MAGGIE'S FARM

sito italiano di Bob Dylan

La tesi di laurea di Mattia Ferella

“I TEMPI STANNO CAMBIANDO”

INTRODUZIONE
 

Ma il paradiso è in fiamme,o vi preparate ad essere eliminati
oppure i vostri cuori devono avere il coraggio per il cambio della guardia.
(Changing of the guards, 1978)


Era il 13 dicembre 1963 quando, a New York, l’Emergency Civil Liberties Committee conferì a Bob Dylan il Tom Paine Award, riconoscimento riservato a chi si era distinto nella battaglia per i diritti civili .
Appena un mese prima di questo avvenimento, il 22 novembre, il 35° Presidente degli Stati Uniti d’America John Fiztgerald Kennedy era stato assassinato a Dallas da Lee Harvey Oswald.
Erano passati solo due anni dallo sbarco nella Baia dei porci, la disastrosa operazione per rovesciare il governo rivoluzionario di Fidel Castro a Cuba, conclusasi in appena 3 giorni con la sonora sconfitta degli esuli cubani addestrati dalla CIA. L’anno dopo il mondo cominciò a tremare davanti allo spauracchio di una nuova guerra mondiale: il 14 ottobre 1962 i voli degli aerei statunitensi sull’isola mostrarono chiaramente la costruzione di impianti missilistici sul territorio cubano da parte dell’Unione Sovietica. Quella sera del 13 dicembre 1963 la cronaca narra di un Dylan visibilmente ubriaco che, salito sul palco per ritirare il premio, edificò per la prima volta la più grande barricata tra lui e ogni tipo di organizzazione politica:

Qui devo parlare con franchezza e non accettare nessun compromesso sul fatto che devo essere onesto, ho il dovere di esserlo, così come devo ammettere che l’uomo che ha ucciso il presidente Kennedy, non so esattamente dove… quello che credeva di fare, ma onestamente devo ammettere che anch’io… ho visto qualche cosa di me stesso in lui .

I ricordi e le spiegazioni date da Dylan riguardo a ciò che avvenne quelle sera mettono in risalto lo spaesamento di un ragazzo di 22 anni davanti alla violenza insita nella società di appartenenza. Alle volte la società americana appare governata da una malcelata contraddizione interna. L’America degli anni ’60 è un paese in piena crescita economica, ma non sempre gli ideali di democrazia e libertà vengono sostenuti, nè in ambito internazionale e né tantomeno nella dimensione interna della società, dove ampi strati della popolazione rimangono estranei a tali tematiche.
Durante la guerra in Vietnam, dal 1961 al 1975, dei cinque presidenti americani che si succedettero nel corso degli anni ben due erano membri del Partito Democratico: John Kennedy e Lyndon Johnson.
Ma gli anni ’60 in America hanno anche segnato la più grande rottura musicale della storia contemporanea occidentale. Cambia il modo di concepire una canzone, dell’utilizzo che se ne può fare, del modo in cui essa può essere in grado di smuovere le coscienze delle persone.
E poiché nella differenziazione tra politica e cultura (o meglio, “Controcultura”) è impossibile pensare separatamente queste due componenti fondamentali della società tra la metà degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’70, un’intera generazione di giovani americani comincia a riconoscersi nelle parole e nelle canzoni di persone che, spesso loro malgrado, si trovano ad essere punti di riferimento per una parte consistente della società.
I nomi sono tanti: Phil Ochs, “socialdemocratico di sinistra” (come spesso si autodefiniva), presenza costante negli incontri sindacali o studenteschi; Dave Van Ronk, figura di spicco nel panorama folk di New York; Tom Paxton, che nonostante la diffidenza iniziale dovuta al suo passato nell’esercito seppe conquistarsi un ruolo di rilievo all’interno del circuito del Greenwich Village; senza dimenticare Woody Guthrie, padre nobile della canzone di protesta che, nonostante sia entrato in ospedale nel 1956 senza quasi uscirne mai più (morirà il 3 ottobre del ’67), resterà una figura ricorrente e dominante .
Ma quando si parla delle canzoni di protesta degli anni ‘60, due sono i nomi che predominavano sugli altri e vengono subito alla memoria: Bob Dylan e Joan Baez, il re e la regina della musica folk americana.
I due musicisti rappresentano modi diversi d’interpretare e vivere l’adesione al movimento generazionale che in quegli anni andava formandosi e crescendo negli Stati Uniti. Convinta e sincera quella della Baez, paladina e simbolo dell’impegno artistico nelle lotte per i diritti civili e il pacifismo, disposta a farsi arrestare per ben due volte nel ’67 dopo aver bloccato l’ingresso dell’Armed Forces Induction Center in California mentre manifestava contro la guerra in Vietnam.
Per sua stessa ammissione, il coinvolgimento di Dylan fu più interessato. Diverse volte ha tentato di discostarsi da un ruolo che evidentemente non sentiva suo (“It ain’t me, babe”, non sono io, cantava già nel ’64, in una canzone che forse nascondeva molto di più del semplice racconto di una storia d’amore finita male), fino ad affermare chiaramente che la sua adesione era dipesa un po’ dal fatto di cavalcare l’onda.
Più probabilmente, questo allontanamento dal movimento era dovuto ad una sua personale avversione per le “cause”, dalle quali Dylan si discostava ogni qual volta rischiava di ritrovarsi troppo legato ad esse. Lo ha fatto nel campo dell’impegno civile e politico e lo farà anche in campo artistico: si pensi alle numerose svolte musicali nella sua carriera (quella elettrica del ’65, quella country del ’67 e quella che lo porterà ad abbracciare il gospel nel 1980).
Resta alla storia la canzone “To Bobby” del 1972, in cui la Baez supplica letteralmente Dylan di tornare a denunciare i mali del suo tempo: “Guarda i bambini nella luce del mattino, Bobby… stanno morendo” .
Ma ormai Dylan ha imboccato un’altra strada. Farà qualche passo indietro solo nel 1975, per raccontare la storia di Rubin “Uragano” Carter, pugile di colore condannato ingiustamente (o, per meglio dire, affrettatamente, dal momento che la sua estraneità ai fatti non fu mai provata) per un triplice omicidio avvenuto in New Jersey nel 1966.

Nel novembre del 2008, all’indomani dell’elezione a Presidente degli Stati Uniti di Barack Hussein Obama, il quarantaquattresimo della storia americana, durante un concerto all’Università del Minnesota, Bob Dylan dichiarò: “Sono nato nel ’41, l’anno in cui bombardarono Pearl Harbour. Da allora ho vissuto in un mondo oscuro. Ma adesso sembra che le cose cambieranno” .
Robert Allen Zimmerman - nome in ebraico Shabtai Zisel ben Avraham – è nato il 24 maggio del 1941 a Duluth, piccola città mineraria del Minnesota. L’attacco a Pearl Harbour, che sancì l’entrata in guerra degli Stati Uniti, era lontano ancora sei mesi e due settimane. Nel 1947 Dylan si trasferì con la famiglia nella città di Hibbing, di cui egli stesso dirà: “Non c’era nulla. L’unica cosa che potevi fare era diventare minatore”.
Tenendo conto del fatto che Dylan scoprì Woody Guthrie nel 1959 all’età di 18 anni (tre anni prima della pubblicazione del suo disco d’esordio), siamo legittimati a pensare che l’adolescente Bob Dylan conoscesse ben poco della canzone di protesta e delle dinamiche sociali che c’erano dietro. La figura chiave che segnò la svolta per la sua formazione etico-politica è da individuare nella diciassettenne attivista Suzie Rotolo, conosciuta a New York nel 1961 e che sarà la sua compagna di vita, tra alti e bassi, fino al marzo del 1964. E’ lei la ragazza immortalata sulla copertina di “The Freewheelin’ Bob Dylan” (1963) ed è sempre lei che sensibilizza il giovane Bob su quegli argomenti che caratterizzeranno i primi tre anni della sua produzione discografica.
Nel 1969, anno dell’uscita di “Nashville Skyline” e in piena fase country, travolto dalle critiche per quei nuovi pezzi sdolcinati e ancora una volta disimpegnati, Dylan dichiarò: “Questo è il genere di canzoni che ho sempre voluto scrivere quando mi sono ritrovato da solo” . Forse era veramente così.
In un’intervista rilasciata alla rivista Rolling Stone nel 2012 Dylan, interrogato su cosa pensasse delle accuse di plagio che gli venivano rivolte riguardo il suo ultimo disco “Tempest”, rispolvera vecchi rancori legati alle dure contestazioni subite durante l’infuocato tour mondiale del ’66:

E’ una cosa vecchia che fa parte della tradizione; risale a molto tempo fa. Queste persone sono le stesse che mi hanno affibbiato il nome “Giuda”. Giuda, a me! Giuda: il nome più odiato nella storia dell’uomo! E poi, per cosa? Per aver suonato una chitarra elettrica? Come se farlo fosse paragonabile a tradire nostro Signore e consegnarlo perché fosse crocifisso .

L’aver abbandonato il folk e con esso le canzoni di protesta rappresenta una cesura fondamentale nella storia personale di Dylan, che non ha mai compreso le ragioni di quelle contestazioni. Quando qualcuno dal pubblico gli gridava: “Dov’è finito il poeta che eri?” o “Cos’è accaduto alla tua coscienza?”, lui rispondeva, a metà tra il sarcastico e il seccato: “C’è un tipo lassù che sta cercando un santo” e “Oh, dai, sono tutte canzoni di protesta. E’ sempre la solita roba, non sentite?”. Dirà nel 1968: “E’ solo evoluzione. Si cambia di continuo” .
Ma che tipo di paese è l’America che tra il 1962 e il 1965 vede Bob Dylan arrivare al successo con le sue canzoni di denuncia sociale?
E’ lo stesso Dylan che ci dà una mano per comprendere la dimensione politica, sociale e culturale che caratterizza la cornice dentro cui le canzoni di protesta prendono piede.
Il 13 gennaio 1964, ad appena due mesi dall’ assassinio di Kennedy, esce quello che tutt’ora è considerato uno dei dischi più rappresentativi di quell’epoca: “The times they are a-changin’”. La title track, in un gioco di antitesi tra il presente e il futuro, ci fornisce un resoconto dell’America contemporanea e delle aspettative di una generazione.
Partiamo dall’ultima strofa:

La linea è tracciata, la maledizione è lanciata
il più lento di adesso sarà il più veloce, il presente diventerà passato:
l’ordine si sta rapidamente dissolvendo.
Ed il primo diventerà l’ultimo perché i tempi stanno cambiando .

Il testo è perentorio, come i profeti dell’Antico Testamento che fanno parte del suo bagaglio culturale ebraico. Ammonisce che non c’è più tempo.
Il più lento diventerà il più veloce, il primo diventerà l’ultimo. Qualcosa in quegli anni cominciò a smuoversi, ma per merito di chi? Non delle istituzioni, né politiche, né economiche. L’opera di sensibilizzazione riguardo determinate problematiche venne condotta da chi quelle discriminazioni le subiva: gli afroamericani, le donne (anche se solo agli inizi degli anni ’70), gli omosessuali e tutti quegli strati della società che non si rispecchiavano nei valori che venivano trasmessi loro, come gli studenti e i pacifisti.
Proseguendo a ritroso:

Venite, madri e padri, da ogni parte del paese
e non criticate ciò che non potete capire.
I vostri figli e le vostre figlie sono al di là dei vostri comandi,
la vostra vecchia strada sta rapidamente invecchiando:
per favore, andate via dalla nuova se non potete dare una mano .

Molto spesso quando parliamo di controcultura e pacifismo, di movimenti e associazioni studentesche e di tutto ciò che di “generazionale” è accaduto negli Stati Uniti tra il 1960 e il 1970 tendiamo ad associare il tutto agli hippie e a quell’evento di portata sicuramente storica che è stato il concerto di Woodstock nel 1969.
Chiariamo subito una cosa: gli anni ’60, a livello di coinvolgimento giovanile, sono stati “anche” Woodstock, ma non sono stati “solo” Woodstock. Prima di tutto perché gli hippie non erano né i beat di fine anni ’50 (che mai si sarebbero sognati di arruolare adepti), né tantomeno gli attivisti bianchi che all’inizio degli anni ’60 raggiunsero una coscienza critica grazie agli stimoli lanciati loro dalle battaglie degli afroamericani. Gli hippie spostarono il conflitto, se così si può dire, su un piano prettamente “spirituale”: i loro bersagli non erano più le istituzioni, bensì le anime degli individui.
In secondo luogo poi, per una questione politica-temporale: nel 1965 il diretto coinvolgimento americano nella Guerra del Vietnam aveva comportato una radicalizzazione in senso marxista-leninista di alcune frange consistenti del Movimento. Inevitabilmente, con esse mutò anche una parte di quella stessa generazione.
Nella prima metà degli anni ’60, infatti, tutte le neonate associazioni più o meno politicizzate tendevano a non recuperare quei valori e quelle appartenenze ideologiche che avevano caratterizzato la “vecchia” sinistra, quella precedente al secondo conflitto mondiale. Gli strascichi del maccartismo facevano sì che l’accusa di nutrire simpatie comuniste potesse ancora comportare la fine di una carriera o la rovina di una vita privata e pubblica. Inoltre la tendenza esclusiva e sospettosa, anche al suo stesso interno, di quella sinistra considerata oramai superata ben poco si adattava alla vocazione “universalistica” della Nuova Sinistra .
Del resto non bisogna eccedere nella radicalizzazione dello scontro generazionale. Le già accennate derive maccartiste degli anni compresi tra il 1950 e il 1955 spinsero i giovani ad una sorta di autodifesa e di “pudore” etico–sociale, anche nei luoghi del pensiero, come le università. La famiglia divenne così il primo luogo di confronto politico, indubbiamente aperto a incomprensioni e scontri.
A volte gli scontri erano aspri, come quando i padri mettevano in discussione l’incomprensibile rifiuto da parte dei figli di aderire a modelli comportamentali che erano norma; altre volte essi erano esclusivamente “formali”, come per esempio all’interno di famiglie tradizionalmente attiviste in cui i figli, come già detto, ritenevano superate e obsolete le linee guida su cui si muovevano le associazioni dei padri.
Ma nonostante questo, si può notare come i movimenti dei primi anni ’60 tentassero di coinvolgere non solo le nuove generazioni ma anche chi, nonostante l’età, aveva ancora qualcosa da dare. E le parole di Dylan tendono a confermare questa tendenza: “Per favore, andate via dalla nuova strada se non potete darci una mano”.
E anche quel “Venite, madri e padri” a inizio strofa più che un espediente metrico sembra un’esortazione alla partecipazione. Dylan non dice “andate via” e basta. Dylan dice “andate via se non siete in grado di aiutarci”. Insomma, la porta è aperta: se volete entrare, bene, altrimenti andremo avanti anche senza di voi.
Stesso discorso vale anche per i “potenti”, per i membri del Congresso:

Venite, senatori, membri del Congresso,
per favore, date importanza alla chiamata
non rimanete sulla porta, non bloccate l’atrio
perché quello che si ferirà sarà colui che ha cercato di impedire l’entrata.
C’è una battaglia fuori e sta infuriando,
presto scuoterà le vostre finestre e farà tremare i vostri muri .

