Di Lillo
Questi appunti nascono come corollario a un discorso cui avevo già accennato
nel mio precedente articolo su Blonde on Blonde. Quello cioè sui nessi
esistenti tra Street Legal di Bob Dylan e Street Hassle di Lou Reed. Perciò,
per una più approfondita trattazione sulle affinità e sulle differenze
stilistiche fra i due autori rimando all’introduzione del summenzionato
articolo. Qui mi occuperò solamente dei due dischi in questione.
È mia opinione infatti che Dylan, nello strutturare il proprio lavoro, si
sia ispirato (pur con due interferenze younghiane di cui si parlerà)
all’esempio di quello di Reed, realizzato pochi mesi prima, e sia per tema
che per sentimento affine al suo.
Veniamo ai fatti. Per cominciare le date. Street Hassle di Lou Reed, venne
realizzato nell’autunno del 1977, durante la sua tournée europea, e
registrato live appunto, meno la suite omonima (frutto del lavoro in sala di
registrazione), e poi rimixato e ripulito in studio. Uscì sul mercato nel
febbraio del 1978. Mentre Street Legal di Dylan venne registrato nell’aprile
del 1978 e uscì sul mercato nel giugno dello stesso anno.
Fin dall’impianto fortemente “cinematografico” delle due copertine (direi
Scarface contro Taxi Driver) i due lavori possono accomunarsi. Ma pure nei
titoli si appaiano. E già qui mi pare ovvio che sia il discorso di Dylan
(venuto dopo) a richiamarsi a quello del collega – sempre che ovviamente non
si sotenga la tesi della coincidenza. Ma io non sono d’accordo, per il
profilarsi di tutta una serie di sottili affinità tese fra i due dischi.
Torna prepotentemente alla ribalta, nei titoli, il tema della strada, intesa
per Reed come un teatro d’azione con delle leggi tutte sue cui relazionarsi,
per Dyaln come un universo autonomo e in grado di offrire “salvezza”, o
perlomeno respiro, a chiunque voglia abbandonarvisi.
Ma attenzione al significato. Perché Street Hassle significa letteralmente
“incidente della strada”, inteso come una controversia fra opposte forze, ma
anche, per estensione un problema di difficile soluzione, quasi fosse
“dilemma della strada”; mentre Street Legal è il termine che viene
utilizzato in slang per indicare i motori truccati che sono riusciti a
passare il controllo della revisione e sono quindi “liberi (di muoversi)
sulla strada”, per estensione indicano un tipo giusto, uno nuovamente a
posto (per quelle che sono le leggi della strada, appunto). Vediamo quindi
che cambia il senso delle due opere. Entrambe affrontano le stesse
problematiche: il confronto con sé stessi e la ridefinizione del proprio
ruolo artistico e di un nuovo orizzonte umano e sentimentale, dopo la fine
di una relazione importante: quella di Reed per Rachel, splendido travestito
ch’era stato/a sua compagna di vita fin dal 1974 e a cui aveva dedicato le
sue canzoni più intensamente romantiche del decennio (e per estensione
l’intero album Coney Island baby); e quella di Dylan per Sara, a
completamento di tutto un discorso ch’era cominciato con Blood on the tracks
ed era proseguito per diversi anni, con Desire, Hard Rain, e col film
Renaldo & Clara. In questo senso Street Legal chiude il discorso sulla “fine
dell’amore” iniziato con Blood on the tracks, ma si pone anche come il
seguito di Blonde on Blonde, per il suo cinico e antiromantico indagare
sulla possibilità di un autentico rapporto uomo-donna, e in questo caso già
il fatto di aver utilizzato come titolo un’espressione slang come non gli
capitava da più di dieci anni a quella parte, è indicativo.
Ma torniamo al confronto con Reed. Si è detto che fra i due lavori la
differenza di fondo la fa il senso di lettura, la direzione da loro
intrapresa. Reed è appena uscito da un periodo durissimo a livello
professionale, a coronamento del quale si situa la sua incauta decisione di
lasciare la RCA per la Arista, cui si aggiunge la separazione da Rachel. Il
suo addio sebbene definitivo è ancora pervaso da un dolore pressante,
palpabile: il suo è un discorso in negativo. Mentre per quel che riguarda
Dylan, lui sta già metabolizzando da tempo i suoi demoni: quello che esprime
nel suo lavoro è la risoluzione ad andare avanti nonostante le lacrime
piante. Il suo è un discorso in positivo, o meglio, propositivo seppure
venato d’amarezza.
