La tesi di laurea di
Mattia Ferella
“I TEMPI STANNO CAMBIANDO”
INTRODUZIONE
Ma il
paradiso è in fiamme,o vi preparate ad essere eliminati
oppure i vostri cuori devono avere il coraggio per il cambio della
guardia.
(Changing of the guards, 1978)
Era il 13 dicembre 1963 quando, a New York, l’Emergency Civil Liberties
Committee conferì a Bob Dylan il Tom Paine Award, riconoscimento riservato
a chi si era distinto nella battaglia per i diritti civili .
Appena un mese prima di questo avvenimento, il 22 novembre, il 35°
Presidente degli Stati Uniti d’America John Fiztgerald Kennedy era stato
assassinato a Dallas da Lee Harvey Oswald.
Erano passati solo due anni dallo sbarco nella Baia dei porci, la
disastrosa operazione per rovesciare il governo rivoluzionario di Fidel
Castro a Cuba, conclusasi in appena 3 giorni con la sonora sconfitta degli
esuli cubani addestrati dalla CIA. L’anno dopo il mondo cominciò a tremare
davanti allo spauracchio di una nuova guerra mondiale: il 14 ottobre 1962
i voli degli aerei statunitensi sull’isola mostrarono chiaramente la
costruzione di impianti missilistici sul territorio cubano da parte
dell’Unione Sovietica. Quella sera del 13 dicembre 1963 la cronaca narra
di un Dylan visibilmente ubriaco che, salito sul palco per ritirare il
premio, edificò per la prima volta la più grande barricata tra lui e ogni
tipo di organizzazione politica:
Qui devo parlare con franchezza e non
accettare nessun compromesso sul fatto che devo essere onesto, ho il
dovere di esserlo, così come devo ammettere che l’uomo che ha ucciso il
presidente Kennedy, non so esattamente dove… quello che credeva di fare,
ma onestamente devo ammettere che anch’io… ho visto qualche cosa di me
stesso in lui .
I ricordi e le spiegazioni date da Dylan riguardo a ciò che avvenne quelle
sera mettono in risalto lo spaesamento di un ragazzo di 22 anni davanti
alla violenza insita nella società di appartenenza. Alle volte la società
americana appare governata da una malcelata contraddizione interna.
L’America degli anni ’60 è un paese in piena crescita economica, ma non
sempre gli ideali di democrazia e libertà vengono sostenuti, nè in ambito
internazionale e né tantomeno nella dimensione interna della società, dove
ampi strati della popolazione rimangono estranei a tali tematiche.
Durante la guerra in Vietnam, dal 1961 al 1975, dei cinque presidenti
americani che si succedettero nel corso degli anni ben due erano membri
del Partito Democratico: John Kennedy e Lyndon Johnson.
Ma gli anni ’60 in America hanno anche segnato la più grande rottura
musicale della storia contemporanea occidentale. Cambia il modo di
concepire una canzone, dell’utilizzo che se ne può fare, del modo in cui
essa può essere in grado di smuovere le coscienze delle persone.
E poiché nella differenziazione tra politica e cultura (o meglio,
“Controcultura”) è impossibile pensare separatamente queste due componenti
fondamentali della società tra la metà degli anni ’50 e l’inizio degli
anni ’70, un’intera generazione di giovani americani comincia a
riconoscersi nelle parole e nelle canzoni di persone che, spesso loro
malgrado, si trovano ad essere punti di riferimento per una parte
consistente della società.
I nomi sono tanti: Phil Ochs, “socialdemocratico di sinistra” (come spesso
si autodefiniva), presenza costante negli incontri sindacali o
studenteschi; Dave Van Ronk, figura di spicco nel panorama folk di New
York; Tom Paxton, che nonostante la diffidenza iniziale dovuta al suo
passato nell’esercito seppe conquistarsi un ruolo di rilievo all’interno
del circuito del Greenwich Village; senza dimenticare Woody Guthrie, padre
nobile della canzone di protesta che, nonostante sia entrato in ospedale
nel 1956 senza quasi uscirne mai più (morirà il 3 ottobre del ’67),
resterà una figura ricorrente e dominante .
Ma quando si parla delle canzoni di protesta degli anni ‘60, due sono i
nomi che predominavano sugli altri e vengono subito alla memoria: Bob
Dylan e Joan Baez, il re e la regina della musica folk americana.
I due musicisti rappresentano modi diversi d’interpretare e vivere
l’adesione al movimento generazionale che in quegli anni andava formandosi
e crescendo negli Stati Uniti. Convinta e sincera quella della Baez,
paladina e simbolo dell’impegno artistico nelle lotte per i diritti civili
e il pacifismo, disposta a farsi arrestare per ben due volte nel ’67 dopo
aver bloccato l’ingresso dell’Armed Forces Induction Center in California
mentre manifestava contro la guerra in Vietnam.
Per sua stessa ammissione, il coinvolgimento di Dylan fu più interessato.
Diverse volte ha tentato di discostarsi da un ruolo che evidentemente non
sentiva suo (“It ain’t me, babe”, non sono io, cantava già nel ’64, in una
canzone che forse nascondeva molto di più del semplice racconto di una
storia d’amore finita male), fino ad affermare chiaramente che la sua
adesione era dipesa un po’ dal fatto di cavalcare l’onda.
Più probabilmente, questo allontanamento dal movimento era dovuto ad una
sua personale avversione per le “cause”, dalle quali Dylan si discostava
ogni qual volta rischiava di ritrovarsi troppo legato ad esse. Lo ha fatto
nel campo dell’impegno civile e politico e lo farà anche in campo
artistico: si pensi alle numerose svolte musicali nella sua carriera
(quella elettrica del ’65, quella country del ’67 e quella che lo porterà
ad abbracciare il gospel nel 1980).
Resta alla storia la canzone “To Bobby” del 1972, in cui la Baez supplica
letteralmente Dylan di tornare a denunciare i mali del suo tempo: “Guarda
i bambini nella luce del mattino, Bobby… stanno morendo” .
Ma ormai Dylan ha imboccato un’altra strada. Farà qualche passo indietro
solo nel 1975, per raccontare la storia di Rubin “Uragano” Carter, pugile
di colore condannato ingiustamente (o, per meglio dire, affrettatamente,
dal momento che la sua estraneità ai fatti non fu mai provata) per un
triplice omicidio avvenuto in New Jersey nel 1966.
Nel novembre del 2008, all’indomani dell’elezione a Presidente degli Stati
Uniti di Barack Hussein Obama, il quarantaquattresimo della storia
americana, durante un concerto all’Università del Minnesota, Bob Dylan
dichiarò: “Sono nato nel ’41, l’anno in cui bombardarono Pearl Harbour. Da
allora ho vissuto in un mondo oscuro. Ma adesso sembra che le cose
cambieranno” .
Robert Allen Zimmerman - nome in ebraico Shabtai Zisel ben Avraham – è
nato il 24 maggio del 1941 a Duluth, piccola città mineraria del
Minnesota. L’attacco a Pearl Harbour, che sancì l’entrata in guerra degli
Stati Uniti, era lontano ancora sei mesi e due settimane. Nel 1947 Dylan
si trasferì con la famiglia nella città di Hibbing, di cui egli stesso
dirà: “Non c’era nulla. L’unica cosa che potevi fare era diventare
minatore”.
Tenendo conto del fatto che Dylan scoprì Woody Guthrie nel 1959 all’età di
18 anni (tre anni prima della pubblicazione del suo disco d’esordio),
siamo legittimati a pensare che l’adolescente Bob Dylan conoscesse ben
poco della canzone di protesta e delle dinamiche sociali che c’erano
dietro. La figura chiave che segnò la svolta per la sua formazione
etico-politica è da individuare nella diciassettenne attivista Suzie
Rotolo, conosciuta a New York nel 1961 e che sarà la sua compagna di vita,
tra alti e bassi, fino al marzo del 1964. E’ lei la ragazza immortalata
sulla copertina di “The Freewheelin’ Bob Dylan” (1963) ed è sempre lei che
sensibilizza il giovane Bob su quegli argomenti che caratterizzeranno i
primi tre anni della sua produzione discografica.
Nel 1969, anno dell’uscita di “Nashville Skyline” e in piena fase country,
travolto dalle critiche per quei nuovi pezzi sdolcinati e ancora una volta
disimpegnati, Dylan dichiarò: “Questo è il genere di canzoni che ho sempre
voluto scrivere quando mi sono ritrovato da solo” . Forse era veramente
così.
In un’intervista rilasciata alla rivista Rolling Stone nel 2012 Dylan,
interrogato su cosa pensasse delle accuse di plagio che gli venivano
rivolte riguardo il suo ultimo disco “Tempest”, rispolvera vecchi rancori
legati alle dure contestazioni subite durante l’infuocato tour mondiale
del ’66:
E’ una cosa vecchia che fa parte della tradizione; risale a molto tempo
fa. Queste persone sono le stesse che mi hanno affibbiato il nome “Giuda”.
Giuda, a me! Giuda: il nome più odiato nella storia dell’uomo! E poi, per
cosa? Per aver suonato una chitarra elettrica? Come se farlo fosse
paragonabile a tradire nostro Signore e consegnarlo perché fosse
crocifisso .
L’aver abbandonato il folk e con esso le canzoni di protesta rappresenta
una cesura fondamentale nella storia personale di Dylan, che non ha mai
compreso le ragioni di quelle contestazioni. Quando qualcuno dal pubblico
gli gridava: “Dov’è finito il poeta che eri?” o “Cos’è accaduto alla tua
coscienza?”, lui rispondeva, a metà tra il sarcastico e il seccato: “C’è
un tipo lassù che sta cercando un santo” e “Oh, dai, sono tutte canzoni di
protesta. E’ sempre la solita roba, non sentite?”. Dirà nel 1968: “E’ solo
evoluzione. Si cambia di continuo” .
Ma che tipo di paese è l’America che tra il 1962 e il 1965 vede Bob Dylan
arrivare al successo con le sue canzoni di denuncia sociale?
E’ lo stesso Dylan che ci dà una mano per comprendere la dimensione
politica, sociale e culturale che caratterizza la cornice dentro cui le
canzoni di protesta prendono piede.
Il 13 gennaio 1964, ad appena due mesi dall’ assassinio di Kennedy, esce
quello che tutt’ora è considerato uno dei dischi più rappresentativi di
quell’epoca: “The times they are a-changin’”. La title track, in un gioco
di antitesi tra il presente e il futuro, ci fornisce un resoconto
dell’America contemporanea e delle aspettative di una generazione.
Partiamo dall’ultima strofa:
La linea è tracciata, la maledizione è lanciata
il più lento di adesso sarà il più veloce, il presente diventerà passato:
l’ordine si sta rapidamente dissolvendo.
Ed il primo diventerà l’ultimo perché i tempi stanno cambiando .
Il testo è perentorio, come i profeti dell’Antico Testamento che fanno
parte del suo bagaglio culturale ebraico. Ammonisce che non c’è più tempo.
Il più lento diventerà il più veloce, il primo diventerà l’ultimo.
Qualcosa in quegli anni cominciò a smuoversi, ma per merito di chi? Non
delle istituzioni, né politiche, né economiche. L’opera di
sensibilizzazione riguardo determinate problematiche venne condotta da chi
quelle discriminazioni le subiva: gli afroamericani, le donne (anche se
solo agli inizi degli anni ’70), gli omosessuali e tutti quegli strati
della società che non si rispecchiavano nei valori che venivano trasmessi
loro, come gli studenti e i pacifisti.
Proseguendo a ritroso:
Venite, madri e padri, da ogni parte del paese
e non criticate ciò che non potete capire.
I vostri figli e le vostre figlie sono al di là dei vostri comandi,
la vostra vecchia strada sta rapidamente invecchiando:
per favore, andate via dalla nuova se non potete dare una mano .
Molto spesso quando parliamo di controcultura e pacifismo, di movimenti e
associazioni studentesche e di tutto ciò che di “generazionale” è accaduto
negli Stati Uniti tra il 1960 e il 1970 tendiamo ad associare il tutto
agli hippie e a quell’evento di portata sicuramente storica che è stato il
concerto di Woodstock nel 1969.
Chiariamo subito una cosa: gli anni ’60, a livello di coinvolgimento
giovanile, sono stati “anche” Woodstock, ma non sono stati “solo”
Woodstock. Prima di tutto perché gli hippie non erano né i beat di fine
anni ’50 (che mai si sarebbero sognati di arruolare adepti), né tantomeno
gli attivisti bianchi che all’inizio degli anni ’60 raggiunsero una
coscienza critica grazie agli stimoli lanciati loro dalle battaglie degli
afroamericani. Gli hippie spostarono il conflitto, se così si può dire, su
un piano prettamente “spirituale”: i loro bersagli non erano più le
istituzioni, bensì le anime degli individui.
In secondo luogo poi, per una questione politica-temporale: nel 1965 il
diretto coinvolgimento americano nella Guerra del Vietnam aveva comportato
una radicalizzazione in senso marxista-leninista di alcune frange
consistenti del Movimento. Inevitabilmente, con esse mutò anche una parte
di quella stessa generazione.
Nella prima metà degli anni ’60, infatti, tutte le neonate associazioni
più o meno politicizzate tendevano a non recuperare quei valori e quelle
appartenenze ideologiche che avevano caratterizzato la “vecchia” sinistra,
quella precedente al secondo conflitto mondiale. Gli strascichi del
maccartismo facevano sì che l’accusa di nutrire simpatie comuniste potesse
ancora comportare la fine di una carriera o la rovina di una vita privata
e pubblica. Inoltre la tendenza esclusiva e sospettosa, anche al suo
stesso interno, di quella sinistra considerata oramai superata ben poco si
adattava alla vocazione “universalistica” della Nuova Sinistra .
Del resto non bisogna eccedere nella radicalizzazione dello scontro
generazionale. Le già accennate derive maccartiste degli anni compresi tra
il 1950 e il 1955 spinsero i giovani ad una sorta di autodifesa e di
“pudore” etico–sociale, anche nei luoghi del pensiero, come le università.
La famiglia divenne così il primo luogo di confronto politico,
indubbiamente aperto a incomprensioni e scontri.
A volte gli scontri erano aspri, come quando i padri mettevano in
discussione l’incomprensibile rifiuto da parte dei figli di aderire a
modelli comportamentali che erano norma; altre volte essi erano
esclusivamente “formali”, come per esempio all’interno di famiglie
tradizionalmente attiviste in cui i figli, come già detto, ritenevano
superate e obsolete le linee guida su cui si muovevano le associazioni dei
padri.
Ma nonostante questo, si può notare come i movimenti dei primi anni ’60
tentassero di coinvolgere non solo le nuove generazioni ma anche chi,
nonostante l’età, aveva ancora qualcosa da dare. E le parole di Dylan
tendono a confermare questa tendenza: “Per favore, andate via dalla nuova
strada se non potete darci una mano”.
