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Ciao Mr.Tamb,
ho ascoltato la colonna sonora di Into the wild (molto bella) e non ho
fatto a
meno di notare che nella canzone Society, Vedder suona un assolo che
tanto mi
ricorda Blowing in the wind...ascoltala e dimmi che ne pensi.
La canzone è Dylaniana 100%
, Vedder è delicato , l'assolo è spudoratamente Blowin' , concordo
pienamente con la tua opinione. Per quanto riguarda
Dylan, volevo chiederti quale sia il significato di
Subterranean Homesick Blues. So che Carrera aveva parlato in un
intervista di
una canzone fatta di slang americani... ma quindi se non ci mettiamo a
studiare
Americano non possiamo capirla?
Che senso ha, mi chiedo, dire che Johnny è in cantina che mischia la
medicina mentre io sono sul marciapiede (e quindi sopra la sua testa)
che penso al governo?
Chi è Johnny? E tutto il resto?
Sai inoltre se Dylan abbia
avuto contatti con Barrett o i Floyd?
Secondo te c'è qualcosa in comune tra Syd e Bob?
Spero di non essermi rivolto a te con toni troppo pedanti, non vorrei
farti
sentire un guru, ma Dylan è interessante e per capirlo ci vuole anche
un po di cultura e forse, in questo campo, è ciò che mi manca.
Ti ringrazio!
Renecat La traduzione di un
pezzo dall'inglese è sempre un rischio , l'inglese è più sintetico ed
usa poche parole , l'italiano , per dire la stessa cosa è ricco di
vocaboli , mentre a volte nell'inglese si usa la stessa parola in
diverse occasioni , da qui nasce il rischio di sbagliare o di travisare
nella traduzione . Ecco cosa dice Alessandro Carrera , il traduttore
ufficiale di Bob , al riguardo :
Per chi traduce poesia l’esilio peggiore
è quello dal paradiso della rima. Lì non c’è ritorno o riconquista
possibile. Non ci sarà modo di dare a un’altra cassa armonica le stesse
risonanze di quel liuto che era stato messo insieme con il legno
dell’albero edenico. Peggio ancora, poi, se il Testo da tradurre era
originariamente parte di una canzone. Perché in questo caso il
traduttore non dovrà tradurre solo il verso rimato, ma anche la voce del
cantante, la sua intonazione, le sue idiosincrasie vocali, i suoi
silenzi e le sue debolezze, perché tutto concorre al significato di una
canzone, non solo quel che c’è scritto, ma ancor di più quello che
nemmeno si può scrivere.
Bob Dylan, del quale ho tradotto 355 canzoni dall’estate del 2002
all’inizio del 2006 (ora raccolte in Lyrics 1962-2001, Feltrinelli 2006)
è appunto l’incarnazione dell’incubo peggiore che possa assillare un
traduttore: un autore nel quale tutta la scrittura è riassunta nella
voce, anzi nelle voci, perché Dylan ne ha molte, una per ogni fase della
sua carriera, al punto che spesso sembra mutare scrittura solo per
rincorrere le metamorfosi della sua voce. E se una voce non si può mai
adeguatamente trascrivere (autorevoli filosofi hanno così argomentato,
in anni recenti), come si potrà addirittura tradurre?
Il criterio che ho seguito nella traduzione delle Lyrics dylaniane è
stato quello di attenermi contemporaneamente a molti criteri, senza
privilegiarne nessuno e cercando di evitare il più possibile ostinazioni
o partiti presi. Soprattutto, ho cercato "to get it right", di tradurre
cioè con la maggior precisione possibile le espressioni idiomatiche che,
data la loro appartenenza a una lingua così mutevole come l’americano
parlato, sono sfuggite ai traduttori che si sono fermati ai testi degli
anni sessanta o che non hanno potuto spingersi oltre gli ottanta. Al
loro occasionale surrealismo traduttoriale ho spesso sostituito
significati che non erano poi così oscuri, a patto di conoscere
l’espressione idiomatica di riferimento. Non che fosse facile (a volte
si tratta di espressioni poco note anche agli americani), e ammetto di
avere lavorato in condizioni migliori delle loro, se non altro perché
avevo a disposizione più passato, più letteratura critica, più banche
dati su carta e in internet, nonché amici competenti e volonterosi. La
preoccupazione di tradurre veramente, e non di inventarmi una
traduzione, mi ha costretto però a ridurre talvolta le mie ambizioni.
Dove ho sentito che potevo osare senza stravolgere il verso, ho osato.
