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Ciao Tambourine , sono un
grande fan di Bob ma anche di Ry Cooder , a quando uno "special su Ry ?
ciao Enrico Ratti
Devo confessarti che anche a me le
sonorità di Ry mettono i brividi , per ora spero ti badti quest'articolo
di Ezio Guaiotamacchi pubblicato su Jamonline , poi provvederemo allo
special , ciao ,
Ry Cooder
La (ri)scoperta dell'America
di Ezio Guaitamacchi
"My Name Is Buddy" è il nuovo progetto artistico di Ry Cooder, un
viaggio affascinante alle radici della musica nordamericana, un
inebriante cocktail di folk, old timey, blues, bluegrass, gospel, jazz e
rock. Un concept ricco di significati, raccontato in maniera fantasiosa
(attraverso gli occhi di un gatto) e dedicato a un'America che non
esiste più. Ma che, al tempo stesso, suona come monito verso un'altra
America: quella che, oggi, sembra essersi completamente dimenticata di
valori importanti, come il rispetto per i diritti dei lavoratori, per i
quali tanti hanno combattuto battaglie appassionanti e sofferte.
Raylanders - Ecco il cast di "My Name Is Buddy"
Mike Seeger e le session del gatto - Intervista all'uomo definito da
Dylan "l'archetipo supremo del musicista folk"
Harry Smith Project Live - Il tributo alla "madre di tutta la musica
folk"
Un grande futuro dietro le spalle - I ritorni eccellenti di David
Bromberg e Mavis Staple Roots & Cooder - Ry e la musica delle radici
Tutto ha inizio un paio d'anni fa, quando Cooder riceve una busta
anonima al cui interno ci sono una strana foto e un messaggio
enigmatico.
Santa Monica, California, autunno 2004
È una bella mattinata, tiepida e profumata, da piena "estate indiana".
La foschia umidiccia si sta definitivamente squagliando, alzandosi dalle
fredde acque del Pacifico. Si comincia a scorgere l'orizzonte. Sulla
spiaggia, in lontananza, s'intravedono jogger coraggiosi, qualche
surfista alle prime armi, cani che scodinzolano e saltellano tra spruzzi
d'acqua salmastra, ragazzi che fanno volare alti i loro coloratissimi
aquiloni. Tra i giardinetti di Ocean Avenue, di fianco al Pier,
s'iniziano a muovere anche i cittadini onorari di quella che gli
americani chiamano "The Home Of The Homeless". Quasi tutti spingono
carrelli presi "a prestito" dai supermarket, carichi di coperte e
cianfrusaglie. Destinazione: i cestini dei rifiuti nella 3rd Street
Promenade (il loro "breakfast point" preferito).
Poco lontano da quella varia e pittoresca umanità, nella penombra del
suo studio, Ry Cooder sta apportando gli ultimi ritocchi al missaggio di
Chávez Ravine, l'album che prende il nome da un quartiere latino della
vecchia Los Angeles, raso al suolo negli anni 50 per costruirci uno
stadio di baseball. È un progetto al quale tiene molto e che gli ricorda
la sua gioventù: lui, alla rupe di Chávez, da ragazzo, ci andava per
davvero e all'insaputa dei suoi genitori. Quella storia, in parte
autobiografica e in parte metaforica, diventa il pretesto per raccontare
un mondo antico, ormai scomparso ma i cui suoni, ritmi e melodie
continuano ad esercitare un fascino irresistibile; specie se filtrati
dal gusto, dalla pertinenza stilistica e dall'originalissima visione
artistica di uno dei personaggi più anomali, geniali e ispirati della
musica anglo-americana degli ultimi 50 anni.
"Quel giorno" ricorda Cooder "il postino mi recapita una busta
giallastra, un po' ciancicata, scarabocchiata a mano. Sembrava provenire
da un vecchio amico. Dentro c'era una fotografia di Leadbelly. Ma al
posto della faccia del leggendario bluesman, era stato inserito (con
Photoshop) il musino di un gatto rossiccio. Nei suoi occhi, traspariva
uno sguardo strano, per certi versi imperscrutabile. Osservandolo bene,
però, sembrava che quel micio la sapesse lunga".
