MAGGIE'S FARM

sito italiano di BOB DYLAN

PARTE 428

 

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Ciao Mr Tambourine,  in primis ti segnalo Dylan alla Viennale!
 
http://www.giornaledellamusica.it/news/?num=23852
 
Poi volevo dirti che ho letto la tua recensione del concerto dei Blackstones e di Al e Pino ed ho provato un profonda invidia per la fortuna che hai avuto di accompagnarli in quella che affermi essere stata una serata memorabile. Sono sicura che non hai esagerato, perché anche se non ci conosciamo, ho buoni motivi per credere che il tuo giudizio sia sincero e competente.
Mi fa molto piacere per tutti loro, perché, come sai, anch'io ho avuto l'onore di conoscerli ed ascoltarli, anche se una sola volta, a Trevignano, e me ne sono letteralmente innamorata (in senso metaforico, si intende!). La passione, la serietà, l'attenzione professionale e la sobrietà che traspare  in ogni loro movenza, sopra e fuori dal palco è davvero straordinaria. Ma sono sicura che conosci meglio di me le loro qualità. Se ti capita di sentirli fai loro i miei più sinceri complimenti e portagli un caro saluto. Se poi per caso vi fosse una registrazione del concerto, sarei lusingata di poterla avere. Magari vista l'impeccabile organizzazione ce n'è una ufficiale! Se hai modo di accertartene ti sarei grata.
Un abbraccio
Marina

Ciao Marina , ho passato ad Al ed ai Blackstones la tua missiva e mi hanno detto di ringraziarti e di farti un grande sorriso :o)))))))))))))))))))))

Anche loro han voglia di rivederti , il 6 Novembre saranno a Montagnano Sesia (No) alle "Piccole Iene" per una serata tributo a Bob con la presenza di Michele "Napoleon in rags" in person vivo-live che presenterà le canzoni , clicca qui

Al Diesan ha ripreso tutto il concerto austriaco e sta lavorando sui filmati per metterli su Youtube , puoi chiedergli se può mandarti una copia del DVD al suo indirizzo al-diesan@al-diesan.it , credo che appena montato il tutto , cioè tagliato l'inessenziale , sarà contento di spedirtene una copia. XOXO , alla prossima ,

Mr.Tambourine

 

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Ciao Tamb , ti segnalo questo pezzo di Bob :  Who Loves You More ?

http://www.youtube.com/watch?v=DeUB5y6it4k

Andrea

Grazie Andrea , ottimo pezzo e Dylan in gran forma , alla prossima :o)

Mr.Tambourine

 

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Vorrei sapere se Dylan ha mai fatto il solista nei suoi concerti , grazie , Edmond.

Qualche volta l'ha fatto , più per divertirsi che seriamente , Dylan non è e non sarà mai un solista alla Clapton o alla Harrison tanto per capirci , ma questo non gli impedisce ogni tanto ( quando ha la luna giusta ) di tentare bizzarri ed improvvisati assoli , ma sul palco lui può fare tutto , e se si diverte come si può dargli contro ? Credo che abbia insistito nei tour 200/2001 con questa mania , poi , probabilmente la cosa non lo divertiva più ed ha smesso . A Tal proposito ho trovato una vecchia cronaca interessante ,

Il nuovo Bob Dylan è un guitar hero
Repubblica — 29 maggio 2000 pagina 40 sezione: SPETTACOLI