Ma se il prezzo da pagare per una traduzione più poetica e cantante era,
un’altra volta, l’incomprensione di ciò che Dylan effettivamente dice,
allora ho preferito non pagarlo. A traduttori futuri che vorranno
riscrivere Dylan secondo i loro criteri e per i loro fini passo
volentieri la mano. Nel corso di questo lavoro mi sono reso conto che un
traduttore può riscrivere, rimodellare, ricreare, ri-soffrire il páthos
del testo originale, renderlo più fluido nella propria lingua, a volte
perfino migliorarlo, ma che spesso deve abbassare la cresta e limitarsi
a tradurre.
La prima decisione che dovevo prendere riguardava le allocuzioni
affettive come "baby”, "mama”, "daddy”, "honey”, "love”. Ho scartato
subito ogni variante di "bambina”, "bimba”, "dolcezza, "cara” o "tesoro”
(a queste ultime due ho riservato solo un contesto ironico). In inglese
si tratta di termini che non hanno età, non richiamano nessuna classe
sociale e a volte non hanno nemmeno sesso, ma in italiano appartengono
unicamente alla lingua della piccola borghesia o al lessico fortemente
codificato del libretto d’opera primo Novecento e della canzone di
consumo. "Bimba dagli occhi pieni di malia” si ascolta nella Madama
Butterfly ma, visto che il personaggio che canta è un americano, non è
detto che non sia un traduzione di "baby”. "Ciao, ciao, bambina, un
bacio ancora” è stato il tentativo di Dino Verde e Domenico Modugno di
tradurre "Bye, bye, baby” ma, nonostante il successo, l’espressione non
ha avuto presa. In effetti non era nuova, e gli italiani avevano ancora
nelle orecchie alcuni versi di canzoni degli anni trenta come "Bambina
innamorata, stanotte ti ho sognata”. "Tesoro”, "cara” e "dolcezza”, poi,
se non sono ironici (come in "cara mia”) sono semplicemente orribili,
sanno di sceneggiato televisivo mal tradotto. "Amore” va usato con molta
parsimonia, perché in inglese uno può dire indifferentemente che ama
Dio, ama il suo cane o ama la crostata di mele di sua zia, ma in
italiano bisogna andarci piano con l’amore (meglio "amore mio”). La
lingua di Dylan, poi, non è quella della piccola borghesia americana, e
in italiano necessita di uno strato più profondo, popolare senza essere
per forza populista; quello che, se vogliamo restare nell’ambito della
canzone, appartiene magari a Paolo Conte o a Enzo Jannacci.
In realtà la corrispondenza quasi perfetta con "baby” si avrebbe con le
espressioni napoletane "nenna” o "nennella”, purtroppo inutilizzabili
perché non diffuse su tutto il territorio nazionale (e sulla questione
dei possibili apporti dialettali mi dilungherò più avanti). "Ragazza
mia” si può usare se il tono non è troppo dolce. Quanto al maschile,
"ragazzi” o "salve ragazzi” sa di oratorio e di trasmissioni per giovani
alla radio negli anni sessanta, ed è quasi sempre meglio tradurlo con
"amici” o "amici miei”. In definitiva, per trovare l’equivalente di
"baby” mi sono letto l’antologia della poesia popolare italiana curata
da Pier Paolo Pasolini nonché la raccolta di canti italiani curata da
Roberto Leydi. L’unico possibile equivalente italiano, comune a tutti i
dialetti e a tutte le tradizioni, è "bella” o "bella mia”. Ma anche
"bella” non va inflazionato. Dylan canta, ha bisogno di riempire il
verso e a questo scopo "baby” va sempre bene. Ma una volta che il suo
testo viene letto, e letto in un’altra lingua, di simili riempitivi non
c’è bisogno. Sulla pagina danno solo fastidio. Da qui la decisione di
compiere un massacro degli innocenti e di eliminare quanti più "babies”
possibile. Ho lasciato "bella”, "bella mia” o "ragazza mia” solo quando
il verso e il senso lo richiedevano. Non l’ho usata neanche una volta in
canzoni piene di "babies” come It Ain’t Me, Babe o Baby, Stop Crying. Ho
lasciato l’espressione in inglese, invece, quando aveva un effetto
fonetico che non si poteva alterare, come in It’s All Over Now, Baby
Blue o in Sugar Baby, perché "Baby Blue” non si può tradurre con
"bambina triste” o "bambina blu”. Può avere il senso, se si vuole, di
"perla dei miei occhi”, ma in realtà non vuol dire niente di preciso, è
semplicemente un effetto della tavolozza fonetica dell’inglese. Cercare
di tradurlo in italiano sarebbe come voler tradurre in inglese "c’era
una volta un bambino piccino picciò”. E una "sugar baby” non è
necessariamente una "zuccherina”.
