li ha riferiti J.W.Milam – cioè l’assassino – un anno dopo
essere stato assolto, a un settimanale americano che si chiama Look. Gliel’ha
venduti per 4000 dollari, che a quel tempo erano molti. Specie per uno spiantato
senza un soldo in tasca come Milam. Una confessione vera e propria, ma dopo
l’assoluzione. E la legge americana dice che nessuno può essere processato due
volte per lo stesso reato. E allora come fa ora il ministro della Giustizia a
riaprire il processo? Ci sono due motivi. Il primo è che potrebbero esserci dei
complici, che non sono mai stati processati. Il secondo è che quello di allora
fu un processo del Mississippi, di un singolo Stato, quella di oggi è
un’indagine federale, cioè di un livello superiore. Allora non fu ammessa la
ragione razzista del delitto, che avrebbe imposto un processo federale, e quindi
restò un processo locale. Mezzo secolo dopo si è accettata l’idea che quello fu
il linciaggio di un nero.
IL CORAGGIO DI BOBO
Siamo nel 1955. C’è un paesino minuscolo, vicino a Greenwood (a
10 chilometri) che si chiama Money. Siamo nel delta del Mississippi, uno dei
posti più belli e struggenti del mondo. Il cotone dà da vivere a tutti. La
contea di Greenwood – dicono – dal 1917 è il più grande mercato di cotone che
c’è sul pianeta. Il cotone lo raccolgono i neri, ma qui si chiamano negri. La
gente perbene usa la parola «negroes», i razzisti dicono «niggers». Money è un
ufficio postale, una chiesa, un negozietto, un impianto per la prima lavorazione
del cotone, un benzinaio con una tettoia e due pompe. Nient’altro. Le case, una
quindicina, sono sparse nella campagna. Il paese è tagliato in due dalla
ferrovia. Qui a Money negli anni ’20 viveva una famiglia, la famiglia Cartham.
Il signor Chartam, che era nero, si stufò di vivere nel sud razzista e se ne
andò a Chicago. Insieme alla figlioletta Mamie che poi diventerà la madre di
Emmett. Mamie è nata nel 1920, suo figlio nel 1941 (lo stesso anno di Bob
Dylan). Il marito di Manie era un ex pugile, divorziarono nel ’42, lui andò in
guerra in Italia e non tornò più.
Nell’estate del 1954 Mamie se
ne va in vacanza in Nebraska. Bobo dice che ormai è grande, vuole andare in
vacanza da solo. Dagli zii, anzi i prozii, che vivono ancora a Money: Moses
Wright e sua moglie Elizabeth. Lì dagli zii ci sono una quindicina di cuginetti.
Il negozietto di Money appartiene al signor Roy Bryant e a sua
moglie Carolyn. Hanno due figli molto piccoli e vivono nel retrobottega del
negozio. Carolyn è una donna assai bella, ha ventun’anni, ha vinto due concorsi
di bellezza ad Indianola, città a una cinquantina di chilometri da Money, dove
ha studiato al liceo. La sera del 24 agosto del 1955, un mercoledì, Bobo Till, i
suoi cugini e un paio di amichette sono nello spiazzo davanti al negozio. Uno
dei cugini di Bobo lo prende in giro. Gli dice: «Ti dai le arie che ci sai fare
con le donne, facci vedere cosa fai con la signora Bryant». Bobo raccoglie la
sfida, entra nel negozio, compra le gomme americane e poi dice alla signora:
«Cosa ne pensi di darmi un appuntamento, baby?». Lei invece che mettersi a
ridere si mette a gridare, chiama la cognata, Bobo insiste: «non devi aver paura
di un ragazzo nero, già ho avuto altre donne bianche». Un cugino capisce che
Bobo si sta ficcando nei guai seri, entra nel negozio, lo afferra e lo porta
fuori. Bobo, sulla porta, si gira ancora, e fischia a Carolyn.