E anche quel “Venite, madri e padri” a inizio strofa più che un espediente
metrico sembra un’esortazione alla partecipazione. Dylan non dice “andate
via” e basta. Dylan dice “andate via se non siete in grado di aiutarci”.
Insomma, la porta è aperta: se volete entrare, bene, altrimenti andremo
avanti anche senza di voi.
Stesso discorso vale anche per i “potenti”, per i membri del Congresso:
Venite, senatori, membri del Congresso,
per favore, date importanza alla chiamata
non rimanete sulla porta, non bloccate l’atrio
perché quello che si ferirà sarà colui che ha cercato di impedire
l’entrata.
C’è una battaglia fuori e sta infuriando,
presto scuoterà le vostre finestre e farà tremare i vostri muri .
Il testo parla con la sicurezza di chi sa di essere nella ragione ed è
sicuro di quello che sta facendo. La retorica suggerisce apertamente che
tutto ciò che sta accadendo sia inevitabile e faccia parte della storia.
Le parole della canzone sono a metà strada tra il consiglio e l’ultimatum:
prima o poi arriveremo anche a voi, a poco servirà il vostro istinto di
conservazione.
Il sesto verso della strofa (“presto scuoterà le vostre finestre e farà
tremare i vostri muri”) sembra avere come protagonista non la battaglia
citata precedentemente ma il vento di “Blowin’ in the wind”, dentro cui
soffia la risposta alla domanda che una generazione di studenti si pone
già da qualche tempo: “Quante strade deve percorrere un uomo prima che lo
si possa chiamare uomo?” .
Entrambe le canzoni ci dicono che il cambiamento è dietro l’angolo,
colpirà a morte chiunque tenterà di fermarlo. Ma non in senso materiale.
In senso metaforico.
Le finestre e i muri scossi sono le finestre e i muri dei cuori di chi non
ha ancora capito che opporsi al mutamento dell’attuale stato delle cose
non ha più senso. Sembra quasi che Dylan dica: “E’ per il vostro bene”. Il
disgusto per l’ingiustizia è talmente grande che non importa quanto
sincera sia l’adesione. Va bene anche se di convenienza, purchè si cambi.
Senatori e membri del Congresso: viene in mente un’altra canzone di Dylan,
“It’s alright, ma (i’m only bleeding)”. Siamo nel 1965, il disco è
“Bringing it all back home”, quello che segnerà la svolta elettrica del
menestrello acustico. “It’s alright, ma” non sarà l’ultima canzone di
protesta di Dylan, ma è sicuramente quella che chiude un ciclo, uno dei
tanti, della sua lunga carriera. L’atmosfera è cupa, già dall’inizio
(“Buio allo scoccare della mezzanotte” ). La canzone va avanti e si fa
strada tra la rabbia e l’impotenza. Il modo in cui Dylan canta sembra
anomalo: è vero che le parole trasudano di quell’energia, distruttiva e
contemporaneamente costruttiva, che sale dallo stomaco, ma sembra quasi
che le frasi siano dettate dalla rabbia. Dylan è apocalittico, lo è sempre
stato, ma qui c’è qualcosa di più: sembra quasi rassegnato. Ce lo dice lui
stesso: “Io non ho nulla, mamma, per cui vivere” . Certo, queste parole
devono aver lasciato di sasso il pubblico di Dylan. La rassegnazione
dell’autore brucia ancora di più della svolta rock. Il tradimento che
rinfacciano a Dylan non è solo nelle forme, ma anche e soprattutto nei
contenuti.
Tuttavia in questo panorama oscuro c’è una verso particolarissimo:
Le divinità si nascondono dietro i loro cancelli,
ma persino il Presidente degli Stati Uniti
a volte deve presentarsi nudo .
Detta così non fa molto effetto, passa quasi inosservata. Basta spostarci
un attimo nel tempo per vedere l’effetto che una frase così può produrre
non solo in chi l’ascolta ma anche in chi la pronuncia. Siamo nel 1974.
Bob Dylan, che dal tour mondiale del 1966 non aveva più tenuto concerti, è
ritornato sulla strada per cantare le sue canzoni su e giù per l’America.
Ma nel 1974 un altro avvenimento aveva turbato le coscienze degli
americani: il 37° Presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon, si era
dimesso dalla carica in seguito al suo coinvolgimento nell’ambito dello
scandalo Watergate.
Quando durante i concerti di quell’anno Dylan si trova a dover pronunciare
quelle parole, accade qualcosa di sorprendente: non canta quella frase, la
urla. Il silenzio, che tradizionalmente accompagnava l’esecuzione dei
brani acustici di Dylan, viene interrotto da un boato terrificante
proveniente dal pubblico. Un boato capace metaforicamente di “scuotere le
finestre e far tremare i muri” evocati nel brano “The times they are
a-changin’”.
C’è un’ultima strofa da prendere ancora in considerazione, la seconda.
Venite, scrittori e critici, che profetizzate con le vostre penne
e tenete gli occhi ben aperti, l’occasione non tornerà.
Non parlate troppo presto perché la ruota sta ancora girando
e nessuno può dire chi sarà scelto .
A partire dagli anni ’50 una sorta di patto legava l’ambiente
giornalistico alle due agenzie di investigazione degli Stati Uniti
d’America, il Federal Bureau of Investigation (FBI) e la Central
Intelligence Agency (CIA).
Molto spesso veri e propri agenti si mascheravano da reporter con il
consenso delle testate giornalistiche. Altre volte le informazioni
venivano condivise per i motivi più disparati, dalla convinzione che le
due agenzie avrebbero potuto ricambiare in qualche altro modo la cortesia,
alla piena adesione ad un modello ideologico che vedeva il comunismo in
tutte le sue varianti come il nemico da combattere a tutti i costi. Lo
scopo era non soltanto raccogliere informazioni ma anche screditare il
Movimento . Un primo piano di lettura, anche se molto vago, potrebbe
essere proprio questo.
Essendo la seconda della canzone, la strofa potrebbe anche essere
un’introduzione alle invettive rivolte ai genitori e ai membri del
Congresso che si sviluppano poi nella terza e nella quarta strofa. Ma
potrebbe anche coinvolgere chi credeva di sapere esattamente dove stesse
il torto e dove la ragione, senza mai mettere in discussione le proprie
convinzioni.
Scrittori, giornalisti e professori. Il genere di persona che Dylan non
sarebbe mai voluto diventare, come dirà qualche mese più avanti in
un’altra sua canzone, “My back pages”: “Sarei diventato il mio stesso
nemico nel momento in cui avrei cominciato a pontificare” . Non affrettate
i vostri giudizi, avverte la strofa. Non siate così sicuri del fatto che
la vostra scelta sia quella giusta. E’ presto, la ruota sta ancora
girando.
Ma nel fare ciò Dylan cade vittima delle sue stesse paure. Diventa ciò che
in una certa misura disprezzava. “Bene e male, definivo questi termini in
maniera chiara, in qualche modo, senza dubbio. Ma ero così vecchio allora,
adesso sono molto più giovane” ammetterà sempre in “My back pages”.
Le canzoni di Bob Dylan non solo ci forniscono un quadro di quella che è
la società negli anni ’60, ma ci mostrano anche le radici e l’evoluzione
della musica negli Stati Uniti. Nei suoi brani si possono ritrovare le
tracce e le influenze di tutti quei generi che sono entrati a far parte
del patrimonio musicale americano: il blues, il country, le ballate
tradizionali, il gospel, il folk e il rock fino ad arrivare al pop. Nel
1985, terminate le registrazioni di “Empire Burlesque”, Dylan ingaggiò il
produttore Arthur Baker, attivo nell’ambito della dance music, per fare in
modo che il suo ultimo lavoro potesse somigliare ad un disco di Madonna o
Prince e raggiungere così i vertici delle classifiche.
Questo ci dà una dimostrazione di come la musica di Dylan non sia mai
rimasta ferma su canoni che con il tempo furono superati ma abbia sempre
cercato di evolversi, a volte con successo, altre volte meno.
Ho volutamente aperto il capitolo citando una frase proveniente da
“Changing of the guards”, il cambio della guardia, pubblicata nel 1978,
molto dopo il periodo preso in considerazione che va dal ’60 al ’65, anno
in cui, con il disco “Bringing it all back home”, Dylan comincia a
trascurare il folk e con esso la canzone di protesta.
Nel 1978 il Movimento è ormai praticamente scomparso, portandosi dietro la
genuinità e il romanticismo delle sue rivendicazioni. Anche Dylan non è
più lo stesso. Il suo primo disco, “Bob Dylan”, risale al 1962. I due
album successivi sono quelli che lo hanno portato alla ribalta come
cantore della protesta: “The freewheelin’ Bob Dylan” del 1963 e “The times
they are a-changin’” del 1964. Sempre del ’64 è “Another side of Bob
Dylan”, in cui l’assenza di brani di protesta è mitigata dalle sonorità
ancora completamente acustiche. La svolta elettrica avviene nel 1965 con
“Bringing it all back home”, cui fanno seguito “Highway 61 revisited”,
sempre del ’65, e “Blonde on blonde” del 1966. Poi è la volta di due
dischi country (“John Wesley Harding” del 1967 e “Nashville skyline” del
1969), una mediocre raccolta (“Self portrait”, 1970), due dischi
influenzati dalla sua vita di padre di famiglia (“New morning” del ‘70 e
“Planet Waves” del ‘74), intervallati dalla colonna sonora per il film
“Pat Garret & Bill the kid” (1973). Seguono due dischi che risentono della
crisi e della fine del matrimonio con la sua prima moglie: “Blood on the
tracks” del 1975 e “Desire” del 1976. Di canzoni di protesta neanche a
parlarne (se escludiamo “Hurricane”, contenuta in “Desire”).
Un anno dopo la pubblicazione di “Changing of the guards” si sarebbe
convertito al cristianesimo. E allora qual è il motivo di una citazione
così?
In cinquant’anni di carriera, Bob Dylan ha pubblicato 35 album in studio,
13 live, 15 raccolte e 60 singoli per un totale di, più o meno, 532
canzoni. In questo lunghissimo viaggio è però possibile rintracciare un
filo conduttore che lega il suo primo disco (“Bob Dylan”, 1962) all’ultimo
(“Tempest”, 2012). Parte da “The times they are a-changin’”, i tempi
stanno cambiando, e passa attraverso “Changing of the guards”, il cambio
della guarda. Per trovare l’approdo finale di questo ideale cammino
dobbiamo arrivare al 2001, anno in cui un suo brano vince il premio Oscar
come miglior canzone: il titolo è “Things have changed”. Le cose sono
cambiate.
Ma le cose sono cambiate davvero? E in quale misura?
E’ vero, e tragicamente innegabile, che alcuni mali sono duri a morire: la
disuguaglianza sociale, l’iniqua divisione dei beni, la povertà, la
disoccupazione, la violenza e la madre di tutte le disgrazie, la guerra.
Attraversano il tempo e lo spazio.
Ma c’è un dato di fatto su cui varrebbe la pena riflettere. L’attuale
Presidente degli Stati Uniti d’America, Barack Hussein Obama, oggi al
secondo mandato, è un afroamericano. E’ arrivato a ricoprire la più alta
carica americana dopo aver sconfitto nelle elezioni primarie del Partito
Democratico l’ex first lady Hillary Clinton. Una donna.
I tempi sono cambiati.
CAPITOLO PRIMO:
“LA VOSTRA MENTE E’ COPERTA DI POLVERE”
LA QUESTIONE RAZZIALE
Il 20 gennaio 2009, nel
suo discorso inaugurale come Presidente degli Stati Uniti d’America,
Barack Obama ricordò “quanto gli uomini e le donne libere possono ottenere
quando l’immaginazione si unisce a uno scopo comune e la necessità al
coraggio”, per poi proseguire: “A coloro che si aggrappano al potere
grazie alla corruzione, all’inganno, alla repressione del dissenso,
diciamo: “Sappiate che siete dalla parte sbagliata della Storia; ma che
siamo disposti a tendere la mano se sarete disposti a sciogliere il pugno”
.
L’importanza del Movimento, e dei movimenti, cui fa riferimento più o meno
celatamente Obama diviene palese nel suo primo discorso all’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite il 23 settembre 2009 a New York, quando
afferma di non poter mai dimenticare che se si trova lì, in quel momento e
con la carica di cui è investito è merito di una “costante ricerca di
unione più perfetta” che aveva avuto luogo in America.
Perché non è possibile apportare un cambiamento rivoluzionario e radicale
senza una disponibilità alla coesione vera e sincera e senza una visione
condivisa del mondo, che vada al di la degli illusori confini di razza,
religione e sesso. Ed è stato così anche per tutti quegli eventi che hanno
portato il Congresso a varare le leggi sui diritti civili e sul diritto al
voto.
L’obiettivo della Guerra di Secessione, combattuta tra gli Stati Uniti
d’America e gli Stati Confederati d’America tra il 12 aprile del 1861 e il
9 aprile del 1865, non era l’abolizione della schiavitù, bensì il destino
dell’Unione. La condizione degli afroamericani divenne una questione
cruciale in corso d’opera. Nel sud sbocciano così lo spiritual e il blues,
i mezzi espressivi in mano agli uomini di colore, liberi ma non ancora
emancipati all’interno di una società egemonizzata dai bianchi. Situazione
questa che andrà poi a costituire la base della lotta per i diritti
civili.
Il “Civil Right Act”, approvato nel 1964 durante la presidenza Johnson,
dichiarò illegale la segregazione su basi razziali nelle scuole, sul posto
di lavoro e nelle strutture pubbliche. Il Presidente potè apporre la sua
firma sulla legge il 2 luglio del 1964, quando le due assemblee del
Congresso approvano con 289 voti favorevoli e 126 contrari.
La paternità della legge viene comunemente attribuita al Presidente
Kennedy, tanto che lo stesso Johnson affermerà che il miglior modo per
onorare la memoria del presidente assassinato sia approvare e rendere
attiva questa legge da lui così tanto voluta. Ma la realtà dei fatti ci
dice che le mobilitazioni per mettere fine ad una delle pratiche più
disumane della storia dell’umanità abbiano mosso i primi passi già molto
tempo prima del 1963, anno in cui Kennedy tenne il suo discorso sui
diritti civili. Già nel 1954 la Corte Suprema, a seguito di una denuncia
del 1950 contro il distretto scolastico di Topeka (Kansas), aveva
dichiarato illegale la segregazione nelle scuole. Nonostante ciò, quattro
anni più tardi i distretti scolastici del Sud più conservatore che avevano
rinunciato alla segregazione erano poco più di un terzo .
Nel Nord del paese gli afroamericani avevano sviluppato una cultura
propria, condivisa e riconosciuta, e avevano prodotto esperienze proprie,
sia religiose che organizzative. Erano anche riusciti a interagire con i
sindacati nazionali e la vecchia sinistra americana. Margini di
collegamento tra le due differenti culture, seppur fluttuanti, c’erano.