Il testo parla con la sicurezza di chi sa di essere nella ragione ed è sicuro di quello che sta facendo. La retorica suggerisce apertamente che tutto ciò che sta accadendo sia inevitabile e faccia parte della storia.
Le parole della canzone sono a metà strada tra il consiglio e l’ultimatum: prima o poi arriveremo anche a voi, a poco servirà il vostro istinto di conservazione.
Il sesto verso della strofa (“presto scuoterà le vostre finestre e farà tremare i vostri muri”) sembra avere come protagonista non la battaglia citata precedentemente ma il vento di “Blowin’ in the wind”, dentro cui soffia la risposta alla domanda che una generazione di studenti si pone già da qualche tempo: “Quante strade deve percorrere un uomo prima che lo si possa chiamare uomo?” .
Entrambe le canzoni ci dicono che il cambiamento è dietro l’angolo, colpirà a morte chiunque tenterà di fermarlo. Ma non in senso materiale. In senso metaforico.
Le finestre e i muri scossi sono le finestre e i muri dei cuori di chi non ha ancora capito che opporsi al mutamento dell’attuale stato delle cose non ha più senso. Sembra quasi che Dylan dica: “E’ per il vostro bene”. Il disgusto per l’ingiustizia è talmente grande che non importa quanto sincera sia l’adesione. Va bene anche se di convenienza, purchè si cambi.
Senatori e membri del Congresso: viene in mente un’altra canzone di Dylan, “It’s alright, ma (i’m only bleeding)”. Siamo nel 1965, il disco è “Bringing it all back home”, quello che segnerà la svolta elettrica del menestrello acustico. “It’s alright, ma” non sarà l’ultima canzone di protesta di Dylan, ma è sicuramente quella che chiude un ciclo, uno dei tanti, della sua lunga carriera. L’atmosfera è cupa, già dall’inizio (“Buio allo scoccare della mezzanotte” ). La canzone va avanti e si fa strada tra la rabbia e l’impotenza. Il modo in cui Dylan canta sembra anomalo: è vero che le parole trasudano di quell’energia, distruttiva e contemporaneamente costruttiva, che sale dallo stomaco, ma sembra quasi che le frasi siano dettate dalla rabbia. Dylan è apocalittico, lo è sempre stato, ma qui c’è qualcosa di più: sembra quasi rassegnato. Ce lo dice lui stesso: “Io non ho nulla, mamma, per cui vivere” . Certo, queste parole devono aver lasciato di sasso il pubblico di Dylan. La rassegnazione dell’autore brucia ancora di più della svolta rock. Il tradimento che rinfacciano a Dylan non è solo nelle forme, ma anche e soprattutto nei contenuti.
Tuttavia in questo panorama oscuro c’è una verso particolarissimo:

Le divinità si nascondono dietro i loro cancelli,
ma persino il Presidente degli Stati Uniti
a volte deve presentarsi nudo .

Detta così non fa molto effetto, passa quasi inosservata. Basta spostarci un attimo nel tempo per vedere l’effetto che una frase così può produrre non solo in chi l’ascolta ma anche in chi la pronuncia. Siamo nel 1974. Bob Dylan, che dal tour mondiale del 1966 non aveva più tenuto concerti, è ritornato sulla strada per cantare le sue canzoni su e giù per l’America. Ma nel 1974 un altro avvenimento aveva turbato le coscienze degli americani: il 37° Presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon, si era dimesso dalla carica in seguito al suo coinvolgimento nell’ambito dello scandalo Watergate.
Quando durante i concerti di quell’anno Dylan si trova a dover pronunciare quelle parole, accade qualcosa di sorprendente: non canta quella frase, la urla. Il silenzio, che tradizionalmente accompagnava l’esecuzione dei brani acustici di Dylan, viene interrotto da un boato terrificante proveniente dal pubblico. Un boato capace metaforicamente di “scuotere le finestre e far tremare i muri” evocati nel brano “The times they are a-changin’”.
C’è un’ultima strofa da prendere ancora in considerazione, la seconda.

Venite, scrittori e critici, che profetizzate con le vostre penne
e tenete gli occhi ben aperti, l’occasione non tornerà.
Non parlate troppo presto perché la ruota sta ancora girando
e nessuno può dire chi sarà scelto .

A partire dagli anni ’50 una sorta di patto legava l’ambiente giornalistico alle due agenzie di investigazione degli Stati Uniti d’America, il Federal Bureau of Investigation (FBI) e la Central Intelligence Agency (CIA).
Molto spesso veri e propri agenti si mascheravano da reporter con il consenso delle testate giornalistiche. Altre volte le informazioni venivano condivise per i motivi più disparati, dalla convinzione che le due agenzie avrebbero potuto ricambiare in qualche altro modo la cortesia, alla piena adesione ad un modello ideologico che vedeva il comunismo in tutte le sue varianti come il nemico da combattere a tutti i costi. Lo scopo era non soltanto raccogliere informazioni ma anche screditare il Movimento . Un primo piano di lettura, anche se molto vago, potrebbe essere proprio questo.
Essendo la seconda della canzone, la strofa potrebbe anche essere un’introduzione alle invettive rivolte ai genitori e ai membri del Congresso che si sviluppano poi nella terza e nella quarta strofa. Ma potrebbe anche coinvolgere chi credeva di sapere esattamente dove stesse il torto e dove la ragione, senza mai mettere in discussione le proprie convinzioni.
Scrittori, giornalisti e professori. Il genere di persona che Dylan non sarebbe mai voluto diventare, come dirà qualche mese più avanti in un’altra sua canzone, “My back pages”: “Sarei diventato il mio stesso nemico nel momento in cui avrei cominciato a pontificare” . Non affrettate i vostri giudizi, avverte la strofa. Non siate così sicuri del fatto che la vostra scelta sia quella giusta. E’ presto, la ruota sta ancora girando.
Ma nel fare ciò Dylan cade vittima delle sue stesse paure. Diventa ciò che in una certa misura disprezzava. “Bene e male, definivo questi termini in maniera chiara, in qualche modo, senza dubbio. Ma ero così vecchio allora, adesso sono molto più giovane” ammetterà sempre in “My back pages”.

Le canzoni di Bob Dylan non solo ci forniscono un quadro di quella che è la società negli anni ’60, ma ci mostrano anche le radici e l’evoluzione della musica negli Stati Uniti. Nei suoi brani si possono ritrovare le tracce e le influenze di tutti quei generi che sono entrati a far parte del patrimonio musicale americano: il blues, il country, le ballate tradizionali, il gospel, il folk e il rock fino ad arrivare al pop. Nel 1985, terminate le registrazioni di “Empire Burlesque”, Dylan ingaggiò il produttore Arthur Baker, attivo nell’ambito della dance music, per fare in modo che il suo ultimo lavoro potesse somigliare ad un disco di Madonna o Prince e raggiungere così i vertici delle classifiche.
Questo ci dà una dimostrazione di come la musica di Dylan non sia mai rimasta ferma su canoni che con il tempo furono superati ma abbia sempre cercato di evolversi, a volte con successo, altre volte meno.

Ho volutamente aperto il capitolo citando una frase proveniente da “Changing of the guards”, il cambio della guardia, pubblicata nel 1978, molto dopo il periodo preso in considerazione che va dal ’60 al ’65, anno in cui, con il disco “Bringing it all back home”, Dylan comincia a trascurare il folk e con esso la canzone di protesta.
Nel 1978 il Movimento è ormai praticamente scomparso, portandosi dietro la genuinità e il romanticismo delle sue rivendicazioni. Anche Dylan non è più lo stesso. Il suo primo disco, “Bob Dylan”, risale al 1962. I due album successivi sono quelli che lo hanno portato alla ribalta come cantore della protesta: “The freewheelin’ Bob Dylan” del 1963 e “The times they are a-changin’” del 1964. Sempre del ’64 è “Another side of Bob Dylan”, in cui l’assenza di brani di protesta è mitigata dalle sonorità ancora completamente acustiche. La svolta elettrica avviene nel 1965 con “Bringing it all back home”, cui fanno seguito “Highway 61 revisited”, sempre del ’65, e “Blonde on blonde” del 1966. Poi è la volta di due dischi country (“John Wesley Harding” del 1967 e “Nashville skyline” del 1969), una mediocre raccolta (“Self portrait”, 1970), due dischi influenzati dalla sua vita di padre di famiglia (“New morning” del ‘70 e “Planet Waves” del ‘74), intervallati dalla colonna sonora per il film “Pat Garret & Bill the kid” (1973). Seguono due dischi che risentono della crisi e della fine del matrimonio con la sua prima moglie: “Blood on the tracks” del 1975 e “Desire” del 1976. Di canzoni di protesta neanche a parlarne (se escludiamo “Hurricane”, contenuta in “Desire”).
Un anno dopo la pubblicazione di “Changing of the guards” si sarebbe convertito al cristianesimo. E allora qual è il motivo di una citazione così?
In cinquant’anni di carriera, Bob Dylan ha pubblicato 35 album in studio, 13 live, 15 raccolte e 60 singoli per un totale di, più o meno, 532 canzoni. In questo lunghissimo viaggio è però possibile rintracciare un filo conduttore che lega il suo primo disco (“Bob Dylan”, 1962) all’ultimo (“Tempest”, 2012). Parte da “The times they are a-changin’”, i tempi stanno cambiando, e passa attraverso “Changing of the guards”, il cambio della guarda. Per trovare l’approdo finale di questo ideale cammino dobbiamo arrivare al 2001, anno in cui un suo brano vince il premio Oscar come miglior canzone: il titolo è “Things have changed”. Le cose sono cambiate.
Ma le cose sono cambiate davvero? E in quale misura?
E’ vero, e tragicamente innegabile, che alcuni mali sono duri a morire: la disuguaglianza sociale, l’iniqua divisione dei beni, la povertà, la disoccupazione, la violenza e la madre di tutte le disgrazie, la guerra. Attraversano il tempo e lo spazio.
Ma c’è un dato di fatto su cui varrebbe la pena riflettere. L’attuale Presidente degli Stati Uniti d’America, Barack Hussein Obama, oggi al secondo mandato, è un afroamericano. E’ arrivato a ricoprire la più alta carica americana dopo aver sconfitto nelle elezioni primarie del Partito Democratico l’ex first lady Hillary Clinton. Una donna.
I tempi sono cambiati.

 



CAPITOLO PRIMO:
“LA VOSTRA MENTE E’ COPERTA DI POLVERE”
LA QUESTIONE RAZZIALE


 

Il 20 gennaio 2009, nel suo discorso inaugurale come Presidente degli Stati Uniti d’America, Barack Obama ricordò “quanto gli uomini e le donne libere possono ottenere quando l’immaginazione si unisce a uno scopo comune e la necessità al coraggio”, per poi proseguire: “A coloro che si aggrappano al potere grazie alla corruzione, all’inganno, alla repressione del dissenso, diciamo: “Sappiate che siete dalla parte sbagliata della Storia; ma che siamo disposti a tendere la mano se sarete disposti a sciogliere il pugno” .
L’importanza del Movimento, e dei movimenti, cui fa riferimento più o meno celatamente Obama diviene palese nel suo primo discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 23 settembre 2009 a New York, quando afferma di non poter mai dimenticare che se si trova lì, in quel momento e con la carica di cui è investito è merito di una “costante ricerca di unione più perfetta” che aveva avuto luogo in America.
Perché non è possibile apportare un cambiamento rivoluzionario e radicale senza una disponibilità alla coesione vera e sincera e senza una visione condivisa del mondo, che vada al di la degli illusori confini di razza, religione e sesso. Ed è stato così anche per tutti quegli eventi che hanno portato il Congresso a varare le leggi sui diritti civili e sul diritto al voto.
L’obiettivo della Guerra di Secessione, combattuta tra gli Stati Uniti d’America e gli Stati Confederati d’America tra il 12 aprile del 1861 e il 9 aprile del 1865, non era l’abolizione della schiavitù, bensì il destino dell’Unione. La condizione degli afroamericani divenne una questione cruciale in corso d’opera. Nel sud sbocciano così lo spiritual e il blues, i mezzi espressivi in mano agli uomini di colore, liberi ma non ancora emancipati all’interno di una società egemonizzata dai bianchi. Situazione questa che andrà poi a costituire la base della lotta per i diritti civili.
Il “Civil Right Act”, approvato nel 1964 durante la presidenza Johnson, dichiarò illegale la segregazione su basi razziali nelle scuole, sul posto di lavoro e nelle strutture pubbliche. Il Presidente potè apporre la sua firma sulla legge il 2 luglio del 1964, quando le due assemblee del Congresso approvano con 289 voti favorevoli e 126 contrari.
La paternità della legge viene comunemente attribuita al Presidente Kennedy, tanto che lo stesso Johnson affermerà che il miglior modo per onorare la memoria del presidente assassinato sia approvare e rendere attiva questa legge da lui così tanto voluta. Ma la realtà dei fatti ci dice che le mobilitazioni per mettere fine ad una delle pratiche più disumane della storia dell’umanità abbiano mosso i primi passi già molto tempo prima del 1963, anno in cui Kennedy tenne il suo discorso sui diritti civili. Già nel 1954 la Corte Suprema, a seguito di una denuncia del 1950 contro il distretto scolastico di Topeka (Kansas), aveva dichiarato illegale la segregazione nelle scuole. Nonostante ciò, quattro anni più tardi i distretti scolastici del Sud più conservatore che avevano rinunciato alla segregazione erano poco più di un terzo .
Nel Nord del paese gli afroamericani avevano sviluppato una cultura propria, condivisa e riconosciuta, e avevano prodotto esperienze proprie, sia religiose che organizzative. Erano anche riusciti a interagire con i sindacati nazionali e la vecchia sinistra americana. Margini di collegamento tra le due differenti culture, seppur fluttuanti, c’erano. Nel Sud, nonostante non mancassero solidi legami tra gli afroamericani, le limitazioni e le discriminazioni su basi razziali costituivano però linee invalicabili.
A complicare i già difficoltosi rapporti contribuiva l’ignoranza (o il desiderio di ignoranza) nei confronti delle radici culturali e storiche dell’altro, che accumunava tanto gli americani del Sud quanto quelli del Nord, e che spingeva i mezzi d’informazione a ignorare, per quanto possibile, le notizie sulle condizioni e sulle rivendicazioni dei neri in America. Di fronte a questa situazione i movimenti antisegregazionisti puntarono ad ottenere il massimo possibile di pubblicità e visibilità.
Molto spesso il fatto di volersi tenere alla larga da situazioni scomode spinse i bianchi alla sottovalutazione delle energie, delle forze e della quantità numerica di cui poteva godere il movimento che lottava per l’emancipazione degli afroamericani.
Il segregazionismo mostra in pieno le contraddizioni della società americana che concedeva ai bianchi il diritto di militare nel Ku Klux Klan, ma negava ai neri il permesso di iscriversi alla National Association for the Advancement of Colored People. Come afferma Bruno Cartosio: “Siamo abituati a pensare alle democrazie contemporanee come a “edifici” i cui abitatori condividano una parità di diritti. […] Per converso, consideriamo democrazie imperfette e società più o meno “arretrate” quelle in cui componenti della popolazione siano discriminate” . Diviene allora inevitabile pensare che qualche ingranaggio all’interno degli Stati Uniti d’America, portabandiera della democrazia e della libertà, non funzionasse poi così tanto bene.
Queste contraddizioni sarebbero state ben presto messe in discussione e forse travolte.
A lanciare questo avvertimento ci pensa anche Dylan. Il 28 agosto del 1963, a Washington, partecipa anche lui alla Marcia per i Diritti Civili. E’ la manifestazione di Martin Luther King e dello storico discorso ricordato ancora oggi come il discorso di “Io ho un sogno…”, che ancora pesa come un macigno nelle coscienze di chi ha “la mente coperta dalla polvere” , per dirla alla Dylan.
Il poco più che ventenne cantante sale sul palco, davanti a quattrocentomila persone, avvicina la chitarra ai microfoni e senza un minimo di esitazione, con voce ferma, comincia a cantare “When the ship comes in”, quando la nave arriverà.
C’è la nave, c’è il mare, c’è il porto, ci sono le catene. E ci sono anche i nemici. La metafora più chiara di così non poteva essere. Come in quasi tutte le canzoni che scriveva in quegli anni, anche qui il tono di Dylan è solenne, già dall’attacco (“Verrà il tempo quando i venti cesseranno e la brezza smetterà di spirare” ), e i tanti riferimenti biblici (i mari che si dividono e i nemici paragonati prima al “popolo del Faraone” e poi a Golia) non fanno altro che sottolineare la dimensione profetica del brano.
La nave che avanza, decisa e gioiosa, è portata in trionfo dalla natura tutta: i pesci, le onde, il sole sono tutti lì a salutarne il passaggio. Diventa parte della natura stessa. Nel testo di Dylan i diritti civili, l’uguaglianza e la giustizia sono cose naturali, come respirare. O almeno dovrebbero esserlo.
La nave, i tempi, gli uomini non possono essere più tratti in inganno da stereotipi o false verità:

E le parole che sono state usate per confondere la nave
non saranno capite mentre verranno dette
perché le catene del mare saranno spezzate nella notte
e sepolte nel profondo oceano .

Dylan descrive anche lo stupore che un evento così è in grado di generare in chi si è addormentato su di un materasso fatto di privilegi. Sembra anticipare la sorpresa e lo spaesamento che proveranno i cittadini bianchi di New York un anno più tardi, quando il ghetto di Harlem esploderà in una rivolta urbana senza precedenti:

“I nemici si alzeranno con ancora il sonno negli occhi
e dai letti si scuoteranno e penseranno di sognare
ma si pizzicheranno e grideranno e sapranno che è vero
…l’ora in cui la nave arriverà nel porto.
Allora alzeranno le mani dicendo: “faremo ciò che volete”
ma noi dalla prua grideremo: “I vostri giorni sono contati”.
E come il popolo del Faraone, saranno sommersi dalla marea
e come Golia saranno vinti” .

Qui Dylan sembra perdere di vista il carattere ecumenico e universalistico della protesta in favore di un atteggiamento ben più duro. Tutto sommato il testo risponde all’avvertimento di “The times they are a-changin’”. Se i “nemici” sono stati così sordi da non sentirlo e così superficiali da non capirlo, adesso che ne paghino le spese.
Ma non sarà Dylan a sottometterli, non può essere lui il boia: né come artista, né tantomeno come uomo. Nelle sue canzoni ad atteggiarsi a giudici e carnefici non saranno gli uomini come lui, sarà la storia.

Ma a che genere di soprusi e di violenze erano sottoposti gli afroamericani? Cosa comportava, nei fatti, la segregazione e il pregiudizio razziale?
Birmingham, Alabama. La domenica mattina del 15 settembre 1963, nel salone seminterrato della 16th Street Baptist Church, ventisei bambini stanno preparando il salmo per la funzione religiosa. Alle 10 e 22 un ordigno dinamitardo, posizionato sotto la scalinata della chiesa da quattro membri del Ku Klux Klan, esplode uccidendo quattro ragazzine, tre di 13 anni e una di 14, e provocando 22 feriti.
Sette ore più tardi, durante una dimostrazione di piazza organizzata in reazione al drammatico evento della mattina, Johnny Robinson, 16 anni, e Virgil Wore, 13 anni, vengono uccisi: il primo dalla polizia, il secondo da due bianchi rimasti non identificati. La polizia arresta Robert Chambliss, membro del Ku Klux Klan, trovato in possesso di dinamite senza averne il permesso. Verrà poi assolto dall’accusa di omicidio e multato per detenzione illegale dell’esplosivo. Le indagini arrivano ad una svolta solo nel 1971, quando il neo procuratore generale dell’Alabama Baxley visionerà i file dell’ FBI e scoprirà che numerose prove a carico di Chambliss non vennero utilizzate nel precedente processo. Nel 1977 Robert Chambliss venne arrestato, processato e condannato al carcere a vita. Morirà in prigione nel 1985. Nel 2000 vennero poi identificati anche gli altri tre attentatori: Thomas Blanton e Frank Cherry vennero arrestati; il terzo, Frank Cash, era morto nel 1994.
Ma forse per chi non ha vissuto quegli anni di discriminazioni e violenze, è quasi impossibile immaginare come fosse. Come ricordava Martin Luther King a Montgomery un conducente di autobus poteva ricevere il pagamento anticipato della corsa da un afroamericano facendolo salire dall’ingresso anteriore, salvo poi obbligarlo a scendere per risalire dall’ingresso posteriore, con il rischio di rimanere a piedi se l’autista fosse ripartito. L’episodio è un fatto minore rispetto alle bombe e alle uccisioni, ma la sua dimensione quotidiana ci permette almeno di inquadrare la situazione.
Sempre agli autobus è collegato uno degli episodi più celebri, se non il più celebre, nella storia delle rivendicazioni afroamericane del dopoguerra. In Alabama gli autobus erano divisi in tre settori: i primi dieci posti erano riservati a bianchi, gli ultimi dieci ai neri. Avanzavano così sedici posti “misti”, in cui un nero poteva sedersi ma con l’obbligo di alzarsi e cedere il posto nel caso in cui fosse salito un passeggero bianco. Il primo dicembre del 1955 Rosa Louis Parks venne arrestata per aver violato le leggi sulla segregazione. Ritornando a casa dopo il lavoro, si era seduta nel reparto riservato ai bianchi, rifiutando poi di cedere il posto. Per questo è ricordata come “la donna che non si alzò”. Il 5 dicembre del ’55 ebbe così inizio da parte della comunità afroamericana il boicottaggio degli autobus che terminò solo il 21 dicembre del 1956. Il 13 settembre la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America aveva dichiarato illegale la segregazione razziale sugli autobus.
Una dimostrazione di questa portata, che coinvolse 50.000 afroamericani, non avrebbe potuto in nessun modo avere successo se una comunità non si fosse dimostrata solidale e unita nel perseguire un obiettivo comune. Alle spalle c’erano una serie di organizzazioni molto attive e importanti.
Una delle prime associazioni per la tutela degli afroamericani fu la “National Association for the Advancement of Colored People” (NAACP). Fu fondata a Baltimora, nel Maryland, il 12 febbraio 1909. Nei primi anni di vita la guida dell’ Associazione era prevalentemente bianca. In quel periodo un solo afroamericano faceva parte del comitato esecutivo. I suoi scopi erano la parità dei diritti, l’uguaglianza nei tribunali, nelle scuole e nei posti di lavoro, l’abbattimento dei pregiudizi razziali e la tutela degli interessi delle persone di colore. Alla NAACP era iscritta Rosa Parks.
Nel 1942 a Chicago era nato il “Congress of Racial Equality”. L’impegno che si era assunto era quello della lotta alla segregazione razziale e alle discriminazioni sul lavoro e nelle scuole attraverso la non violenza. Affondava le sue radici nell’esperienza della disobbedienza civile attraverso metodi pacifici promossa da Gandhi in India. Principalmente era composta da volontari. Nel 1961 poteva contare su oltre 50 sezioni distribuite su tutto il territorio americano. Con il passare degli anni, dal punto di vista politico, sarebbe diventata un’organizzazione sempre più conservatrice. Appoggiò la candidatura di Nixon nelle tornate elettorali del 1968 e del 1972.
Altra associazione di rilievo nel panorama delle organizzazioni che lottavano per l’emancipazione degli afroamericani e punto di riferimento all’interno di esso era il “Women’s Political Council”. Sorto a Montgomery, in Alabama, sempre con l’intento di contrastare la pratica della segregazione, la sua storia fu strettamente intrecciata alla questione dei trasporti pubblici: alcune delle battaglie più importanti furono condotte contro il rifiuto delle compagnie di trasporti di assumere autisti afroamericani e a favore di un miglioramento del tragitto all’interno dei quartieri neri, dove le fermate erano ritenute troppo distanziate l’una dall’altra. Altra battaglia fu quella per l’iscrizione alle liste elettorali. Negli Stati Uniti gli afroamericani erano ammessi al voto dopo aver superato un esame che richiedeva l’esatta conoscenza della storia americana e il saper leggere e parlare correttamente la lingua. Il Women’s Political Council aprì delle scuole per la preparazione a questo esame.
Ma da sottolineare è anche l’apporto e l’impegno offerto dal mondo religioso a favore di una causa così delicata e controversa all’interno della contraddittoria società americana di quegli anni.
L’associazione forse più importante è la “Southern Christian Leadership Conference”, fondata nel 1957 dopo due incontri, uno ad Atlanta in Georgia e uno a New Orleans in Luisiana, e nata per essere una sorta di “contenitore” per tutte le associazioni impegnate nella lotta per i diritti civili. L’intento era quello di creare una confederazione per rendere possibile la collaborazione tra i diversi movimenti, in modo da rendere più visibili e maggiormente condivisibili le loro rivendicazioni. Tra i promotori spicca il nome di Martin Luther King, che ricoprì la carica di presidente del SCLC dal ‘57 al ‘68. Nella sua strategia era fondamentale il maggior coinvolgimento politico e sociale delle chiese nere.
Rimanendo all’interno del campo religioso, una battaglia ancor più radicale è condotta tutt’oggi dalla “Nation of Islam”, nota anche per essere stata sospettata dell’omicidio del suo ex leader Malcolm X. Sorta nel 1930 a Detroit, è un movimento religioso che punta alla creazione di una nazione autonoma di popolazione afroamericana e di religione islamica all’interno degli Stati Uniti. Dopo un solo anno di vita la Nation of Islam poteva contare su 25.000 seguaci. Si fonda sui cinque pilastri dell’ Islam: la professione di fede, la preghiera cinque volte al giorno, l’elemosina, il pellegrinaggio a la Mecca e il digiuno durante il mese di Ramadan. I suoi iscritti riconoscono in Wallace Fard Muhammad, il fondatore della “Nation of Islam”, la figura del Mahdi, difensore della fede e antagonista del male, il cui arrivo sulla terra anticipava la fine dei tempi.
Nella seconda metà degli anni ’60 lo scontro divenne ancora più aspro. Nel 1966 nacquero in California le Pantere Nere (“Black Panther Party”), un’organizzazione di orientamento marxista-leninista che vedeva e interpretava le discriminazioni razziali in un’ottica di lotta di classe. Le Pantere si opponevano alle logiche integrazioniste e rifiutavano l’azione non violenta, che sostituirono con una “vigilanza” sull’operato della polizia, in modo da impedirne gli abusi di potere nei confronti della popolazione nera. Miravano alla totale libertà e all’autodeterminazione della popolazione nera.
Ma come disse la storica attivista nera Ella Baker: “I giornalisti non cercano l’attività organizzativa concreta… cercano quello che fa i miracoli” . Ed è così che vennero alla ribalta dei media le due figure più rappresentative del movimento di liberazione afroamericano: Martin Luther King e Malcolm X, portatori di due opposte visioni sulla strategia da adottare per risolvere il problema della discriminazione razziale. Il teologo americano James Cone attribuisce la causa del diverso tipo di approccio alla necessità di adattarsi ai contesti in cui essi furono attivi: Martin Luther King parlava agli afroamericani cristiani del Sud agricolo, Malcolm X si rivolgeva alla popolazione nera del Nord urbanizzato, quella che viveva nei ghetti delle grandi città. Il resto lo fecero i mezzi d’informazione: la mobilitazione basata sulla non violenza promossa da Martin Luther King era ritenuta tutto sommato accettabile dalla popolazione bianca; Malcolm X era dipinto come il portatore di un odio razziale al contrario.
Il pastore protestante Martin Luther King nacque ad Atlanta il 15 gennaio 1929. Nel 1954 si trasferì a Montgomery, in Alabama, per guidare la chiesa battista di Dexter Avenue. Qui entrò nella National Association for the Advancement of Colored People e sempre qui giunse alla luce dei riflettori quando la comunità afroamericana locale lo scelse come leader e portavoce delle proprie rivendicazioni antisegregazioniste all’esplosione del caso Parks. Non deve sorprendere che la scelta cadde proprio sul ventiseienne pastore della Georgia: la leadership dei movimenti afroamericani nel Sud degli Stati Uniti era affidata per la maggior parte alle guide religiose. Nei 381 giorni di boicottaggio degli autobus King promosse trasporti alternativi per gli afroamericani. Mentre offriva un passaggio ad alcune persone sulla sua automobile, fu fermato con il pretesto di aver superato il limite di velocità e arrestato.
Criticato anche all’interno della stessa comunità nera per il suo maschilismo ed egocentrismo, Martin Luther King contribuì senza ombra di dubbio alla crescita del Movimento e, di conseguenza, alla trasformazione della società americana. Nel 1964 la sua parabola civile e politica raggiunse il culmine con il conferimento del Premio Nobel per la pace.
Promotore in America della disobbedienza pacifica e civile, King conobbe sulla propria pelle le discriminazioni e le violenze che, tanto nelle manifestazioni quanto nella quotidianità, erano riservate ai neri, cercando di combattere le ingiustizie e la disuguaglianza in conformità con il suo sentire religioso e il suo ruolo di guida spirituale.
Il suo ridimensionamento all’interno di un clima di mobilitazione più ampia e radicale fu dovuto ad una serie di fattori. Il fronte della protesta si stava spostando sullo spinoso campo della guerra in Vietnam. Ma, agli occhi del Movimento, Martin Luther King aveva barattato il riconoscimento delle istanze afroamericane con il silenzio sul conflitto. D’altro canto, la sua opposizione ormai tardiva alla guerra gli allontanò le simpatie della stampa.
Anche l’apertura di un novo fronte di battaglia che si era aperto nei grandi centri urbani del Nord degli Stati Uniti aveva indebolito la sua leadership: la non violenza era ormai considerata una pratica superata e un’arma non più sufficiente a vincere lo scontro.
I suoi discorsi nel corso degli anni, soprattutto dopo il trasferimento a Chicago nel 1966, diventarono, se non disillusi, sicuramente carichi di amarezza.
Martin Luther King morì assassinato a Memphis il 4 aprile del 1968 . L’esecutore materiale dell’omicidio fu riconosciuto nella persona di James Earl Ray, arrestato all’aeroporto Heathrow di Londra, dopo esser riuscito a fuggire in Gran Bretagna. Nel 1993 il ristoratore Loyd Jower ammise in un’intervista l’esistenza di una cospirazione nata con lo scopo di uccidere King che coinvolgeva anche le agenzie governative. Ritenuto anche esso coinvolto, nel 1999 fu costretto a pagare una multa.
L’esperienza di vita e di lotta di Malcolm X fu diversa. Nato il 19 maggio del 1925 a Omaha, a seguito della morte del padre e della malattia mentale della madre la famiglia si disperse e Malcolm, abbandonati gli studi, trascorse la giovinezza lavorando come lustrascarpe e cameriere, prima di dedicarsi ad attività illegali come lo spaccio della droga. Arrestato nel ’46, uscì di prigione nel ’52. In prigione si era avvicinato al movimento chiamato “Nation of Islam”, che promuoveva la creazione di una nazione afroamericana di fede islamica. In breve tempo divenne una figura di spicco all’interno del movimento e il braccio destro di Elijah Muhammad, numero uno della NOI.
I suoi discorsi erano aggressivi, incentrati sulla rabbia per la condizione degli afroamericani e dettati dalla sua visione politica, culturale e religiosa non integrazionista e quindi poco incline alla conciliazione. Malcolm viene dalla strada, vive nel ghetto, è stato in prigione: i neri del Nord si riconoscono in lui e in quello che dice.
A seguito dei numerosi scontri con Elijah e del divieto di parlare in pubblico impostogli a seguito di alcune sue dichiarazione controverse riguardo la Marcia su Washington e l’omicidio del Presidente Kennedy, l’allontanamento dalla Nation of Islam divenne inevitabile (1964). Malcolm X comincia ad elaborare teorie autonome, compresa quella che non prevede più la religione come elemento unificante della popolazione nera, nonostante la conversione all’islamismo ortodosso. Ma invece di concentrarsi sull’evoluzione del suo pensiero politico, i media preferirono sottolineare gli scontri con la sua vecchia associazione, cercando così di indebolire il fronte islamico.
Fondamentali nella sua svolta ideologica furono le esperienze in Africa e in Medio Oriente, dove Malcolm X venne a contatto con i rivoluzionari bianchi che lottavano per la decolonizzazione e l’autodeterminazione. Allargò allora le sue vedute ai movimenti antisegregazionisti cristiani del Sud e a quelli politici e studenteschi che si andavano formando in tutto il paese. Affermò la necessità di collocare la lotta per i diritti civili degli afroamericani all’interno di quella più universale per i diritti umani, internazionalizzando così la battaglia per renderla più efficace.
Malcolm X morì assassinato a New York il 21 febbraio 1965. Furono arrestati tre membri della NOI, ma uno solo ammise il delitto .
Nonostante la notevole distanza tra le posizioni di Malcolm X e quelle di Martin Luther King, si può notare una certa convergenza anche se non si tradusse mai in una condivisa unitarietà di visione. Dall’omicidio di Malcolm, proprio mentre questo stava rivedendo la rigidezza delle sue posizioni a favore di un’apertura ai movimenti “esterni”, le istanze di Martin Luther King subirono una radicalizzazione. Lo stesso pastore protestante arrivò ad affermare pubblicamente che la separazione tra neri e bianchi poteva diventare una fase di transizione necessaria per trattare da un maggior punto di forza in vista di una competa integrazione.