Nella busta, c'è dell'altro: un indirizzo web e un biglietto con una
frase neanche tanto sibillina: "You'll know what to do with this", tu
sai cosa farne di questa roba: più che un suggerimento, quasi un ordine.
Ma, in quel momento, Cooder è tutto preso dalla chiusura del progetto
Chávez Ravine. Non ha mica tempo per i gatti. Eppure, non riesce a
togliersi quella immagine dagli occhi. E così, appena può inizia a fare
qualche ricerca.
Utilizzando le indicazioni ricavate dall'indirizzo web, scopre che quel
gatto rossiccio ha un nome (Buddy) e un indirizzo: un vicolo sul retro
di un negozio di dischi di Vancouver. Lì, ha trasformato una vecchia,
scassatissima valigiona nella sua cuccia preferita.
Qualche tempo dopo, però, Ry viene purtroppo a sapere che Buddy è morto.
Sono i primi mesi del 2005. "Ho provato a dimenticarmi di lui, ma il suo
musino e quello sguardo intrigante si erano insinuati dentro di me. E
continuavano a mandare stimoli al cervello. che ben presto hanno
cominciato a trasformarsi in ritmi e melodie".
"Continuavo a pensare a quel gatto rossiccio" ricorda Cooder "quando, in
modo addirittura ossessivo, mi sono fatto ammaliare da una vecchia
canzone di Charlie Poole". (*)
Di colpo, l'intuizione.
"Era un gatto rosso. inteso non come colore del pelo, ma come colore
politico. era un sindacalista!".
Così Buddy diventa Red. E nasce un primo verso: "I'm a red cat 'til I
die", sarò un gatto rosso sino alla morte".
Quasi per incanto, Buddy il vagabondo ha amici e compagni di viaggio che
incontra lungo la strada: il Topo Sinistrorso, Il Reverendo Rospo Tom,
l'ingordo maialino J. Edgar (che, guarda la coincidenza, porta lo stesso
nome del malfamato capo del FBI J. Edgar Hoover, direttore "eterno" del
Bureau dal 1924 sino al 1972).
Così Buddy ha un passato e un futuro. E Ry una grande storia da
raccontare.
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Le passioni del giovane Ryland
Grazie a un gatto, dunque, 25 anni dopo aver firmato la soundtrack di
The Long Riders (I cavalieri dalle lunghe ombre, colonna sonora
impeccabile, nel più puro stile old timey dello straordinario western
con la regia di Walter Hill che racconta in modo mirabile la saga di
Jesse James) e a oltre quarant'anni di distanza dai suoi esordi
folk-blues al fianco di Taj Mahal con i Rising Sons, Ry Cooder torna
alla musica delle sue radici. A quella musica, cioè, che sin da bambino
gli ha fatto perdere la testa.
Santa Monica, come tutti sapete, non si trova nelle Appalachian
Mountain. Nemmeno il blues abita da quelle parti. Piuttosto,
nell'assolato e pigro Southern California, patria del "take it easy" e
delle chimere hollywoodiane, sono altre le colonne sonore che
scandiscono la vita di tutti i giorni. Eppure, in casa Cooder, agli
inizi degli anni 50, si ascoltano i dischi di Woody Guthrie e Leadbelly.
E si condividono gli ideali sociali e politici di Pete Seeger.
Leo Breger è un amico dei genitori di Ry.
Musicista classico (suona la viola), Breger è finito nelle liste nere
del maccartismo, sospettato di essere un comunista. Lui e il padre di
Cooder passano le sere ad ascoltare musica, alternando Bach al folk. Una
sera, il piccolo Ryland Peter si alza dal letto: ha sonno, ma la musica
che viene dal salotto è troppo bella.