Nella notte tra il sabato e la domenica successiva, due uomini si presentano,
alle due, a casa di Moses Wright. Sono armati di pistola. Moses li conosce, sono
Roy Bryant e suo fratello J.W.Milam. Vogliono Bobo. Il ragazzo viene svegliato.
Loro gli dicono di vestirsi e di far presto. Bob non sembra impaurito. Si veste
con calma, lo fanno salire sul furgone di J.W.Milam. Lo mettono nel cassone
dietro, loro si siedono nei sedili davanti. Guida Roy. Portano Bobo sul greto
del fiume, il Tallahatchie. Lo fanno scendere e lo minacciano con la pistola.
Poi lo fanno risalire sul camion, lo portano a casa di J.W., a Glendora,
quindici miglia da Money. Dentro casa lo frustano. Lui non piange. Anzi li
sfida. Gli grida in faccia: «sono esattamente come voi, valgo quanto voi, non
sono diverso dai bianchi. Voi siete dei bastardi». J.W. racconterà nella
confessione a pagamento che l’idea era solo quella di picchiarlo e di
spaventarlo. Ma lui non si spaventa. Allora lo fanno salire di nuovo in
macchina, e in macchina hanno un’elica di quelle che servono per lavorare il
cotone. Pesa circa trenta chili. Lo portano di nuovo sul greto del fiume, a Nord
di Glendora, in un punto abbastanza ripido. Il fiume è largo, fanghiglioso,
circondato da una vegetazione verdissima e da alberi molto alti. Sul greto del
fiume lo frustano un’altra volta. J.W. si arrabbia perché Emmett non piange.
Allora tira fuori di nuovo la pistola e gliela punta all’orecchio. Gli chiede:
«Hai paura?»: Bobo risponde di no. Gli chiede: «Sei ancora convinto che io e te
siamo uguali e valiamo nello stesso modo?». E Bobo risponde di sì. Gli chiede:
«Tu credi ancora di avere il diritto di guardare una donna bianca?». Bobo dice
di avere il diritto. J.W. capisce che quel ragazzo non può farla franca. Un nero
non può sfidare così un bianco: se no è finita. Preme il grilletto. Un colpo s,
un proiettile a espansione. Fracassa il cervello di Bobo. Poi, insieme a Roy,
J.W. lega l’elica al collo di Emmett e lo butta al fiume. Il corpo riemerge
quattro giorni più tardi, in un punto dove il fiume passa vicino a Money.
Orribilmente deturpato.
LA BARA APERTA E IL PROCESSO
Mamie Till decide che il funerale si farà con la bara aperta.
Vuole che tutti lo guardino in faccia il razzismo. Il funerale si svolge a
Chicago. Ci sono cinquantamila persone. Intanto i due assassini sono stati
denunciati da Moses Wright, anche se sua moglie ha pregato di non farlo. Non è
mai successo qui in Mississippi che un nero denunci un bianco. E’ molto
pericoloso. Moses manda la moglie a Chicago per proteggerla. Lui resta a Money.
Lo sceriffo – un brutto ceffo razzista, un certo Clarence Strident – è costretto
ad arrestare i due fratelli. Il processo si fa in una città vicina, a Summer, ai
primi di settembre. Il giorno del processo la Corte è strapiena. Lo sceriffo fa
mettere i neri fuori dell’aula, nel corridoio. Anche i giornalisti neri restano
fuori. E resta fuori anche un deputato nero, Charles Diggs. Lo sceriffo ogni
tanto passa nella zona dei neri e li sfotte: «How are you, niggers?». I due
fratelli bianchi sono difesi da un folto gruppo di avvocati che presta la
propria opera gratuitamente. Tutti gli avvocati bianchi di Greenwood si sono
offerti volontari per difendere Bryant e Milam. E inoltre sono stati raccolti
10mila dollari di aiuti. Il processo dura due giorni. Moses Wright va al banco
dei testimoni. Gli chiedono se conosce chi ha rapito suo nipote. Lui alza la
mano e indica i due imputati. Dice solo una parola: «They», loro. E’ la prima
volta in Mississippi che succede una cosa del genere. L’aula ammutolisce, è
indignata di tanta sfrontatezza. Poi va a testimoniare anche un ragazzetto di 18
anni, un amico di Emmett, anche lui nero, coraggiosissimo. Si chiema Willie Red.