Il linguaggio dei due scrittori non potrebbe essere più diverso. Quello di
Reed è crudo, diretto, altamente realistico, e perciò drammatico. Quello di
Dylan è di un visionario come non lo si vedeva da anni, metafisicamente
sospeso sulle verità della vita con lucida follia. Li accomunano però nelle
scelte musicali un persistente richiamo alla black music del momento.
Infatti, entrambi i dischi sono ricchi di venature blues e soul, e si
arricchiscono dell’apporto di fiati e cori in gran quantità. Questo certo
per una esigenza personale, nell’ambizione di conquistare come artisti, dei
territori fino ad allora inesplorati. Ma anche forse il semplice tentativo
di mantenersi al passo coi tempi, di non lasciarsi superare da un mercato
discografico, che già li additava come eroi superati dalle mode – vedi cosa
scrissero i vari giornali di Dylan in seguito al fiasco di Renaldo & Clara.
Veniamo all’analisi delle tracklist. Entrambi i dischi cominciano con un
pezzo forte, teso a definire la situazione d’angosciosa confusione eppure di
determinazione a venirne a capo di entrambi gli artisti. Reed che nel
frattempo stava anche cercando di riaffermare (in qualità di co-fondatore
dei Velvet Underground) la sua figura di rocker come padre della neonata
scena punk newyorchese, rielabora in Gimmie some good times la sua Sweet
Jane riscrivendone corrosivamente il testo e interpretandolo, con lo
sdoppiarsi la voce in studio, come un dialogo su e con se stesso il cui tema
di fondo s’incentra su di un (postulato) menefreghismo verso il resto del
mondo. Quanto a Dylan riutilizza drammaticamente (ed è un espediente di
grande fascino) il linguaggio misterico dei tarocchi, che già aveva usato
con funzione strutturale (ma non di contenuto) in Desire, per designare un
paesaggio oscuro e stregato in cui riambientare, ridisegnandola per
metafore, la propria storia e offrire il suo caustico messaggio di speranza:
“Verrà la pace… ma non ci porterà compensi”.
Ancora la traccia 2 è per entrambi quella destinata al veleno, allo
spargimento del sale sulle ferite del rancore. Reed sputa la sua viscerale
Dirt contro, pare, il suo agente e produttore Dennis Katz, colpevole di
averlo sfruttato fino all’inverosimile e fin quasi a rovinargli la carriera
e la vita, quando in preda alle paranoie e alla dipendenza dall’anfetamina,
Reed avrebbe avuto solo bisogno di riposo e pace della mente (e non ricorda
tanto la vicenda di Dylan con Grossman?). Zimmie invece parte nel suo
discorso anti-romantico coll’annuncio (a Sara?) d’avere ora un nuovo pony da
“montare” invece del vecchio (la stessa Sara), ed è, ammettiamolo, talmente
infantile e scorretto nella sua presa di posizione, quanto libidinoso nell’
interpretazione.
Ma ora arriviamo alla parte più interessante del discorso. Il cuore
dell’album di Reed. Una lunga suite, Street Hassle appunto, suddivisa in tre
parti: Matilda Waltzing, Street Hassle e Slipaway, e considerata a ragione
il suo capolavoro del dopo-velvet. La suite narra per atti (o come le scene
di un noir) di una storia d’amore finita in tragedia, ovviamente quella
traslata di Lou e Rachel.
In Matilda Waltzing, in slang “l’autostoppista”, si parla di una ragazza
che, giunta in un bar, prende una sbandata per un tipo e gli offre del
denaro per passare la notte con lei. La voce di Reed è così eccitata da
rasentare quasi il fremito dei brividi sulla pelle per le carezze dei due
amanti. Nella successiva “Street Hassle” è un terzo personaggio che parla al
ragazzo. È passato del tempo, e il giovane e la ragazza sembrano ora fare
coppia fissa. Succede però che lei sia una tossica e sia vittima di
un’overdose. Il ragazzo distrutto e impaurito non sa come comportarsi.