"È stato allora che mio padre mi ha messo in mano una chitarra, una
Sears Silverstone tenore, a quattro corde, che conservo ancora oggi come
una reliquia. Quell'episodio ha cambiato la mia vita".
Breger continua ad avere un ruolo importante nella formazione artistica
del giovane Ryland.
"I dischi di Guthrie e Seeger erano suoi. È stato su quelli che ho
iniziato a suonare: mio padre mi aiutava a posizionare le dita sul
manico della chitarra. A 10 anni i miei genitori mi hanno regalato una
Martin. Suonavo tutti i giorni, tutto il giorno".
Ry si esercita sui vinili dei grandi maestri del country blues (da
Robert Johnson a Sleepy John Estes, da Skip James al Reverendo Gary
Davis), vivisezionando ogni singola traccia, alla ricerca della perfetta
riproduzione di tecnica e stile.
"Un giorno ho capito che quella musica non andava soltanto copiata;
doveva essere assorbita, elaborata, digerita, metabolizzata. Stavo
aspettando l'autobus per andare al campeggio estivo. Avevo deciso di
portarmi appresso la chitarra. Dalla Douglas Aircraft (la fabbrica di
aerei Boeing che aveva sede a Santa Monica, proprio vicino a casa mia)
esce un operaio. Ha la tuta blu e un cestino per il pranzo. 'Ehi
ragazzo' mi fa 'suoni la chitarra? La suono anch'io, sono un hillbilly'.
Gliela presto e lui inizia a strimpellare: porca miseria, mi sembrava di
ascoltare Joe Maphis alla radio. Questo operaio hillbilly mi stava
facendo venire le lacrime agli occhi. Non ho mai saputo il suo nome e
non l'ho mai più rivisto. Ma non lo dimenticherò mai".
Un paio d'anni dopo Ry Cooder inizia a frequentare con una certa
assiduità lo Ash Grove, il folk club per eccellenza del Southern
California dei primi Sixties. Lì ha modo di ammirare i suoi idoli
musicali: chitarristi blues leggendari, star del bluegrass e della old
time music, i primi folksinger. Persino il commovente gospel degli
Staples Singers ("Quando li ho visti su quel palco, ho quasi avuto un
malore", ricorda Cooder).
A 15 anni, si esibisce nel locale, scritturato da Ed Pearl come
accompagnatore. Nel 1964 trova il suo primo lavoro come session man e
arrangiatore di Jackie De Shannon, allora giovane cantautrice del
Kentucky. Poi un ingaggio (vero) al McCabe's, il negozio di strumenti e
folk club più prestigioso a ovest di New York.
"Mi davano anche 8mila dollari per due settimane di lavoro. Sono andato
dai miei insegnanti e ho detto loro che l'avrei piantata lì con la
scuola.".
In quel periodo Ry incontra Terry Melcher e Jack Nitzsche, suona nei
dischi di Paul Revere And The Raiders, dei Byrds e delle altre star
californiane dell'epoca. Ma blues e folk sono sempre la sua passione.
Conosce la musica di Joseph Spence, superbo chitarrista di Andros, isole
Bahamas, dal quale apprende quello stile elegante e sincopato che dà
corpo e originalità al suo picking. Conosce (proprio allo Ash Grove)
anche un altro virtuoso della chitarra acustica, un afroamericano
newyorchese anche lui innamorato del blues. Si chiama Henry Saint Clair
Fredericks ma come nome d'arte usa quello del maestoso mausoleo indiano
Taj Mahal.
Da quel momento Ry Cooder e Taj Mahal (dopo aver unito le forze nei
Rising Sons) iniziano un percorso artistico curiosamente parallelo che
li porterà nei successivi 40 anni a sperimentare (per conto proprio)
mondi musicali comuni, dalle Antille alle Hawaii passando per West
Africa, India e Giappone. Ma anche insieme, nei Rising Sons, in poco più
di un anno, i due lasciano il segno influenzando tutta la scena del Sud
California con la loro formidabile fusione di rock e roots americane.