MODENA - Nella guerra senza quartiere contro il suo mito, Bob Dylan ha scelto un nuovo mezzo di distruzione totale: la chitarra. E così, dopo aver per anni aggredito con furia la retorica costruita attorno alla sua leggenda di cantore- principe delle confuse vicende di fine secolo, ora sembra deciso a coinvolgere in questo autodafe perfino la sua chitarra. Sabato Modena ha ospitato la prima tappa italiana di quel "tour senza fine" che da anni, a un ritmo di 150 concerti a stagione, occupa la vita del rocker. C' erano circa 6 mila persone di fronte al palco in piazza Grande sotto lo sguardo carico di storia della Ghirlandina. Dylan è salito in scena accompagnato dalla sua band abituale attorno alle 21: aveva smesso di piovere da pochi minuti quando la sua voce nasale ha trasformato in enigma i versi leggendari di Mr.Tambourine Man. Vestito di nero, ha dato il via a un set diviso in una parte acustica e in una elettrica. La differenza tra le due non era in realtà sostanziale: Dylan si è ritagliato il ruolo insolito di "guitar hero", giocando compiaciuto con la sua tecnica approssimativa: più che alle parole è sembrato voler dare risalto alla sua passione per il blues, costruendo le semplici variazioni melodiche dei suoi assoli sul fascino irresistibile delle 12 battute della musica del Delta. Dylan non ha fatto nulla per dare ordine al clima di confusione che dominava sul palco: il gioco del "guitar hero" sembrava divertirlo più di qualsiasi altra cosa tanto che, cosa davvero insolita per un personaggio dalla proverbiale ombrosità, più volte ha rivolto al pubblico gigioneschi sorrisi. Chi conosce la sua storia sa che le sue decisioni non tengono conto delle aspettative del pubblico: e così sabato, sia che si trattasse di un pezzo acustico sia che si trattasse di un brano elettrico, l' andamento delle esecuzioni non aveva variazioni: tema proposto con ricercata trascuratezza e un crescendo guidato dalle esibizioni chitarristiche dell' uomo che 40 anni fa trovò la sintesi perfetta tra musica e poesia mettendosi alla guida dei sogni di un mondo che si illudeva di sfuggire alla dura pioggia dell' ordine universale. Masters of War è diventata cosi una sorta di blues alla Muddy Waters, come le canzoni di Times Out of Mind. Ad accomunarle la sorprendente confusione dei finali, mai precisi, stabiliti con l' improvvisazione naif di chi ha provato poco. Chi era in piazza a cercare il Dylan che non c' è più, sarà stato felice di ascoltare Forever Young e Like a Rolling Stone, entrata ormai a buon diritto nel repertorio dei Rolling Stones. Da anni c' è un brano al quale Bob Dylan nei concerti affida la verità della sua arte: It' s All Over Now, Baby Blue, straziante confessione di un' anima ferita. Non lasciatevi ingannare dalle parodie dei chitarristi: è nascosta nei tre minuti di questo viaggio nei sentimenti confessati senza pudore la verità di Bob Dylan. Ieri sera replica a Milano: per 4 mila persone, molte delle quali - inaspettatamente - giovanissimi. Caldo entusiasmo. - di PAOLO BIAMONTE

Ciao , alla prossima ,

Mr.Tambourine

 

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Ciao Mr.Tambourine ,

anche quest'anno il Nobel è andato ad un illustre sconosciuto , ti pare giusto ? Con Tutto quello che scritto Dylan ? Che non sia servito a niente ? Allora perchè la Fondazione Nobel non mette fine a questa incresciosa discussione assegnando il premio a Bob ?

Anselmo - Ancona

Non lo trovo giusto come te e come migliaia d'altre persone , l'ho già detto e lo ridirò sempre , Dylan è stato il più importante scrittore del secolo , il più influente , il più ascoltato , il più imitato , il più venduto . Che altro ci vuole per meritare il premio Nobel ? Scrivere " Mistero buffo ? Mha............

Mr.Tambourine

 

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Ciao Tambourine , sono un grande fan di Bob ma anche di Ry Cooder , a quando uno "special su Ry ? ciao Enrico Ratti

Devo confessarti che anche a me le sonorità di Ry mettono i brividi , per ora spero ti badti quest'articolo di Ezio Guaiotamacchi pubblicato su Jamonline , poi provvederemo allo special , ciao ,

Ry Cooder
La (ri)scoperta dell'America

di Ezio Guaitamacchi

"My Name Is Buddy" è il nuovo progetto artistico di Ry Cooder, un viaggio affascinante alle radici della musica nordamericana, un inebriante cocktail di folk, old timey, blues, bluegrass, gospel, jazz e rock. Un concept ricco di significati, raccontato in maniera fantasiosa (attraverso gli occhi di un gatto) e dedicato a un'America che non esiste più. Ma che, al tempo stesso, suona come monito verso un'altra America: quella che, oggi, sembra essersi completamente dimenticata di valori importanti, come il rispetto per i diritti dei lavoratori, per i quali tanti hanno combattuto battaglie appassionanti e sofferte.

Raylanders - Ecco il cast di "My Name Is Buddy"
Mike Seeger e le session del gatto - Intervista all'uomo definito da Dylan "l'archetipo supremo del musicista folk"
Harry Smith Project Live - Il tributo alla "madre di tutta la musica folk"
Un grande futuro dietro le spalle - I ritorni eccellenti di David Bromberg e Mavis Staple Roots & Cooder - Ry e la musica delle radici
Tutto ha inizio un paio d'anni fa, quando Cooder riceve una busta anonima al cui interno ci sono una strana foto e un messaggio enigmatico.

Santa Monica, California, autunno 2004

È una bella mattinata, tiepida e profumata, da piena "estate indiana". La foschia umidiccia si sta definitivamente squagliando, alzandosi dalle fredde acque del Pacifico. Si comincia a scorgere l'orizzonte. Sulla spiaggia, in lontananza, s'intravedono jogger coraggiosi, qualche surfista alle prime armi, cani che scodinzolano e saltellano tra spruzzi d'acqua salmastra, ragazzi che fanno volare alti i loro coloratissimi aquiloni. Tra i giardinetti di Ocean Avenue, di fianco al Pier, s'iniziano a muovere anche i cittadini onorari di quella che gli americani chiamano "The Home Of The Homeless". Quasi tutti spingono carrelli presi "a prestito" dai supermarket, carichi di coperte e cianfrusaglie. Destinazione: i cestini dei rifiuti nella 3rd Street Promenade (il loro "breakfast point" preferito).