Interviene il terzo personaggio, forse il proprietario della camera a ore
presso cui s’erano rifugiati (e la voce di Reed stavolta è fredda e
distaccata mentre ne assume l’identità), e gli suggerisse di lasciarla
perdere perché ormai è andata, e per evitarsi altri guai gli conviene, lui
consiglia, trascinarla sull’autostrada e lasciarla lì così che qualcuno la
metta sotto nel buio, e sembri solo un altro incidente della strada. Non
sappiamo se il ragazzo abbia seguito il consiglio oppure no. Né sappiamo che
fine abbia poi fatto la ragazza. Ma in Slipaway, dopo un intervento vocale
di Bruce Springsteen che ci informa di come questa canzone sia amara e vera
come la vita, Reed piange, tanto da straziarti il cuore, per un amore
perduto a caro prezzo e non ancora dimenticato. E come dicevamo, il suo è un
cantare in discesa, affacciato sul baratro. Si passa da una felicità ora
perduta attraverso la maledizione della vita quotidiana di due sbandati (la
stessa di Berlin) all’inevitabile separazione. Il lutto non è stato ancora
elaborato.
Ora, Dylan compie nelle tre successive canzoni del suo disco gli stessi
passaggi della suite, ma al contrario. Perché lui il suo lutto l’ha già
elaborato, e il suo è un discorso in salita, proprio di chi stia risalendo
lentamente ma caparbiamente la china. Si passa così dalla confusione
iniziale di No time to think, in cui, dopo la sostituzione del pony e di
conseguenza la fine del potere salvifico della donna sul suo destino,
qualsiasi strada sembra buona e tutte ugualmente inutili all’uomo Dylan, il
cui sguardo è insieme cinico e stanco (ma che poi in effetti sceglierà
ancora il misticismo di un dio salvatore in vece della donna),
all’altruistico tentativo di lenire la sofferenza di lei per la separazione
in Baby stop crying.
Canzone che però è molto meno generosamente gratuita di quanto poi non
sembri all’ascolto. Qui infatti s’instaura la prima interferenza younghiana
di cui sopra si diceva. Fate attenzione al primo verso, lì dove Dylan canta:
“Go get my pistols, babe,
Honey, I can’t tell right from wrong.”
Cioè: “Vammi a prendere le pistole, cara, io non posso più distinguere fra
sbagliato e giusto.” E poi nella strofa successiva:
“Go down to the river, babe,
Honey, I will meet you there.”
Cioè: “Vai giù al fiume, cara, ti incontrerò lì.”
Ora, vi ricordate di quel capolavoro assoluto del rock che è Down by the
river di Neil Young?
“Down by the river
I shot my baby.”
faceva il ritornello, cioè: “Giù al fiume ho sparato alla mia donna.” Dylan
in altre parole, richiamandosi esplicitamente alla canzone di Young, ci fa
capire che il suo non è un tentativo consolatorio, ma l’estremo tentativo di
liberarsi per sempre di Lei, cioè della donna. Vediamoci lì per parlare, ma
in realtà la mia intenzione è quella di spararti. È che sia proprio così,
che sia questa l’interpretazione giusta ce lo conferma in quell’altro pezzo
avvelenato che è New Pony, di cui costituisce il prologo (e con cui, sempre
sul primo lato del disco viene a incorniciare specularmente proprio No time
to think, la canzone della confusione):
“I had a pony, her name was Lucifer,
She broke her leg and she needed shooting,
I swear it hurt me more than it could ever have hurted her.”
Cioè: “Avevo un pony, il suo nome era Lucifero, lei si ruppe una zampa e le
si dovette sparare, giuro che fece più male a me di quanto potesse farne a
lei.” Nel testo lo stesso tono distaccato ma crudele (necessario, verrebbe
da dire, per sopravvivere alla delusione) del corrispettivo pezzo di Reed.
Per finire coll’accorato tentativo di riconciliazione con l’altro sesso di
Is your love in vain?, in cui addirittura ribalta, per dare maggiore
significato alla sua scelta, il senso del vecchio blues di Robert Johnson
“Love in vain”, canzone dell’abbandono per eccellenza, verso un brano basato
sull’incontro fra due universi (quello dell’uomo e quello della donna
appunto) in cui un Dylan scottato dall’ennesima svolta del destino, stavolta
pone le sue condizioni prima d’impegnarsi, onde evitare di essere poi
nuovamente deluso e infine decide, con molta magnanimità verso se stesso e
faccia tosta verso l’altra, di offrire a entrambi una nuova occasione.