Cooder, nel frattempo, intensifica il lavoro di session man per conto di
Captain Beefheart, Everly Brothers, Randy Newman, sino a quando riceve
una telefonata dei Rolling Stones. Già, sembrerebbe proprio lui il
sostituto ideale di Brian Jones. Ma Cooder declina l'invito. Pare (anche
se lui lo ha sempre negato) che il motivo del contendere sia un riff di
chitarra che Keith Richards gli avrebbe copiato, per usarlo nella famosa
intro di Honky Tonk Women. Il litigio, però, non preclude un'intensa
joint venture artistica con la rock band inglese. Oltre al celebre solo
di mandolino nella riedizione del portentoso blues di Robert Johnson
Love In Vain, Cooder partecipa alle session di Let It Bleed e Beggars
Banquet prima di realizzare insieme a Jack Nitzsche e Randy Newman la
colonna sonora di Performance, film di Mick Jagger. Poi ancora,
collaborazioni discografiche con i Rolling Stones, dai pezzi poi inclusi
in Jammin' With Edwards a Sticky Fingers.
Ma non è quello che Ry desidera fare. "Jack Nitzsche voleva che
incidessi brani strumentali nello stile di Duane Eddy. Ma io pensavo che
fosse noioso. Mi dicevo, se faccio così tra due anni mi stufo e
abbandono".
A salvarlo, la sua musica preferita.
"Ho deciso che fosse arrivato il momento di incidere un album solista"
racconta lo stesso Cooder "a me sono sempre piaciuti il blues, le
melodie old time, le dustbowl ballad. Perché dovevo suonare altro? Dopo
aver pubblicato i primi due album solisti, la gente mi chiedeva: 'Ry,
cos'è 'sta roba? Non venderai mai nulla.'. Ma io non gli ho dato retta.
E sono andato avanti per la mia strada. Credo di saper riconoscere la
buona musica. E penso anche di saper riconoscere una bella canzone.
Bene: forse, ci ho impiegato 40 anni, ma credo di aver fatto buona
musica e scritto buone canzoni".
Già, da quel momento, inizia la carriera del mito.
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Il ritorno alle radici
Dopo un lungo (più di 20 anni) e appassionato flirt con le musiche del
mondo, Ry Cooder torna dunque alle sue radici geografiche, storiche,
culturali. Alle spalle, episodi epocali: da Talkin' Timbuktu con Ali
Farka Toure al Buena Vista Social Club, giusto per citare i più famosi,
più una lunga collezione di colonne sonore prestigiose a fianco di
registi straordinari come Wim Wenders e Walter Hill.
Sempre dietro le spalle, però, c'è da tempo anche la sua vena rock
(seppur sempre da intendersi in accezione cooderiana): a parte la
vicenda Little Village, il supergruppo con John Hiatt, Jim Keltner e
Nick Lowe che pubblica l'omonimo album nel 1992, è dai tempi di Get
Rhythm (1987) che Cooder non suona più musica rock e dintorni, non canta
e non compone canzoni. Si limita, per così dire, a "pennellare" con la
slide ("È uno strumento duttile, possiede un suono liquido che si adatta
ad ogni tipo di armonia e a qualsiasi ritmo, ha un timbro internazionale
che non gli dà connotazione di genere"), a compiere entusiasmanti viaggi
sonori, scoprire maestri di culture lontane, disegnare progetti
artistici equilibratissimi e originali.
Ma, due anni fa, con Chávez Ravine, qualcosa cambia. Ry, nel suo primo
album "autobiografico" da tanti anni a questa parte, ricomincia a
bazzicare il natio Southern California, scrive qualche pezzo del disco e
ne canta pure un paio. È solo uno stuzzicante appetizer.