Certo, qualcosa nel passaggio si perde. Data l’ambiguità di "babe”, It
Ain’t Me, Babe è una canzone rivolta da un uomo a una donna solo perché
la canta Dylan. In realtà può anche essere indirizzata da una donna a un
uomo (così infatti, senza cambiare una virgola, la canta Joan Baez). Per
lasciare la stessa ambiguità in italiano avrei però dovuto concludere
ogni strofa con un verso che non mi piaceva. Invece di "l’uomo che
cerchi tu non sono io” avrei dovuto dire "chi cerchi tu non sono io” con
un effetto di chiusura troppo brusco e dal suono troppo secco. Pazienza
per l’ambiguità.
Il secondo problema consisteva nel rendere le espressioni di movimento
come "I am walking”, "down the road”, "down the highway” o "along the
line”. L’archetipo dylaniano è quello di un uomo che cammina lungo il
ciglio di una strada di campagna. È così da I’m Walking Down the Line
del 1962 a Love Sick del 1997, fino alla Ain’t Talking del recentissimo
Modern Times ("Ain’t talking, just walking”; come a dire: "Parlare non
parlo, cammino e basta”), perché è uno degli archetipi del blues e del
country. Ma non è un archetipo italiano, e non è neanche una forma del
moto che la lingua italiana abbia mai dovuto esprimere in quel modo.
L’inglese pone un’enfasi tutta preposizionale (spero si possa dire così)
su movimenti anche minimi che in italiano non può essere resa in
parallelo. Non c’è modo di rendere letteralmente un verso come questo di
Jim Morrison in The End: "And he walked on down the hall”. Bisogna
ricorrere a "proseguì”, "mosse i suoi passi”, "avanzò”, "attraversò”, ma
certo non si può tradurre "continuò a camminare lungo il salone” (per
quanto ci siano esimi traduttori di testi rock perfettamente convinti
che se tu non traduci così vuol dire che non sai l’inglese). Ma torniamo
a Dylan e prendiamo un verso di Black Diamond Bay: "She walks across the
marble floor”. Certo, si può tradurre: "Cammina sul marmo del
pavimento”, ma si sente che non funziona, che in italiano l’espressione
suona troppo generica, troppo meccanica, e che non dà nessun senso di
direzione o di scopo. Diremo allora "attraversa la stanza dal pavimento
di marmo” o, più concisamente, "attraversa la stanza di marmo”? Sì, pur
di non usare "cammina”, perché in italiano non si cammina, si va a
piedi. "È mezz’ora che cammino” va benissimo, perché descrive l’azione
fisica e non la destinazione. Ma "si va a piedi” da Lodi a Milano, come
dice la canzone della bella Gigogin. In italiano si "prende” una strada,
si "fa” un certo tratto di strada, si "percorre una via”, anche, ma non
fa parte del nostro bagaglio storico e linguistico dire di qualcuno che
"camminava giù per l’autostrada”.
Anche perché (a parte il "giù” come traduzione sbrigativa di "down”),
mentre il termine "highway” significa prima di tutto "strada maestra”,
in Italia l’autostrada comincia ad esistere negli anni sessanta e
corrisponde a "motorway”, "freeway” o "tollway” (autostrada a pedaggio).
Quando Dylan parla di "highway” a volte si riferisce alla moderna
autostrada, altre volte alla più antica strada maestra. Quello che Dylan
ha in mente, in effetti, è la nostra "statale” (cosa che Guccini aveva
capito benissimo quando ha scritto Statale 17, la sua canzone di
autostop chiaramente ispirata a Down the Highway), e ancora di più il
nostro "stradone”, dove mi viene in soccorso l’autorità del Bartali di
Paolo Conte: "mi piace restar qui sullo stradone / impolverato, se tu
vuoi andare vai” (Dirty Road Blues, a tutti gli effetti). Oppure,
cambiando registro, l’autorità del Canzoniere di Petrarca. Mi sono
scervellato per ore su come rendere in un italiano vero, non posticcio,
non inglesizzato, il primo verso di Standing in the Doorway: "I’m
walking through the summer nights”, finché mi è venuto in mente che
Petrarca aveva già risolto il problema per me: "Solo e pensoso i più
deserti campi / vo misurando a passi tardi e lenti”. Da cui la
traduzione che infine ho adottato: "Misuro coi passi le sere d’estate”.