Poco lontano da quella varia e pittoresca umanità, nella penombra del suo studio, Ry Cooder sta apportando gli ultimi ritocchi al missaggio di Chávez Ravine, l'album che prende il nome da un quartiere latino della vecchia Los Angeles, raso al suolo negli anni 50 per costruirci uno stadio di baseball. È un progetto al quale tiene molto e che gli ricorda la sua gioventù: lui, alla rupe di Chávez, da ragazzo, ci andava per davvero e all'insaputa dei suoi genitori. Quella storia, in parte autobiografica e in parte metaforica, diventa il pretesto per raccontare un mondo antico, ormai scomparso ma i cui suoni, ritmi e melodie continuano ad esercitare un fascino irresistibile; specie se filtrati dal gusto, dalla pertinenza stilistica e dall'originalissima visione artistica di uno dei personaggi più anomali, geniali e ispirati della musica anglo-americana degli ultimi 50 anni.

"Quel giorno" ricorda Cooder "il postino mi recapita una busta giallastra, un po' ciancicata, scarabocchiata a mano. Sembrava provenire da un vecchio amico. Dentro c'era una fotografia di Leadbelly. Ma al posto della faccia del leggendario bluesman, era stato inserito (con Photoshop) il musino di un gatto rossiccio. Nei suoi occhi, traspariva uno sguardo strano, per certi versi imperscrutabile. Osservandolo bene, però, sembrava che quel micio la sapesse lunga".

Nella busta, c'è dell'altro: un indirizzo web e un biglietto con una frase neanche tanto sibillina: "You'll know what to do with this", tu sai cosa farne di questa roba: più che un suggerimento, quasi un ordine. Ma, in quel momento, Cooder è tutto preso dalla chiusura del progetto Chávez Ravine. Non ha mica tempo per i gatti. Eppure, non riesce a togliersi quella immagine dagli occhi. E così, appena può inizia a fare qualche ricerca.

Utilizzando le indicazioni ricavate dall'indirizzo web, scopre che quel gatto rossiccio ha un nome (Buddy) e un indirizzo: un vicolo sul retro di un negozio di dischi di Vancouver. Lì, ha trasformato una vecchia, scassatissima valigiona nella sua cuccia preferita.

Qualche tempo dopo, però, Ry viene purtroppo a sapere che Buddy è morto. Sono i primi mesi del 2005. "Ho provato a dimenticarmi di lui, ma il suo musino e quello sguardo intrigante si erano insinuati dentro di me. E continuavano a mandare stimoli al cervello. che ben presto hanno cominciato a trasformarsi in ritmi e melodie".

"Continuavo a pensare a quel gatto rossiccio" ricorda Cooder "quando, in modo addirittura ossessivo, mi sono fatto ammaliare da una vecchia canzone di Charlie Poole". (*)

Di colpo, l'intuizione.

"Era un gatto rosso. inteso non come colore del pelo, ma come colore politico. era un sindacalista!".

Così Buddy diventa Red. E nasce un primo verso: "I'm a red cat 'til I die", sarò un gatto rosso sino alla morte".

Quasi per incanto, Buddy il vagabondo ha amici e compagni di viaggio che incontra lungo la strada: il Topo Sinistrorso, Il Reverendo Rospo Tom, l'ingordo maialino J. Edgar (che, guarda la coincidenza, porta lo stesso nome del malfamato capo del FBI J. Edgar Hoover, direttore "eterno" del Bureau dal 1924 sino al 1972).

Così Buddy ha un passato e un futuro. E Ry una grande storia da raccontare.

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Le passioni del giovane Ryland

Grazie a un gatto, dunque, 25 anni dopo aver firmato la soundtrack di The Long Riders (I cavalieri dalle lunghe ombre, colonna sonora impeccabile, nel più puro stile old timey dello straordinario western con la regia di Walter Hill che racconta in modo mirabile la saga di Jesse James) e a oltre quarant'anni di distanza dai suoi esordi folk-blues al fianco di Taj Mahal con i Rising Sons, Ry Cooder torna alla musica delle sue radici. A quella musica, cioè, che sin da bambino gli ha fatto perdere la testa.

Santa Monica, come tutti sapete, non si trova nelle Appalachian Mountain. Nemmeno il blues abita da quelle parti. Piuttosto, nell'assolato e pigro Southern California, patria del "take it easy" e delle chimere hollywoodiane, sono altre le colonne sonore che scandiscono la vita di tutti i giorni. Eppure, in casa Cooder, agli inizi degli anni 50, si ascoltano i dischi di Woody Guthrie e Leadbelly. E si condividono gli ideali sociali e politici di Pete Seeger.