1.1 LA TRISTE MORTE DI HATTIE CARROLL.

Se l’aneddotica e la memorialistica sono ricche di episodi che testimoniano le violenze e i soprusi commessi ai danni della popolazione nera degli Stati Uniti, tre storie riguardanti le ingiustizie di cui erano vittime gli afroamericani ce le racconta anche Bob Dylan.

Registrata il 23 ottobre 1963, “The lonesome death of Hattie Carroll” compare nel disco “The times they are a-changin’” . L’argomento e il tono della canzone appaiono chiari sin dal primo verso della prima strofa:

William Zantzinger uccise la povera Hattie Carroll
con un bastone che fece ruotare attorno al suo dito dall’anello di diamante
ad un party dell’alta società in un hotel di Baltimora .

Dylan attacca diretto, senza perdersi in introduzioni che potrebbero affievolire la drammaticità dell’evento. Siamo a Baltimora, il luogo in cui avviene il tutto è l’Emerson Hotel. E’ la notte tra l’8 e il 9 febbraio del 1963.
Il riferimento all’anello di diamante e al party dell’alta società ci fanno già capire qual è la dimensione sociale di William Zantzinger, la cui descrizione continua nella strofa successiva:

William Zantzinger, che a 24 anni
possedeva una fattoria di tabacco di 600 acri
con ricchi genitori che lo curavano e lo proteggevano
e relazioni privilegiate con l’ambiente politico del Maryland,
reagì al suo arresto con una scrollata di spalle .

William Zantzinger, 24 anni, famiglia ricca, proprietario di una piantagione di tabacco. Fin qui nulla di strano, è il tipico ritratto del figlio di una famiglia benestante. Ma due particolari cominciano a rendere la narrazione un po’ inquietante: le relazioni con il mondo politico e la scrollata di spalle all’arresto. Perché quel riferimento alle “relazioni privilegiate”? E come giustificare l’atteggiamento spavaldo e non curante davanti all’arresto? Dylan lascia il tutto in sospeso, riprenderà il discorso più tardi. Per il momento ci spiega chi era la vittima:

Hattie Carroll era una cameriera della cucina.
Aveva 51 anni ed aveva dato alla luce 10 bambini
che servivano i piatti e portavano via la spazzatura
e non aveva mai parlato con le persone sedute a tavola
ma semplicemente puliva gli avanzi
e svuotava i posacenere su un intero altro piano.
Fu uccisa da un colpo, abbattuta da un bastone
che attraversò l’aria e piombò nella stanza,
destinato e determinato a distruggere.
E non aveva fatto niente a William Zantzinger .

Hattie Carroll, 51 anni, madre di 10 figli, cameriera, puliva gli avanzi da tavola e svuotava i posacenere. Non aveva neanche mai parlato prima a William Zantzinger, il quale la uccide con un colpo di bastone. Da quanto dice il nono verso della strofa possiamo dedurre che Zantzinger avesse sferrato il colpo per far male. Non è dato sapere se la sua volontà fosse quella di uccidere la Carroll. Non un accenno al colore della pelle della donna. Hattie Carroll è nera, ma questo Dylan non lo dice. Concentra la sua attenzione sulla caratterizzazione sociale dei personaggi. Siamo nel 1963, le “Pantere Nere” nasceranno solo nel 1966. Dylan, che di certo comunista non è, sembra anticipare la svolta ideologica dei movimenti afroamericani per la liberazione. Proseguiamo:

Nell’aula giudiziaria il giudice colpì con il suo martello
per dimostrare che era tutto giusto e che le corti erano all’altezza
e che le leggi dei libri non potevano essere influenzate
e anche i potenti vengono appropriatamente trattati
una volta che la polizia li ha catturati .

Il giudice condanna William Zantzinger, ma la pena è ridicola:

“Fissò in viso la persona che aveva ucciso senza motivo
e senza nessun preavviso.
E parlò attraverso il mantello, con tono profondo
e con severità comminò, per pena e pentimento,
a William Zantzinger una condanna di sei mesi” .

Sei mesi. Tanto valeva la vita di Hattie Carroll, nera, 51 anni, madre di 10 figli, cameriera. Di quei sei mesi, William Zantzinger ne scontò poi solamente tre uscendo per buona condotta.
A onor del vero, le cose andarono un po’ diversamente da come le ha raccontate Dylan. William Zantzinger quella sera è ubriaco. Si diverte a dar fastidio alla gente. Vede passare una cameriera, la ferma e le ordina di portarle da bere. Hattie Carroll, che soffre anche di disturbi cardiaci, in quel momento ha le mani occupate. Si rivolge a Zantzinger dicendogli: “Aspetti un minuto, signore”. Zantzinger ha una reazione violenta e rabbiosa, scatta in piedi e grida: “Quando ordino qualcosa me lo devi portare, e pure di corsa… lurida negra”. Dopodiché la colpisce con un bastone (non uno di quelli pesanti, ma un bastone da passeggio), prima sul collo e poi sulla schiena. Hattie Carroll ha un malore. Viene portata al Baltimore Mercy Hospital. Zantzinger reagisce male ai poliziotti accorsi per interrogarlo e viene arrestato per resistenza a pubblico ufficiale. Viene rilasciato dopo aver pagato una cauzione di 600 dollari.
La mattina dopo, alle 9 e 15, Hattie Carroll muore. Nel referto medico, compilato frettolosamente, non è specificato se il decesso sia stato causato dai colpi ricevuti o da un arresto cardiaco. William Zantzinger viene arrestato dopo qualche giorno e condannato per omicidio preterintenzionale. La condanna fu effettivamente di 6 mesi anche se, come già detto, ne scontò solo tre. Pagò 25.000 dollari alla famiglia di Hattie Carroll.
Dirà di Dylan: “E’ un buono a nulla, una feccia della società. Avrei dovuto denunciarlo e mandarlo in galera”.
Che la situazione fosse abbastanza controversa ne era cosciente lo stesso Dylan: come ci fa notare il critico letterario britannico Christopher Ricks, il cantautore americano, nel primo verso, non usa il termine “murdered” (assassinò), bensì “killed” (uccise). La differenza è sottile ma c’è, e sta nel fatto che “killed” non necessariamente implica l’intenzionalità .
William Devereux Zantzinger muore il 10 gennaio 2009, all’età di 69 anni. Nel 1991 venne arrestato per aver fatto pagare affitti esorbitanti su appartamenti fatiscenti sprovvisti di servizi igienici e acqua potabile e che da cinque anni non erano più di sua proprietà.
La pena che dovette scontare in questo caso fu più lunga della condanna per l’omicidio di Hattie Carroll.

1.2 LA MORTE DI EMMETT TILL.

La triste vicenda di Emmett Louis Till era nota a tutti quanti in America . L’omicidio avvenne nell’agosto del 1955, ben sette anni prima che Dylan scrivesse “The death of Emmett Till”. L’idea per la canzone gli venne suggerita dalla sua ragazza dell’epoca, Suzie Rotolo, attivista del Congress of Racial Equality. Occorreva una canzone da poter trasformare in un inno da cantare nelle manifestazioni del CORE. Diciamolo chiaramente: mentre “The lonesome death of Hattie Carroll”, anche per la scelta coraggiosa di fare nomi e cognomi dei protagonisti, entra di diritto tra le canzoni più toccanti scritte da Dylan, “The death of Emmett Till” è poco più che un esercizio di retorica. Come già detto in precedenza, e confermato più volte dallo stesso Dylan, non sappiamo esattamente quanto fosse veritiera la sua adesione al Movimento, né se il coinvolgimento emotivo con il quale si accostò alla storia di Emmett Till fosse sincero. Per questo motivo alcune sue parole sembrano quasi una forzatura, soprattutto quelle presenti nelle ultime due strofe.
Tirando le somme, non è certo una delle sue migliori canzoni, cosa che ammetterà lo stesso Dylan: “Ho scritto una canzone su Emmett Till che in tutta onestà era una vaccata [“a bullshit song”]. I miei motivi per farlo erano fasulli” .
Sincero o no, questo brano è un’altra testimonianza delle discriminazioni a danno degli afroamericani compiute in quel periodo.

Avvenne giù nel Mississippi non molto tempo fa
quando un ragazzo di Chicago entrò attraverso una porta del Sud.
La spaventosa tragedia di questo ragazzo la ricordo ancora bene,
il colore della sua pelle era nero, il suo nome era Emmett Till .

La differenza tra “The lonesome death of Hattie Carroll” e “The death of Emmett Till” si manifesta subito: mentre nella prima i due versi iniziali ci proiettavano violentemente nella dimensione della canzone (“William Zantzinger uccise la povera Hattie Carroll”), in questa Dylan fa una sorta di preambolo introducendo immediatamente la componente razziale del crimine (“il colore della sua pelle era nero”) e lo sviluppo tragico della vicenda (“la spaventosa tragedia di questo ragazzo”), mentre le modalità secondo le quali venne commesso l’omicidio vengono narrate nella seconda e nella terza strofa.

Degli uomini lo portarono in una baracca e cominciarono a picchiarlo,
dissero di avere una buona ragione per farlo ma non ricordo quale era.
Lo torturarono e gli fecero delle cose troppo malvagie per essere menzionate.
Ci furono anche urla che provenivano dalla baracca e risa nella strada.

Poi fecero rotolare il suo corpo giù da una baia
Sotto una pioggia rosso sangue
e lo buttarono nelle acque profonde
perché la smettesse di gridare per il troppo dolore.
Il motivo per cui lo uccisero, e sono sicuro che sia la verità,
fu solo per divertimento e per vederlo morire lentamente .