Ma, proprio perché non dovevo irrigidirmi su nessuna soluzione, mi sono
accorto che il primo verso di Love Sick, "I’m walking through streets
that are dead” doveva risultare il più possibile ricalcato sull’inglese:
"Cammino su strade che sono morte”. Non per come il verso è scritto, ma
per come Dylan lo canta. Nessuna traduzione può trascurare il modo in
cui la voce di Dylan scandisce le parole: "I’m walking - through streets
that are DEAD”. E, giusto perché il richiamo alla poesia "alta” non è
mai fuori luogo quando parliamo di Dylan, aggiungerò che ho tradotto All
Along the Watchtower con Dalla torre di vedetta (e non, pigramente, con
"Lungo la torre di guardia” o simili) perché una poesia di Mario Luzi
raccolta in Onore del vero termina con il verso: "Tanto afferra l’occhio
da questa torre di vedetta”.
Il terzo tormento consisteva nel decidere che soluzioni adottare
riguardo alla rima e alla metrica. Come impostazione generale, ho
cercato di resistere all’ossessione della rima a tutti i costi, e di
usarla solo con prudenza, nei punti chiave, o quando il testo mi urlava
nelle orecchie che la voleva assolutamente. Gli italiani sono
stranamente convinti che la loro lingua abbia meno rime dell’inglese. T.
S. Eliot (lo scrive nei suoi saggi su Dante) era convinto dell’esatto
contrario. Certamente una volta l’italiano era una lingua
straordinariamente flessibile, dato il grande numero di troncamenti e
inversioni sintattiche che permetteva (altrimenti non sarebbe rimasto
per due secoli la lingua franca dell’opera). Da quando però l’italiano
si è slatinizzato, modernizzato e linearizzato, qc’è nessuno in questa
casa?’ / Me ne stavo sui gradini / a sentirmi giù da cani. Poi arriva un
contadino / che credeva fossi pazzo, / che mi guarda e che mi pianta /
il fucile nei calzoni”.
4) Rime occasionali o strategiche, che danno coesione al testo senza
doverlo gravare con consonanze cercate a tutti i costi. Desolation Row,
ad esempio, ha cominciato a funzionare solo quando per ogni strofa ho
inserito almeno una rima con "desolazione”, che è sempre la parola
conclusiva. Per lo stesso motivo, ho consapevolmente inserito una zeppa
nell’ultima strofa di Boots of Spanish Leather. Poiché la rima "weather
/ leather”, con l’anticipazione in "—eather” del suono della parola che
è nel titolo, avverte l’aueste libertà si sono molto ridotte, e anzi
oggi già troncare un infinito (come facevano ancora impunemente Mogol e
Battisti alla fine degli anni sessanta) ci sembra una cosa vecchio
stile, polverosa se non proprio brutta (De Gregori ha scritto Sotto le
stelle del Messico a trapanar proprio per prendere in giro la
scorciatoia dei troncamenti, e anzi voleva intitolare la canzone
Infiniti tronchi). Io non so se l’inglese abbia o non abbia più rime
dell’italiano. Certamente ha più rime tronche, ossitone, monosillabiche,
e poiché la canzone rock è in gran parte modellata sul fraseggio
dell’inglese, un testo italiano che voglia adattarsi al rock, evitando
troncamenti ormai demodé, finisce per usare quelle poche parole ossitone
che possono essere ficcate in fondo a un verso, oppure le solite rime
morfologiche ottenute con i futuri e i passati remoti dei verbi. Per
carità, è una soluzione alla quale ho fatto ricorso anch’io, e anche
spesso, ma so che è una scorciatoia, un cavarsela con poco (più o meno
l’equivalente delle quinte parallele in musica), e l’ho usata solo se mi
sembrava che non disturbasse troppo, e anzi che si notasse il meno
possibile.
La rima è un orologio interno. È un aiuto per l’ascoltatore che, non
avendo il testo sottomano, sa quando aspettarsi la fine della strofa e,
posto che l’autore del testo abbia lasciato cadere i segnali giusti,
anche la fine della canzone. Ma una canzone resta una canzone anche alla
lettura. A meno di non eliminare la divisione in strofe e spezzare la
simmetria dei versi (come ha fatto ad esempio Giovanni Raboni nella sua
traduzione dei Fiori del male, con un coraggio che non tutti hanno
apprezzato), la stessa forma delle strofe, allineate come tante
scatolette, sembra richiedere a gran voce che l’orologio interno non
venga lasciato a scaricarsi.