Nel Sud, nonostante non mancassero solidi legami tra gli afroamericani, le
limitazioni e le discriminazioni su basi razziali costituivano però linee
invalicabili.
A complicare i già difficoltosi rapporti contribuiva l’ignoranza (o il
desiderio di ignoranza) nei confronti delle radici culturali e storiche
dell’altro, che accumunava tanto gli americani del Sud quanto quelli del
Nord, e che spingeva i mezzi d’informazione a ignorare, per quanto
possibile, le notizie sulle condizioni e sulle rivendicazioni dei neri in
America. Di fronte a questa situazione i movimenti antisegregazionisti
puntarono ad ottenere il massimo possibile di pubblicità e visibilità.
Molto spesso il fatto di volersi tenere alla larga da situazioni scomode
spinse i bianchi alla sottovalutazione delle energie, delle forze e della
quantità numerica di cui poteva godere il movimento che lottava per
l’emancipazione degli afroamericani.
Il segregazionismo mostra in pieno le contraddizioni della società
americana che concedeva ai bianchi il diritto di militare nel Ku Klux
Klan, ma negava ai neri il permesso di iscriversi alla National
Association for the Advancement of Colored People. Come afferma Bruno
Cartosio: “Siamo abituati a pensare alle democrazie contemporanee come a
“edifici” i cui abitatori condividano una parità di diritti. […] Per
converso, consideriamo democrazie imperfette e società più o meno
“arretrate” quelle in cui componenti della popolazione siano discriminate”
. Diviene allora inevitabile pensare che qualche ingranaggio all’interno
degli Stati Uniti d’America, portabandiera della democrazia e della
libertà, non funzionasse poi così tanto bene.
Queste contraddizioni sarebbero state ben presto messe in discussione e
forse travolte.
A lanciare questo avvertimento ci pensa anche Dylan. Il 28 agosto del
1963, a Washington, partecipa anche lui alla Marcia per i Diritti Civili.
E’ la manifestazione di Martin Luther King e dello storico discorso
ricordato ancora oggi come il discorso di “Io ho un sogno…”, che ancora
pesa come un macigno nelle coscienze di chi ha “la mente coperta dalla
polvere” , per dirla alla Dylan.
Il poco più che ventenne cantante sale sul palco, davanti a
quattrocentomila persone, avvicina la chitarra ai microfoni e senza un
minimo di esitazione, con voce ferma, comincia a cantare “When the ship
comes in”, quando la nave arriverà.
C’è la nave, c’è il mare, c’è il porto, ci sono le catene. E ci sono anche
i nemici. La metafora più chiara di così non poteva essere. Come in quasi
tutte le canzoni che scriveva in quegli anni, anche qui il tono di Dylan è
solenne, già dall’attacco (“Verrà il tempo quando i venti cesseranno e la
brezza smetterà di spirare” ), e i tanti riferimenti biblici (i mari che
si dividono e i nemici paragonati prima al “popolo del Faraone” e poi a
Golia) non fanno altro che sottolineare la dimensione profetica del brano.
La nave che avanza, decisa e gioiosa, è portata in trionfo dalla natura
tutta: i pesci, le onde, il sole sono tutti lì a salutarne il passaggio.
Diventa parte della natura stessa. Nel testo di Dylan i diritti civili,
l’uguaglianza e la giustizia sono cose naturali, come respirare. O almeno
dovrebbero esserlo.
La nave, i tempi, gli uomini non possono essere più tratti in inganno da
stereotipi o false verità:
E le parole che sono state usate per confondere la nave
non saranno capite mentre verranno dette
perché le catene del mare saranno spezzate nella notte
e sepolte nel profondo oceano .
Dylan descrive anche lo stupore che un evento così è in grado di generare
in chi si è addormentato su di un materasso fatto di privilegi. Sembra
anticipare la sorpresa e lo spaesamento che proveranno i cittadini bianchi
di New York un anno più tardi, quando il ghetto di Harlem esploderà in una
rivolta urbana senza precedenti:
“I nemici si alzeranno con ancora il sonno negli occhi
e dai letti si scuoteranno e penseranno di sognare
ma si pizzicheranno e grideranno e sapranno che è vero
…l’ora in cui la nave arriverà nel porto.
Allora alzeranno le mani dicendo: “faremo ciò che volete”
ma noi dalla prua grideremo: “I vostri giorni sono contati”.
E come il popolo del Faraone, saranno sommersi dalla marea
e come Golia saranno vinti” .
Qui Dylan sembra perdere di vista il carattere ecumenico e universalistico
della protesta in favore di un atteggiamento ben più duro. Tutto sommato
il testo risponde all’avvertimento di “The times they are a-changin’”. Se
i “nemici” sono stati così sordi da non sentirlo e così superficiali da
non capirlo, adesso che ne paghino le spese.
Ma non sarà Dylan a sottometterli, non può essere lui il boia: né come
artista, né tantomeno come uomo. Nelle sue canzoni ad atteggiarsi a
giudici e carnefici non saranno gli uomini come lui, sarà la storia.
Ma a che genere di soprusi e di violenze erano sottoposti gli
afroamericani? Cosa comportava, nei fatti, la segregazione e il
pregiudizio razziale?
Birmingham, Alabama. La domenica mattina del 15 settembre 1963, nel salone
seminterrato della 16th Street Baptist Church, ventisei bambini stanno
preparando il salmo per la funzione religiosa. Alle 10 e 22 un ordigno
dinamitardo, posizionato sotto la scalinata della chiesa da quattro membri
del Ku Klux Klan, esplode uccidendo quattro ragazzine, tre di 13 anni e
una di 14, e provocando 22 feriti.
Sette ore più tardi, durante una dimostrazione di piazza organizzata in
reazione al drammatico evento della mattina, Johnny Robinson, 16 anni, e
Virgil Wore, 13 anni, vengono uccisi: il primo dalla polizia, il secondo
da due bianchi rimasti non identificati. La polizia arresta Robert
Chambliss, membro del Ku Klux Klan, trovato in possesso di dinamite senza
averne il permesso. Verrà poi assolto dall’accusa di omicidio e multato
per detenzione illegale dell’esplosivo. Le indagini arrivano ad una svolta
solo nel 1971, quando il neo procuratore generale dell’Alabama Baxley
visionerà i file dell’ FBI e scoprirà che numerose prove a carico di
Chambliss non vennero utilizzate nel precedente processo. Nel 1977 Robert
Chambliss venne arrestato, processato e condannato al carcere a vita.
Morirà in prigione nel 1985. Nel 2000 vennero poi identificati anche gli
altri tre attentatori: Thomas Blanton e Frank Cherry vennero arrestati; il
terzo, Frank Cash, era morto nel 1994.
Ma forse per chi non ha vissuto quegli anni di discriminazioni e violenze,
è quasi impossibile immaginare come fosse. Come ricordava Martin Luther
King a Montgomery un conducente di autobus poteva ricevere il pagamento
anticipato della corsa da un afroamericano facendolo salire dall’ingresso
anteriore, salvo poi obbligarlo a scendere per risalire dall’ingresso
posteriore, con il rischio di rimanere a piedi se l’autista fosse
ripartito. L’episodio è un fatto minore rispetto alle bombe e alle
uccisioni, ma la sua dimensione quotidiana ci permette almeno di
inquadrare la situazione.
Sempre agli autobus è collegato uno degli episodi più celebri, se non il
più celebre, nella storia delle rivendicazioni afroamericane del
dopoguerra. In Alabama gli autobus erano divisi in tre settori: i primi
dieci posti erano riservati a bianchi, gli ultimi dieci ai neri.
Avanzavano così sedici posti “misti”, in cui un nero poteva sedersi ma con
l’obbligo di alzarsi e cedere il posto nel caso in cui fosse salito un
passeggero bianco. Il primo dicembre del 1955 Rosa Louis Parks venne
arrestata per aver violato le leggi sulla segregazione. Ritornando a casa
dopo il lavoro, si era seduta nel reparto riservato ai bianchi, rifiutando
poi di cedere il posto. Per questo è ricordata come “la donna che non si
alzò”. Il 5 dicembre del ’55 ebbe così inizio da parte della comunità
afroamericana il boicottaggio degli autobus che terminò solo il 21
dicembre del 1956. Il 13 settembre la Corte Suprema degli Stati Uniti
d’America aveva dichiarato illegale la segregazione razziale sugli
autobus.
Una dimostrazione di questa portata, che coinvolse 50.000 afroamericani,
non avrebbe potuto in nessun modo avere successo se una comunità non si
fosse dimostrata solidale e unita nel perseguire un obiettivo comune. Alle
spalle c’erano una serie di organizzazioni molto attive e importanti.
Una delle prime associazioni per la tutela degli afroamericani fu la
“National Association for the Advancement of Colored People” (NAACP). Fu
fondata a Baltimora, nel Maryland, il 12 febbraio 1909. Nei primi anni di
vita la guida dell’ Associazione era prevalentemente bianca. In quel
periodo un solo afroamericano faceva parte del comitato esecutivo. I suoi
scopi erano la parità dei diritti, l’uguaglianza nei tribunali, nelle
scuole e nei posti di lavoro, l’abbattimento dei pregiudizi razziali e la
tutela degli interessi delle persone di colore. Alla NAACP era iscritta
Rosa Parks.
Nel 1942 a Chicago era nato il “Congress of Racial Equality”. L’impegno
che si era assunto era quello della lotta alla segregazione razziale e
alle discriminazioni sul lavoro e nelle scuole attraverso la non violenza.
Affondava le sue radici nell’esperienza della disobbedienza civile
attraverso metodi pacifici promossa da Gandhi in India. Principalmente era
composta da volontari. Nel 1961 poteva contare su oltre 50 sezioni
distribuite su tutto il territorio americano. Con il passare degli anni,
dal punto di vista politico, sarebbe diventata un’organizzazione sempre
più conservatrice. Appoggiò la candidatura di Nixon nelle tornate
elettorali del 1968 e del 1972.
Altra associazione di rilievo nel panorama delle organizzazioni che
lottavano per l’emancipazione degli afroamericani e punto di riferimento
all’interno di esso era il “Women’s Political Council”. Sorto a
Montgomery, in Alabama, sempre con l’intento di contrastare la pratica
della segregazione, la sua storia fu strettamente intrecciata alla
questione dei trasporti pubblici: alcune delle battaglie più importanti
furono condotte contro il rifiuto delle compagnie di trasporti di assumere
autisti afroamericani e a favore di un miglioramento del tragitto
all’interno dei quartieri neri, dove le fermate erano ritenute troppo
distanziate l’una dall’altra. Altra battaglia fu quella per l’iscrizione
alle liste elettorali. Negli Stati Uniti gli afroamericani erano ammessi
al voto dopo aver superato un esame che richiedeva l’esatta conoscenza
della storia americana e il saper leggere e parlare correttamente la
lingua. Il Women’s Political Council aprì delle scuole per la preparazione
a questo esame.
Ma da sottolineare è anche l’apporto e l’impegno offerto dal mondo
religioso a favore di una causa così delicata e controversa all’interno
della contraddittoria società americana di quegli anni.
L’associazione forse più importante è la “Southern Christian Leadership
Conference”, fondata nel 1957 dopo due incontri, uno ad Atlanta in Georgia
e uno a New Orleans in Luisiana, e nata per essere una sorta di
“contenitore” per tutte le associazioni impegnate nella lotta per i
diritti civili. L’intento era quello di creare una confederazione per
rendere possibile la collaborazione tra i diversi movimenti, in modo da
rendere più visibili e maggiormente condivisibili le loro rivendicazioni.
Tra i promotori spicca il nome di Martin Luther King, che ricoprì la
carica di presidente del SCLC dal ‘57 al ‘68. Nella sua strategia era
fondamentale il maggior coinvolgimento politico e sociale delle chiese
nere.
Rimanendo all’interno del campo religioso, una battaglia ancor più
radicale è condotta tutt’oggi dalla “Nation of Islam”, nota anche per
essere stata sospettata dell’omicidio del suo ex leader Malcolm X. Sorta
nel 1930 a Detroit, è un movimento religioso che punta alla creazione di
una nazione autonoma di popolazione afroamericana e di religione islamica
all’interno degli Stati Uniti. Dopo un solo anno di vita la Nation of
Islam poteva contare su 25.000 seguaci. Si fonda sui cinque pilastri dell’
Islam: la professione di fede, la preghiera cinque volte al giorno,
l’elemosina, il pellegrinaggio a la Mecca e il digiuno durante il mese di
Ramadan. I suoi iscritti riconoscono in Wallace Fard Muhammad, il
fondatore della “Nation of Islam”, la figura del Mahdi, difensore della
fede e antagonista del male, il cui arrivo sulla terra anticipava la fine
dei tempi.
Nella seconda metà degli anni ’60 lo scontro divenne ancora più aspro. Nel
1966 nacquero in California le Pantere Nere (“Black Panther Party”),
un’organizzazione di orientamento marxista-leninista che vedeva e
interpretava le discriminazioni razziali in un’ottica di lotta di classe.
Le Pantere si opponevano alle logiche integrazioniste e rifiutavano
l’azione non violenta, che sostituirono con una “vigilanza” sull’operato
della polizia, in modo da impedirne gli abusi di potere nei confronti
della popolazione nera. Miravano alla totale libertà e
all’autodeterminazione della popolazione nera.
Ma come disse la storica attivista nera Ella Baker: “I giornalisti non
cercano l’attività organizzativa concreta… cercano quello che fa i
miracoli” . Ed è così che vennero alla ribalta dei media le due figure più
rappresentative del movimento di liberazione afroamericano: Martin Luther
King e Malcolm X, portatori di due opposte visioni sulla strategia da
adottare per risolvere il problema della discriminazione razziale. Il
teologo americano James Cone attribuisce la causa del diverso tipo di
approccio alla necessità di adattarsi ai contesti in cui essi furono
attivi: Martin Luther King parlava agli afroamericani cristiani del Sud
agricolo, Malcolm X si rivolgeva alla popolazione nera del Nord
urbanizzato, quella che viveva nei ghetti delle grandi città. Il resto lo
fecero i mezzi d’informazione: la mobilitazione basata sulla non violenza
promossa da Martin Luther King era ritenuta tutto sommato accettabile
dalla popolazione bianca; Malcolm X era dipinto come il portatore di un
odio razziale al contrario.
Il pastore protestante Martin Luther King nacque ad Atlanta il 15 gennaio
1929. Nel 1954 si trasferì a Montgomery, in Alabama, per guidare la chiesa
battista di Dexter Avenue. Qui entrò nella National Association for the
Advancement of Colored People e sempre qui giunse alla luce dei riflettori
quando la comunità afroamericana locale lo scelse come leader e portavoce
delle proprie rivendicazioni antisegregazioniste all’esplosione del caso
Parks. Non deve sorprendere che la scelta cadde proprio sul ventiseienne
pastore della Georgia: la leadership dei movimenti afroamericani nel Sud
degli Stati Uniti era affidata per la maggior parte alle guide religiose.