In realtà Dylan ricorda benissimo il motivo per cui Emmett Till fu ucciso. La storia era nota a tutti, Dylan compreso.
I fatti andarono così. Emmett Till era nato a Chicago il 25 luglio del 1941. Era coetaneo di Dylan. Aveva solo 14 anni quando fu mandato con il cugino a Money, nel Mississippi, per trascorrere le vacanze in casa di un parente. Era in un negozio di alimentari, dove si era recato per comprare caramelle, che si vantava con alcuni sui amici di avere una ragazza bianca a Chicago. Gli amici, che non credevano a ciò che Emmett raccontava, gli chiesero di dare prova della sua abilità con le donne andando a chiedere alla proprietaria del negozio di uscire con lui. Quando ciò avvenne, la donna cominciò a gridare. Il cugino di Emmett, intuendo che la situazione poteva volgere al peggio, lo porto vià, ma prima di uscire Emmett lanciò un fischio alla donna.
Saputo dell’accaduto, il ventiquattrenne marito Roy Bryant, spalleggiato dal fratellastro, decise di dare una lezione al ragazzo. Rapirono Emmett, lo portarono in una baracca e lo picchiarono. Ma il quattordicenne ragazzino di Chicago, al contrario di quanto racconta Dylan, non gridò e non diede nessun tipo di soddisfazione ai due rapitori, facendo montare così in loro la rabbia. È a questo punto che la situazione precipita. Prima gli cavano un occhio, poi gli sparano in testa. Per completare l’opera, gli legano un peso attorno al collo con del filo spinato e lo gettano nel fiume Tallahatchie. A differenza di quanto farà in “The lonesome death of Hattie Carroll”, qui Dylan decise di non fare i nomi dei due assassini.

Due fratelli confessarono di aver ucciso il povero Emmett Till
ma nella giuria ci furono uomini che aiutarono i due
a commettere il loro orribile delitto
e così il processo fu una messinscena, ma a nessuno sembrò importare.

Lessi il giornale del mattino
ma non sopportai di vedere i fratelli sorridenti
mentre scendevano le scale del tribunale.
La giuria li giudicò innocenti e i due fratelli furono messi in libertà .

Roy Bryant e il fratellastro dichiararono allo sceriffo di aver lasciato in libertà Emmett dopo essersi resi conto che non era lui la persona che cercavano. I due furono processati e quindi assolti. La giuria era composta da 12 bianchi che impiegarono poco più di un’ora per emettere il verdetto.
Tempo dopo, rassicurati dal fatto che negli Stati Uniti non era possibile per legge giudicare due volte la stessa persona per il medesimo reato, i due fratelli confessarono l’omicidio ad un giornalista, dimostrando così come anche i processi potevano essere falsati dai pregiudizi razziali.

1.3 “SOLO UNA PEDINA NEL LORO GIOCO”: L’OMICIDIO DI MEDGAR EVERS.

Nato a Decatur, nel Mississippi, il 2 luglio 1925, Medgar Evers è un’altra figura di primo piano all’interno del movimento per i diritti civili. Afroamericano, membro del “Regional Council of Negro Leadership”, durante il secondo conflitto mondiale aveva combattuto nell’esercito degli Stati Uniti d’America. Organizzò il boicottaggio delle stazioni di servizio che non facevano utilizzare i loro bagni alle persone di colore e dei negozi che vendevano esclusivamente ai bianchi. Denunciò la Mississippi University quando vide respinta la sua domanda di ammissione. Fu assassinato il 12 giugno del 1963 davanti alla porta di casa. A sparare il colpo, nascosto dietro un cespuglio, fu De La Beckwith, membro del Ku Klux Klan, arrestato l’anno seguente. Le due diverse giurie che si occuparono del caso, interamente composte da bianchi, non erano riuscite a raggiungere il verdetto. Dopo trent’anni passati in liberta, De La Beckwith venne nuovamente fermato nel 1994, quando il caso fu riaperto sulla base di nuovi sviluppi nell’indagine. Giudicato colpevole, fu quindi condannato all’ergastolo.
Sarà che la canzone “Only a pawn in their game” è contenuta nel disco “The times they are a-changin’”, una pietra miliare nell’ambito della canzone di protesta, ma la versione dei fatti che Dylan dà dell’accaduto è davvero convincente, non solo per la schiettezza e l’immediatezza delle immagini, ma anche perché, come vedremo, la canzone riesce a trascendere l’evento (già di per se drammatico) e condurre la discussione su un piano più ampio e universale.

Una pallottola da dietro un cespuglio
prese il sangue di Medgar Evers.
Un dito azionò il grilletto contro di lui,
un calcio di pistola sparì nel buio,
una mano fece esplodere la scintilla,
due occhi presero la mira dietro la mente di un uomo.
Ma non può essere incolpato:
è solo una pedina nel loro gioco .

Come in “The lonesome death of Hattie Carroll”, la canzone ci mette sin da subito davanti al fatto compiuto. Due versi, secchi, concisi e chiari. Dopodiché elenca una serie di azioni che risultano quasi un rituale: mossa per mossa, azione per azione, secondo per secondo, compila una lista dei gesti dell’assassino. Tutto è abbastanza schematico. Quasi meccanico. Ma perché? Dylan ce lo spiega subito: chi ha premuto il grilletto non è altro che una pedina. Una pedina nelle mani di chi? La strofa seguente chiarisce il tutto.

Un politicante del Sud predica ai poveri bianchi:
Avete più dei negri, non vi lamentate.
Siete migliori di loro, siete nati con la pelle bianca.
Ed il nome dei negri è usato per il guadagno del politicante,
per la sua scalata al potere.
Ed il povero bianco rimane sull’ultimo vagone del treno .

I politici a favore della segregazione razziale agiscono per preservare i loro privilegi e la loro posizione all’interno della società. Impongono il mantenimento della distanza dalle comunità afroamericane facendo leva sulla superiorità della popolazione bianca. E ancora:

Gli sceriffi, i soldati, i governatori sono pagati,
così come i Marshals e i poliziotti.
Il povero uomo bianco diventa uno strumento nelle loro mani.
Gli viene insegnato a scuola, sin dall’inizio, come una regola,
che le leggi sono con lui, per proteggere la sua pelle bianca,
per tenere alto il suo odio .

Poliziotti, sceriffi, soldati. Sono loro a fomentare l’odio razziale. Sono loro che dettano la linea e “radiocomandano” ogni mossa. Il bianco che si fa sottomettere non ha ancora capito che lui non avrà nessun tornaconto personale. Gli altri vengono pagati, ci guadagnano, scalano la gerarchia sociale e conquistano il potere. Chi commette il gesto finale, in questo caso l’omicidio di Medgar Evers, non è altro che una marionetta a cui “viene insegnato come far parte del branco”.

Oggi Medgar Evers è stato seppellito,
a causa del proiettile che ricevette.
Lo hanno calato giù come un re.
Ma quando il sole opaco tramonterà su colui che sparò con quell’arma,
lui vedrà sulla sua tomba, sulla pietra che rimane,
scolpito vicino al suo nome, il suo semplice epitaffio:
SOLO UNA PEDINA NEL LORO GIOCO .

Moto bella è l’immagine di chiusura che Dylan sceglie per il suo racconto: il contrasto tra la sepoltura di Medgar Evers, cui viene tributato l’onore che merita, e l’anonima sepoltura che riceverà il suo assassino. Uno dei tanti. Solo una pedina nel loro gioco.
Vale la pena fare un confronto tra quest’ultima strofa e i versi di chiusura che un altro cantautore scelse per raccontare il suo modo di vedere e interpretare l’accaduto, Phil Ochs:

“Lo deposero nella tomba mentre la tromba risuonava chiara.
Lo seppellirono quando la vittoria era ormai vicina.
Mentre aspettavamo il futuro e la libertà in tutto il paese,
il paese guadagnò un assassino e perse un uomo” .

Anche Ochs, come Dylan, lascia intendere quanto grande sia lo spessore dell’uomo assassinato, rendendo la sua sepoltura simile agli ingressi trionfali degli imperatori nell’antica Roma. Ma a differenza di Dylan, punta il dito contro il bersaglio più semplice, l’assassino.
Di contro, Bob Dylan non si limita all’episodio specifico, ma allarga ulteriormente la visione dei fatti: trova il coraggio per andare a criticare il sistema tutto, che difende con i suoi silenzi le sue mal celate simpatie.

I tre episodi narrati nelle canzoni di Dylan danno la dimensione di come il problema della discriminazione razziale venisse percepito dalla popolazione bianca. Il brano su Medgar Evers, descrivendo un omicidio mirato, lascia intendere che la questione razziale aveva delle conseguenze sul piano politico: l’emancipazione degli afroamericani, e la loro conseguente integrazione nella società, avrebbe comportato una serie di stravolgimenti sociali che l’èlite bianca non era disposta ad affrontare. Gli afroamericani venivano quindi visti come una minaccia per l’equilibrio interno degli Stati Uniti.
La canzone su Hattie Carroll collega l’omicidio della donna alla convinzione di una diversità, sociale e biologica, tra bianchi e neri: i primi governano e impartiscono comandi, i secondi eseguono gli ordini.
Il caso di Emmett Till può essere ricondotto alla vendetta di un marito geloso, ma il trattamento brutale riservato ad Emmett e la mancanza di conseguenze sul piano penale possono essere spiegate solo riconoscendo che la società americana negli anni del segregazionismo era fortemente condizionata dai pregiudizi razziali.

 

CAPITOLO SECONDO:
 

“DI NUOVO BLOCCATO A MOBILE CON IL BLUES DI MEMPHIS” IL PATRIMONIO MUSICALE AMERICANO
NELLE CANZONI DI DYLAN

Il 29 maggio 2012, nel corso di una cerimonia alla Casa Bianca, Bob Dylan ha ricevuto dalle mani del presidente Barack Obama la Medaglia Presidenziale della Libertà, la più alta onorificenza civile statunitense.
Basterebbe questo per capire quanto la figura di Dylan sia stata importante nella storia culturale americana. Ma vale la pena ricordare di come Dylan sia stato, ed è tutt’ora, un punto di riferimento per tutti i cantautori delle generazioni successive alla sua. I suoi brani sono stati interpretati da numerosi esponenti della canzone d’autore di tutto il mondo, come Bruce Springsteen e Joan Baez, il canadese Neil Young, gli italiani De Andrè e De Gregori, l’inglese Eric Clapton e lo scozzese Mark Knopfler. Molte rock band hanno edificato le loro carriere utilizzando come pilastri i testi di Dylan (su tutti i Byrds, ma anche i Grateful Dead).
Ma il gioco delle influenze coinvolge direttamente lo stesso Dylan, il cui rapporto con la cultura musicale americana è decisamente intenso. Il dialogo che ha con la tradizione blues risulta molto fitto, e lo si può notare tanto a livello musicale quanto a livello testuale. Il rapporto con le radici del folk è invece particolare. Negli anni del “revival” Dylan non è l’unico a confrontarsi con il repertorio tradizionale (dalle canzoni degli anni ’20 e ’30 fino a risalire alle ballate di origine inglese). Stringe così forti legami con figure storiche della musica folk (Woody Guthrie) e con i giovani autori che come lui cominciano ad affacciarsi sulle scene (Dave Van Ronk).
Dylan lascerà a tutti qualcosa, e da tutti prenderà qualcosa, inserendosi così nella tradizione dell’eterno gioco di ammirazione, prestiti e furti che da sempre caratterizza il rapporto con la musica delle radici.

2.1 DYLAN E IL BLUES.

Bukka White, uno dei grandi blues singer attivi tra gli anni ’30 e gli anni ’70, una volta dichiarò: “Oggi puoi avere il blues anche mentre sei seduto a mangiare, ma il blues è stato creato camminando dietro un mulo ai tempi della schiavitù” . Questa affermazione può essere ritenuta vera solo in parte. Se è un dato innegabile il fatto che lo spirito con cui il blues veniva suonato e cantato traeva origine dall’esperienza della schiavitù, resta comunque un’impresa ardua individuare con esattezza il momento esatto in cui nacque e prese piede quello che è stato il fenomeno più influente della storia musicale contemporanea.
E’ un’operazione estremamente difficile poiché, oltre al fattore puramente cronologico, entrano in gioco componenti che rendono il quadro decisamente più complesso, come ad esempio la religiosità, che nei blues si articola su una direttrice opposta rispetto agli spiritual: non si cerca più l’incontro con il Signore per trovare conforto, bensì si fugge dal diavolo giunto a reclamare il prezzo del successo.
Dopo l’abolizione della schiavitù la questione fondamentale non è più come ottenere la libertà (formalmente acquisita), ma come sopravvivere in una società egemonizzata dai bianchi e che ancora nutre pregiudizi nei confronti degli afroamericani.
Se usiamo come spartiacque le prime registrazioni databili attorno il 1910, possiamo dire che il blues si sviluppò quando gli afroamericani si resero conto che al di fuori delle piantagioni il messaggio evangelico degli spiritual non era più sufficiente a garantire la speranza di un futuro migliore.
L’amore drammatico, l’alcool, la droga, l’esperienza del carcere, la solitudine e lo spettro della morte divennero nel blues tematiche centrali attraverso cui traspariva la sofferenza delle comunità afroamericane che, nonostante l’abolizione della schiavitù, faticavano ad integrarsi.

L’influenza del blues è rintracciabile in quasi tutti i generi musicali che hanno egemonizzato il mercato discografico del XX secolo: dal rock & roll al folk, dal rap all’hard rock fino ad arrivare al pop, sono moltissimi gli artisti che hanno subito il fascino dello stile compositivo dei bluesman attivi tra l’inizio del secolo e gli anni ’60.
Tra questi anche lo stesso Dylan. Nelle note di presentazione scritte dalla Columbia per l’interno della copertina del suo primo disco, “Bob Dylan”, del 1962, appare subito chiaro che gli interessi del giovane autore si sono spostati dal rock & roll, la vera passione adolescenziale, al blues:

Dylan è uno dei più irresistibili cantanti di blues bianchi che abbiano mai inciso un disco. […] Alle volte egli utilizza per la sua chitarra un coltello da cucina o persino il cappuccio di un rossetto, conferendole così il suono metallico dei primi bluesman. La sua acuta, sferzante ed abile armonica viene utilizzata alle volte nello stile di Walter Jacobs, che suona con la band di Muddy Waters a Chicago, o nello stile evocativo si Sonny Terry .