Se la rupe di Chávez è, infatti, lo spunto per ricordare un quartiere
della sua gioventù, per celebrare un mondo e uno stile di vita che non
ci sono più, l'album del Gatto Rosso sancisce il definitivo ritorno di
Ry Cooder. Non solo alle amate radici della musica americana ma anche a
un "attivismo" artistico (e politico) dal quale mancava da 20 anni
esatti. In My Name Is Buddy, infatti, Ry Cooder (proprio come ai tempi
d'oro) non si limita all'ideazione, all'arrangiamento, alla scelta dei
musicisti e alla produzione. Compone (o arrangia) il tutto, è la voce
solista di ogni brano, suona uno o più strumenti a pezzo. E, più che
mai, dimostra la sua smisurata cultura musicale, la sua imbarazzante
pertinenza stilistica, il suo raffinatissimo gusto estetico, la sua
straordinaria capacità di rendere originale anche il più trito dei
traditional (Footprints In The Snow).
Non solo.
Come per Chávez Ravine, anche il disco di Buddy Red Cat prevede diversi
livelli di lettura. Qui, il rimpianto per un'America che non c'è più,
per lo smarrimento dei valori, per il deterioramento di una civiltà e di
una democrazia viene raccontato in modo ancor più fantasioso. Attraverso
la storia di un gruppo di amici, come nella tradizione del Pogo di Walt
Kelly.
"Pogo è una grande metafora della vita" ammette lo stesso Cooder "gli
animali sono personaggi perfetti per una storia: non parlano molto,
hanno grande forza comunicativa, sono semplici e diretti".
Ma c'è di più: My Name Is Buddy è per Cooder lo spunto per denunciare
non solo la scomparsa di quella vecchia America che lui ha amato tanto
ma anche per sottolineare che nella società statunitense la figura del
working man è stata pressoché cancellata.
"Nessuno, oggi, negli Usa ama definirsi un lavoratore. Con quel profilo
sembrano spariti anche i valori di unità, solidarietà, etica e
giustizia. Che fine ha fatto il motto: noi siamo in molti, loro sono in
pochi?".
Per rispondere a queste domande, Cooder prova idealmente a tornare sui
luoghi che hanno celebrato le lotte dei lavoratori, a rivisitare i posti
che hanno ispirato la musica che tanto lo appassiona, ad approfondire e
rileggere quelle straordinarie canzoni di preghiera, di dolore, di
protesta, di festa.
"Questi sono gli argomenti di cui hanno sempre cantato i poveri: morte,
religione, famiglia, lavoro, vita quotidiana. Gli poteva accadere di
tutto" sottolinea Ry "ma quelle canzoni erano il loro conforto morale".
Ecco perché il viaggio di Buddy con la sua valigiona scassata, che ci fa
venir in mente la vita on the road a bordo degli Airstream, le roulotte
di alluminio (vere e proprie case su quattro ruote) che sono state
un'icona americana degli anni 50. Perché, come per coloro che
percorrevano migliaia di chilometri in macchina, in giro per l'America,
trainando quelle lucenti "mobile house" quello del Red Cat non è solo un
tragitto geografico. E neppure semplicemente una storia fatta di storie,
più o meno divertenti.
"È la cronaca di una vita di lotta e sofferenza, di vicende sindacali,
di sconosciuti eroi di tutti i giorni" dice Cooder. "Con una colonna
sonora scelta in modo preciso e consapevole. Si tratta di canzoni che in
America sono fortemente radicate nell'immaginario collettivo. Quasi
tutti i pezzi del disco sono dei traditional o direttamente ispirati da
brani popolari: alcuni, poi, sono veri e propri inni".
Paura di essere accusato di nostalgia?
"Assolutamente no. Specie se consideriamo che molti dei problemi di cui
parlavano quelle canzoni di tanti anni fa sono gli stessi che affliggono
l'America del 2000: povertà, violenza, avidità".
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Una lunga tradizione
Quella delle working songs è una tradizione lunga e forte. Specie negli
Stati Uniti: basta aggiungere ai nomi di Woody Guthrie e Leadbelly
quelli di Joe Hill, Pete Seeger, Cisco Houston, Odetta, Joan Baez e dei
tanti protagonisti del folk revival degli anni 60 per capire la portata
del fenomeno.