Siamo adesso sui rispettivi lati B dei due vinili. Quello di Reed è più
esplicativo. Ma non mancano le grandi canzoni. Quello di Dylan continua con
la medesima tensione narrativa. Entrambi proseguono sulla strada di un
tentativo di ridefinizione della propria persona. Reed propone uno dietro
l’altro due brevi pezzi cattivi: la bella I Wanna be black, praticamente una
presa per il culo del tentativo di ridefinire in chiave nera (allora di
moda, si era pur sempre nell’era della discomusic) l’ambito culturale in cui
era cresciuta l’élite borghese (bianca) dell’epoca, e la perfetta
controproposta reediana al tentativo di avvicinamento al gospel di Dylan:
“I wanna be black,
Have a natural rhythm,
Shoot twenty feet of jism too,
And fuck up the Jews”
(“Vorrei essere nero, avere un ritmo naturale, sparare sperma fino a sei
metri, e fottere gli ebrei”, detto da un ebreo). E subito poi c’infila una
nuova versione di Real good time together, altro cavallo di battaglia dei
Velvet Underground, ora assunto dalle nuove leve del punk a inno rock, e con
cui cerca ovviamente di riaffermarsi, col rimarcare un proprio posto in seno
all’avanguardia musicale. Scelta non del tutto scontata, giacché all’epoca
Reed si era gravemente rovinato la reputazione con una serie di dischi
altamente commerciali, seppure non brutti.
Dylan risponde con la mistica Señor, pezzo che si muove in un ambito
estraneo all’orizzonte tematico dell’ateo Reed. È la seconda interferenza
younghiana nel confronto Dylan-Reed. Perché Señor infatti non sarebbe stata
possibile senza l’influenza di Neil Young. Señor, come già Isis, sua canzone
gemella (perchè a me sembrano proprio raccontare la stessa storia, ma
narrata da punti di vista differenti), è influenzata dal favoloso mondo
della mitologia precolombiana, e deve il suo carattere alle frequentazioni
che Dylan ebbe con Young a Zuma Beach nel 1975, proprio mentre Young
componeva, a sua volta ispirato dalla presenza del suo chitarrista ritmico
chicano Frank Poncho Sampedro, il suo ciclo “indiano”.
Particolarmente si riscontrano affinità affascinanti con Ride my llama per
Señor, così come con Pochaontas per Isis. Affinità che all’epoca non vennero
notate perché Young pubblicò queste sue due importanti canzoni solo nel
1979, nel suo Rust never sleep, disco fra l’altro a sua volta registrato
live, e poi rimixato e ripulito in studio, proprio come Street Hassle di
Reed, e nella struttura per metà acustico e per metà elettrico, chiaramente
ispirato a Bringing it all back home di Dylan; oltre ad essere ovviamente
una summa di tutto il pensiero e le tematiche younghiane del decennio.
Fra le canzoni segnalate ci sono delle ovvie differenze di stile. E pure a
Young manca l’afflato mistico dei pezzi di Dylan, giacché il suo interesse
si muove più verso l’esperienza fantascientifica, “temporale”, propriamente
il viaggio nel tempo di un nativo dall’epoca della colonizzazione bianca ai
giorni nostri. Ma così come comune a entrambi è il tema della rievocazione
di un amore perduto, il dato più interessante è la comparsa nei pezzi
“indiani” (ma meglio sarebbe dire “misterici”) di Dylan, di un terzo uomo
che funge da maestro-iniziatore-compagno d’avventura, personaggio
precedentemente mai presente nella sua produzione, e probabilmente mutuato
dalla poetica di Young. E che evolverà poi nella figura del salvatore del
periodo religioso.
Il resto dei pezzi del confronto fra Reed e Dylan sono cose più leggere, a
parte le due grosse ballatone che chiudono i due dischi col loro cupo
messaggio da fine del mondo.