La soluzione, almeno per me , è consistita nel lavorare più sulla musica
interna del verso che sulla stampella della rima. Quindi ho utilizzato i
seguenti criteri:
1) Prosa versificata, all’occorrenza ritmata, quando la canzone ha versi
lunghi e una forte spinta narrativa. Non ha senso tradurre in rima e
metrica canzoni come Hurricane o Brownsville Girl. Sono racconti che
bisogna rendere leggibili e scorrevoli, senza l’impaccio di una
struttura verbale appesantita da continui ritorni.
2) Verso libero, in canzoni dove ogni verso ha un’autonomia forte e non
ha bisogno della rima per stare in piedi, come in A Hard Rain’s A-Gonna
Fall o nelle ultime canzoni che sono essenzialmente composte di
one-liners, vale a dire versi singoli di significato compiuto e che
potrebbero essere spostati da una canzone all’altra. Più il verso si fa
aforistico e meno ha bisogno della rima – anche se a volte, se non
suonava sforzata, l’ho utilizzata.
3) Blank verse o versi sciolti, senza rima ma con una precisa struttura
metrica. Dando una struttura metricamente omogenea alla canzone il
bisogno della rima spariva, o si faceva sentire molto meno. Come esempio
posso citare il ritornello di Tomorrow Is a Long Time: "E solo se il mio
amore mi aspettasse, / se sentissi il suo cuore batter piano, / se solo
si stendesse qui al mio fianco, / tornerei a dormire nel mio letto”.
Sono quattro endecasillabi precisi, e l’unico modo di infilarci una rima
consisteva nell’aggiungere una zeppa: "se sentissi il suo cuore batter
piano nel mio petto”, giusto per far rima con "letto”. Per due canzoni
narrative molto vivaci come Bob Dylan’s New Orleans Rag e Motorpsycho
Nightmare ho usato l’ottonario o il settenario tronco, versi che in
italiano hanno una storia illustre (Rolli, Metastasio, Carducci) ma che
dopo Sergio Tofano e il suo Signor Bonaventura ("Qui comincia
l’avventura / del signor Bonaventura”) sanno di vecchiotto e di comico,
e quindi andavano benissimo per il tono di quelle canzoni. Del resto,
Signor Bonaventura a parte, l’ottonario è una formidabile macchina
metrica, molto facile da combinare e molto trascinante se si riesce a
superare l’effetto cantilena. Ecco la prima strofa di Motorpsycho
Nightmare: "Ho bussato a un podere / per un posto dove stare. / Ero
stanco, stanco morto, / e venivo da lontano. / ‘Ehi, ehi’ dico, ‘voi lì
dentro, ascoltate che la canzone sta per finire, un segnale ci doveva
essere anche nella traduzione. Dunque ho tradotto "Take heed of the
stormy weather” con "dunque attenta alla tempesta che ti bagna”, per
lasciare la rima con "Spanish boots of Spanish leather”, cioè "stivali
spagnoli, di cuoio di Spagna”. È chiaro che la tempesta "ti bagna”, non
c’è bisogno di dirlo, e infatti Dylan non lo dice, ma lo dice Paolo
Conte, ancora lui, in "Genova per noi, che stiamo in fondo alla campagna
/ e abbiamo il sole in piazza rare volte e il resto è pioggia che ci
bagna”.
5) Rime "naturali”, cioè senza inversioni, all’occorrenza servendomi di
infiniti, futuri e participi passati, ma solo se non sforzavano il
verso, se non alteravano la linearità sintattica. Le ho usate
soprattutto nei blues e nelle canzoni con versi brevi e molto ritmati,
vicine alla filastrocca infantile, in particolare nell’ultima strofa
giusto per chiudere in bellezza.
6) Rima e metrica in struttura rigorosa, quasi a specchio
dell’originale. Mi ci sono avventurato solo poche volte, e proprio
perché ero spinto dall’impulso all’autodistruzione che mi ha fatto
passare notti su My Back Pages e Love Minus Zero / No Limit. Perché
proprio quelle canzoni? Non lo so, l’hanno voluto loro. Nel caso di
Mozambique, invece, l’unica canzone che mi sono permesso di riscrivere,
l’ho voluto io. Non mi è mai piaciuta e me ne sono voluto vendicare,
finendo per metterci molto più tempo a tradurla di quanto probabilmente
Bob Dylan e Jacques Levy abbiano impiegato a scriverla. Ma era anche
inevitabile. Qualunque traduzione che evitasse il gioco delle rime
faceva l‘effetto di un dépliant da agenzia di viaggio.