Leo Breger è un amico dei genitori di Ry.

Musicista classico (suona la viola), Breger è finito nelle liste nere del maccartismo, sospettato di essere un comunista. Lui e il padre di Cooder passano le sere ad ascoltare musica, alternando Bach al folk. Una sera, il piccolo Ryland Peter si alza dal letto: ha sonno, ma la musica che viene dal salotto è troppo bella.

"È stato allora che mio padre mi ha messo in mano una chitarra, una Sears Silverstone tenore, a quattro corde, che conservo ancora oggi come una reliquia. Quell'episodio ha cambiato la mia vita".

Breger continua ad avere un ruolo importante nella formazione artistica del giovane Ryland.

"I dischi di Guthrie e Seeger erano suoi. È stato su quelli che ho iniziato a suonare: mio padre mi aiutava a posizionare le dita sul manico della chitarra. A 10 anni i miei genitori mi hanno regalato una Martin. Suonavo tutti i giorni, tutto il giorno".

Ry si esercita sui vinili dei grandi maestri del country blues (da Robert Johnson a Sleepy John Estes, da Skip James al Reverendo Gary Davis), vivisezionando ogni singola traccia, alla ricerca della perfetta riproduzione di tecnica e stile.

"Un giorno ho capito che quella musica non andava soltanto copiata; doveva essere assorbita, elaborata, digerita, metabolizzata. Stavo aspettando l'autobus per andare al campeggio estivo. Avevo deciso di portarmi appresso la chitarra. Dalla Douglas Aircraft (la fabbrica di aerei Boeing che aveva sede a Santa Monica, proprio vicino a casa mia) esce un operaio. Ha la tuta blu e un cestino per il pranzo. 'Ehi ragazzo' mi fa 'suoni la chitarra? La suono anch'io, sono un hillbilly'. Gliela presto e lui inizia a strimpellare: porca miseria, mi sembrava di ascoltare Joe Maphis alla radio. Questo operaio hillbilly mi stava facendo venire le lacrime agli occhi. Non ho mai saputo il suo nome e non l'ho mai più rivisto. Ma non lo dimenticherò mai".

Un paio d'anni dopo Ry Cooder inizia a frequentare con una certa assiduità lo Ash Grove, il folk club per eccellenza del Southern California dei primi Sixties. Lì ha modo di ammirare i suoi idoli musicali: chitarristi blues leggendari, star del bluegrass e della old time music, i primi folksinger. Persino il commovente gospel degli Staples Singers ("Quando li ho visti su quel palco, ho quasi avuto un malore", ricorda Cooder).

A 15 anni, si esibisce nel locale, scritturato da Ed Pearl come accompagnatore. Nel 1964 trova il suo primo lavoro come session man e arrangiatore di Jackie De Shannon, allora giovane cantautrice del Kentucky. Poi un ingaggio (vero) al McCabe's, il negozio di strumenti e folk club più prestigioso a ovest di New York.

"Mi davano anche 8mila dollari per due settimane di lavoro. Sono andato dai miei insegnanti e ho detto loro che l'avrei piantata lì con la scuola.".

In quel periodo Ry incontra Terry Melcher e Jack Nitzsche, suona nei dischi di Paul Revere And The Raiders, dei Byrds e delle altre star californiane dell'epoca. Ma blues e folk sono sempre la sua passione.

Conosce la musica di Joseph Spence, superbo chitarrista di Andros, isole Bahamas, dal quale apprende quello stile elegante e sincopato che dà corpo e originalità al suo picking. Conosce (proprio allo Ash Grove) anche un altro virtuoso della chitarra acustica, un afroamericano newyorchese anche lui innamorato del blues. Si chiama Henry Saint Clair Fredericks ma come nome d'arte usa quello del maestoso mausoleo indiano Taj Mahal.

Da quel momento Ry Cooder e Taj Mahal (dopo aver unito le forze nei Rising Sons) iniziano un percorso artistico curiosamente parallelo che li porterà nei successivi 40 anni a sperimentare (per conto proprio) mondi musicali comuni, dalle Antille alle Hawaii passando per West Africa, India e Giappone. Ma anche insieme, nei Rising Sons, in poco più di un anno, i due lasciano il segno influenzando tutta la scena del Sud California con la loro formidabile fusione di rock e roots americane.

Cooder, nel frattempo, intensifica il lavoro di session man per conto di Captain Beefheart, Everly Brothers, Randy Newman, sino a quando riceve una telefonata dei Rolling Stones. Già, sembrerebbe proprio lui il sostituto ideale di Brian Jones. Ma Cooder declina l'invito. Pare (anche se lui lo ha sempre negato) che il motivo del contendere sia un riff di chitarra che Keith Richards gli avrebbe copiato, per usarlo nella famosa intro di Honky Tonk Women. Il litigio, però, non preclude un'intensa joint venture artistica con la rock band inglese. Oltre al celebre solo di mandolino nella riedizione del portentoso blues di Robert Johnson Love In Vain, Cooder partecipa alle session di Let It Bleed e Beggars Banquet prima di realizzare insieme a Jack Nitzsche e Randy Newman la colonna sonora di Performance, film di Mick Jagger. Poi ancora, collaborazioni discografiche con i Rolling Stones, dai pezzi poi inclusi in Jammin' With Edwards a Sticky Fingers.