Reed, ancora frustrato, grida battagliero di lasciarlo in pace in Leave me
alone, ispido rock blues infilato a ragione fra una Shooting star in cui si
guarda allo specchio e denuncia (ma quasi con taglio masochisticamente
autodistruttivo) la propria decadenza artistica, e una deliziosa Wait,
pendant dal vago sapore anni ’60 dell’ultima parte della sua suite.
Dylan, dopo un paio di (buoni) riempitivi in cui ripete il suo rimprovero
per l’amore finito e la sua presa di coscienza che è ormai l’ora per “a new
transition” è pronto al viaggio col suo Señor. Ma prima necessita per
l’ultima volta di fare il punto della situazione e scrive la sua lunga
lettera d’addio alla moglie: Where are you tonight?, che proprio a Señor
pare legarsi, non foss’altro che per le affinità di scrittura (soprattutto
la seconda strofa di Señor è identica nella costruzione a quelle dell’altra,
nell’incipit “there’s…” ripetuto a ogni verso). D’ora in avanti, come fa
notare Carrera, a parte Precious Angel e Covenant Woman del periodo
religioso (mediazioni con le precedenti figure di donne salvatrici, ma
protese a una salvezza cristiana), non scriverà più canzoni d’amore
pienamente felice, ma sempre venate di rimpianto. Per entrambi, Dylan e
Reed, stanno per cominciare gli anni ’80, il periodo in assoluto più oscuro
della loro carriera, il più compromesso. Alla fine del quale però
riusciranno anche, attraverso un processo di ascesi a recuperare i legami
con la propria creatività e a ricrearsi per davvero uno stile e un’identità
come alla fine dei settanta non erano riusciti, pur nell’eccellente
risultato dei propri rispettivi lavori.
A tal proposito, un ultimo punto da discutere mi pare riguardi una risposta
dovuta a un commento comune a praticamente tutti critici di cui ho letto,
riguardo alle canzoni minori del disco di Dylan. Mi riferisco a No time to
think, True love tends to forget e We better talk this over. La verità è che
per quanto minori esse sono necessarie allo svolgimento narrativo del disco,
e sono, per quanto si sia espresso a volte parere contrario, ineliminabili
dal discorso.
Perché è nella risentita consapevolezza che il vero amore, che concede la
salvezza al poeta, tende a scordarsi di lui, che si determina quello stato
di confusione verso la vita espresso da No time to think, da cui l’angoscia
che porterà alla decisione di avviare un dialogo chiarificatore (We better
talk this over), il quale si evolverà, con la risoluzione per un cambio
della guardia, nell’omicidio di Baby stop crying e nella sostituzione del
vecchio pony col nuovo, a patto che questo sappia poi adeguarsi ai bisogni
di Dylan uomo, se troppo alti erano gli standard dell’artista (Is you love
in vain?). Da ciò, in un crescendo letterario e performativo, l’elaborazione
del proprio lutto descritta in Where are you tonight?, e la decisione di
ripartire e ricominciare a viaggiare alla ricerca di un nuovo percorso
ascetico verso la salvezza (giacché il misticismo rappresentato dalla donna
era venuto a mancare con un bel colpo di pistola), decisione espressa prima
in Señor, canzone del e contro il potere yankee, il potere dei
conquistadores (lo stesso delle canzoni di Young), distruttivo ma prosaico,
temporale, privo cioè di effettivo “fondamento”, poi nell’abbandono a Dio e
al gospel.
APPENDICE. BOB DYLAN E NEIL YOUNG, UN SUNTO.
Che ci siano e ci siano state delle interferenze creative fra Young e Dylan
è cosa nota e risaputa. Ma visto che ne ho accennato sopra, mi sembrava
giusto proporne un breve sunto, giusto per schiarirci le idee.
Il primo a subire il fascino dell’altro è stato ovviamente Young, più
giovane di pochi anni, e teso ancora ad affermarsi quando già Dylan aveva
fatto la storia della musica. Particolarmente fu sempre affascinato dal
lavoro di Dylan con la Band. Ed è lui stesso a confermare in varie
interviste, che nel suo periodo più prolifico, quello che si situa fra fine
anni ’60 e inizi anni ’70 passava ogni suo momento libero in tournée
riascoltandosi il suo personale bootleg dei Basement Tapes, da cui ricavava
nuove idee, e tanta ispirazione. Tanto che intitolò quello che poi divenne
il suo disco più celebre, Harvest, così come in origine avrebbe dovuto
chiamarsi il secondo disco della Band, quello della loro consacrazione.