La quarta necessità consisteva nell’essere più fedeli possibile a quei
momenti in cui Dylan forza, consapevolmente o no, la lingua inglese, in
senso grammaticale e per raggiungere inedite combinazioni di
significato. Gli esempi, numerosissimi, coprono tutta la produzione
degli anni sessanta e la prima degli anni settanta. A partire da Blood
on the Tracks, che esce nel gennaio del 1975, la lingua di Dylan diviene
più regolare, più "scritta”, il che non significa che non riservi
sorprese, ma solo che non è più al limite del non-grammaticale come
accade ad esempio nei Basement Tapes (il cui eloquio è talmente folle
che in italiano li potrebbe cantare solo Jannacci, previa riscrittura
nel suo milanese o nel suo italiano più lunatico).
In Ballad of Hollis Brown troviamo ad esempio I versi "Your baby’s eyes
look crazy / They’re a-tuggin’ at your sleeve”, dove non si capisce se
sono gli occhi del bambino a tirare la manica del padre oppure, per
ellissi narrativa, tutti i cinque figli, anche se in quella strofa non
sono nominati. Per cui ho tradotto: "Il più piccolo ha occhi da pazzo,
ti tirano la manica”, senza pretendere di risolvere un’ambiguità che
deve rimanere tale. Allo stesso modo, in One Too Many Mornings troviamo
costruzioni grammaticalmente ardite come "An’ the silent night will
shatter / From the sounds inside my mind” o "From the crossroads of my
doorstep / My eyes start to fade”. Difficile qui stabilire se Dylan
avesse il controllo della lingua o se fosse la lingua ad avere il
controllo di lui. Non è facile rendere la stranezza di questi versi, ma
qui stranezza e bellezza sono alleate (non sempre è così) e un tentativo
andava fatto, da cui: "E la sera silenziosa andrà in frantumi / per i
suoni che avrò in testa”, nonché: "Dagli incroci della soglia / i miei
suoni si fanno più fiochi”. Una corrispondenza più precisa si può
ottenere in un verso di Boots of Spanish Leather, nel quale "from the
place that I’ll be landing” sta per "where I’ll be landing”, "quel luogo
dove io sbarcherò”. Ma "that” e "che” possono essere polivalenti tanto
in inglese quanto in italiano, per cui è possibile tradurre "quel luogo
che io sbarcherò”. Non è corretto in nessuna lingua ma rende molto bene
l’effetto di possesso fisico della terra "che” si sta sbarcando.
Il quinto rompicapo era dato dal livello parallelo dell’American English
che è costituito dallo slang. Prendiamo ad esempio due versi di
Hurricane: "If you're black you might as well not show up on the street
/ 'Less you wanna draw the heat”. Io ho tradotto: "se sei nero è meglio
che neanche ti fai vedere in giro / se non vuoi tirarti addosso la
questura”. Qui qualunque traduzione è discutibile, perché "less you
wanna draw the heat” potrebbe voler dire "se non vuoi attirare
l’attenzione” o addirittura "se non vuoi tirare fuori la pistola”. Ho
scartato l’ipotesi della pistola perché, se l’idea è quella di non farsi
notare visto che sei nero, allora non è il caso di pensare a tirar fuori
la pistola. Ma rimaneva il problema di "heat” [calore] che in senso
slang significa ”situazione scomoda o rischiosa” (conosciamo tutti i
western o i polizieschi tradotti alla carlona nei quali poco prima di
una sparatoria c’è sempre qualcuno che dice: "Qui tra poco comincerà a
far caldo”) ma quando è con l’articolo ("the heat”) significa "la
polizia”. Dylan usa il termine con lo stesso senso in Subterranean
Homesick Blues, dove "Maggie comes… / Talkin' that the heat put / Plants
in the bed” non vuol dire "Maggie arriva... / dice che il caldo le ha
messo / piante nel letto”, come più o meno hanno tradotto tutti, bensì:
"Ecco Maggie... / dice che la pula le ha messo / gli spioni nel letto”
("plants” è slang per "informatori della polizia”). Visto che tre versi
prima avevo concluso un verso con un "ancora”, mi sono permesso
un’italianizzazione ("questura” invece di "polizia”) per poter finire la
strofa con un’assonanza. Quindi ho tradotto: "se non vuoi tirarti
addosso la questura”. Altre traduzioni hanno: "a meno che tu non vada in
cerca di guai”, chè è senz’altro accettabile, oppure: "se sei nero
meglio che non ti si veda neanche per strada / o ti rifilano la patata”,
intendendo probabilmente "heat” come "patata bollente”. Ma "trovarsi tra
le mani una patata bollente” ha solo una vaghissima parentela con il non
cercare guai o non voler attirare l’attenzione della polizia.