Ma non è quello che Ry desidera fare. "Jack Nitzsche voleva che incidessi brani strumentali nello stile di Duane Eddy. Ma io pensavo che fosse noioso. Mi dicevo, se faccio così tra due anni mi stufo e abbandono".

A salvarlo, la sua musica preferita.

"Ho deciso che fosse arrivato il momento di incidere un album solista" racconta lo stesso Cooder "a me sono sempre piaciuti il blues, le melodie old time, le dustbowl ballad. Perché dovevo suonare altro? Dopo aver pubblicato i primi due album solisti, la gente mi chiedeva: 'Ry, cos'è 'sta roba? Non venderai mai nulla.'. Ma io non gli ho dato retta. E sono andato avanti per la mia strada. Credo di saper riconoscere la buona musica. E penso anche di saper riconoscere una bella canzone. Bene: forse, ci ho impiegato 40 anni, ma credo di aver fatto buona musica e scritto buone canzoni".

Già, da quel momento, inizia la carriera del mito.

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Il ritorno alle radici

Dopo un lungo (più di 20 anni) e appassionato flirt con le musiche del mondo, Ry Cooder torna dunque alle sue radici geografiche, storiche, culturali. Alle spalle, episodi epocali: da Talkin' Timbuktu con Ali Farka Toure al Buena Vista Social Club, giusto per citare i più famosi, più una lunga collezione di colonne sonore prestigiose a fianco di registi straordinari come Wim Wenders e Walter Hill.

Sempre dietro le spalle, però, c'è da tempo anche la sua vena rock (seppur sempre da intendersi in accezione cooderiana): a parte la vicenda Little Village, il supergruppo con John Hiatt, Jim Keltner e Nick Lowe che pubblica l'omonimo album nel 1992, è dai tempi di Get Rhythm (1987) che Cooder non suona più musica rock e dintorni, non canta e non compone canzoni. Si limita, per così dire, a "pennellare" con la slide ("È uno strumento duttile, possiede un suono liquido che si adatta ad ogni tipo di armonia e a qualsiasi ritmo, ha un timbro internazionale che non gli dà connotazione di genere"), a compiere entusiasmanti viaggi sonori, scoprire maestri di culture lontane, disegnare progetti artistici equilibratissimi e originali.

Ma, due anni fa, con Chávez Ravine, qualcosa cambia. Ry, nel suo primo album "autobiografico" da tanti anni a questa parte, ricomincia a bazzicare il natio Southern California, scrive qualche pezzo del disco e ne canta pure un paio. È solo uno stuzzicante appetizer.

Se la rupe di Chávez è, infatti, lo spunto per ricordare un quartiere della sua gioventù, per celebrare un mondo e uno stile di vita che non ci sono più, l'album del Gatto Rosso sancisce il definitivo ritorno di Ry Cooder. Non solo alle amate radici della musica americana ma anche a un "attivismo" artistico (e politico) dal quale mancava da 20 anni esatti. In My Name Is Buddy, infatti, Ry Cooder (proprio come ai tempi d'oro) non si limita all'ideazione, all'arrangiamento, alla scelta dei musicisti e alla produzione. Compone (o arrangia) il tutto, è la voce solista di ogni brano, suona uno o più strumenti a pezzo. E, più che mai, dimostra la sua smisurata cultura musicale, la sua imbarazzante pertinenza stilistica, il suo raffinatissimo gusto estetico, la sua straordinaria capacità di rendere originale anche il più trito dei traditional (Footprints In The Snow).

Non solo.

Come per Chávez Ravine, anche il disco di Buddy Red Cat prevede diversi livelli di lettura. Qui, il rimpianto per un'America che non c'è più, per lo smarrimento dei valori, per il deterioramento di una civiltà e di una democrazia viene raccontato in modo ancor più fantasioso. Attraverso la storia di un gruppo di amici, come nella tradizione del Pogo di Walt Kelly.

"Pogo è una grande metafora della vita" ammette lo stesso Cooder "gli animali sono personaggi perfetti per una storia: non parlano molto, hanno grande forza comunicativa, sono semplici e diretti".

Ma c'è di più: My Name Is Buddy è per Cooder lo spunto per denunciare non solo la scomparsa di quella vecchia America che lui ha amato tanto ma anche per sottolineare che nella società statunitense la figura del working man è stata pressoché cancellata.