Nei 381 giorni di boicottaggio degli autobus King promosse trasporti
alternativi per gli afroamericani. Mentre offriva un passaggio ad alcune
persone sulla sua automobile, fu fermato con il pretesto di aver superato
il limite di velocità e arrestato.
Criticato anche all’interno della stessa comunità nera per il suo
maschilismo ed egocentrismo, Martin Luther King contribuì senza ombra di
dubbio alla crescita del Movimento e, di conseguenza, alla trasformazione
della società americana. Nel 1964 la sua parabola civile e politica
raggiunse il culmine con il conferimento del Premio Nobel per la pace.
Promotore in America della disobbedienza pacifica e civile, King conobbe
sulla propria pelle le discriminazioni e le violenze che, tanto nelle
manifestazioni quanto nella quotidianità, erano riservate ai neri,
cercando di combattere le ingiustizie e la disuguaglianza in conformità
con il suo sentire religioso e il suo ruolo di guida spirituale.
Il suo ridimensionamento all’interno di un clima di mobilitazione più
ampia e radicale fu dovuto ad una serie di fattori. Il fronte della
protesta si stava spostando sullo spinoso campo della guerra in Vietnam.
Ma, agli occhi del Movimento, Martin Luther King aveva barattato il
riconoscimento delle istanze afroamericane con il silenzio sul conflitto.
D’altro canto, la sua opposizione ormai tardiva alla guerra gli allontanò
le simpatie della stampa.
Anche l’apertura di un novo fronte di battaglia che si era aperto nei
grandi centri urbani del Nord degli Stati Uniti aveva indebolito la sua
leadership: la non violenza era ormai considerata una pratica superata e
un’arma non più sufficiente a vincere lo scontro.
I suoi discorsi nel corso degli anni, soprattutto dopo il trasferimento a
Chicago nel 1966, diventarono, se non disillusi, sicuramente carichi di
amarezza.
Martin Luther King morì assassinato a Memphis il 4 aprile del 1968 .
L’esecutore materiale dell’omicidio fu riconosciuto nella persona di James
Earl Ray, arrestato all’aeroporto Heathrow di Londra, dopo esser riuscito
a fuggire in Gran Bretagna. Nel 1993 il ristoratore Loyd Jower ammise in
un’intervista l’esistenza di una cospirazione nata con lo scopo di
uccidere King che coinvolgeva anche le agenzie governative. Ritenuto anche
esso coinvolto, nel 1999 fu costretto a pagare una multa.
L’esperienza di vita e di lotta di Malcolm X fu diversa. Nato il 19 maggio
del 1925 a Omaha, a seguito della morte del padre e della malattia mentale
della madre la famiglia si disperse e Malcolm, abbandonati gli studi,
trascorse la giovinezza lavorando come lustrascarpe e cameriere, prima di
dedicarsi ad attività illegali come lo spaccio della droga. Arrestato nel
’46, uscì di prigione nel ’52. In prigione si era avvicinato al movimento
chiamato “Nation of Islam”, che promuoveva la creazione di una nazione
afroamericana di fede islamica. In breve tempo divenne una figura di
spicco all’interno del movimento e il braccio destro di Elijah Muhammad,
numero uno della NOI.
I suoi discorsi erano aggressivi, incentrati sulla rabbia per la
condizione degli afroamericani e dettati dalla sua visione politica,
culturale e religiosa non integrazionista e quindi poco incline alla
conciliazione. Malcolm viene dalla strada, vive nel ghetto, è stato in
prigione: i neri del Nord si riconoscono in lui e in quello che dice.
A seguito dei numerosi scontri con Elijah e del divieto di parlare in
pubblico impostogli a seguito di alcune sue dichiarazione controverse
riguardo la Marcia su Washington e l’omicidio del Presidente Kennedy,
l’allontanamento dalla Nation of Islam divenne inevitabile (1964). Malcolm
X comincia ad elaborare teorie autonome, compresa quella che non prevede
più la religione come elemento unificante della popolazione nera,
nonostante la conversione all’islamismo ortodosso. Ma invece di
concentrarsi sull’evoluzione del suo pensiero politico, i media
preferirono sottolineare gli scontri con la sua vecchia associazione,
cercando così di indebolire il fronte islamico.
Fondamentali nella sua svolta ideologica furono le esperienze in Africa e
in Medio Oriente, dove Malcolm X venne a contatto con i rivoluzionari
bianchi che lottavano per la decolonizzazione e l’autodeterminazione.
Allargò allora le sue vedute ai movimenti antisegregazionisti cristiani
del Sud e a quelli politici e studenteschi che si andavano formando in
tutto il paese. Affermò la necessità di collocare la lotta per i diritti
civili degli afroamericani all’interno di quella più universale per i
diritti umani, internazionalizzando così la battaglia per renderla più
efficace.
Malcolm X morì assassinato a New York il 21 febbraio 1965. Furono
arrestati tre membri della NOI, ma uno solo ammise il delitto .
Nonostante la notevole distanza tra le posizioni di Malcolm X e quelle di
Martin Luther King, si può notare una certa convergenza anche se non si
tradusse mai in una condivisa unitarietà di visione. Dall’omicidio di
Malcolm, proprio mentre questo stava rivedendo la rigidezza delle sue
posizioni a favore di un’apertura ai movimenti “esterni”, le istanze di
Martin Luther King subirono una radicalizzazione. Lo stesso pastore
protestante arrivò ad affermare pubblicamente che la separazione tra neri
e bianchi poteva diventare una fase di transizione necessaria per trattare
da un maggior punto di forza in vista di una competa integrazione.
1.1 LA TRISTE MORTE DI HATTIE CARROLL.
Se l’aneddotica e la memorialistica sono ricche di episodi che
testimoniano le violenze e i soprusi commessi ai danni della popolazione
nera degli Stati Uniti, tre storie riguardanti le ingiustizie di cui erano
vittime gli afroamericani ce le racconta anche Bob Dylan.
Registrata il 23 ottobre 1963, “The lonesome death of Hattie Carroll”
compare nel disco “The times they are a-changin’” . L’argomento e il tono
della canzone appaiono chiari sin dal primo verso della prima strofa:
William Zantzinger uccise la povera Hattie Carroll
con un bastone che fece ruotare attorno al suo dito dall’anello di
diamante
ad un party dell’alta società in un hotel di Baltimora .
Dylan attacca diretto, senza perdersi in introduzioni che potrebbero
affievolire la drammaticità dell’evento. Siamo a Baltimora, il luogo in
cui avviene il tutto è l’Emerson Hotel. E’ la notte tra l’8 e il 9
febbraio del 1963.
Il riferimento all’anello di diamante e al party dell’alta società ci
fanno già capire qual è la dimensione sociale di William Zantzinger, la
cui descrizione continua nella strofa successiva:
William Zantzinger, che a 24 anni
possedeva una fattoria di tabacco di 600 acri
con ricchi genitori che lo curavano e lo proteggevano
e relazioni privilegiate con l’ambiente politico del Maryland,
reagì al suo arresto con una scrollata di spalle .
William Zantzinger, 24 anni, famiglia ricca, proprietario di una
piantagione di tabacco. Fin qui nulla di strano, è il tipico ritratto del
figlio di una famiglia benestante. Ma due particolari cominciano a rendere
la narrazione un po’ inquietante: le relazioni con il mondo politico e la
scrollata di spalle all’arresto. Perché quel riferimento alle “relazioni
privilegiate”? E come giustificare l’atteggiamento spavaldo e non curante
davanti all’arresto? Dylan lascia il tutto in sospeso, riprenderà il
discorso più tardi. Per il momento ci spiega chi era la vittima:
Hattie Carroll era una cameriera della cucina.
Aveva 51 anni ed aveva dato alla luce 10 bambini
che servivano i piatti e portavano via la spazzatura
e non aveva mai parlato con le persone sedute a tavola
ma semplicemente puliva gli avanzi
e svuotava i posacenere su un intero altro piano.
Fu uccisa da un colpo, abbattuta da un bastone
che attraversò l’aria e piombò nella stanza,
destinato e determinato a distruggere.
E non aveva fatto niente a William Zantzinger .
Hattie Carroll, 51 anni, madre di 10 figli, cameriera, puliva gli avanzi
da tavola e svuotava i posacenere. Non aveva neanche mai parlato prima a
William Zantzinger, il quale la uccide con un colpo di bastone. Da quanto
dice il nono verso della strofa possiamo dedurre che Zantzinger avesse
sferrato il colpo per far male. Non è dato sapere se la sua volontà fosse
quella di uccidere la Carroll. Non un accenno al colore della pelle della
donna. Hattie Carroll è nera, ma questo Dylan non lo dice. Concentra la
sua attenzione sulla caratterizzazione sociale dei personaggi. Siamo nel
1963, le “Pantere Nere” nasceranno solo nel 1966. Dylan, che di certo
comunista non è, sembra anticipare la svolta ideologica dei movimenti
afroamericani per la liberazione. Proseguiamo:
Nell’aula giudiziaria il giudice colpì con il suo martello
per dimostrare che era tutto giusto e che le corti erano all’altezza
e che le leggi dei libri non potevano essere influenzate
e anche i potenti vengono appropriatamente trattati
una volta che la polizia li ha catturati .
Il giudice condanna William Zantzinger, ma la pena è ridicola:
“Fissò in viso la persona che aveva ucciso senza motivo
e senza nessun preavviso.
E parlò attraverso il mantello, con tono profondo
e con severità comminò, per pena e pentimento,
a William Zantzinger una condanna di sei mesi” .
Sei mesi. Tanto valeva la vita di Hattie Carroll, nera, 51 anni, madre di
10 figli, cameriera. Di quei sei mesi, William Zantzinger ne scontò poi
solamente tre uscendo per buona condotta.
A onor del vero, le cose andarono un po’ diversamente da come le ha
raccontate Dylan. William Zantzinger quella sera è ubriaco. Si diverte a
dar fastidio alla gente. Vede passare una cameriera, la ferma e le ordina
di portarle da bere. Hattie Carroll, che soffre anche di disturbi
cardiaci, in quel momento ha le mani occupate. Si rivolge a Zantzinger
dicendogli: “Aspetti un minuto, signore”. Zantzinger ha una reazione
violenta e rabbiosa, scatta in piedi e grida: “Quando ordino qualcosa me
lo devi portare, e pure di corsa… lurida negra”. Dopodiché la colpisce con
un bastone (non uno di quelli pesanti, ma un bastone da passeggio), prima
sul collo e poi sulla schiena. Hattie Carroll ha un malore. Viene portata
al Baltimore Mercy Hospital. Zantzinger reagisce male ai poliziotti
accorsi per interrogarlo e viene arrestato per resistenza a pubblico
ufficiale. Viene rilasciato dopo aver pagato una cauzione di 600 dollari.
La mattina dopo, alle 9 e 15, Hattie Carroll muore. Nel referto medico,
compilato frettolosamente, non è specificato se il decesso sia stato
causato dai colpi ricevuti o da un arresto cardiaco. William Zantzinger
viene arrestato dopo qualche giorno e condannato per omicidio
preterintenzionale. La condanna fu effettivamente di 6 mesi anche se, come
già detto, ne scontò solo tre. Pagò 25.000 dollari alla famiglia di Hattie
Carroll.
Dirà di Dylan: “E’ un buono a nulla, una feccia della società. Avrei
dovuto denunciarlo e mandarlo in galera”.
Che la situazione fosse abbastanza controversa ne era cosciente lo stesso
Dylan: come ci fa notare il critico letterario britannico Christopher
Ricks, il cantautore americano, nel primo verso, non usa il termine
“murdered” (assassinò), bensì “killed” (uccise). La differenza è sottile
ma c’è, e sta nel fatto che “killed” non necessariamente implica
l’intenzionalità .
William Devereux Zantzinger muore il 10 gennaio 2009, all’età di 69 anni.
Nel 1991 venne arrestato per aver fatto pagare affitti esorbitanti su
appartamenti fatiscenti sprovvisti di servizi igienici e acqua potabile e
che da cinque anni non erano più di sua proprietà.
La pena che dovette scontare in questo caso fu più lunga della condanna
per l’omicidio di Hattie Carroll.
1.2 LA MORTE DI EMMETT TILL.
La triste vicenda di Emmett Louis Till era nota a tutti quanti in America
. L’omicidio avvenne nell’agosto del 1955, ben sette anni prima che Dylan
scrivesse “The death of Emmett Till”. L’idea per la canzone gli venne
suggerita dalla sua ragazza dell’epoca, Suzie Rotolo, attivista del
Congress of Racial Equality. Occorreva una canzone da poter trasformare in
un inno da cantare nelle manifestazioni del CORE. Diciamolo chiaramente:
mentre “The lonesome death of Hattie Carroll”, anche per la scelta
coraggiosa di fare nomi e cognomi dei protagonisti, entra di diritto tra
le canzoni più toccanti scritte da Dylan, “The death of Emmett Till” è
poco più che un esercizio di retorica. Come già detto in precedenza, e
confermato più volte dallo stesso Dylan, non sappiamo esattamente quanto
fosse veritiera la sua adesione al Movimento, né se il coinvolgimento
emotivo con il quale si accostò alla storia di Emmett Till fosse sincero.
Per questo motivo alcune sue parole sembrano quasi una forzatura,
soprattutto quelle presenti nelle ultime due strofe.
Tirando le somme, non è certo una delle sue migliori canzoni, cosa che
ammetterà lo stesso Dylan: “Ho scritto una canzone su Emmett Till che in
tutta onestà era una vaccata [“a bullshit song”]. I miei motivi per farlo
erano fasulli” .
Sincero o no, questo brano è un’altra testimonianza delle discriminazioni
a danno degli afroamericani compiute in quel periodo.
Avvenne giù nel Mississippi non molto tempo fa
quando un ragazzo di Chicago entrò attraverso una porta del Sud.
La spaventosa tragedia di questo ragazzo la ricordo ancora bene,
il colore della sua pelle era nero, il suo nome era Emmett Till .
La differenza tra “The lonesome death of Hattie Carroll” e “The death of
Emmett Till” si manifesta subito: mentre nella prima i due versi iniziali
ci proiettavano violentemente nella dimensione della canzone (“William
Zantzinger uccise la povera Hattie Carroll”), in questa Dylan fa una sorta
di preambolo introducendo immediatamente la componente razziale del
crimine (“il colore della sua pelle era nero”) e lo sviluppo tragico della
vicenda (“la spaventosa tragedia di questo ragazzo”), mentre le modalità
secondo le quali venne commesso l’omicidio vengono narrate nella seconda e
nella terza strofa.