Ma c’è ben altro. C’è, sempre in Harvest, una canzone: Heart of gold in puro
stile dylaniano, canzone che non solo fu il suo singolo più venduto, ma che
all’epoca della sua uscita suscitò addirittura l’ira di Dylan, che piccato
rispose, utilizzando lo stesso giro armonico di Helpless, altro capolavoro
di Young, per la sua Knockin’on Heavens Door.
Seguì un lungo periodo, nero per Young e grigio per Dylan, in cui i due non
si frequentarono molto. Quando però si rincontrarono, a metà decennio a
Malibu, in California, Dylan residente nella penisola di Point Dume, e Young
che viveva in una villa in affitto sulla vicina spiaggia di Zuma, si
ritrovarono eccome.
Young in quel momento era preso, molto probabilmente ispirato dalla presenza
del suo nuovo chitarrista ritmico, Poncho Sampedro, chicano, nella
composizione di alcune canzoni a carattere “indiano” (incentrate sulla
mitologia d’epoca precolombiana) che poi avrebbe utilizzato in Zuma e in
Rust never sleep, i suoi album di maggior successo della seconda metà del
decennio. Mi riferisco a quei capolavori assoluti che sono: Cortez the
Killer, Powderfinger, Pochaontas, Ride my llama… quasi tutti incentrati
sull’idea di un ipotetico viaggio nel tempo di un nativo americano
dall’epoca della colonizzazione bianca ai giorni nostri, e del relativo suo
spaesamento nostalgico verso un’epoca presociale (e l’arrivo della società
coincide con l’arrivo di Cortez l’assassino), e perciò assai migliore della
nostra.
Dylan a sua volta, ispirato dalle composizioni di Young, scrisse, a distanza
di poco più di due anni, due canzoni, che fra l’altro, a me sembrano
raccontare la stessa storia ma da due punti di vista differenti, e cioè Isis
e Señor, che possono considerarsi due dei suoi più importanti capolavori dei
’70, e che per altro rappresentano la perfetta cronaca del passaggio dalla
fede nella donna come fonte di salvezza alla ricerca di una nuova fede
mistica in sostituzione di quell’altra, con la comparsa di un terzo
personaggio, mai prima presente nell’opera dylaniana, e cioè quella del
maestro-iniziatore-compagno d’avventura, che forse fu suggerita da Levy
(come ribatte mio fratello), ma più probabilmente è stata influenzata da
Young (vedi le analogie soprattutto col personaggio del chitarrista marziano
in Ride my llama e col Marlon Brando di Pochaontas), che diverrà mediatore
per il divino. Vi è in più però, nei suoi due pezzi un sapore misterico e
introspettivo estraneo all’orizzonte younghiano.
Dello stesso periodo è il medesimo furore performativo ad accomunare
Hurricane di Dylan e Like a hurricane di Young, anche se qui, se poi c’è un
vero nesso, lo si può ritrovare solo nelle affinità dei due titoli, giacché
la prima è una canzone di protesta, e la seconda d’amore. E, come già si
diceva nel capitolo precedente, nel chiaro riferimento in Baby stop crying
di Dylan a Down by the river, forse il più bel brano del primo Young,
peraltro ancora citato dallo stesso Dylan, e molti anni dopo, nel testo di
Tryin’ to get to Heaven.
Negli ottanta non ci sono molte occasioni d’incontro fra i due, se non per
il comune periodo di crisi, ma quello fu un decennio maledetto per tutti i
grande vecchi del rock. Eppoi nel fatto, ma è una pura curiosità, che
entrambi finirono per ritrovarsi a condividere per un breve periodo (dall’82
all’89) lo stesso agente, Elliot Roberts.
Nei novanta invece vanno citati almeno due casi d’interferenza reciproca. Il
primo da parte di Young (che fra l’altro scrisse anche una canzone, Days
that used to be, in Ragged Glory, ispirata a My back pages), che nel suo
tour del 1991, quello contro la guerra del Golfo, e da cui poi venne tratto
quello che personalmente ritengo uno dei più grandi live della storia del
rock, cioè Weld, reinterpreta genialmente e in chiave ferocemente
hendrixiana Blowin’ in the wind.