Eppure, le inquietudini del nuovo millennio e i difficili equilibri del
pianeta sembravano aver cancellato per sempre quella memoria.
Oggi, qualcosa si sta muovendo.
Di Bruce Springsteen e delle sue Seeger Sessions, come i lettori sanno,
abbiamo parlato più volte e in modo approfondito. Cooder, con questo
progetto, torna sull'argomento. E lo fa in modo ancora più preciso e
consapevole, proprio come lui stesso ha tenuto a puntualizzare. Anche
se, come nel suo stile, senza rinunciare alla consueta leggerezza,
ironia, eleganza.
"Quello di Ry Cooder in My Name Is Buddy" spiega Mike Seeger "pur
essendo un messaggio apertamente in difesa dei lavoratori e dei loro
diritti sindacali va letto come un messaggio politico nel più ampio
senso del termine. Oggi non ci sono in giro molte persone che hanno il
coraggio di esprimere e sostenere pubblicamente queste idee. Men che
meno, vedo artisti che abbiano voglia di esporsi. Per questo penso che
Ry Cooder abbia avuto tanto coraggio. Rischiando parecchio: sono proprio
curioso di vedere come il progetto verrà recepito qui in America e se
verrà capito nel resto del mondo".
Per agevolare la comprensione, Ry ha fatto precedere ogni canzone da un
piccolo racconto con illustrazioni di Vincent Valdez: frammenti poetici
che danno ancora più tono e spessore al progetto.
Anche se è sufficiente ascoltare una qualsiasi delle 17 tracce
dell'album (vedi JAM 133, recensione a pagina 102) per venir rapiti da
atmosfere sonore suggestive e da un clima vintage assolutamente
irresistibile.
"Adoro questa musica, amo queste canzoni" dice Ry Cooder "sono molto
orgoglioso di questo progetto e mi auguro che tutti ne riescano a
cogliere l'essenza. Molte di quelle canzoni venivano cantate proprio per
il significato che volevano comunicare".
Leo Breger e papà Cooder sorridono, dall'alto dei cieli.
(*) Charlie Poole, banjoista americano dei primi del Novecento, è uno
dei maestri della old time music. Insieme al cognato, il violinista
Posey Rorer e al chitarrista Norm Woodflieff, ha dato vita alla
leggendaria string band dei North Carolina Ramblers. Autore di canzoni
epocali (la più famosa delle quali Don't Let Your Deal Go Down è stata
incisa da centinaia di artisti), è morto alcolizzato a soli 39 anni.
Poco prima era stato chiamato a Hollywood per la colonna sonora di uno
dei primi film con dialogo.
(**) Alcune delle dichiarazioni di Ry Cooder riportate in questo
articolo sono tratte dal libro di Aldo Pedron Ry Cooder: Il viaggiatore
dei suoni (Arcana Editrice, 1998).
Mr.Tambourine
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I RIFERIMENTI A DYLAN NEI ROMANZI O IN
ALTRE OPERE LETTERARIE
Vuoi contribuire ad
allungare la lista sottostante? Segnala a spettral@gmail.it i romanzi, i
racconti o le altre opere letterarie in cui viene citato direttamente o
indirettamente Bob Dylan .
- "Sulle orme
della tradizione. Gli Indiani d'America e noi" ,Spagna Francesco, , Padova, Imprimitur, 2008.
- "Hymes Dell" (a cura di) Antropologia radicale, Milano, Bompiani, 1979. - "Scimpru "
di Roberto Valentinii, dove Dylan è citato due volte
- "Achille piè veloce"
di Stefano Benni, dove il cantante preferito della ragazza del
protagonista è, per l'appunto, Dylan.