Proprio in questo disco è contenuta una cover di “Fixin’ to die blues” di Bukka White, che ha fatto vivere al blues singer una seconda giovinezza musicale.
Già nel 1961 il critico musicale Robert Shelton scriveva così di Bob Dylan:

La voce del signor Dylan è tutto fuorchè bella. Egli sta consapevolmente cercando di ricostruire la ruvida bellezza di un lavoratore dei campi del Sud che canticchia meditabondo .

Il fatto che Dylan cercasse di dare alle sue composizioni venature decisamente blues risulta evidente soprattutto nel periodo appena successivo alla svolta elettrica, da “Bringing it all back home” (1965) a “Blonde on Blonde” (1966) passando per “Highway 61 revisited” (1965), quando comincia ad ingaggiare per le registrazioni dei sui dischi numerosi musicisti provenienti dal panorama musicale blues. Due nomi su tutti: Mike Bloomfield, chitarrista della Paul Butterfield Blues Band, che aveva suonato a Chicago con Muddy Waters e Howlin’ Wolf, e il batterista Sam Lay, anche egli membro della Paul Butterfield Blues Band, nato a Birmingham in Alabama, che come Bloomfield era cresciuto musicalmente a Chicago suonando al fianco di gente come Little Walter e Howlin’ Wolf.
Ma la convergenza di Dylan verso il blues non riguarda solo la dimensione musicale, ma anche e soprattutto quella testuale. Nei suoi testi si possono infatti rintracciare caratteri tipici del modo di scrivere proprio dei bluesman. Dylan assimila i modelli e li rielabora a suo modo, mimetizzandoli per adattarli alle tematiche e alle necessità dei tempi.
L’esempio di come Dylan faccia sua la lezione del blues ci viene dato da un brano che con il blues, musicalmente parlando, non ha nulla a che spartire: “Don’t think twice, it’s all right”, contenuta in “The freewheelin’ Bob Dylan” del 1963.
E’ vero che il folk e il blues hanno molto in comune per quanto riguarda le tematiche, poiché la sfera sociale e umana dentro cui si sviluppano sono praticamente le stesse, ma in questa canzone si manifesta palesemente il debito che Dylan ha nei confronti della tradizione blues con cui è venuto in contatto nel corso del tempo.
Se, come disse B.B. King, “Il blues è quando un uomo perde la sua donna, perché a quei tempi l’uomo non aveva nient’altro” , Dylan dimostra di condividere appieno questa visione del rapporto di coppia e, attraverso essa, del mondo appena scoperto da un ragazzo di vent’anni arrivato a New York senza null’altro che la sua chitarra.
La canzone è stata scritta nel 1962, mentre Suzie Rotolo si trovava in Italia. Dylan, che non sembra in grado di vivere serenamente questo periodo di lontananza, scrive una canzone che, per via del sincero coinvolgimento emotivo, lascia trasparire tutta la sua sofferenza attraverso il rancore:

Non serve stare seduta a chiederti perché, babe,
non è il caso, comunque.
E non serve stare seduta a chiederti perché, babe,
se non capisci ancora.
Quando il tuo gallo canterà all’alba
guarda fuori dalla tua finestra e me ne sarò andato.
Tu sei il motivo per il quale vado via,
ma non pensarci, va tutto bene .

Già dalla prima strofa si può riconoscere il riferimento al linguaggio del blues. Leggendo le biografie dei vecchi bluesman, ci si può rendere conto di come tutti i problemi relativi al rapporto di coppia hanno una buona percentuale delle loro ragioni di esistere nel fatto che l’uomo, invece di impegnarsi per mantenere economicamente la famiglia, usciva per suonare nei locali o per ubriacarsi. Ma quando i problemi riguardanti la sfera sentimentale si traducevano in musica, il quadro che ne veniva fuori era completamente diverso e le situazioni venivano rovesciate. Come afferma Alessandro Carrera, “dalla lingua del blues (Dylan) aveva imparato anche troppo bene l’arte di ritorcere i propri torti contro l’altro” . Leggendo della storia tra Dylan e Suzie Rotolo, ci si può rendere conto di come tutte le mancanze che il cantautore rinfaccia alla ragazza in realtà potrebbero benissimo provenire dalla parte opposta.

Una volta ho amato una donna,
una bambina mi sono detto,
le ho dato il mio cuore ma lei voleva la mia anima.
Ma non pensarci, va tutto bene .

In termini espressivi la canzone dice nulla di nuovo. Tutto è stato già detto, magari in forme diverse, ma la sostanza è sempre la stessa. Nella lingua del blues questi sono quasi degli standard. Prendiamo ad esempio “Ramblin’ on my mind”, registrata da Robert Johnson nel 1936 e pubblicata nel 1937:

Ho cose cattive,
ho cose cattive che mi frullano per la testa.
Ragazzina, ragazzina,
ho cose cattive che mi frullano per la testa.
Mi dispiace lasciarti qui, bambina,
ma tu mi tratti così male .

Come scritto sempre da Carrera, “il blues, nonostante la sua nobiltà, è anche un incessante lamento del cornuto” , poiché nel rapporto di coppia tutto diviene un gioco di specchi: l’uomo rinfaccia alla donna il tradimento, senza tener conto del fatto che se la loro relazione è finita la maggior parte delle colpe sono le sue. Questa sembra essere una verità assoluta a guardare i testi dei grandi maestri del blues. Inevitabile quindi che Dylan, di cui veniva sempre sottolineata la capacità di metabolizzare velocemente i modelli con cui entrava in contatto, ne risultasse fortemente condizionato nello scrivere le sue canzoni d’amore più ironiche. Queste canzoni sono impregnate di una sfrontatezza proveniente dalla tradizione blues. Lo si nota nell’ultima strofa di “Don’t think twice, it’s all right”:

Sto camminando su una strada lunga e solitaria, bambina,
dove mi sto dirigendo non posso dirlo.
Ciao è una parola troppo bella, ragazza,
perciò dirò solamente addio.
Non sto dicendo che mi hai trattato male,
avresti potuto fare di meglio, ma non mi importa,
hai solo sprecato il mio tempo prezioso.
Ma non pensarci, va tutto bene .

Ecco l’impudenza di cui si parlava prima. Dylan è consapevole del fatto che tutto ciò di cui sta accusando la ragazza potrebbe benissimo essere rivolto a lui, ma nonostante questo diviene in un certo senso anche spavaldo nell’atteggiamento: “Potevi fare di meglio, invece hai solo sprecato il tempo prezioso che ti ho dedicato”, dove l’aggettivo relativo al tempo ci lascia quasi intendere che, potendo tornare indietro, Dylan non commetterebbe due volte lo stesso sbaglio. E’ come se avesse fatto un favore a Suzie Rotolo iniziando una storia con lei. Anche questo è un tipico atteggiamento standard rintracciabile nella tradizione del blues. E’ quasi una scrollata di spalle che lascia trasparire la convinzione che chiusa una porta si apre un portone, che dietro l’angolo c’è una nuova donna ad aspettare. Per questo l’autore si rimette in viaggio.
Ed il viaggio, il partire dopo una delusione, è un’altra costante dei blues.“Sto camminando per una strada lunga e solitaria, bambina, dove mi sto dirigendo non posso dirlo” è una frase che rimanda direttamente ad un altro classico, “Leavin’ Blues”, nella versione resa famosa da Robert Johnson nella prima metà degli anni ‘30:

Me ne vado stamattina, bella,
e non so dove andare a sbattere,
perché la donna con cui ho vissuto per vent’anni
dice di non volermi più .

Sono tutte “situazioni tipo”, che Dylan filtra attraverso la sua poetica: “Ciao è una parola troppo bella perciò dirò soltanto addio” è una frase impossibile da ritrovare in blues, per sua natura molto più diretto. E’ come se Dylan prendesse un abito di seconda mano e lo modificasse per renderlo adatto ai tempi e a se stesso.
La frase “Non sto dicendo che mi hai trattato male” (“I ain’t sayin’ you treated me unkind”) rimandare esplicitamente al “Tu mi tratti così male” (“You treats me so unkind”) di “Ramblin’ on my mind” incisa da Robert Johnson. Viene ripresa per essere negata, come a voler azzerare il debito con la tradizione blues. Nel fare ciò Dylan dimostra di avere una grande conoscenza dell’opera dei bluesman, verso la quale nutre una tale ammirazione da volerla contemporaneamente citare e negare.
Nello stesso disco in cui è contenuta “Don’t think twice, it’s all right” c’è un altro pezzo che vuole essere una dichiarazione d’amore nei confronti del blues del Delta e della cultura musicale afroamericana, nella quale Dylan trova materiale in abbondanza per sviluppare poi le sue variazioni sul tema. Il brano in questione è “Honey, just allow me one more chance”. Il titolo della canzone, che è la frase che si ripete alla fine di ogni strofa, è un omaggio a un altro cantante di blues e country vissuto tra il 1874 e il 1930, Henry Thomas, il quale aveva scritto una canzone dal titolo “Honey, won’t you allow me one more chance”. A parte questo, le due canzoni, nel testo e nella musica, appaiono solo vagamente somiglianti, ma tanto basta a Dylan per inserire il nome di Henry Thomas all’interno della copertina di “The Freewheelin’ Bob Dylan”, facendolo figurare come coautore della canzone.
Nel 1965 esce “Bringing it all back home”, probabilmente il disco di Dylan con il maggior numero di hit. Tra queste, quella che con il tempo è divenuta la più amata dai suoi ascoltatori è sicuramente “Maggie’s farm”. Di questa canzone sono state date molteplici interpretazioni, dall’ intenzione di Dylan di volersi discostare definitivamente dal Movimento alla volontà di non sottostare più alle leggi del mercato discografico. Sul significato della canzone si possono solo fare delle supposizioni, ma, qualunque sia il messaggio che Dylan vuole trasmettere, ad analizzare la struttura della canzone ci si può rendere conto di come “Maggie’s farm” sia stata costruita per apparire una descrizione della vita che conducevano gli afroamericani nel Sud del paese:

Non lavorerò più alla fattoria di Maggie.
No, non lavorerò più alla fattoria di Maggie.
Bè, mi sveglio la mattina,
incrocio le braccia e prego che piova.
Ho la testa piena di idee che mi stanno facendo impazzire.
E’ una vergogna il modo in cui lei mi fa lustrare il pavimento.
No, non lavorerò mai più alla fattoria di Maggie .

Nelle strofe successive la canzone prosegue parlando prima del fratello di Maggie che multa il narratore ogni volta che fa sbattere la porta, poi del padre che gli sbuffa il fumo del sigaro sulla faccia solo per divertimento e infine della madre, la vera figura dominante all’interno della famiglia, che attraverso la sua retorica cerca di mantenere stabile l’ordine gerarchico. Non è sicuramente una canzone scritta per denunciare le discriminazioni razziali: Dylan ha già attraversato quella fase e non intende tornarci, è stato categorico al riguardo. E anche il contesto in cui il brano è inserito lascia intendere che tale interpretazione sarebbe completamente errata: ogni ponte con le tematiche del passato è stato distrutto. Ma qualunque siano le ragioni di questa canzone, è evidente come Dylan si sia rifatto alla tradizione musicale e testuale afroamericana e alla cornice storica in cui essa si è sviluppata.
Il 30 agosto 1965, a distanza di soli cinque mesi dall’uscita di “Bringing it all back home”, la Columbia pubblica un nuovo disco di Bob Dylan: “Highway 61 revisited”. Se in “Bringing it all back home” Dylan aveva cercato di far apparire meno radicale la sua svolta elettrica incidendo il lato B completamente in acustico, in “Highway 61 revisited” ciò non accade. Dei nove brani presenti solo l’ultimo, “Desolation row”, è registrato solo con chitarra acustica e armonica. Per il resto il disco è una continua cavalcata elettrica con chitarre e organo che si intrecciano tra loro in modo convincente. La canzone trainante del disco è “Like a rolling stone”, comunemente ritenuta dai critici musicali la miglior canzone rock. E’ una lunga invettiva della durata di 6 minuti e 13 secondi che Dylan lancia nei confronti di una non identificata “Signorina Solitudine”. Il testo sembra una rielaborazione in seconda persona di un vecchio blues scritto nel 1923 da Jimmy Cox e registrato per la prima volta nel 1929 da Bessie Smith: “Nobody knows you when you’re down and out”. Prendiamo in esame la prima strofa del brano inciso dalla Smith:

Una volta facevo una vita da milionaria
spendevo i miei soldi senza pensarci su
portavo gli amici a divertirsi
comprando alcool di contrabbando, champagne e vino .

Adesso mettiamola a confronto con i primi due versi di “Like a rolling stone” di Dylan:

Una volta vestivi così bene
gettavi una moneta ai mendicanti nel fiore dei tuoi anni
non è vero?

I due attacchi sono molto simili: in entrambi si fa riferimento alla bella vita condotta dalle protagoniste dei due brani. In “Nobody knows you when you’re down and out” il riferimento è esplicito, in “Like a rolling stone” l’idea viene resa attraverso il vestirsi bene. Nel secondo verso entrambe le canzoni parlano di soldi e dell’utilizzo spensierato che se ne fa. Il brano di Dylan descrive in teoria un gesto carico di umanità ma nel contesto generale della canzone evoca un gesto che lascia trasparire più un senso di superiorità che di solidarietà. Il testo di Cox parla anche di divertimento e di alcool, cosa che avviene anche nella seconda strofa del testo di Dylan:

Sai che ti piaceva solo ubriacarti
e nessuno ti ha mai insegnato come vivere per la strada .

Ma le somiglianze non finiscono qui. Si prendano di “Nobody knows you when you’re down and out” i due versi che recitano:

Quando cominciai a scivolare giù in basso
non ebbi più né amici né luoghi dove andare .

e il ritornello:

Nessuno ti conosce quando sei a terra e finita.
Non ho neanche un soldo in tasca
e di amici non ne ho più .

Si possono ritrovare dei riscontri nel testo di Dylan, sia nella prima strofa quando dice:

La gente ti avvisava
“Attenta ragazza, sei destinata a cadere”.
Tu pensavi stessero tutti scherzando .

e sia nel ritornello:

Come ci si sente
a contare sulle proprie forze,
senza un posto dove andare,
come una completa sconosciuta,
come una pietra che rotola?