Degli uomini lo portarono in una baracca e cominciarono a picchiarlo,
dissero di avere una buona ragione per farlo ma non ricordo quale era.
Lo torturarono e gli fecero delle cose troppo malvagie per essere
menzionate.
Ci furono anche urla che provenivano dalla baracca e risa nella strada.
Poi fecero rotolare il suo corpo giù da una baia
Sotto una pioggia rosso sangue
e lo buttarono nelle acque profonde
perché la smettesse di gridare per il troppo dolore.
Il motivo per cui lo uccisero, e sono sicuro che sia la verità,
fu solo per divertimento e per vederlo morire lentamente .
In realtà Dylan ricorda benissimo il motivo per cui Emmett Till fu ucciso.
La storia era nota a tutti, Dylan compreso.
I fatti andarono così. Emmett Till era nato a Chicago il 25 luglio del
1941. Era coetaneo di Dylan. Aveva solo 14 anni quando fu mandato con il
cugino a Money, nel Mississippi, per trascorrere le vacanze in casa di un
parente. Era in un negozio di alimentari, dove si era recato per comprare
caramelle, che si vantava con alcuni sui amici di avere una ragazza bianca
a Chicago. Gli amici, che non credevano a ciò che Emmett raccontava, gli
chiesero di dare prova della sua abilità con le donne andando a chiedere
alla proprietaria del negozio di uscire con lui. Quando ciò avvenne, la
donna cominciò a gridare. Il cugino di Emmett, intuendo che la situazione
poteva volgere al peggio, lo porto vià, ma prima di uscire Emmett lanciò
un fischio alla donna.
Saputo dell’accaduto, il ventiquattrenne marito Roy Bryant, spalleggiato
dal fratellastro, decise di dare una lezione al ragazzo. Rapirono Emmett,
lo portarono in una baracca e lo picchiarono. Ma il quattordicenne
ragazzino di Chicago, al contrario di quanto racconta Dylan, non gridò e
non diede nessun tipo di soddisfazione ai due rapitori, facendo montare
così in loro la rabbia. È a questo punto che la situazione precipita.
Prima gli cavano un occhio, poi gli sparano in testa. Per completare
l’opera, gli legano un peso attorno al collo con del filo spinato e lo
gettano nel fiume Tallahatchie. A differenza di quanto farà in “The
lonesome death of Hattie Carroll”, qui Dylan decise di non fare i nomi dei
due assassini.
Due fratelli confessarono di aver ucciso il povero Emmett Till
ma nella giuria ci furono uomini che aiutarono i due
a commettere il loro orribile delitto
e così il processo fu una messinscena, ma a nessuno sembrò importare.
Lessi il giornale del mattino
ma non sopportai di vedere i fratelli sorridenti
mentre scendevano le scale del tribunale.
La giuria li giudicò innocenti e i due fratelli furono messi in libertà .
Roy Bryant e il fratellastro dichiararono allo sceriffo di aver lasciato
in libertà Emmett dopo essersi resi conto che non era lui la persona che
cercavano. I due furono processati e quindi assolti. La giuria era
composta da 12 bianchi che impiegarono poco più di un’ora per emettere il
verdetto.
Tempo dopo, rassicurati dal fatto che negli Stati Uniti non era possibile
per legge giudicare due volte la stessa persona per il medesimo reato, i
due fratelli confessarono l’omicidio ad un giornalista, dimostrando così
come anche i processi potevano essere falsati dai pregiudizi razziali.
1.3 “SOLO UNA PEDINA NEL LORO GIOCO”: L’OMICIDIO DI MEDGAR EVERS.
Nato a Decatur, nel Mississippi, il 2 luglio 1925, Medgar Evers è un’altra
figura di primo piano all’interno del movimento per i diritti civili.
Afroamericano, membro del “Regional Council of Negro Leadership”, durante
il secondo conflitto mondiale aveva combattuto nell’esercito degli Stati
Uniti d’America. Organizzò il boicottaggio delle stazioni di servizio che
non facevano utilizzare i loro bagni alle persone di colore e dei negozi
che vendevano esclusivamente ai bianchi. Denunciò la Mississippi
University quando vide respinta la sua domanda di ammissione. Fu
assassinato il 12 giugno del 1963 davanti alla porta di casa. A sparare il
colpo, nascosto dietro un cespuglio, fu De La Beckwith, membro del Ku Klux
Klan, arrestato l’anno seguente. Le due diverse giurie che si occuparono
del caso, interamente composte da bianchi, non erano riuscite a
raggiungere il verdetto. Dopo trent’anni passati in liberta, De La
Beckwith venne nuovamente fermato nel 1994, quando il caso fu riaperto
sulla base di nuovi sviluppi nell’indagine. Giudicato colpevole, fu quindi
condannato all’ergastolo.
Sarà che la canzone “Only a pawn in their game” è contenuta nel disco “The
times they are a-changin’”, una pietra miliare nell’ambito della canzone
di protesta, ma la versione dei fatti che Dylan dà dell’accaduto è davvero
convincente, non solo per la schiettezza e l’immediatezza delle immagini,
ma anche perché, come vedremo, la canzone riesce a trascendere l’evento
(già di per se drammatico) e condurre la discussione su un piano più ampio
e universale.
Una pallottola da dietro un cespuglio
prese il sangue di Medgar Evers.
Un dito azionò il grilletto contro di lui,
un calcio di pistola sparì nel buio,
una mano fece esplodere la scintilla,
due occhi presero la mira dietro la mente di un uomo.
Ma non può essere incolpato:
è solo una pedina nel loro gioco .
Come in “The lonesome death of Hattie Carroll”, la canzone ci mette sin da
subito davanti al fatto compiuto. Due versi, secchi, concisi e chiari.
Dopodiché elenca una serie di azioni che risultano quasi un rituale: mossa
per mossa, azione per azione, secondo per secondo, compila una lista dei
gesti dell’assassino. Tutto è abbastanza schematico. Quasi meccanico. Ma
perché? Dylan ce lo spiega subito: chi ha premuto il grilletto non è altro
che una pedina. Una pedina nelle mani di chi? La strofa seguente chiarisce
il tutto.
Un politicante del Sud predica ai poveri bianchi:
Avete più dei negri, non vi lamentate.
Siete migliori di loro, siete nati con la pelle bianca.
Ed il nome dei negri è usato per il guadagno del politicante,
per la sua scalata al potere.
Ed il povero bianco rimane sull’ultimo vagone del treno .
I politici a favore della segregazione razziale agiscono per preservare i
loro privilegi e la loro posizione all’interno della società. Impongono il
mantenimento della distanza dalle comunità afroamericane facendo leva
sulla superiorità della popolazione bianca. E ancora:
Gli sceriffi, i soldati, i governatori sono pagati,
così come i Marshals e i poliziotti.
Il povero uomo bianco diventa uno strumento nelle loro mani.
Gli viene insegnato a scuola, sin dall’inizio, come una regola,
che le leggi sono con lui, per proteggere la sua pelle bianca,
per tenere alto il suo odio .
Poliziotti, sceriffi, soldati. Sono loro a fomentare l’odio razziale. Sono
loro che dettano la linea e “radiocomandano” ogni mossa. Il bianco che si
fa sottomettere non ha ancora capito che lui non avrà nessun tornaconto
personale. Gli altri vengono pagati, ci guadagnano, scalano la gerarchia
sociale e conquistano il potere. Chi commette il gesto finale, in questo
caso l’omicidio di Medgar Evers, non è altro che una marionetta a cui
“viene insegnato come far parte del branco”.
Oggi Medgar Evers è stato seppellito,
a causa del proiettile che ricevette.
Lo hanno calato giù come un re.
Ma quando il sole opaco tramonterà su colui che sparò con quell’arma,
lui vedrà sulla sua tomba, sulla pietra che rimane,
scolpito vicino al suo nome, il suo semplice epitaffio:
SOLO UNA PEDINA NEL LORO GIOCO .
Moto bella è l’immagine di chiusura che Dylan sceglie per il suo racconto:
il contrasto tra la sepoltura di Medgar Evers, cui viene tributato l’onore
che merita, e l’anonima sepoltura che riceverà il suo assassino. Uno dei
tanti. Solo una pedina nel loro gioco.
Vale la pena fare un confronto tra quest’ultima strofa e i versi di
chiusura che un altro cantautore scelse per raccontare il suo modo di
vedere e interpretare l’accaduto, Phil Ochs:
“Lo deposero nella tomba mentre la tromba risuonava chiara.
Lo seppellirono quando la vittoria era ormai vicina.
Mentre aspettavamo il futuro e la libertà in tutto il paese,
il paese guadagnò un assassino e perse un uomo” .
Anche Ochs, come Dylan, lascia intendere quanto grande sia lo spessore
dell’uomo assassinato, rendendo la sua sepoltura simile agli ingressi
trionfali degli imperatori nell’antica Roma. Ma a differenza di Dylan,
punta il dito contro il bersaglio più semplice, l’assassino.
Di contro, Bob Dylan non si limita all’episodio specifico, ma allarga
ulteriormente la visione dei fatti: trova il coraggio per andare a
criticare il sistema tutto, che difende con i suoi silenzi le sue mal
celate simpatie.
I tre episodi narrati nelle canzoni di Dylan danno la dimensione di come
il problema della discriminazione razziale venisse percepito dalla
popolazione bianca. Il brano su Medgar Evers, descrivendo un omicidio
mirato, lascia intendere che la questione razziale aveva delle conseguenze
sul piano politico: l’emancipazione degli afroamericani, e la loro
conseguente integrazione nella società, avrebbe comportato una serie di
stravolgimenti sociali che l’èlite bianca non era disposta ad affrontare.
Gli afroamericani venivano quindi visti come una minaccia per l’equilibrio
interno degli Stati Uniti.
La canzone su Hattie Carroll collega l’omicidio della donna alla
convinzione di una diversità, sociale e biologica, tra bianchi e neri: i
primi governano e impartiscono comandi, i secondi eseguono gli ordini.
Il caso di Emmett Till può essere ricondotto alla vendetta di un marito
geloso, ma il trattamento brutale riservato ad Emmett e la mancanza di
conseguenze sul piano penale possono essere spiegate solo riconoscendo che
la società americana negli anni del segregazionismo era fortemente
condizionata dai pregiudizi razziali.
CAPITOLO SECONDO:
“DI NUOVO BLOCCATO A
MOBILE CON IL BLUES DI MEMPHIS” IL PATRIMONIO MUSICALE AMERICANO
NELLE CANZONI DI DYLAN
Il 29 maggio 2012, nel corso di una cerimonia alla Casa Bianca, Bob Dylan
ha ricevuto dalle mani del presidente Barack Obama la Medaglia
Presidenziale della Libertà, la più alta onorificenza civile statunitense.
Basterebbe questo per capire quanto la figura di Dylan sia stata
importante nella storia culturale americana. Ma vale la pena ricordare di
come Dylan sia stato, ed è tutt’ora, un punto di riferimento per tutti i
cantautori delle generazioni successive alla sua. I suoi brani sono stati
interpretati da numerosi esponenti della canzone d’autore di tutto il
mondo, come Bruce Springsteen e Joan Baez, il canadese Neil Young, gli
italiani De Andrè e De Gregori, l’inglese Eric Clapton e lo scozzese Mark
Knopfler. Molte rock band hanno edificato le loro carriere utilizzando
come pilastri i testi di Dylan (su tutti i Byrds, ma anche i Grateful
Dead).
Ma il gioco delle influenze coinvolge direttamente lo stesso Dylan, il cui
rapporto con la cultura musicale americana è decisamente intenso. Il
dialogo che ha con la tradizione blues risulta molto fitto, e lo si può
notare tanto a livello musicale quanto a livello testuale. Il rapporto con
le radici del folk è invece particolare. Negli anni del “revival” Dylan
non è l’unico a confrontarsi con il repertorio tradizionale (dalle canzoni
degli anni ’20 e ’30 fino a risalire alle ballate di origine inglese).
Stringe così forti legami con figure storiche della musica folk (Woody
Guthrie) e con i giovani autori che come lui cominciano ad affacciarsi
sulle scene (Dave Van Ronk).
Dylan lascerà a tutti qualcosa, e da tutti prenderà qualcosa, inserendosi
così nella tradizione dell’eterno gioco di ammirazione, prestiti e furti
che da sempre caratterizza il rapporto con la musica delle radici.
2.1 DYLAN E IL BLUES.
Bukka White, uno dei grandi blues singer attivi tra gli anni ’30 e gli
anni ’70, una volta dichiarò: “Oggi puoi avere il blues anche mentre sei
seduto a mangiare, ma il blues è stato creato camminando dietro un mulo ai
tempi della schiavitù” . Questa affermazione può essere ritenuta vera solo
in parte. Se è un dato innegabile il fatto che lo spirito con cui il blues
veniva suonato e cantato traeva origine dall’esperienza della schiavitù,
resta comunque un’impresa ardua individuare con esattezza il momento
esatto in cui nacque e prese piede quello che è stato il fenomeno più
influente della storia musicale contemporanea.
E’ un’operazione estremamente difficile poiché, oltre al fattore puramente
cronologico, entrano in gioco componenti che rendono il quadro decisamente
più complesso, come ad esempio la religiosità, che nei blues si articola
su una direttrice opposta rispetto agli spiritual: non si cerca più
l’incontro con il Signore per trovare conforto, bensì si fugge dal diavolo
giunto a reclamare il prezzo del successo.
Dopo l’abolizione della schiavitù la questione fondamentale non è più come
ottenere la libertà (formalmente acquisita), ma come sopravvivere in una
società egemonizzata dai bianchi e che ancora nutre pregiudizi nei
confronti degli afroamericani.
Se usiamo come spartiacque le prime registrazioni databili attorno il
1910, possiamo dire che il blues si sviluppò quando gli afroamericani si
resero conto che al di fuori delle piantagioni il messaggio evangelico
degli spiritual non era più sufficiente a garantire la speranza di un
futuro migliore.
L’amore drammatico, l’alcool, la droga, l’esperienza del carcere, la
solitudine e lo spettro della morte divennero nel blues tematiche centrali
attraverso cui traspariva la sofferenza delle comunità afroamericane che,
nonostante l’abolizione della schiavitù, faticavano ad integrarsi.
L’influenza del blues è rintracciabile in quasi tutti i generi musicali
che hanno egemonizzato il mercato discografico del XX secolo: dal rock &
roll al folk, dal rap all’hard rock fino ad arrivare al pop, sono
moltissimi gli artisti che hanno subito il fascino dello stile compositivo
dei bluesman attivi tra l’inizio del secolo e gli anni ’60.