Anche lui accusa i fratelli. Dice di abitare di fronte alla casa di J.W., dice
che quella notte era sveglio e stava alla finestra, e che ha visto Emmett mentre
veniva portato dentro casa da Bryant e da Milam. Poi parla l’avvocato dei due
assassini. Si chiama Sidney Carlton. Dice: «Signori giurati, se non liberate
questi due ragazzi bianchi i vostri antenati si rivolteranno nella tomba. Ma
sono sicuro che questo non succederà: so che voi siete anglosassoni e so che
libererete questi fratelli anglosassoni». La giuria è tutta di bianchi. Non ha
molto da discutere, la colpa è evidentissima, è chiara come il sole. La giuria
resta riunita per 67 minuti, poi esce: «no guilty», innocenti. Roy e J.W. sono
liberi, si abbracciano, baciano le mogli, scendono le scale della corte – come
canta Bob Dylan – sorridendo e fumando il sigaro. I gornali del luogo dicono che
è stato un brutto delitto, ma che non c’erano prove per condannare i due
fratelli e che comunque parlare di linciaggio è eccessivo.
La
mamma di Emmett scrive al presidente Eisenhower e al mitico capo dell’FBI
Hoover. Vuole essere ricevuta. Non la ricevono. Lei dice che si tratta di un
delitto razzista e che il governo deve intervenire. Occorre una corte federale.
Il ministro della Giustizia scrive a Hoover per avere un parere. Hoover risponde
con una lettera di due pagine che andrebbe distribuita in tutte le scuole del
mondo per spiegare cos’era l’America ai tempi di Eisenhower. Hoover dice che
l’azione contro la vittima è avvenuta per motivi sessuali e non razziali. Dice
che non c'è stata nessuna violazione del «Civil Rights Bill», e che questi fatti
vengono confermati da tutti gli agenti dell’FBI che si sono occupati della
vicenda. Scrive testualmente: «Non c’è nessuna prova che la vittima sia stata
sottoposta alla privazione di alcun privilegio o garanzia assicurati dalla
Costituzione degli Stati Uniti e dalla legge». Del resto, annota Hoover,
recentemente, a Washington, un gruppo di ragazzi bianchi è stato aggredito da un
gruppo di negri e nessuno ha invocato il delitto razzista e l’indagine federale.
Dunque è buono il processo del Mississippi e l’assoluzione.
Recentemente, nel 1994, Roy Bryant è stato intervistato da una radio. Non ha
detto niente. Ha solo imprecato contro chi tenta di cambiare le leggi per
rimetterlo in mezzo con quella maledetta storia. Ha detto che a lui del delitto
non è venuto neanche un nichelino. I soldi dell’intervista li ha presi tutti il
fratello e il negozio di Money è fallito perché i neri lo boicottavano.
IL DESERTO DI MONEY
Money oggi è una minuscola città morta. L’impianto per la
purificazione del tabacco è chiuso, la stazione di servizio è chiusa, cadente e
impolverata, è chiuso e in rovina anche il vecchio negozio dei Bryant.
L’edificio è diroccato, le porte e le finestre sbarrate con assi di compensato.