Nel blues di Jimmy Cox la protagonista è cosciente della sua posizione e di come le cose nella sua vita siano radicalmente cambiate. In “Like a rolling stone” il narratore si prende la sua rivincita verso qualcuno che gli aveva fatto un torto. Lo stesso Dylan dichiarò: “(La canzone) diceva qualcosa a qualcuno che non voleva sapere. Vendetta, questa è la parola migliore ”. Si è voluto vedere in questa canzone una sorta di autoanalisi mascherata che Dylan effettua su se stesso, anche se il testo si rivolge ad una figura femminile (ma questo può rientrare benissimo nei canoni del blues dove, come già detto precedentemente, il destinatario delle canzoni è una donna a cui vengono rinfacciati gli errori che nella maggior parte dei casi vengono commessi dall’autore stesso). Ciò può essere ritenuto in parte vero, se pensiamo ai versi sulle false amicizie, un tema che Dylan affronterà di nuovo nel singolo “Positively 4th Street” del settembre 1965:


Hai una bella sfrontatezza
a dire che mi sei amico,
quando stavo per terra
te ne stavi in piedi a sghignazzare .

Chi siano i destinatari di queste canzoni rimarrà sempre un mistero dal momento che il loro autore non ama parlare delle storie che stanno dietro i suoi brani. Ma dal punto di vista compositivo e testuale è innegabile il fatto che il blues sia una delle componenti fondamentali, se non la componente principale, del bagaglio musicale di Bob Dylan.

2.2 DYLAN E IL FOLK.

Tra la metà degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60 negli Stati Uniti si verifica una riscoperta del folk e delle radici della cultura musicale americana contemporanea. Tra i fattori che contribuiscono alla nascita di questo fenomeno, conosciuto come “folk revival”, un ruolo di primo piano lo occupano sicuramente le ricerche condotte sul campo dagli etnologi musicali. Si pensi ad esempio al lavoro svolto da Harry Everett Smith (1923 – 1991) e alla sua “Anthology of American Folk Music”, una raccolta di registrazioni di brani folk, country, gospel e blues degli anni ’20 e ’30. Fu pubblicata nel 1952 in tre volumi, ognuno dei quali composto da due dischi. Ogni volume si occupava di un determinato ambito musicale: il primo conteneva le “ballads”, provenienti per la maggior parte dalla tradizione inglese; il secondo volume trattava la “social music”, ovvero quei brani (alcuni cantati, altri esclusivamente strumentali) che venivano eseguiti durante gli eventi sociali o le cerimonie religiose; il terzo volume conteneva le “songs”, canzoni che si occupavano dell’aspetto quotidiano della vita, come ad esempio l’amore o la morte. Nel 2000 la Revenant Records in collaborazione con l’ Harry Smith Archive ha pubblicato un quarto volume contenente le “labor songs”, brani politici e sindacali. Essa è stata la maggior fonte di ispirazione per i cantanti folk che negli anni ’60 dominavano gli ambienti artistici di New York.
Altra figura di spicco nel campo dell’etnologia musicale fu Alan Lomax (1915 – 2002), che utilizzò il materiale raccolto dal padre John per la Library of Congress come punto di partenza per sviluppare le sue ricerche. La sua attività si svolse inizialmente negli Stati Uniti meridionali, dove, tramite una serie di registrazioni, raccolse materiale per la documentazione della cultura musicale del Sud del paese. Poi le sue ricerche si allargarono su scala mondiale con i viaggi in Spagna, Italia e Inghilterra. Collaborò con Woody Guthrie al progetto di un’antologia della canzone di protesta e con la Columbia per la pubblicazione di un’antologia della musica folk mondiale (“Columbia world library of folk and primitive music”). Membro direttivo del Newport Folk Festival, arrivò alle mani con Albert Grossman, manager di Dylan, proprio a causa della svolta elettrica di quest’ultimo.
Il folk che negli anni ’60 diventa un fenomeno discografico di massa trova in queste ricerche la sua linfa vitale ma si rinnova seguendo diverse direttrici: ai musicisti che ripropongono il repertorio tradizionale se ne affiancano altri che, partendo dalle medesime melodie, scrivono nuovi testi per attualizzare i brani.
Il revival della musica folk affonda le sue radici nelle registrazioni blues,country e folk del primo trentennio del XX secolo ma anche nella “roots music”, la musica delle origini: il gospel, le canzoni dei cowboy e persino quelle dei nativi americani. Ma l’America, passata attraverso due conflitti mondiali e la Grande Depressione, non è più la stessa. La ballata folk, per la sua semplicità e immediatezza, diviene il mezzo migliore per la denuncia sociale già negli anni ’40 e ’50 grazie all’attività di ricercatori come Pete Seeger e Woody Guthrie.
Il primo, nato a New York nel 1919, è uno protagonisti della riscoperta e della diffusione del folk. Attivista della vecchia sinistra americana, non ha mai nascosto le sue simpatie comuniste e si è sempre battuto per la causa ambientalista. Tra le sue canzoni più significative figura “Where have all the flowers gone?” del 1956, maggiormente conosciuta nella versione cantata da Joan Baez. Per il testo prese spunto da un brano di Michajl Sholokhov (premio Nobel per la letteratura nel 1964), mentre per la melodia si rifece a “Drill ye tarriers drill”, una work song del 1888 scritta da Thomas Casey e Charles Connolly che fa riferimento alla costruzione delle ferrovie americane nel XIX secolo. Il contenuto antimilitarista della canzone emerge palesemente nella quarta strofa:

Dove sono andati tutti i soldati,
durante lo scorrere del tempo?
Dove sono andati tutti i soldati,
tanto tempo fa?
Dove sono andati tutti i soldati?
Sono tutti nei cimiteri.
Quando mai impareranno?

L’altro grande esponente della musica folk e della canzone di protesta è Woody Guthrie (1912 – 1967), capace di influenzare le diverse generazioni di cantautori che si sono succedute nel tempo, da Bob Dylan a Bruce Springsteen. Segnato dai lutti e dalle sventure che colpirono la sua famiglia, si mise a vagabondare per il paese, entrando così in contatto diretto con quella parte di società americana colpita più duramente dalla Depressione, di cui denuncerà i mali:

Se mi dimostri che ne hai bisogno,
ti farò avere un credito,
sono un banchiere allegro, sono un banchiere allegro.
Basterà che mi restituisci il doppio di quanto ti ho prestato .

Canzoni come questa verranno riprese del movimento “Occupy Wall Street”, sviluppatosi a New York nel 2011 per denunciare gli abusi del capitalismo finanziario durante l’ultima crisi economica mondiale.
E’ autore di quello che è considerato l’inno alternativo degli Stati Uniti, “This land is your land”.
Proprio Dylan è il cantautore che forse più di tutti ha fatto sua la lezione di Guthrie. Da quando lesse la sua autobiografia, “Bound for glory”, ne rimase talmente affascinato che una delle prime cose che fece appena arrivato a New York nel ’61 fu andare a trovare il suo idolo ricoverato in ospedale.
Nel primo disco inciso da Dylan nel 1962, solo due canzoni sono composizioni originali. Una di queste si intitolata “Song to Woody”:

Guardo il tuo mondo di persone e cose,
i tuoi poveri ed i contadini, le principesse e i re.

Ehi, Woody Guthrie, ti ho scritto una canzone
che parla del buffo mondo che abbiamo davanti.
Sembra malato, è affamato, stanco e dilaniato.
Sembra morto ma è appena nato .

Già dalle prime strofe si può notare come Dylan tenti di far combaciare il mondo del suo maestro con il suo. Dylan ha visto l’America attraverso le canzoni di Guthrie prima ancora che con i suoi occhi. La visione del mondo diventa così la stessa. La canzone vuole essere una condivisione non solo di ideali ma anche di stile di vita:

L’ultima cosa che voglio fare
è poter dire che ho fatto anch’io tanta strada .

Dylan trova in Guthrie non solo la giusta prospettiva attraverso cui guardare il mondo, ma anche modelli compositivi. La perentorietà di certi suoi testi proviene si dalla tradizione dell’ Antico Testamento, ma la modalità con cui mettere in versi le sue invettive e gli ultimatum ha un precedente nell’opera di Woody Guthrie:

Sto per dirvi una cosa, fascisti,
che potrà sorprendervi.
Le persone in questo mondo
si stanno organizzando.
Siete destinati a perdere,
fascisti, siete destinati a perdere .

Risulta subito evidente come questa canzone possa aver influenzato numerosi brani di Dylan, come ad esempio “The times they are a-changin’” del 1964 (“La linea è tracciata, la maledizione è lanciata/ il più lento di adesso sarà il più veloce, il presente diventerà passato” ) o “When the ship comes in” dello stesso anno (“Allora alzeranno le mani dicendo “Faremo ciò che volete”/ ma noi dalla prua grideremo “I vostri giorni sono contati”./ E come il popolo del Faraone saranno sommersi dalla marea/ e come Golia saranno vinti” ). Il tono e la sicurezza sono gli stessi per entrambi gli autori, così come la certezza delle proprie convinzioni.
Un’altra canzone di Guthrie anticipa la capacità mostrata da Dylan in “The lonesome death of Hattie Carroll” di proiettare immediatamente l’ascoltatore dentro la vicenda . Il brano in questione è “Ludlow massacre”, scritta nel 1944 e riguardante la repressione degli scioperi dei minatori in Colorado:

Era inizio primavera quando lo sciopero cominciò.
Cacciarono via noi minatori
dalle case di proprietà della Compagnia.
Ci spostammo nelle tende su nella vecchia Ludlow .

Già nella prima strofa la canzone ci proietta in una situazione ben determinata. E’ vero che il brano si apre con una individuazione temporale, ma nello stesso verso ci viene anche presentata la situazione in cui ci troviamo: uno sciopero.
In “The lonesome death of Hattie Carroll” viene fatto ancora di meglio: nel verso d’apertura ci vengono introdotti il crimine, la vittima e l’assassino. Nelle canzoni di denuncia sociale, Dylan tende ad essere molto diretto. I versi sembrano quasi titoli di giornali o slogan. Non c’è tempo per la poeticità, sviluppata invece al massimo nei testi più introspettivi e personali, come “My back pages” o “Mr Tambourine man”. Il disgusto deve palesarsi immediatamente all’ascoltatore, coinvolgendolo emotivamente e accelerando così i processi in grado di cambiare lo stato delle cose. Il messaggio deve essere diretto ed esplicito, senza possibilità di fraintendimento. La canzone è stata registrata appena otto mesi dopo che Zantzinger ha ucciso Hattie Carroll. Dylan ha letto gli articoli di giornale e seguito passo passo la vicenda. Il suo coinvolgimento è concreto.
La questione è diversa per quanto riguarda “The death of Emmett Till”. La canzone è stata scritta nel 1962, l’omicidio era avvenuto nel 1955. La vicenda era di dominio pubblico, ma le informazioni che Dylan possiede sono di seconda mano. Non fa nomi perché non c’è bisogno di farli: chi fossero gli assassini era ben noto a tutti. Mentre in “Hattie Carroll” il disgusto è concreto perché toccato con mano, in “Emmett Till” non c’è esperienza diretta. Il brano si apre con un’introduzione che occupa una strofa intera: non è in grado di catapultarci immediatamente dentro la scena poiché non è generato dallo sdegno, o almeno non direttamente . Dylan cercava a quei tempi il modo migliore per ottenere la maggior visibilità possibile: arrivato a New York con l’intento di fare successo in ambito musicale, un brano che potesse essere utilizzato come inno da chi lottava contro la segregazione razziale gli avrebbe dato sicuramente notorietà. Scrivere una canzone su un episodio di rilevanza indiscussa per quanto lontano nel tempo deve essergli sembrata la via migliore per emergere come cantore degli oppressi all’interno del Movimento:

Ma se tutti noi che la pensiamo allo stesso modo
diamo tutto quello che possiamo,
faremo di questa nostra grande terra
un posto migliore per vivere .

La canzone si chiude con un retorico invito all’attivismo, forse per rendere più credibile il suo coinvolgimento e nascondere così il suo opportunismo.
E’ possibile trovare una somiglianza tra l’incipit di questo e brano e quello di “Ballad of Oxford, Mississippi” di Phil Ochs. La canzone parla della vicenda di James Meredith, il primo afroamericano ad aver ottenuto il permesso per frequentare un’ università:

Vi canterò una canzone su una città del Sud,
dove comanda il diavolo,
quando gli ispettori fronteggiarono una folla inferocita
per mandare a scuola un solo uomo.
Il suo nome era Jimmy Meredith
e contribuì al cambiamento
scegliendo di restare lì quel terribile giorno .

La canzone è stata scritta nel 1962, lo stesso anno in cui si verificò l’episodio narrato. Anche qui l’apertura è affidata ad un verso che colloca la scena nello spazio e attribuisce qualità decisamente negative alla città di Oxford. Ma il fatto che la canzone sia quasi contemporanea all’avvenimento, al contrario di quanto avviene in “The death of Emmett Till”, ci fa pensare che l’introduzione presente nella prima strofa sia una cosa voluta, dal momento che la caratterizzazione temporale e spaziale di un episodio era uno degli elementi caratteristici del modo di scrivere di Phil Ochs.
Sullo stesso argomento anche Dylan scriverà una canzone, “Oxford Town”.

Oxford Town, Oxford Town
tutti tengono la testa bassa
il sole non splende oltre il suolo
non andrò ad Oxford Town .

Anche qui Dylan sembra commettere per l’ennesima volta l’errore di raccontarci un episodio che non lo coinvolge fino in fondo. Ad un’analisi più attenta però appare chiaro che il distacco di Dylan è studiato. La canzone ha una forma circolare, la prima strofa si ripete nel finale. Al suo interno descrizioni immediate e scene drammatiche (“Siamo stati accolti dai gas lacrimogeni”, “Due persone sono morte sotto la luna del Mississippi”) si alternano ad altre più superficiali e distaccate (“Qualcuno farebbe meglio ad indagare”). E’ interessante il paragone tra il testo di Dylan e quello di Phil Ochs, dal momento che non è la prima volta che i due si trovano ad affrontare lo stesso argomento. Nel capitolo precedente avevamo già visto come Bob Dylan e Phil Ochs avessero dato la loro versione dei fatti sull’omicidio di Medgar Evers attraverso due composizioni differenti. Questo richiamo di tematiche ci può dare la misura di come Dylan vivesse il confronto con i suoi colleghi. Mentre con Dave Van Ronk il rapporto fu amichevole sin dall’inizio (Dylan dormì a casa di Van Ronk per quasi tutto il primo mese che seguì il suo arrivo a New York), con Phil Ochs le cose erano differenti. Dylan vedeva in lui l’artista con cui più di tutti avrebbe dovuto confrontarsi. Lo riteneva superiore agli altri cantanti folk che affollavano il Greenwich Village. Una volta dichiarò: “Non posso competere con Phil. E sta migliorando sempre di più”. Quando nel 1965 Phil Ochs dimostrò poco entusiasmo per “Can you please crawl out your window?”, l’ultimo brano scritto da Dylan, quest’ultimo lo fece scendere dalla sua limousine gridandogli: “Tu non sei un cantante, Ochs, sei un giornalista” . Phil Ochs era effettivamente stato un giornalista, e il precedente lavoro aveva influenzato non poco il suo modo di scrivere canzoni. Lo si può notare sia nella prima strofa di “Ballad of Oxford, Mississippi” , ma anche in “Too many martyrs”, dove le caratterizzazioni spaziali e temporali fanno apparire la canzone come un articolo di cronaca nera:

Nello stato del Mississippi, molti anni fa
un ragazzo di 14 anni assaggiò la legge del Sud .