Tra questi anche lo stesso Dylan. Nelle note di presentazione scritte
dalla Columbia per l’interno della copertina del suo primo disco, “Bob
Dylan”, del 1962, appare subito chiaro che gli interessi del giovane
autore si sono spostati dal rock & roll, la vera passione adolescenziale,
al blues:
Dylan è uno dei più irresistibili cantanti di blues bianchi che abbiano
mai inciso un disco. […] Alle volte egli utilizza per la sua chitarra un
coltello da cucina o persino il cappuccio di un rossetto, conferendole
così il suono metallico dei primi bluesman. La sua acuta, sferzante ed
abile armonica viene utilizzata alle volte nello stile di Walter Jacobs,
che suona con la band di Muddy Waters a Chicago, o nello stile evocativo
si Sonny Terry .
Proprio in questo disco è contenuta una cover di “Fixin’ to die blues” di
Bukka White, che ha fatto vivere al blues singer una seconda giovinezza
musicale.
Già nel 1961 il critico musicale Robert Shelton scriveva così di Bob
Dylan:
La voce del signor Dylan è tutto fuorchè bella. Egli sta consapevolmente
cercando di ricostruire la ruvida bellezza di un lavoratore dei campi del
Sud che canticchia meditabondo .
Il fatto che Dylan cercasse di dare alle sue composizioni venature
decisamente blues risulta evidente soprattutto nel periodo appena
successivo alla svolta elettrica, da “Bringing it all back home” (1965) a
“Blonde on Blonde” (1966) passando per “Highway 61 revisited” (1965),
quando comincia ad ingaggiare per le registrazioni dei sui dischi numerosi
musicisti provenienti dal panorama musicale blues. Due nomi su tutti: Mike
Bloomfield, chitarrista della Paul Butterfield Blues Band, che aveva
suonato a Chicago con Muddy Waters e Howlin’ Wolf, e il batterista Sam
Lay, anche egli membro della Paul Butterfield Blues Band, nato a
Birmingham in Alabama, che come Bloomfield era cresciuto musicalmente a
Chicago suonando al fianco di gente come Little Walter e Howlin’ Wolf.
Ma la convergenza di Dylan verso il blues non riguarda solo la dimensione
musicale, ma anche e soprattutto quella testuale. Nei suoi testi si
possono infatti rintracciare caratteri tipici del modo di scrivere proprio
dei bluesman. Dylan assimila i modelli e li rielabora a suo modo,
mimetizzandoli per adattarli alle tematiche e alle necessità dei tempi.
L’esempio di come Dylan faccia sua la lezione del blues ci viene dato da
un brano che con il blues, musicalmente parlando, non ha nulla a che
spartire: “Don’t think twice, it’s all right”, contenuta in “The
freewheelin’ Bob Dylan” del 1963.
E’ vero che il folk e il blues hanno molto in comune per quanto riguarda
le tematiche, poiché la sfera sociale e umana dentro cui si sviluppano
sono praticamente le stesse, ma in questa canzone si manifesta palesemente
il debito che Dylan ha nei confronti della tradizione blues con cui è
venuto in contatto nel corso del tempo.
Se, come disse B.B. King, “Il blues è quando un uomo perde la sua donna,
perché a quei tempi l’uomo non aveva nient’altro” , Dylan dimostra di
condividere appieno questa visione del rapporto di coppia e, attraverso
essa, del mondo appena scoperto da un ragazzo di vent’anni arrivato a New
York senza null’altro che la sua chitarra.
La canzone è stata scritta nel 1962, mentre Suzie Rotolo si trovava in
Italia. Dylan, che non sembra in grado di vivere serenamente questo
periodo di lontananza, scrive una canzone che, per via del sincero
coinvolgimento emotivo, lascia trasparire tutta la sua sofferenza
attraverso il rancore:
Non serve stare seduta a chiederti perché, babe,
non è il caso, comunque.
E non serve stare seduta a chiederti perché, babe,
se non capisci ancora.
Quando il tuo gallo canterà all’alba
guarda fuori dalla tua finestra e me ne sarò andato.
Tu sei il motivo per il quale vado via,
ma non pensarci, va tutto bene .
Già dalla prima strofa si può riconoscere il riferimento al linguaggio del
blues. Leggendo le biografie dei vecchi bluesman, ci si può rendere conto
di come tutti i problemi relativi al rapporto di coppia hanno una buona
percentuale delle loro ragioni di esistere nel fatto che l’uomo, invece di
impegnarsi per mantenere economicamente la famiglia, usciva per suonare
nei locali o per ubriacarsi. Ma quando i problemi riguardanti la sfera
sentimentale si traducevano in musica, il quadro che ne veniva fuori era
completamente diverso e le situazioni venivano rovesciate. Come afferma
Alessandro Carrera, “dalla lingua del blues (Dylan) aveva imparato anche
troppo bene l’arte di ritorcere i propri torti contro l’altro” . Leggendo
della storia tra Dylan e Suzie Rotolo, ci si può rendere conto di come
tutte le mancanze che il cantautore rinfaccia alla ragazza in realtà
potrebbero benissimo provenire dalla parte opposta.
Una volta ho amato una donna,
una bambina mi sono detto,
le ho dato il mio cuore ma lei voleva la mia anima.
Ma non pensarci, va tutto bene .
In termini espressivi la canzone dice nulla di nuovo. Tutto è stato già
detto, magari in forme diverse, ma la sostanza è sempre la stessa. Nella
lingua del blues questi sono quasi degli standard. Prendiamo ad esempio
“Ramblin’ on my mind”, registrata da Robert Johnson nel 1936 e pubblicata
nel 1937:
Ho cose cattive,
ho cose cattive che mi frullano per la testa.
Ragazzina, ragazzina,
ho cose cattive che mi frullano per la testa.
Mi dispiace lasciarti qui, bambina,
ma tu mi tratti così male .
Come scritto sempre da Carrera, “il blues, nonostante la sua nobiltà, è
anche un incessante lamento del cornuto” , poiché nel rapporto di coppia
tutto diviene un gioco di specchi: l’uomo rinfaccia alla donna il
tradimento, senza tener conto del fatto che se la loro relazione è finita
la maggior parte delle colpe sono le sue. Questa sembra essere una verità
assoluta a guardare i testi dei grandi maestri del blues. Inevitabile
quindi che Dylan, di cui veniva sempre sottolineata la capacità di
metabolizzare velocemente i modelli con cui entrava in contatto, ne
risultasse fortemente condizionato nello scrivere le sue canzoni d’amore
più ironiche. Queste canzoni sono impregnate di una sfrontatezza
proveniente dalla tradizione blues. Lo si nota nell’ultima strofa di
“Don’t think twice, it’s all right”:
Sto camminando su una strada lunga e solitaria, bambina,
dove mi sto dirigendo non posso dirlo.
Ciao è una parola troppo bella, ragazza,
perciò dirò solamente addio.
Non sto dicendo che mi hai trattato male,
avresti potuto fare di meglio, ma non mi importa,
hai solo sprecato il mio tempo prezioso.
Ma non pensarci, va tutto bene .
Ecco l’impudenza di cui si parlava prima. Dylan è consapevole del fatto
che tutto ciò di cui sta accusando la ragazza potrebbe benissimo essere
rivolto a lui, ma nonostante questo diviene in un certo senso anche
spavaldo nell’atteggiamento: “Potevi fare di meglio, invece hai solo
sprecato il tempo prezioso che ti ho dedicato”, dove l’aggettivo relativo
al tempo ci lascia quasi intendere che, potendo tornare indietro, Dylan
non commetterebbe due volte lo stesso sbaglio. E’ come se avesse fatto un
favore a Suzie Rotolo iniziando una storia con lei. Anche questo è un
tipico atteggiamento standard rintracciabile nella tradizione del blues.
E’ quasi una scrollata di spalle che lascia trasparire la convinzione che
chiusa una porta si apre un portone, che dietro l’angolo c’è una nuova
donna ad aspettare. Per questo l’autore si rimette in viaggio.
Ed il viaggio, il partire dopo una delusione, è un’altra costante dei
blues.“Sto camminando per una strada lunga e solitaria, bambina, dove mi
sto dirigendo non posso dirlo” è una frase che rimanda direttamente ad un
altro classico, “Leavin’ Blues”, nella versione resa famosa da Robert
Johnson nella prima metà degli anni ‘30:
Me ne vado stamattina, bella,
e non so dove andare a sbattere,
perché la donna con cui ho vissuto per vent’anni
dice di non volermi più .
Sono tutte “situazioni tipo”, che Dylan filtra attraverso la sua poetica:
“Ciao è una parola troppo bella perciò dirò soltanto addio” è una frase
impossibile da ritrovare in blues, per sua natura molto più diretto. E’
come se Dylan prendesse un abito di seconda mano e lo modificasse per
renderlo adatto ai tempi e a se stesso.
La frase “Non sto dicendo che mi hai trattato male” (“I ain’t sayin’ you
treated me unkind”) rimandare esplicitamente al “Tu mi tratti così male”
(“You treats me so unkind”) di “Ramblin’ on my mind” incisa da Robert
Johnson. Viene ripresa per essere negata, come a voler azzerare il debito
con la tradizione blues. Nel fare ciò Dylan dimostra di avere una grande
conoscenza dell’opera dei bluesman, verso la quale nutre una tale
ammirazione da volerla contemporaneamente citare e negare.
Nello stesso disco in cui è contenuta “Don’t think twice, it’s all right”
c’è un altro pezzo che vuole essere una dichiarazione d’amore nei
confronti del blues del Delta e della cultura musicale afroamericana,
nella quale Dylan trova materiale in abbondanza per sviluppare poi le sue
variazioni sul tema. Il brano in questione è “Honey, just allow me one
more chance”. Il titolo della canzone, che è la frase che si ripete alla
fine di ogni strofa, è un omaggio a un altro cantante di blues e country
vissuto tra il 1874 e il 1930, Henry Thomas, il quale aveva scritto una
canzone dal titolo “Honey, won’t you allow me one more chance”. A parte
questo, le due canzoni, nel testo e nella musica, appaiono solo vagamente
somiglianti, ma tanto basta a Dylan per inserire il nome di Henry Thomas
all’interno della copertina di “The Freewheelin’ Bob Dylan”, facendolo
figurare come coautore della canzone.
Nel 1965 esce “Bringing it all back home”, probabilmente il disco di Dylan
con il maggior numero di hit. Tra queste, quella che con il tempo è
divenuta la più amata dai suoi ascoltatori è sicuramente “Maggie’s farm”.
Di questa canzone sono state date molteplici interpretazioni, dall’
intenzione di Dylan di volersi discostare definitivamente dal Movimento
alla volontà di non sottostare più alle leggi del mercato discografico.
Sul significato della canzone si possono solo fare delle supposizioni, ma,
qualunque sia il messaggio che Dylan vuole trasmettere, ad analizzare la
struttura della canzone ci si può rendere conto di come “Maggie’s farm”
sia stata costruita per apparire una descrizione della vita che
conducevano gli afroamericani nel Sud del paese:
Non lavorerò più alla fattoria di Maggie.
No, non lavorerò più alla fattoria di Maggie.
Bè, mi sveglio la mattina,
incrocio le braccia e prego che piova.
Ho la testa piena di idee che mi stanno facendo impazzire.
E’ una vergogna il modo in cui lei mi fa lustrare il pavimento.
No, non lavorerò mai più alla fattoria di Maggie .
Nelle strofe successive la canzone prosegue parlando prima del fratello di
Maggie che multa il narratore ogni volta che fa sbattere la porta, poi del
padre che gli sbuffa il fumo del sigaro sulla faccia solo per divertimento
e infine della madre, la vera figura dominante all’interno della famiglia,
che attraverso la sua retorica cerca di mantenere stabile l’ordine
gerarchico. Non è sicuramente una canzone scritta per denunciare le
discriminazioni razziali: Dylan ha già attraversato quella fase e non
intende tornarci, è stato categorico al riguardo. E anche il contesto in
cui il brano è inserito lascia intendere che tale interpretazione sarebbe
completamente errata: ogni ponte con le tematiche del passato è stato
distrutto. Ma qualunque siano le ragioni di questa canzone, è evidente
come Dylan si sia rifatto alla tradizione musicale e testuale
afroamericana e alla cornice storica in cui essa si è sviluppata.
Il 30 agosto 1965, a distanza di soli cinque mesi dall’uscita di “Bringing
it all back home”, la Columbia pubblica un nuovo disco di Bob Dylan:
“Highway 61 revisited”. Se in “Bringing it all back home” Dylan aveva
cercato di far apparire meno radicale la sua svolta elettrica incidendo il
lato B completamente in acustico, in “Highway 61 revisited” ciò non
accade. Dei nove brani presenti solo l’ultimo, “Desolation row”, è
registrato solo con chitarra acustica e armonica. Per il resto il disco è
una continua cavalcata elettrica con chitarre e organo che si intrecciano
tra loro in modo convincente. La canzone trainante del disco è “Like a
rolling stone”, comunemente ritenuta dai critici musicali la miglior
canzone rock. E’ una lunga invettiva della durata di 6 minuti e 13 secondi
che Dylan lancia nei confronti di una non identificata “Signorina
Solitudine”. Il testo sembra una rielaborazione in seconda persona di un
vecchio blues scritto nel 1923 da Jimmy Cox e registrato per la prima
volta nel 1929 da Bessie Smith: “Nobody knows you when you’re down and
out”. Prendiamo in esame la prima strofa del brano inciso dalla Smith:
Una volta facevo una vita da milionaria
spendevo i miei soldi senza pensarci su
portavo gli amici a divertirsi
comprando alcool di contrabbando, champagne e vino .
Adesso mettiamola a confronto con i primi due versi di “Like a rolling
stone” di Dylan:
Una volta vestivi così bene
gettavi una moneta ai mendicanti nel fiore dei tuoi anni
non è vero?
I due attacchi sono molto simili: in entrambi si fa riferimento alla bella
vita condotta dalle protagoniste dei due brani. In “Nobody knows you when
you’re down and out” il riferimento è esplicito, in “Like a rolling stone”
l’idea viene resa attraverso il vestirsi bene. Nel secondo verso entrambe
le canzoni parlano di soldi e dell’utilizzo spensierato che se ne fa. Il
brano di Dylan descrive in teoria un gesto carico di umanità ma nel
contesto generale della canzone evoca un gesto che lascia trasparire più
un senso di superiorità che di solidarietà. Il testo di Cox parla anche di
divertimento e di alcool, cosa che avviene anche nella seconda strofa del
testo di Dylan:
Sai che ti piaceva solo ubriacarti
e nessuno ti ha mai insegnato come vivere per la strada .
Ma le somiglianze non finiscono qui. Si prendano di “Nobody knows you when
you’re down and out” i due versi che recitano:
Quando cominciai a scivolare giù in basso
non ebbi più né amici né luoghi dove andare .
e il ritornello:
Nessuno ti conosce quando sei a terra e finita.
Non ho neanche un soldo in tasca
e di amici non ne ho più .