"Nessuno, oggi, negli Usa ama definirsi un lavoratore. Con quel profilo sembrano spariti anche i valori di unità, solidarietà, etica e giustizia. Che fine ha fatto il motto: noi siamo in molti, loro sono in pochi?".

Per rispondere a queste domande, Cooder prova idealmente a tornare sui luoghi che hanno celebrato le lotte dei lavoratori, a rivisitare i posti che hanno ispirato la musica che tanto lo appassiona, ad approfondire e rileggere quelle straordinarie canzoni di preghiera, di dolore, di protesta, di festa.

"Questi sono gli argomenti di cui hanno sempre cantato i poveri: morte, religione, famiglia, lavoro, vita quotidiana. Gli poteva accadere di tutto" sottolinea Ry "ma quelle canzoni erano il loro conforto morale".

Ecco perché il viaggio di Buddy con la sua valigiona scassata, che ci fa venir in mente la vita on the road a bordo degli Airstream, le roulotte di alluminio (vere e proprie case su quattro ruote) che sono state un'icona americana degli anni 50. Perché, come per coloro che percorrevano migliaia di chilometri in macchina, in giro per l'America, trainando quelle lucenti "mobile house" quello del Red Cat non è solo un tragitto geografico. E neppure semplicemente una storia fatta di storie, più o meno divertenti.

"È la cronaca di una vita di lotta e sofferenza, di vicende sindacali, di sconosciuti eroi di tutti i giorni" dice Cooder. "Con una colonna sonora scelta in modo preciso e consapevole. Si tratta di canzoni che in America sono fortemente radicate nell'immaginario collettivo. Quasi tutti i pezzi del disco sono dei traditional o direttamente ispirati da brani popolari: alcuni, poi, sono veri e propri inni".

Paura di essere accusato di nostalgia?

"Assolutamente no. Specie se consideriamo che molti dei problemi di cui parlavano quelle canzoni di tanti anni fa sono gli stessi che affliggono l'America del 2000: povertà, violenza, avidità".

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Una lunga tradizione

Quella delle working songs è una tradizione lunga e forte. Specie negli Stati Uniti: basta aggiungere ai nomi di Woody Guthrie e Leadbelly quelli di Joe Hill, Pete Seeger, Cisco Houston, Odetta, Joan Baez e dei tanti protagonisti del folk revival degli anni 60 per capire la portata del fenomeno.

Eppure, le inquietudini del nuovo millennio e i difficili equilibri del pianeta sembravano aver cancellato per sempre quella memoria.

Oggi, qualcosa si sta muovendo.

Di Bruce Springsteen e delle sue Seeger Sessions, come i lettori sanno, abbiamo parlato più volte e in modo approfondito. Cooder, con questo progetto, torna sull'argomento. E lo fa in modo ancora più preciso e consapevole, proprio come lui stesso ha tenuto a puntualizzare. Anche se, come nel suo stile, senza rinunciare alla consueta leggerezza, ironia, eleganza.

"Quello di Ry Cooder in My Name Is Buddy" spiega Mike Seeger "pur essendo un messaggio apertamente in difesa dei lavoratori e dei loro diritti sindacali va letto come un messaggio politico nel più ampio senso del termine. Oggi non ci sono in giro molte persone che hanno il coraggio di esprimere e sostenere pubblicamente queste idee. Men che meno, vedo artisti che abbiano voglia di esporsi. Per questo penso che Ry Cooder abbia avuto tanto coraggio. Rischiando parecchio: sono proprio curioso di vedere come il progetto verrà recepito qui in America e se verrà capito nel resto del mondo".

Per agevolare la comprensione, Ry ha fatto precedere ogni canzone da un piccolo racconto con illustrazioni di Vincent Valdez: frammenti poetici che danno ancora più tono e spessore al progetto.

Anche se è sufficiente ascoltare una qualsiasi delle 17 tracce dell'album (vedi JAM 133, recensione a pagina 102) per venir rapiti da atmosfere sonore suggestive e da un clima vintage assolutamente irresistibile.

"Adoro questa musica, amo queste canzoni" dice Ry Cooder "sono molto orgoglioso di questo progetto e mi auguro che tutti ne riescano a cogliere l'essenza. Molte di quelle canzoni venivano cantate proprio per il significato che volevano comunicare".

Leo Breger e papà Cooder sorridono, dall'alto dei cieli.


(*) Charlie Poole, banjoista americano dei primi del Novecento, è uno dei maestri della old time music. Insieme al cognato, il violinista Posey Rorer e al chitarrista Norm Woodflieff, ha dato vita alla leggendaria string band dei North Carolina Ramblers. Autore di canzoni epocali (la più famosa delle quali Don't Let Your Deal Go Down è stata incisa da centinaia di artisti), è morto alcolizzato a soli 39 anni. Poco prima era stato chiamato a Hollywood per la colonna sonora di uno dei primi film con dialogo.