Il secondo da parte di Dylan, che nel suo blues chiave dei ’90, Highlands,
cita Young in una divertentissima strofa: “Sto ascoltando Neil Young, provo
ad alzare il volume, ma qualcuno mi grida sempre di abbassarlo.” (Young è
troppo rumoroso, evidentemente, e a tal riprova basterebbe vedere cosa
succede a casa mia quando metto nel lettore qualcuno dei suoi dischi più
recenti).
Per concludere una piccola teoria non accreditata, solo un’opinione, magari
anche stupida. Nella sua intervista a Spin del dicembre 1985, Dylan ci
racconta di come all’epoca dell’uscita del singolo di Young, Heart of gold,
e cioè nella prima metà del 1972, vivesse in Arizona, a Phoenix, e di quanto
brusco fosse stato l’impatto con quella canzone, che addirittura, ci dice,
era arrivato ad odiare, perché troppo simile al suo stile, e per di più con
grandissimo successo di pubblico in un periodo invece per lui di sterilità
creativa. Sempre secondo Dylan però, fu in quello stesso periodo che compose
uno dei suoi massimi capolavori, e cioè Forever Young. Ora, è stata per anni
opinione comune della critica che quel pezzo, basato com’è sul Libro dei
Proverbi, sia stato scritto per suo figlio Jacob, perché il Libro dei
Proverbi è costruito (proprio come la canzone) come una serie di consigli
che un padre dà al proprio figlio, e perché coincidono i periodi di
scrittura della canzone con la di poco precedente nascita del bambino. Ma in
realtà tutto questo non significa poi molto.
La nascita di Jacob può certo essere stata l’occasione scatenante, ma non
necessariamente il tema di fondo del brano. Da più parti oggi si nota come
in effetti Forever Young sembri essere stata scritta più per se stesso che
per chiunque altro. A questo va aggiunto che il Libro dei Proverbi è un
realtà un libro delle norme sociali e civili che il Padre di Israele dettò
ai propri figli, cioè il popolo di Israele, non semplicemente una serie di
consigli pratici per i ragazzi, ed è un libro il cui tema di fondo è il
miglioramento di se stessi nella vita, e non andrebbe sottovalutato a questo
modo, quasi fosse una guida pratica per genitori, non almeno nell’opera di
Dylan così fortemente legata alla dimensione mistica della Bibbia.
A noi però interessa il ritornello, che molti hanno legato, e giustamente,
dato l’ovvio richiamo all’Ode su un’urna greca, a uno dei poeti preferiti di
Dylan, John Keats. Quello che mi chiedo è: non potrebbe essere che, senza
togliere di nobiltà alla canzone e ai riferimenti di Dylan, ci sia, nascosto
in tale ritornello una botticella trasversale proprio a Neil Young? E a
questo proposito non scordiamoci quanto velenoso possa essere l’umorismo del
nostro Bob. Non potrebbe essere che mentre innalzasse il proprio inno
all’autoconservazione del genio, si lanciasse al contempo in una pungente
frecciatina a Young, quello Young che giusto in rima a Heart of Gold
cantava: “…and I’m getting old”, “…e sto diventando vecchio”, poetica poi
confermata nella splendida Old Man…? Dylan allora gli risponderebbe (a lui,
come pure a se stesso) “Possa tu restare per sempre giovane”, con un
caustico gioco a doppio senso sul termine “young”, giovane appunto, ma pure
letteralmente “Possa tu restare per sempre Young”, cioè, non mi copiare, fai
quello che devi fare senza imitarmi. O per dirla come fece Guthrie proprio
con lui molti anni prima: “Non sono ancora morto”. Il che (e non mi dilungo
oltre) potrebbe esserci confermato dal fatto che, come ci dimostra Carrera
nell’analisi che fa di Highlands nel suo saggio, utilizzi il medesimo gioco
di parole – ma in maniera ben più raffinata – con lo stesso doppio
significato fra “Young” e “giovane” in una canzone scritta ben venticinque
anni dopo ed incentrata, anche, sul tema del confronto col tempo e con la
propria vecchiaia.
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