Si possono ritrovare dei riscontri nel testo di Dylan, sia nella prima
strofa quando dice:
La gente ti avvisava
“Attenta ragazza, sei destinata a cadere”.
Tu pensavi stessero tutti scherzando .
e sia nel ritornello:
Come ci si sente
a contare sulle proprie forze,
senza un posto dove andare,
come una completa sconosciuta,
come una pietra che rotola?
Nel blues di Jimmy Cox la protagonista è cosciente della sua posizione e
di come le cose nella sua vita siano radicalmente cambiate. In “Like a
rolling stone” il narratore si prende la sua rivincita verso qualcuno che
gli aveva fatto un torto. Lo stesso Dylan dichiarò: “(La canzone) diceva
qualcosa a qualcuno che non voleva sapere. Vendetta, questa è la parola
migliore ”. Si è voluto vedere in questa canzone una sorta di autoanalisi
mascherata che Dylan effettua su se stesso, anche se il testo si rivolge
ad una figura femminile (ma questo può rientrare benissimo nei canoni del
blues dove, come già detto precedentemente, il destinatario delle canzoni
è una donna a cui vengono rinfacciati gli errori che nella maggior parte
dei casi vengono commessi dall’autore stesso). Ciò può essere ritenuto in
parte vero, se pensiamo ai versi sulle false amicizie, un tema che Dylan
affronterà di nuovo nel singolo “Positively 4th Street” del settembre
1965:
Hai una bella sfrontatezza
a dire che mi sei amico,
quando stavo per terra
te ne stavi in piedi a sghignazzare .
Chi siano i destinatari di queste canzoni rimarrà sempre un mistero dal
momento che il loro autore non ama parlare delle storie che stanno dietro
i suoi brani. Ma dal punto di vista compositivo e testuale è innegabile il
fatto che il blues sia una delle componenti fondamentali, se non la
componente principale, del bagaglio musicale di Bob Dylan.
2.2 DYLAN E IL FOLK.
Tra la metà degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60 negli Stati Uniti si
verifica una riscoperta del folk e delle radici della cultura musicale
americana contemporanea. Tra i fattori che contribuiscono alla nascita di
questo fenomeno, conosciuto come “folk revival”, un ruolo di primo piano
lo occupano sicuramente le ricerche condotte sul campo dagli etnologi
musicali. Si pensi ad esempio al lavoro svolto da Harry Everett Smith
(1923 – 1991) e alla sua “Anthology of American Folk Music”, una raccolta
di registrazioni di brani folk, country, gospel e blues degli anni ’20 e
’30. Fu pubblicata nel 1952 in tre volumi, ognuno dei quali composto da
due dischi. Ogni volume si occupava di un determinato ambito musicale: il
primo conteneva le “ballads”, provenienti per la maggior parte dalla
tradizione inglese; il secondo volume trattava la “social music”, ovvero
quei brani (alcuni cantati, altri esclusivamente strumentali) che venivano
eseguiti durante gli eventi sociali o le cerimonie religiose; il terzo
volume conteneva le “songs”, canzoni che si occupavano dell’aspetto
quotidiano della vita, come ad esempio l’amore o la morte. Nel 2000 la
Revenant Records in collaborazione con l’ Harry Smith Archive ha
pubblicato un quarto volume contenente le “labor songs”, brani politici e
sindacali. Essa è stata la maggior fonte di ispirazione per i cantanti
folk che negli anni ’60 dominavano gli ambienti artistici di New York.
Altra figura di spicco nel campo dell’etnologia musicale fu Alan Lomax
(1915 – 2002), che utilizzò il materiale raccolto dal padre John per la
Library of Congress come punto di partenza per sviluppare le sue ricerche.
La sua attività si svolse inizialmente negli Stati Uniti meridionali,
dove, tramite una serie di registrazioni, raccolse materiale per la
documentazione della cultura musicale del Sud del paese. Poi le sue
ricerche si allargarono su scala mondiale con i viaggi in Spagna, Italia e
Inghilterra. Collaborò con Woody Guthrie al progetto di un’antologia della
canzone di protesta e con la Columbia per la pubblicazione di un’antologia
della musica folk mondiale (“Columbia world library of folk and primitive
music”). Membro direttivo del Newport Folk Festival, arrivò alle mani con
Albert Grossman, manager di Dylan, proprio a causa della svolta elettrica
di quest’ultimo.
Il folk che negli anni ’60 diventa un fenomeno discografico di massa trova
in queste ricerche la sua linfa vitale ma si rinnova seguendo diverse
direttrici: ai musicisti che ripropongono il repertorio tradizionale se ne
affiancano altri che, partendo dalle medesime melodie, scrivono nuovi
testi per attualizzare i brani.
Il revival della musica folk affonda le sue radici nelle registrazioni
blues,country e folk del primo trentennio del XX secolo ma anche nella
“roots music”, la musica delle origini: il gospel, le canzoni dei cowboy e
persino quelle dei nativi americani. Ma l’America, passata attraverso due
conflitti mondiali e la Grande Depressione, non è più la stessa. La
ballata folk, per la sua semplicità e immediatezza, diviene il mezzo
migliore per la denuncia sociale già negli anni ’40 e ’50 grazie
all’attività di ricercatori come Pete Seeger e Woody Guthrie.
Il primo, nato a New York nel 1919, è uno protagonisti della riscoperta e
della diffusione del folk. Attivista della vecchia sinistra americana, non
ha mai nascosto le sue simpatie comuniste e si è sempre battuto per la
causa ambientalista. Tra le sue canzoni più significative figura “Where
have all the flowers gone?” del 1956, maggiormente conosciuta nella
versione cantata da Joan Baez. Per il testo prese spunto da un brano di
Michajl Sholokhov (premio Nobel per la letteratura nel 1964), mentre per
la melodia si rifece a “Drill ye tarriers drill”, una work song del 1888
scritta da Thomas Casey e Charles Connolly che fa riferimento alla
costruzione delle ferrovie americane nel XIX secolo. Il contenuto
antimilitarista della canzone emerge palesemente nella quarta strofa:
Dove sono andati tutti i soldati,
durante lo scorrere del tempo?
Dove sono andati tutti i soldati,
tanto tempo fa?
Dove sono andati tutti i soldati?
Sono tutti nei cimiteri.
Quando mai impareranno?
L’altro grande esponente della musica folk e della canzone di protesta è
Woody Guthrie (1912 – 1967), capace di influenzare le diverse generazioni
di cantautori che si sono succedute nel tempo, da Bob Dylan a Bruce
Springsteen. Segnato dai lutti e dalle sventure che colpirono la sua
famiglia, si mise a vagabondare per il paese, entrando così in contatto
diretto con quella parte di società americana colpita più duramente dalla
Depressione, di cui denuncerà i mali:
Se mi dimostri che ne hai bisogno,
ti farò avere un credito,
sono un banchiere allegro, sono un banchiere allegro.
Basterà che mi restituisci il doppio di quanto ti ho prestato .
Canzoni come questa verranno riprese del movimento “Occupy Wall Street”,
sviluppatosi a New York nel 2011 per denunciare gli abusi del capitalismo
finanziario durante l’ultima crisi economica mondiale.
E’ autore di quello che è considerato l’inno alternativo degli Stati
Uniti, “This land is your land”.
Proprio Dylan è il cantautore che forse più di tutti ha fatto sua la
lezione di Guthrie. Da quando lesse la sua autobiografia, “Bound for
glory”, ne rimase talmente affascinato che una delle prime cose che fece
appena arrivato a New York nel ’61 fu andare a trovare il suo idolo
ricoverato in ospedale.
Nel primo disco inciso da Dylan nel 1962, solo due canzoni sono
composizioni originali. Una di queste si intitolata “Song to Woody”:
Guardo il tuo mondo di persone e cose,
i tuoi poveri ed i contadini, le principesse e i re.
Ehi, Woody Guthrie, ti ho scritto una canzone
che parla del buffo mondo che abbiamo davanti.
Sembra malato, è affamato, stanco e dilaniato.
Sembra morto ma è appena nato .
Già dalle prime strofe si può notare come Dylan tenti di far combaciare il
mondo del suo maestro con il suo. Dylan ha visto l’America attraverso le
canzoni di Guthrie prima ancora che con i suoi occhi. La visione del mondo
diventa così la stessa. La canzone vuole essere una condivisione non solo
di ideali ma anche di stile di vita:
L’ultima cosa che voglio fare
è poter dire che ho fatto anch’io tanta strada .
Dylan trova in Guthrie non solo la giusta prospettiva attraverso cui
guardare il mondo, ma anche modelli compositivi. La perentorietà di certi
suoi testi proviene si dalla tradizione dell’ Antico Testamento, ma la
modalità con cui mettere in versi le sue invettive e gli ultimatum ha un
precedente nell’opera di Woody Guthrie:
Sto per dirvi una cosa, fascisti,
che potrà sorprendervi.
Le persone in questo mondo
si stanno organizzando.
Siete destinati a perdere,
fascisti, siete destinati a perdere .
Risulta subito evidente come questa canzone possa aver influenzato
numerosi brani di Dylan, come ad esempio “The times they are a-changin’”
del 1964 (“La linea è tracciata, la maledizione è lanciata/ il più lento
di adesso sarà il più veloce, il presente diventerà passato” ) o “When the
ship comes in” dello stesso anno (“Allora alzeranno le mani dicendo
“Faremo ciò che volete”/ ma noi dalla prua grideremo “I vostri giorni sono
contati”./ E come il popolo del Faraone saranno sommersi dalla marea/ e
come Golia saranno vinti” ). Il tono e la sicurezza sono gli stessi per
entrambi gli autori, così come la certezza delle proprie convinzioni.
Un’altra canzone di Guthrie anticipa la capacità mostrata da Dylan in “The
lonesome death of Hattie Carroll” di proiettare immediatamente
l’ascoltatore dentro la vicenda . Il brano in questione è “Ludlow
massacre”, scritta nel 1944 e riguardante la repressione degli scioperi
dei minatori in Colorado:
Era inizio primavera quando lo sciopero cominciò.
Cacciarono via noi minatori
dalle case di proprietà della Compagnia.
Ci spostammo nelle tende su nella vecchia Ludlow .
Già nella prima strofa la canzone ci proietta in una situazione ben
determinata. E’ vero che il brano si apre con una individuazione
temporale, ma nello stesso verso ci viene anche presentata la situazione
in cui ci troviamo: uno sciopero.
In “The lonesome death of Hattie Carroll” viene fatto ancora di meglio:
nel verso d’apertura ci vengono introdotti il crimine, la vittima e
l’assassino. Nelle canzoni di denuncia sociale, Dylan tende ad essere
molto diretto. I versi sembrano quasi titoli di giornali o slogan. Non c’è
tempo per la poeticità, sviluppata invece al massimo nei testi più
introspettivi e personali, come “My back pages” o “Mr Tambourine man”. Il
disgusto deve palesarsi immediatamente all’ascoltatore, coinvolgendolo
emotivamente e accelerando così i processi in grado di cambiare lo stato
delle cose. Il messaggio deve essere diretto ed esplicito, senza
possibilità di fraintendimento. La canzone è stata registrata appena otto
mesi dopo che Zantzinger ha ucciso Hattie Carroll. Dylan ha letto gli
articoli di giornale e seguito passo passo la vicenda. Il suo
coinvolgimento è concreto.
La questione è diversa per quanto riguarda “The death of Emmett Till”. La
canzone è stata scritta nel 1962, l’omicidio era avvenuto nel 1955. La
vicenda era di dominio pubblico, ma le informazioni che Dylan possiede
sono di seconda mano. Non fa nomi perché non c’è bisogno di farli: chi
fossero gli assassini era ben noto a tutti. Mentre in “Hattie Carroll” il
disgusto è concreto perché toccato con mano, in “Emmett Till” non c’è
esperienza diretta. Il brano si apre con un’introduzione che occupa una
strofa intera: non è in grado di catapultarci immediatamente dentro la
scena poiché non è generato dallo sdegno, o almeno non direttamente .
Dylan cercava a quei tempi il modo migliore per ottenere la maggior
visibilità possibile: arrivato a New York con l’intento di fare successo
in ambito musicale, un brano che potesse essere utilizzato come inno da
chi lottava contro la segregazione razziale gli avrebbe dato sicuramente
notorietà. Scrivere una canzone su un episodio di rilevanza indiscussa per
quanto lontano nel tempo deve essergli sembrata la via migliore per
emergere come cantore degli oppressi all’interno del Movimento:
Ma se tutti noi che la pensiamo allo stesso modo
diamo tutto quello che possiamo,
faremo di questa nostra grande terra
un posto migliore per vivere .
La canzone si chiude con un retorico invito all’attivismo, forse per
rendere più credibile il suo coinvolgimento e nascondere così il suo
opportunismo.
E’ possibile trovare una somiglianza tra l’incipit di questo e brano e
quello di “Ballad of Oxford, Mississippi” di Phil Ochs. La canzone parla
della vicenda di James Meredith, il primo afroamericano ad aver ottenuto
il permesso per frequentare un’ università:
Vi canterò una canzone su una città del Sud,
dove comanda il diavolo,
quando gli ispettori fronteggiarono una folla inferocita
per mandare a scuola un solo uomo.
Il suo nome era Jimmy Meredith
e contribuì al cambiamento
scegliendo di restare lì quel terribile giorno .
La canzone è stata scritta nel 1962, lo stesso anno in cui si verificò
l’episodio narrato. Anche qui l’apertura è affidata ad un verso che
colloca la scena nello spazio e attribuisce qualità decisamente negative
alla città di Oxford. Ma il fatto che la canzone sia quasi contemporanea
all’avvenimento, al contrario di quanto avviene in “The death of Emmett
Till”, ci fa pensare che l’introduzione presente nella prima strofa sia
una cosa voluta, dal momento che la caratterizzazione temporale e spaziale
di un episodio era uno degli elementi caratteristici del modo di scrivere
di Phil Ochs.
Sullo stesso argomento anche Dylan scriverà una canzone, “Oxford Town”.
Oxford Town, Oxford Town
tutti tengono la testa bassa
il sole non splende oltre il suolo
non andrò ad Oxford Town .