(**) Alcune delle dichiarazioni di Ry Cooder riportate in questo articolo sono tratte dal libro di Aldo Pedron Ry Cooder: Il viaggiatore dei suoni (Arcana Editrice, 1998).

 

Mr.Tambourine

 

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Ciao Mr.Tambourine , posso sapere quali sono i tuopi musicisti preferiti ? Athos

Certo , senza fatica , # 1 Bob Dylan , # 2 John Lennon , poi c'è il vuoto . Questo non vuol dire che non ammiri altri musicisti di spessore e nome , tipo Clapton , Harrison , McGuinn , Van Morisson , CSN&Y, Pink Floyd , King Crimson , Jethro Tull e via di questo passo , ma ho sempre ritenuto tutti questi artisti un gradino sotto i primi due. Ho amato molto Battisti-Mogol e le straordinarie canzoni che hanno saputo creare nel giro di pochi anni , anche Lucio era un genio , con la sfiga di essere italiano , come De Andrè del resto , alcuni dicono che se fosse nato in America avrebbe fatto un massacro , ma io mi chiedo sempre , avrebbe incontrato Mogol ? Probabilmente no e allora non sarebbero nate quelle canzoni che abbiamo tutti nel cuore e che riascoltiamo sempre con una certa emozione , perciò meglio così , Lucio è nostro per sempre e nessuno ce lo ruberà mai !

Mr.Tambourine

 

CLASSIFICA ALBUM PIU' VOTATI

1)  Highway 61 revisited

2)  Blonde on blonde

3)  Desire

4)  "Love and theft"

5)  Oh mercy

6)  Bringing it all back home

7)  Time out of mind

8)  The times they are a-changin'

9)  The freewheelin' Bob Dylan

10) Blood on the tracks

11) Blind Willie mcTell

12) Man in the long black coat

13) Ain't talking

14) Girl from the north country

15) The lonesome death oh Hattie Carrol

16) Series of dreams

17) Morth country blues

18) Stuck inside of Mobile with the Memphis blues again

19) Nettie moore

20) Mississippi

 

CLASSIFICA CANZONI PIU' VOTATE

  1)   LILY, ROSEMARY AND THE JACK OF HEARTS
  2)   MY BACK PAGES
  3)   HURRICANE
  4)   LIKE A ROLLING STONE
  5)   SUBTERRANEAN HOMESICK BLUES
  6)   ONE MORE CUP OF COFFEE
  7)   BLOWIN' IN THE WIND
  8)   IDIOT WIND
  9)   MR TAMBOURINE MAN
 10)  IF YOU SEE HER SAY HELLO


 

LE CITAZIONI DYLANIANE NEI FILM

Nota: in questa lista vanno inseriti solo ed esclusivamente i film in cui Dylan viene citato in qualche modo (il suo nome, un verso di una sua canzone, un poster, una copertina di un disco, o qualsiasi altro rimando di questo genere) e non quelli in cui appaiono semplicemente sue canzoni o cover delle sue canzoni (nè ovviamente quelli direttamente dedicati a lui come "Io non sono qui" o quelli fatti da lui of course... ;o) )
Aiutateci ad allungare la lista e segnalate, segnalate, segnalate...

In treatment - fiction televisiva                                                                                                                                                    We shall overcome , una lezione di vita - di Niels Arden Oplev (2005) - Il Proff. Freddie cita Bob Dylan sfogliando i dischi con Frits . Una casa alla fine del mondo"(con Colin Farrell 2004 ) 
Ma il cielo è sempre più blu, di Marco Turco (Fiction TV)                                                                                                              It's a free world, di Ken Loach
Vanilla sky, di Cameron Crowe
The ladykillers, di Ethan Coen e Joel Coen
Grindhouse (segmento Deathproof), di Quentin Tarantino
Ricky e Barabba, di Christian De Sica
Vacanze di Natale 2000, di Carlo Vanzina
Dangerous Minds, di John N. Smith
Simpson (vari episodi del cartone animato di Matt Groening)
Due nel mirino
Lady in the water, di M. Night Shyamalan
Walk the line, di James Mangold
The Doors, di Oliver Stone
Scrivimi una canzone
Blow, di Ted Demme
Bob Roberts, di Tim Robbins
The Hunted - La preda, di William Friedkin
Interstate 60, di Bob Gale
Be Cool, di F. Gary Gray
L'amore e' eterno finche' dura, di Carlo Verdone
Al Lupo Al Lupo, di Carlo Verdone
Io e Annie , di Woody Allen ( Just like a woman )                                                                                                                          Forrest Gump - ( Blowing in the wind )

 

I RIFERIMENTI A DYLAN NEI ROMANZI O IN ALTRE OPERE LETTERARIE
 

Vuoi contribuire ad allungare la lista sottostante? Segnala a spettral@gmail.it i romanzi, i racconti o le altre opere letterarie in cui viene citato direttamente o indirettamente Bob Dylan .