La sesta incognita era costituita dai livelli stilistici. In inglese io
posso dire "I made a grievous mistake” oppure "I screwed up”. La prima
frase è di tono più alto, la seconda è un colloquialismo. Ma dicono
tutt’e due la stessa cosa: "Ho fatto un grave errore”, oppure: "Ho
proprio fatto uno sbaglio”. Il problema è che "I screwed up” è molto più
colloquiale di: "Ho proprio fatto uno sbaglio”, e anzi corrisponde anche
a: "Ho incasinato tutto”. Solo che se in italiano dico: "Ho incasinato
tutto” faccio ricorso a un registro che in molte circostanze sarebbe
considerato eccessivamente basso, mentre in inglese "I screwed up” è
accettabile anche in occasioni semi-ufficiali. L'American English ha la
grande forza di essere una lingua dove un livello costamente colloquiale
e gergale non è visto come "basso stile”. L’italiano ha perso in parte
quel livello diciamo così "americano” diventando lingua standard e
lasciandolo ai dialetti. Ad esempio, io ho tradotto "Miss Lonely” di
Like a Rolling Stone con "Miss Malinconia” perché volevo che ci fosse
un’allitterazione in italiano (Mi-ma-li), visto che c’è in inglese
(Mi-lo-ly), e perché una di quelle canzoni degli anni trenta che una
volta potevano far piangere le signorine comincia con "Buongiorno
tristezza, amica della mia malinconia”. Il termine poteva giocare da
controcanto ironico alla "Miss Lonely” della canzone, che è una borghese
di buona famiglia ignara del destino al quale sta per andare incontro.
La "Miss Liceo” degli Articolo 31, nella loro versione rap di Like a
Rolling Stone, va altrettanto bene. Ma quando ho letto sul sito
dylaniano www.maggiesfarm.it la traduzione in romanesco di Michele
Murino, nella quale Miss Lonely diventa "Miss-puzza-al-naso” l’ho
trovata formidabile, al punto di rivedere l’intera mia traduzione in
chiave più colloquiale di quanto non fosse all’inizio (è da lì, per
esempio, che mi è venuta l’idea di tradurre "thinkin’ that they got it
made” con "gente convinta di andare alla grande”).
Però non avrei potuto appropriarmi di una soluzione come "Miss
puzza-al-naso”. L’espressione è accettabile, anzi è perfetta, nel
contesto di una parlata regionale e gergale, ma è troppo bassa per
l’italiano standard, dove apparirebbe stonata. A meno, naturalmente, di
non prendere il coraggio a due mani e riscrivere tutto Dylan in chiave
di italiano il più possibile "basso”. Ma a queste operazioni bisogna
avvicinarsi con molta cautela, perché l’italiano è una lingua che ha
troppa storia e troppe storie. Eduardo De Filippo ha tradotto la
Tempesta di Shakespeare nel napoletano del Seicento con un risultato
straordinario, ma il napoletano del Seicento non era un dialetto, era
una grande lingua, che possedeva tutti i livelli e li poteva giocare
tutti assieme. Un tentativo di "abbassare” costantemente la lingua
dylaniana ci porterebbe verso un linguaggio in ultima analisi povero e
costretto a sostituire con un continuo ammiccare la complessità di
significati che in realtà non sa dire.
Nemmeno Pasolini riusciva a mantenere un tono basso costantemente
credibile nei suoi romanzi romani, e Gadda ci riusciva solo perché lo
colorava di sarcasmo e di sapienza multilinguistica. Una fiducia
eccessiva nel tono unicamente "basso” finisce con il tradurre il nome
"Georgia Sam”, che compare in Highway 61 Revisited, con un orrendo
"Bingo-Bongo” (l’esempio non è inventato). Per chiarire: "Georgia Sam” è
un nome probabilmente ispirato a due cantanti blues che in alcune
occasioni si erano fatti chiamare "Georgia Bill” (Blind Willie McTell) e
"Georgia Tom” (Thomas A. Dorsey), e non ha nessuna delle connotazioni
offensive e perfino razziste che invece si ricavano da quel personaggio
di una canzonetta dell’epoca coloniale che parla con gli infiniti come
una volta parlava la mamie di Via col vento: "Bingo Bango Bongo stare
bene solo al Congo non mi muovo no no…”).