-
"Music Box", Curcu&Genovese, Trento, 2006. ( Marc Pontoni )
- "Nel momento" di Andrea De Carlo
- "Alta fedeltà" di Nick Hornby
- "La spia e la rockstar" di Liaty Pisani, Fazi, 2006
- "L'era del porco" di Gianluca Morozzi, Parma, Guanda,
2005
- "Scirocco" di Girolamo De Michele, Torino, Einaudi,
2005
- "Giorni di un uomo sottile" di Ernesto Aloia nella sua
raccolta "Chi si ricorda di Peter Szoke?", minimum fax 2003
- "La ragazza dai capelli di cobalto" di Gianluca
Morozzi, nell'antologia di vari autori "Strettamente Personale", ed.
Pendragon, 2005.
- "L'Emilia o la dura legge della musica" di Gianluca
Morozzi - Guanda
- "Tokyo blues" di Murakami Haruki - Norvegian Wood
(trad. ital. Milano, Feltrinelli)
- "Dance dance dance" di Murakami Haruki (trad. ital.
Torino, Einaudi)
- "La Torre Nera" di Stephen King
- "I giorni felici di California Avenue" di Adam Langer
- "Per sempre giovane" di Gianni Biondillo, edizioni
Guanda - 2006
- "Americana" di Don de Lillo
- "Denti bianchi" di Zadie Smith
- "La Danza del Pitone", di Norman Silver
- "Troppi paradisi" di Walter Siti, Einaudi
- "La fortezza della solitudine" di Jonathan Lethem
(Tropea)
- "Siamo tutti nella stessa barca" di Owen King
(Frassinelli)
- "Come dio comanda" di N. Ammaniti (Mondadori)
- "Accecati dalla luce" di Gianluca Morozzi (Fernandel)
- "Chi è quel signore vestito di bianco vicino a Bob
Dylan?" di Gianluca Morozzi ("Vertigine", numero unico - 2006)
- "Il cielo sopra Parigi" di Teo Lorini (Fernandel n.
58)
- "Venerati maestri" di E. Berselli (Mondadori)
- "Zona disagio" di Jonhatan Franzen (Einaudi)
- "Una vita da lettore" di Nick Hornby
- "Ragionevoli Dubbi" di Gianrico Carofiglio - Sellerio
editore
- "31 Canzoni" di Nick Hornby
- "Questa scuola non è un'azienda. I racconti del prof.
Bingo" di Vittorio Vandelli
- "I ponti di Madison County'' di R. J. Waller
- "La cultura del controllo" di David Garland
- "Il paese mancato" di Guido Crainz
- "Paura e disgusto a Las Vegas" di Hunter S. Thompson
- "L'ultima tazza di caffé" di Teo Lorini (da "Posa 'sto
libro e baciami" - ed. Zandegù, Torino 2007)
- "Small world" di David Lodge
- "In cerca di te" di John Irving
- "Mi ammazzo, per il resto tutto ok" di Ned Vizzini,
Mondadori.
- "Parlami d'amore" di Silvio Muccino e Carla Vangelista
- "Memorie di un artista della delusione" di Jonathan
Lethem (Minimum fax)
- "Boccalone. Storia vera piena di bugie" di Enrico
Palandri, Milano, L'erba voglio, 1979 (ristampato da Bompiani)
- "Vedi alla voce Radio Popolare", a cura di Sergio
Ferrentino con Luca Gattuso e Tiziano Bonini, Milano, Garzanti, 2006, p.
240 ("Live In Paris - 1978").
- "Jim ha cambiato strada"(1987) di Jim Carroll.
Edizione originale "Forced Entries:The Downtown Diaries 1971-1973",
traduzione italiana: Milano, Frassinelli, 1997.
- "Desperation" di Stephen King
- "La bambola che dorme" di
Jeffery Deaver, trad. ital., Milano, Sonzogno, 2007.
- "Testadipazzo-Brooklyn senza madre" di Jonathan
Lethem (Tropea, e in ed. tascabile Saggiatore)
- "Questo libro ti salverà la vita" di A.M. Homes
- "A long way down" (tradotto in italiano con "Non
buttiamoci giù") ed. Guanda.
- "La gloria dell'indigente" di Davide Imbrogno -
Ibiskos Editrice Risolo
-
"Hellbook" di
Michele Murino (ovvero "X-Files Bob")
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