- "Sulle orme della tradizione. Gli Indiani d'America e noi" ,Spagna Francesco, , Padova, Imprimitur, 2008.                                          - "Hymes Dell" (a cura di) Antropologia radicale, Milano, Bompiani, 1979.                                                                                         - "Scimpru " di Roberto Valentinii, dove Dylan è citato due volte                                                                                                        - "Achille piè veloce" di Stefano Benni, dove il cantante preferito della ragazza del protagonista è, per l'appunto, Dylan.
- "Music Box", Curcu&Genovese, Trento, 2006. ( Marc Pontoni )
- "Nel momento" di Andrea De Carlo
- "Alta fedeltà" di Nick Hornby
- "La spia e la rockstar" di Liaty Pisani, Fazi, 2006
- "L'era del porco" di Gianluca Morozzi, Parma, Guanda, 2005
- "Scirocco" di Girolamo De Michele, Torino, Einaudi, 2005
- "Giorni di un uomo sottile" di Ernesto Aloia nella sua raccolta "Chi si ricorda di Peter Szoke?", minimum fax 2003
- "La ragazza dai capelli di cobalto" di Gianluca Morozzi, nell'antologia di vari autori "Strettamente Personale", ed. Pendragon, 2005.
- "L'Emilia o la dura legge della musica" di Gianluca Morozzi - Guanda
- "Tokyo blues" di Murakami Haruki - Norvegian Wood (trad. ital. Milano, Feltrinelli)
- "Dance dance dance" di Murakami Haruki (trad. ital. Torino, Einaudi)
- "La Torre Nera" di Stephen King
- "I giorni felici di California Avenue" di Adam Langer
- "Per sempre giovane" di Gianni Biondillo, edizioni Guanda - 2006
- "Americana" di Don de Lillo
- "Denti bianchi" di Zadie Smith
- "La Danza del Pitone", di Norman Silver
- "Troppi paradisi" di Walter Siti, Einaudi
- "La fortezza della solitudine" di Jonathan  Lethem (Tropea)
- "Siamo tutti nella stessa  barca" di Owen King (Frassinelli)
- "Come dio comanda" di N. Ammaniti (Mondadori)
- "Accecati dalla luce" di Gianluca Morozzi (Fernandel)
- "Chi è quel signore vestito di bianco vicino a Bob Dylan?" di Gianluca Morozzi ("Vertigine", numero unico - 2006)
- "Il cielo sopra Parigi" di Teo Lorini (Fernandel n. 58)
- "Venerati maestri" di E. Berselli (Mondadori)
- "Zona disagio" di Jonhatan Franzen (Einaudi)
- "Una vita da lettore" di Nick Hornby
- "Ragionevoli Dubbi" di Gianrico Carofiglio - Sellerio editore
- "31 Canzoni" di Nick Hornby
- "Questa scuola non è un'azienda. I racconti del prof. Bingo" di Vittorio Vandelli
- "I ponti di Madison County'' di R. J. Waller
- "La cultura del controllo" di David Garland
- "Il paese mancato" di Guido Crainz
- "Paura e disgusto a Las Vegas" di Hunter S. Thompson
- "L'ultima tazza di caffé" di Teo Lorini (da "Posa 'sto libro e baciami" - ed. Zandegù, Torino 2007)
- "Small world" di David Lodge
- "In cerca di te" di John Irving
- "Mi ammazzo, per il resto tutto ok" di Ned Vizzini, Mondadori.
- "Parlami d'amore" di Silvio Muccino e Carla Vangelista
- "Memorie di un artista della delusione" di Jonathan Lethem (Minimum fax)
- "Boccalone. Storia vera piena di bugie" di Enrico Palandri, Milano, L'erba voglio, 1979 (ristampato da Bompiani)
- "Vedi alla voce Radio Popolare", a cura di Sergio Ferrentino con Luca Gattuso e Tiziano Bonini, Milano, Garzanti, 2006, p. 240 ("Live In Paris  - 1978").
- "Jim ha cambiato strada"(1987) di Jim Carroll. Edizione originale "Forced Entries:The Downtown Diaries 1971-1973", traduzione italiana: Milano, Frassinelli, 1997.
- "Desperation" di Stephen King
- "La bambola che dorme" di Jeffery Deaver, trad. ital., Milano, Sonzogno, 2007.
- "Testadipazzo-Brooklyn senza madre" di Jonathan  Lethem (Tropea, e in ed. tascabile Saggiatore)
- "Questo libro ti salverà la vita" di A.M. Homes
- "A long way down" (tradotto in italiano con "Non buttiamoci giù") ed. Guanda.
- "La gloria dell'indigente" di Davide Imbrogno - Ibiskos Editrice Risolo
- "Hellbook" di Michele Murino (ovvero "X-Files Bob")

 

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