E poi, Dylan non è solo un imitatore degli imitatori di François Villon.
In Lay Down Your Weary Tune circolano R. W. Emerson e la grande innodia
protestante, Chimes of Freedom risuona di passaggi alla Walt Whitman,
Mr. Tambourine Man riporta precisi echi di John Keats, All Along the
Watchtower è fatta del libro di Isaia più T. S. Eliot più Wallace
Stevens, Every Grain of Sand sarebbe impensabile senza William Blake
alle spalle, Angelina, Jokerman e I and I sono ardite costruzioni
intertestuali tenute insieme dall’intero tessuto della Bibbia e scritte
nell’inglese più "alto” che il genere della canzone abbia mai potuto
reggere. Del resto, se così non fosse, se Dylan non fosse anche questo,
non esisterebbero le decine e decine di libri scritti su di lui, né i
traduttori di mezzo mondo sarebbero così ansiosi di spaccarsi la testa
per trovare, nella loro lingua, la resa migliore dei suoi versi."
Penso che avrai capito il
succo del discorso , chi è Johnny ? che ci fa in cantina ? che medicina
mischia ? Probabilmente Johnny è uno dei tanti , è solo un nome , molto
usato nelle canzoni americane , in cantina probabilmente sta preparando
qualcosa che è meglio che gli altri non vedano , chissà quante cose
succedono sotto i nostri piedi , nelle cantine di tutto il mondo ,
quanti Johnny si preparano le dosi negli scantinati ? Centinaia di
migliaia..... quanti altri stanno fuori sulla strada e si preoccupano
del governo , della politica ? Del come comportarsi , del cosa fare ,
del cosa non fare , del cosa dire , del cosa non dire? Credo altrettanti
. Dylan
dovrebbe voler dire che lì sotto , ma non solo lì , c'è tutto un mondo
di paure e di sicurezze mai certe , nascosto per non vivere
alla luce del giorno, mentre quello che si può vedere e dal quale
bisogna stare attenti e detto chiaramente nella canzone. Nella sua
disamina forzata ed esasperata dei vizi e dei pregi della sociatà
Americana , Dylan usa un linguaggio popolare infittito da espressioni
gergali per mettere in evidenza , vizii , virtà , meriti e demeriti ,
sicurezze e paure della società nella quale vive anche lui come tutti gli
altri , sottoposto agli stessi problemi ed agli stessi rischi , in
quegli anni di trasmormazione sotto la spinta del dopo guerra e della
rivoluzione sociale i cui portabandiera erano diventati quattro ragazzi
di Liverpool , forse anche loro incoscienti di quello che avevano
scatenato e propagandato, quattro ragazzi che partirono per fare solo
musica e finirino per cambiare il modo di vivere di tutti noi. Certo a volte
bisogna usare la fantasia e la riflessione per cercare di capire
esattamente cosa uno voglia dire , ma questo vale per Dylan come per de
Gregori . Mi sono sempre chiesto il senso di molti versi di " Alice" , e
non li ho mai capiti fino in fondo , forse Francesco stesso avrebbe dei
problemi a spiegarli.
Clicca sul link sotto , trovarei altre cose interessantisssime
nell'intervista fatta da Michele Murino ad Alessandro Carrera :
http://www.maggiesfarm.it/intervistaacchronicles.htm
Come vedi tradurre od interpretare Dylan è una
scommessa , a volte vinci ed a volte perdi , fa parte del gioco della
vita , never mind....
Per quanto riguarda i contatti con Pink
Floyd e Syd ammmetto la mia ignoranza , possso però dirti che i Pink
Floyd incisero Knockin' on heaven's door , ripresa più tardi dal solo
Roger Waters :
Pink Flyd :
http://it.youtube.com/watch?v=phst-3Tso-k
Roger Waters - Knockin' On Heaven's Door
Penso non ci siano stati rapporti tra
Syd e Bob , anche se la spinta iniziale era comune a molta gente , le
basi di partenza sono le basi di tutti , poi sviluppate su percorsi e
storie diverse , situazioni diverse , maturazioni diverse , risultati
diversi. Indubbiamente , pur nella sua pazzia , Syd era un genio , leggi
questo saggio pubblicato da Maggie's Farm alcuni mesi fa , capirai
quello che voglio dire :
http://83.103.52.33/maggiesfarm/zsydbarrett.htm
Un salutone , alla prossima :o)
Mr.Tambourine |