Phil Ochs, da parte sua, nutrì sempre una profonda stima per Dylan, e insieme a Johnny Cash fu uno dei pochi a non criticare la sua svolta elettrica, anzi cercò di imitarlo. I due si riavvicinarono nel 1974, quando l’evento organizzato da Ochs, “An evening with Salvador Allende”, rischiava di essere annullato a causa dell’insufficiente riscontro di pubblico. Le vendite dei biglietti registrarono un’impennata quando venne ufficializzata la partecipazione di Bob Dylan.
Il gesto di Dylan può essere considerato come il pagamento di un debito, dal momento che “Ballad of Oxford, Mississippi” molto probabilmente fornì a Dylan l’idea per una delle sue canzoni più famose, “The times they are a-changin’”:

Ascoltate allora, Mr. Barnet e Mr. Walker:
i tempi stanno cambiando velocemente, e vi travolgeranno .

Se è vero che il repertorio tradizionale ispirò le composizioni newyorkesi di Dylan, è altrettanto giusto dire che il contatto con i cantanti contemporanei fu un evento di fondamentale importanza per la crescita e la maturazione compositiva del giovane Bob.

La tradizione folk rimarrà per Dylan un punto di riferimento durante tutta la sua carriera artistica, nonostante la svolta elettrica del 1965. Dopo la crisi artistica attraversata negli ’80 (“Empire burlesque” del 1985, “Knocked out loaded” del 1986 , “Down in the groove” del 1987) e il fiasco di “Under the red sky” (1990), un po’ di ossigeno arrivò da due dischi commercialmente “difficili”: “Good as I been to you” (1992) e “World gone wrong” (1993). Entrambi sono composti da reinterpretazioni di classici del folk e del blues, in cui la voce di Dylan è accompagnata dalla sola chitarra. Un ritorno alle origini. Nel primo sono da segnalare “Frankie & Albert”, già contenuta nell’ “Anthology of American Folk Music” di Harry Smith, e “Hard Times”, basata su una composizione del XIX secolo. In “World gone wrong” spiccano “Blood in my eyes” e la title track, entrambe apprese da due incisioni precedenti il secondo conflitto mondiale dei Mississippi Sheiks. Sono tutte ballate tradizionali, alle volte rivisitate nella melodia.
Che fosse una scelta coraggiosa lo dimostra il fatto che quando nel 1994 Dylan propose per la collana MTV Unplugged un set acustico di canzoni tratte dall’ultimo album, la Sony Music si oppose fermamente, incoraggiando invece l’esecuzione delle sue vecchie hit.
Dylan voleva tornare alle radici della musica tradizionale per superare il suo momento di crisi. Era apparso chiaro già nel 1989, con l’uscita di “Oh mercy”. Qui è contenuta “Man in the long black coat”, una canzone che si rifà direttamente a “House Carpenter”, una ballata inglese già incisa da Dylan e mai pubblicata, fino alla sua comparsa in “The Bootleg Series Vols. 1 – 3” del 1991. La prima persona che associò i due titoli fu Chris Morris, durante una recensione di “Oh mercy” sul “Los Angeles Reader”, nel settembre del 1989:

“Man in the long black coat” è una raggelante canzone narrativa a proposito di un diabolico straniero, che prende ispirazione dalle vecchie ballate inglesi basate sulla figura dell’amante infernale .

In “House Carpenter” viene narrata la storia di uomo (personificazione del diavolo) che, dopo un lungo periodo di assenza, torna dalla sua vecchia amante, ormai di nuovo sposata, e la rapisce portandola con se all’inferno, e costringendola a lasciarsi alle spalle il marito, il figlio e la casa.

Ben ritrovata, ben ritrovata, mio vero amore.
Ben ritrovato, ben ritrovato, gridò lei.
Sono appena ritornato dall’oceano,
e l’ho fatto per il tuo amore .

La donna lascia il marito e i figli per seguire il suo uomo appena tornato. Che quest’ultimo sia la personificazione del diavolo diventa chiaro nel corso della canzone:

Oh, cosa sono quelle colline laggiù, amore mio?
Sembrano scure come la notte.
Quelle sono le colline del’inferno, amore mio
Dove tu ed io saremo uniti .

In “Man in the long black coat” la visuale viene completamente ribaltata, e il punto di vista esposto è quello dell’uomo rimasto a casa a guardare la sua donna rapita da uno sconosciuto:

I grilli friniscono, l’acqua è alta.
C’è un vestito di cotone leggero appeso ad asciugare,
una finestra spalancata, alberi africani
piegati all’indietro dal soffio di un uragano.
Non una parola di saluto, nemmeno un biglietto.
Se ne è andata con l’uomo
dal lungo cappotto nero .

La canzone prosegue tra immagini quotidiane (il predicatore che recita un sermone, qualcuno che parla per la strada) e scene apocalittiche (il fumo sull’acqua, le persone che galleggiano, la coscienza umana definita vile e depravata), quasi a voler evocare il panorama infernale. Ma allo stesso tempo queste scene desolate sembrano richiamare anche alla vena compositiva di Dylan, ormai inaridita. L’uomo lasciato dalla propria donna senza neanche un addio fa i conti con la sua vita (proprio come l’artista rimasto senza musa fa i conti con la sua arte), incerto se addossarsi la responsabilità dell’abbandono o no (“Non ci sono errori nella vita, dice la gente. A volte è vero, puoi vederla così”).
In questa canzone carica di amarezza, Dylan sembra anticipare le tematiche della solitudine e della morte, punti fissi della sua produzione discografica negli anni a seguire che raggiungerà l’apice in “Time out of mind” del 1997.
 


EPILOGO:
 

“IERI E’ SOLO UN RICORDO, IL DOMANI NON E’ MAI CIO’ CHE AVRESTI PENSATO CHE FOSSE”


Il 28 gennaio 1988 Bob Dylan fu inserito nella “Rock and Roll Hall Fame”, il museo dedicato alla memoria delle figure più importanti della storia del rock. Il discorso introduttivo fu tenuto da Bruce Springsteen, il quale, parlando delle emozioni provate durante il primo ascolto di “Like a rolling stone”, dichiarò:

Sapevo che stavo ascoltando la voce più legnosa che avessi mai sentito. Era scarna e sembrava, in qualche modo, allo stesso tempo giovane e vecchia. Dylan fu un rivoluzionario. Bob liberò la mente come Elvis liberò il corpo .

Indipendentemente dalla sua volontà, e dai gusti musicali di ognuno, Bob Dylan è stato il modello e il portavoce di almeno due generazioni. Nel corso degli anni, nonostante i tonfi commerciali (tanti) e i trionfi discografici (a dire la verità pochi se si considera la sua carriera cinquantennale), Dylan non ha mai mancato di farci pervenire il suo punto di vista su ciò che accadeva in America e nel mondo. Lo ha fatto anche durante il periodo della sua conversione al cristianesimo evangelico, in “Slow train”:

Tutto quel petrolio straniero che controlla il mercato americano
guardatevi attorno,vi crea proprio imbarazzo.
Sceicchi che se ne vanno in giro come re
indossando strani gioielli ed anelli al naso
decidono il futuro dell’America da Amsterdam a Parigi .

Nonostante la canzone fosse il centro rovente del disco “Slow train coming” (1979), la strofa in questione fu contestata duramente dai suoi vecchi estimatori, che videro in questi versi una pericolosa convergenza verso posizioni conservatrici. Ma il Dylan convertito al cristianesimo credeva che l’apocalisse fosse ormai vicina e ciò che vedeva in America e nel mondo non faceva altro che rafforzare le sue convinzioni.
Nel 1983 Dylan si distacca dalle tematiche religiose e dà alle stampe “Infidels”, uno dei suoi dischi più politici. Tra i temi trattati compare anche la questione israeliana, in “Neighborhood bully”:

Il bullo di quartiere è stato sbattuto via da ogni terra,
girovaga per il mondo, è un esiliato.
Ha visto disperdere la sua famiglia,
la sua gente perseguitata e dilaniata.
E’ sempre sotto processo per il solo fatto di essere nato .

Dylan, la cui famiglia è di origine israeliana, si schiera al fianco del suo popolo, non mancando di sottolineare gli epiteti con cui questo veniva indicato (il bullo di quartiere). A quei tempi si parlava di un ritorno alla religione ebraica, ma, se ciò avvenne, Dylan tenne ben separate la sfera spirituale e quella lavorativa, forse perché ancora segnato dalle critiche per i due dischi di matrice religiosa seguiti a “Slow train coming” (“Saved” del 1980 e “Shot of love” del 1981).
Altra canzone controversa di “Infidels” fu “Union Sundown”:

Bè, sai, un sacco di gente si lamenta perché non c’è lavoro.
Io dico: “Perché dite così
Quando niente di ciò che avete è di produzione americana?”
Non fanno più niente qui, sai, il capitalismo è al di sopra della legge.
Si dice: “Non conta, se non si vende”.
Quando costa troppo costruirlo a casa tua,
lo costruisci da qualche altra parte con minor spesa .

Di certo la critica partiva un po’ prevenuta nei confronti di Dylan e dei suoi lavori di quegli anni. “Union Sundown” doveva forse essere una critica al capitalismo nelle intenzioni dell’autore. Ma la crisi personale e artistica che Dylan stava affrontando contribuì sicuramente a rendere ambiguo il suo messaggio.

In tutti i modi, vale per Bob Dylan ciò che Gregory Corso, uno dei massimi esponenti della letteratura beat, disse di Jack Kerouac:

Oh e poi quando si chiede di te
“Che gli è accaduto?”
io dico: “Quello che è accaduto all’America
è accaduto
a lui. I due erano
inseparabili”. Come il vento
al cielo è la voce alla
parola .

 


CONCLUSIONI

 

In cinquant’anni di carriera Bob Dylan ha rappresentato tutto e il contrario di tutto: icona dei movimenti per i diritti civili e musicista opportunista che cavalca la corrente per arrivare al successo, rockstar in giro per il mondo e padre di famiglia premuroso, artista con il vizio della droga e cristiano evangelico osservante. Sulla sincerità delle sue prese di posizione non avremo mai un punto di vista univoco e veritiero, ma c’è da dire che Dylan sa essere molto persuasivo e convincente quando decide di immergersi in un qualcosa che lo coinvolge. “The lonesome death of Hattie Carroll” è sicuramente una delle sue canzoni meglio riuscite, così come lo sarà “Hurricane”, almeno finchè Dylan ha creduto pienamente nell’innocenza del pugile Rubin Carter. Nella versione originale faceva anche nomi e cognomi delle persone coinvolte, finchè la Columbia non lo convinse che era meglio autocensurarsi piuttosto che essere denunciati. Quando Dylan non fu più convinto della causa che stava sostenendo ha semplicemente smesso di cantare quella canzone piuttosto che dare l’idea di uno che non condivideva a pieno ciò che stava dicendo.
Questa sua tendenza a contraddirsi di continuo può essere considerata una conseguenza dei tempi e della società in cui Bob Dylan si è formato come artista e come cittadino. L’ ansia di un mondo sempre sull’orlo di un conflitto nucleare, l’ingiustizia che regolava i rapporti interrazziali, lo spaesamento davanti la caduta dei vecchi valori e la frenesia per il sorgerne di nuovi si riflette nell’opera di Dylan compresa tra il 1962 e il 1965. Al di là del suo coinvolgimento più o meno sincero su ciò che stava accadendo in quegli anni, Dylan ha saputo non solo raccontare gli avvenimenti che hanno segnato quel periodo di storia americana, ma ha anche saputo descrivere nel dettaglio lo stato d’animo di una generazione che lottava per il cambiamento della società.
 


BIBLIOGRAFIA

• Allen Bob, Berkley Rebecca, Briggs Keith, Buskin Richard, Cleaton Andrew, Douse Cliff, Drozdowski Ted, Irwin Colin, Jenkins Todd, Mandel Howard, Milkowski Bill, Mulholland Garry, Newton Robin, O’Neal Jim, Porter Bob, Skinner Tony, Whiteis David, Londra, Blues. The complete story, Flame Tree Publishing, 2007.
• Antologia del blues, a cura di Elena Clementelli e Walter Mauro, Roma, Tascabili Economici Newton, 1994.
• Carrera Alessandro, La voce di Bob Dylan. Una spiegazione dell’America, Milano, Feltrinelli, prima edizione (riveduta e ampliata) nell’ “Universale Economica”, maggio 2011.
• Cartosio Bruno, I lunghi anni sessanta. Movimenti sociali e cultura politica negli Stati Uniti, Milano, Feltrinelli, prima edizione in “Storie”, gennaio 2012.
• Oakley Giles, The Devil’s Music. Blues, la musica del diavolo, traduzione di Umberto Fiori, Milano, ShaKe, 2009.
• Ricks Christopher, Dylan’s visions of sin, Manhattan, New York, Ecco Press, 2003.
• Williamson Nigel, The rough guide to Bob Dylan, Londra, Rough Guides Ltd, 2004. Guida completa a Bob Dylan, traduzione di Vanna Lovato, Milano, Vallardi Editore, 2005.


 

SITOGRAFIA

 

• folkmusic.about.com, ultimo accesso 02/01/2013.
• www.antiwarsongs.org, ultimo accesso 28/12/2012.
• www.maggiesfarm.eu, ultimo accesso 23/12/2012.
• www.repubblica.it, ultimo accesso 06/12/2012.
 

INDICE

 

1 “I tempi stanno cambiando”. Introduzione

17 Capitolo primo: “La vostra mente è coperta di polvere”. La questione razziale.
30 La triste morte di Hattie Carroll.
35 La morte di Emmett Till.
39 “Solo una pedina nel loro gioco”: l’omicidio di Medgar Evers.

44 Capitolo secondo: “Di nuovo bloccato a Mobile con il blues di Memphis”. Il patrimonio musicale americano nelle canzoni di Dylan.
45 Dylan e il blues.
58 Dylan e il folk.

73 Epilogo: “Ieri è solo un ricordo, il domani non è mai ciò che avresti pensato che fosse”.

77 Conclusioni.

79 Bibliografia.
80 Sitografia.