Dentro è tutto in sfacelo. C’è solo l’ufficio postale che funziona, poco più di
un container. Nell’ufficio c’è l’impiegato e due clienti. Tutti e tre bianchi e
tutti e tre abbastanza anziani. L’impiegato potrebbe avere più o meno l’età di
Emmett, cioè 60 o 65 anni. Gli chiedo di Emmett, lui comincia a gridare e a fare
gesti con le mani, come ad invitarmi ad andare via. «Chi sei? Cosa vuoi?» mi
grida in faccia. Gli dico che sono un giornalista italiano. «Torna in Italia,
non cercare qui questa robaccia!». Interviene il più anziano dei clienti, che è
venuto per ritirare un pacco di giornali. Lui avrà più di ottant’anni, all’epoca
era un uomo fatto. Parla pacato, a voce bassa: «Cosa vuoi sapere?». La storia di
Emmett, rispondo. Voglio sapere se è vera. «Sì è vera». Tu sei di qui – chiedo –
te la ricordi la storia? «Sì ho sempre vissuto a Money, sì io c’ero», risponde.
Come è potuta avvenire una vergogna simile? «Voi non sapete che clima c’era
allora a Money. Tutte le estati arivavano i negri dal nord, arrivavano gli
yankee, non se ne poteva più di loro. E’ stato un incidente». Gli chiedo di
indicarmi il negozio di Bryant. «Vattene», mi risponde, «adesso basta domande,
go home, torna in Italia». Si allontana zoppicando, appoggiato a un bastone,
continuando a ripetere: «vattene, falla finita con questa storia di Emmett». C’è
un signore sui cinquant’anni seduto in macchina, e vicino a lui, appoggiato alla
macchina, c’è un suo amico. Provo a farmi dire qualcosa da loro ma loro mi
guardano fissi e restano zitti davanti alle mie domande. Provo a fare domande
che non c’entrano direttamente con Emmett, sul cotone, su Money, sui negozi:
restano muti, mi guardano, sfidandomi.
Mi aggiro per le poche
case di Money ma sono tutte chiuse. Anche la Chiesa è chiusa. Finalmente
incontro un nero. Lui mi indica il negozio dei Bryant, mi porta sul greto del
fiume, nel punto dove hanno ucciso Emmett, mi dice che J.W. è morto di cancro
nell’89 e che Roy è morto nel ’94, poco dopo quell’intervista alla radio. E’
viva ancora lei, Carolyn, ha settant’anni, abita ad Indianola, non parla con
nessuno, è ancora bella. Carolyn ha paura, perché se riaprono il processo lei
potrebbe essere coinvolta. Anche Mamie è morta, la mamma di Emmett. E’ morta
l’anno scorso, a 83 anni, dopo una vita infernale.
Torno a
Greenwood. Vado nel quartiere ricco dei bianchi. Chiedo a loro di Emmett. La
maggior parte non sa niente, o dice di non sapere. Due signore, sui sessanta, mi
rispondono che fu una brutta storia ma che poi i neri ci fecero una montatura.
Una persona sola, di una ventina che ho interpellato, non ha dubbi, e dice che
quell’estate del ’55 è stata la più brutta estate del Mississippi, e che loro
bianchi ci metteranno un secolo per far dimenticare la colpa e la vergogna.
P.S. Dimenticavo di Jim Crow. E’ il personaggio di una canzone razzista che si cantava in Kentuky alla fine dell’ottocento. Era il periodo nel quale il razzismo bianco si riorganizzava nel Sud, dopo aver perso la guerra coi nordisti. E le corti supreme dei vari stati (ma anche la corte suprema federale) emanavano sentenze su sentenze contrarie ai neri. Le leggi segregazioniste erano tutte confermate, il diritto di voto ai neri veniva negato, e il civil right bill del 1875 (molto precedente a quello degli anni kennediani) veniva cancellato perché considerato incostituzionale. Da allora si dice che nel Sud degli stati Uniti la legge vera è quella di Jim Crow, e che nessuna sentenza dell’alta corte di Washington può cambiarla. E’ una legge non scritta e dichiara la superiorità dei bianchi.
Emmett Till