Anche qui Dylan sembra commettere per l’ennesima volta l’errore di
raccontarci un episodio che non lo coinvolge fino in fondo. Ad un’analisi
più attenta però appare chiaro che il distacco di Dylan è studiato. La
canzone ha una forma circolare, la prima strofa si ripete nel finale. Al
suo interno descrizioni immediate e scene drammatiche (“Siamo stati
accolti dai gas lacrimogeni”, “Due persone sono morte sotto la luna del
Mississippi”) si alternano ad altre più superficiali e distaccate
(“Qualcuno farebbe meglio ad indagare”). E’ interessante il paragone tra
il testo di Dylan e quello di Phil Ochs, dal momento che non è la prima
volta che i due si trovano ad affrontare lo stesso argomento. Nel capitolo
precedente avevamo già visto come Bob Dylan e Phil Ochs avessero dato la
loro versione dei fatti sull’omicidio di Medgar Evers attraverso due
composizioni differenti. Questo richiamo di tematiche ci può dare la
misura di come Dylan vivesse il confronto con i suoi colleghi. Mentre con
Dave Van Ronk il rapporto fu amichevole sin dall’inizio (Dylan dormì a
casa di Van Ronk per quasi tutto il primo mese che seguì il suo arrivo a
New York), con Phil Ochs le cose erano differenti. Dylan vedeva in lui
l’artista con cui più di tutti avrebbe dovuto confrontarsi. Lo riteneva
superiore agli altri cantanti folk che affollavano il Greenwich Village.
Una volta dichiarò: “Non posso competere con Phil. E sta migliorando
sempre di più”. Quando nel 1965 Phil Ochs dimostrò poco entusiasmo per
“Can you please crawl out your window?”, l’ultimo brano scritto da Dylan,
quest’ultimo lo fece scendere dalla sua limousine gridandogli: “Tu non sei
un cantante, Ochs, sei un giornalista” . Phil Ochs era effettivamente
stato un giornalista, e il precedente lavoro aveva influenzato non poco il
suo modo di scrivere canzoni. Lo si può notare sia nella prima strofa di
“Ballad of Oxford, Mississippi” , ma anche in “Too many martyrs”, dove le
caratterizzazioni spaziali e temporali fanno apparire la canzone come un
articolo di cronaca nera:
Nello stato del Mississippi, molti anni fa
un ragazzo di 14 anni assaggiò la legge del Sud .
Phil Ochs, da parte sua, nutrì sempre una profonda stima per Dylan, e
insieme a Johnny Cash fu uno dei pochi a non criticare la sua svolta
elettrica, anzi cercò di imitarlo. I due si riavvicinarono nel 1974,
quando l’evento organizzato da Ochs, “An evening with Salvador Allende”,
rischiava di essere annullato a causa dell’insufficiente riscontro di
pubblico. Le vendite dei biglietti registrarono un’impennata quando venne
ufficializzata la partecipazione di Bob Dylan.
Il gesto di Dylan può essere considerato come il pagamento di un debito,
dal momento che “Ballad of Oxford, Mississippi” molto probabilmente fornì
a Dylan l’idea per una delle sue canzoni più famose, “The times they are
a-changin’”:
Ascoltate allora, Mr. Barnet e Mr. Walker:
i tempi stanno cambiando velocemente, e vi travolgeranno .
Se è vero che il repertorio tradizionale ispirò le composizioni newyorkesi
di Dylan, è altrettanto giusto dire che il contatto con i cantanti
contemporanei fu un evento di fondamentale importanza per la crescita e la
maturazione compositiva del giovane Bob.
La tradizione folk rimarrà per Dylan un punto di riferimento durante tutta
la sua carriera artistica, nonostante la svolta elettrica del 1965. Dopo
la crisi artistica attraversata negli ’80 (“Empire burlesque” del 1985,
“Knocked out loaded” del 1986 , “Down in the groove” del 1987) e il fiasco
di “Under the red sky” (1990), un po’ di ossigeno arrivò da due dischi
commercialmente “difficili”: “Good as I been to you” (1992) e “World gone
wrong” (1993). Entrambi sono composti da reinterpretazioni di classici del
folk e del blues, in cui la voce di Dylan è accompagnata dalla sola
chitarra. Un ritorno alle origini. Nel primo sono da segnalare “Frankie &
Albert”, già contenuta nell’ “Anthology of American Folk Music” di Harry
Smith, e “Hard Times”, basata su una composizione del XIX secolo. In
“World gone wrong” spiccano “Blood in my eyes” e la title track, entrambe
apprese da due incisioni precedenti il secondo conflitto mondiale dei
Mississippi Sheiks. Sono tutte ballate tradizionali, alle volte rivisitate
nella melodia.
Che fosse una scelta coraggiosa lo dimostra il fatto che quando nel 1994
Dylan propose per la collana MTV Unplugged un set acustico di canzoni
tratte dall’ultimo album, la Sony Music si oppose fermamente,
incoraggiando invece l’esecuzione delle sue vecchie hit.
Dylan voleva tornare alle radici della musica tradizionale per superare il
suo momento di crisi. Era apparso chiaro già nel 1989, con l’uscita di “Oh
mercy”. Qui è contenuta “Man in the long black coat”, una canzone che si
rifà direttamente a “House Carpenter”, una ballata inglese già incisa da
Dylan e mai pubblicata, fino alla sua comparsa in “The Bootleg Series
Vols. 1 – 3” del 1991. La prima persona che associò i due titoli fu Chris
Morris, durante una recensione di “Oh mercy” sul “Los Angeles Reader”, nel
settembre del 1989:
“Man in the long black coat” è una raggelante canzone narrativa a
proposito di un diabolico straniero, che prende ispirazione dalle vecchie
ballate inglesi basate sulla figura dell’amante infernale .
In “House Carpenter” viene narrata la storia di uomo (personificazione del
diavolo) che, dopo un lungo periodo di assenza, torna dalla sua vecchia
amante, ormai di nuovo sposata, e la rapisce portandola con se
all’inferno, e costringendola a lasciarsi alle spalle il marito, il figlio
e la casa.
Ben ritrovata, ben ritrovata, mio vero amore.
Ben ritrovato, ben ritrovato, gridò lei.
Sono appena ritornato dall’oceano,
e l’ho fatto per il tuo amore .
La donna lascia il marito e i figli per seguire il suo uomo appena
tornato. Che quest’ultimo sia la personificazione del diavolo diventa
chiaro nel corso della canzone:
Oh, cosa sono quelle colline laggiù, amore mio?
Sembrano scure come la notte.
Quelle sono le colline del’inferno, amore mio
Dove tu ed io saremo uniti .
In “Man in the long black coat” la visuale viene completamente ribaltata,
e il punto di vista esposto è quello dell’uomo rimasto a casa a guardare
la sua donna rapita da uno sconosciuto:
I grilli friniscono, l’acqua è alta.
C’è un vestito di cotone leggero appeso ad asciugare,
una finestra spalancata, alberi africani
piegati all’indietro dal soffio di un uragano.
Non una parola di saluto, nemmeno un biglietto.
Se ne è andata con l’uomo
dal lungo cappotto nero .
La canzone prosegue tra immagini quotidiane (il predicatore che recita un
sermone, qualcuno che parla per la strada) e scene apocalittiche (il fumo
sull’acqua, le persone che galleggiano, la coscienza umana definita vile e
depravata), quasi a voler evocare il panorama infernale. Ma allo stesso
tempo queste scene desolate sembrano richiamare anche alla vena
compositiva di Dylan, ormai inaridita. L’uomo lasciato dalla propria donna
senza neanche un addio fa i conti con la sua vita (proprio come l’artista
rimasto senza musa fa i conti con la sua arte), incerto se addossarsi la
responsabilità dell’abbandono o no (“Non ci sono errori nella vita, dice
la gente. A volte è vero, puoi vederla così”).
In questa canzone carica di amarezza, Dylan sembra anticipare le tematiche
della solitudine e della morte, punti fissi della sua produzione
discografica negli anni a seguire che raggiungerà l’apice in “Time out of
mind” del 1997.
EPILOGO:
“IERI E’ SOLO UN
RICORDO, IL DOMANI NON E’ MAI CIO’ CHE AVRESTI PENSATO CHE FOSSE”
Il 28 gennaio 1988 Bob Dylan fu inserito nella “Rock and Roll Hall Fame”,
il museo dedicato alla memoria delle figure più importanti della storia
del rock. Il discorso introduttivo fu tenuto da Bruce Springsteen, il
quale, parlando delle emozioni provate durante il primo ascolto di “Like a
rolling stone”, dichiarò:
Sapevo che stavo ascoltando la voce più legnosa che avessi mai sentito.
Era scarna e sembrava, in qualche modo, allo stesso tempo giovane e
vecchia. Dylan fu un rivoluzionario. Bob liberò la mente come Elvis liberò
il corpo .
Indipendentemente dalla sua volontà, e dai gusti musicali di ognuno, Bob
Dylan è stato il modello e il portavoce di almeno due generazioni. Nel
corso degli anni, nonostante i tonfi commerciali (tanti) e i trionfi
discografici (a dire la verità pochi se si considera la sua carriera
cinquantennale), Dylan non ha mai mancato di farci pervenire il suo punto
di vista su ciò che accadeva in America e nel mondo. Lo ha fatto anche
durante il periodo della sua conversione al cristianesimo evangelico, in
“Slow train”:
Tutto quel petrolio straniero che controlla il mercato americano
guardatevi attorno,vi crea proprio imbarazzo.
Sceicchi che se ne vanno in giro come re
indossando strani gioielli ed anelli al naso
decidono il futuro dell’America da Amsterdam a Parigi .
Nonostante la canzone fosse il centro rovente del disco “Slow train
coming” (1979), la strofa in questione fu contestata duramente dai suoi
vecchi estimatori, che videro in questi versi una pericolosa convergenza
verso posizioni conservatrici. Ma il Dylan convertito al cristianesimo
credeva che l’apocalisse fosse ormai vicina e ciò che vedeva in America e
nel mondo non faceva altro che rafforzare le sue convinzioni.
Nel 1983 Dylan si distacca dalle tematiche religiose e dà alle stampe
“Infidels”, uno dei suoi dischi più politici. Tra i temi trattati compare
anche la questione israeliana, in “Neighborhood bully”:
Il bullo di quartiere è stato sbattuto via da ogni terra,
girovaga per il mondo, è un esiliato.
Ha visto disperdere la sua famiglia,
la sua gente perseguitata e dilaniata.
E’ sempre sotto processo per il solo fatto di essere nato .
Dylan, la cui famiglia è di origine israeliana, si schiera al fianco del
suo popolo, non mancando di sottolineare gli epiteti con cui questo veniva
indicato (il bullo di quartiere). A quei tempi si parlava di un ritorno
alla religione ebraica, ma, se ciò avvenne, Dylan tenne ben separate la
sfera spirituale e quella lavorativa, forse perché ancora segnato dalle
critiche per i due dischi di matrice religiosa seguiti a “Slow train
coming” (“Saved” del 1980 e “Shot of love” del 1981).
Altra canzone controversa di “Infidels” fu “Union Sundown”:
Bè, sai, un sacco di gente si lamenta perché non c’è lavoro.
Io dico: “Perché dite così
Quando niente di ciò che avete è di produzione americana?”
Non fanno più niente qui, sai, il capitalismo è al di sopra della legge.
Si dice: “Non conta, se non si vende”.
Quando costa troppo costruirlo a casa tua,
lo costruisci da qualche altra parte con minor spesa .
Di certo la critica partiva un po’ prevenuta nei confronti di Dylan e dei
suoi lavori di quegli anni. “Union Sundown” doveva forse essere una
critica al capitalismo nelle intenzioni dell’autore. Ma la crisi personale
e artistica che Dylan stava affrontando contribuì sicuramente a rendere
ambiguo il suo messaggio.
In tutti i modi, vale per Bob Dylan ciò che Gregory Corso, uno dei massimi
esponenti della letteratura beat, disse di Jack Kerouac:
Oh e poi quando si chiede di te
“Che gli è accaduto?”
io dico: “Quello che è accaduto all’America
è accaduto
a lui. I due erano
inseparabili”. Come il vento
al cielo è la voce alla
parola .
CONCLUSIONI
In cinquant’anni di
carriera Bob Dylan ha rappresentato tutto e il contrario di tutto: icona
dei movimenti per i diritti civili e musicista opportunista che cavalca la
corrente per arrivare al successo, rockstar in giro per il mondo e padre
di famiglia premuroso, artista con il vizio della droga e cristiano
evangelico osservante. Sulla sincerità delle sue prese di posizione non
avremo mai un punto di vista univoco e veritiero, ma c’è da dire che Dylan
sa essere molto persuasivo e convincente quando decide di immergersi in un
qualcosa che lo coinvolge. “The lonesome death of Hattie Carroll” è
sicuramente una delle sue canzoni meglio riuscite, così come lo sarà
“Hurricane”, almeno finchè Dylan ha creduto pienamente nell’innocenza del
pugile Rubin Carter. Nella versione originale faceva anche nomi e cognomi
delle persone coinvolte, finchè la Columbia non lo convinse che era meglio
autocensurarsi piuttosto che essere denunciati. Quando Dylan non fu più
convinto della causa che stava sostenendo ha semplicemente smesso di
cantare quella canzone piuttosto che dare l’idea di uno che non
condivideva a pieno ciò che stava dicendo.
Questa sua tendenza a contraddirsi di continuo può essere considerata una
conseguenza dei tempi e della società in cui Bob Dylan si è formato come
artista e come cittadino. L’ ansia di un mondo sempre sull’orlo di un
conflitto nucleare, l’ingiustizia che regolava i rapporti interrazziali,
lo spaesamento davanti la caduta dei vecchi valori e la frenesia per il
sorgerne di nuovi si riflette nell’opera di Dylan compresa tra il 1962 e
il 1965. Al di là del suo coinvolgimento più o meno sincero su ciò che
stava accadendo in quegli anni, Dylan ha saputo non solo raccontare gli
avvenimenti che hanno segnato quel periodo di storia americana, ma ha
anche saputo descrivere nel dettaglio lo stato d’animo di una generazione
che lottava per il cambiamento della società.
BIBLIOGRAFIA
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Milano, Feltrinelli, prima edizione (riveduta e ampliata) nell’
“Universale Economica”, maggio 2011.
• Cartosio Bruno, I lunghi anni sessanta. Movimenti sociali e cultura
politica negli Stati Uniti, Milano, Feltrinelli, prima edizione in
“Storie”, gennaio 2012.
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• Williamson Nigel, The rough guide to Bob Dylan, Londra, Rough Guides
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• www.antiwarsongs.org, ultimo accesso 28/12/2012.
• www.maggiesfarm.eu, ultimo accesso 23/12/2012.
• www.repubblica.it, ultimo accesso 06/12/2012.
INDICE
1 “I tempi
stanno cambiando”. Introduzione
17 Capitolo primo: “La vostra mente è coperta di polvere”. La questione
razziale.
30 La triste morte di Hattie Carroll.
35 La morte di Emmett Till.
39 “Solo una pedina nel loro gioco”: l’omicidio di Medgar Evers.
44 Capitolo secondo: “Di nuovo bloccato a Mobile con il blues di Memphis”.
Il patrimonio musicale americano nelle canzoni di Dylan.
45 Dylan e il blues.
58 Dylan e il folk.
73 Epilogo: “Ieri è solo un ricordo, il domani non è mai ciò che avresti
pensato che fosse”.
77 Conclusioni.
79 Bibliografia.
80 Sitografia.
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