MAGGIE'S FARM

SITO ITALIANO DI BOB DYLAN

SUI RAPPORTI ESISTENTI FRA STREET LEGAL DI BOB DYLAN
E STREET HASSLE DI LOU REED


Di Lillo

Questi appunti nascono come corollario a un discorso cui avevo già accennato nel mio precedente articolo su Blonde on Blonde. Quello cioè sui nessi esistenti tra Street Legal di Bob Dylan e Street Hassle di Lou Reed. Perciò, per una più approfondita trattazione sulle affinità e sulle differenze stilistiche fra i due autori rimando all’introduzione del summenzionato articolo. Qui mi occuperò solamente dei due dischi in questione.
È mia opinione infatti che Dylan, nello strutturare il proprio lavoro, si sia ispirato (pur con due interferenze younghiane di cui si parlerà) all’esempio di quello di Reed, realizzato pochi mesi prima, e sia per tema che per sentimento affine al suo.
Veniamo ai fatti. Per cominciare le date. Street Hassle di Lou Reed, venne realizzato nell’autunno del 1977, durante la sua tournée europea, e registrato live appunto, meno la suite omonima (frutto del lavoro in sala di registrazione), e poi rimixato e ripulito in studio. Uscì sul mercato nel febbraio del 1978. Mentre Street Legal di Dylan venne registrato nell’aprile del 1978 e uscì sul mercato nel giugno dello stesso anno.
Fin dall’impianto fortemente “cinematografico” delle due copertine (direi Scarface contro Taxi Driver) i due lavori possono accomunarsi. Ma pure nei titoli si appaiano. E già qui mi pare ovvio che sia il discorso di Dylan (venuto dopo) a richiamarsi a quello del collega – sempre che ovviamente non si sotenga la tesi della coincidenza. Ma io non sono d’accordo, per il profilarsi di tutta una serie di sottili affinità tese fra i due dischi.
Torna prepotentemente alla ribalta, nei titoli, il tema della strada, intesa per Reed come un teatro d’azione con delle leggi tutte sue cui relazionarsi, per Dyaln come un universo autonomo e in grado di offrire “salvezza”, o perlomeno respiro, a chiunque voglia abbandonarvisi.
Ma attenzione al significato. Perché Street Hassle significa letteralmente “incidente della strada”, inteso come una controversia fra opposte forze, ma anche, per estensione un problema di difficile soluzione, quasi fosse “dilemma della strada”; mentre Street Legal è il termine che viene utilizzato in slang per indicare i motori truccati che sono riusciti a passare il controllo della revisione e sono quindi “liberi (di muoversi) sulla strada”, per estensione indicano un tipo giusto, uno nuovamente a posto (per quelle che sono le leggi della strada, appunto). Vediamo quindi che cambia il senso delle due opere. Entrambe affrontano le stesse problematiche: il confronto con sé stessi e la ridefinizione del proprio ruolo artistico e di un nuovo orizzonte umano e sentimentale, dopo la fine di una relazione importante: quella di Reed per Rachel, splendido travestito ch’era stato/a sua compagna di vita fin dal 1974 e a cui aveva dedicato le sue canzoni più intensamente romantiche del decennio (e per estensione l’intero album Coney Island baby); e quella di Dylan per Sara, a completamento di tutto un discorso ch’era cominciato con Blood on the tracks ed era proseguito per diversi anni, con Desire, Hard Rain, e col film Renaldo & Clara. In questo senso Street Legal chiude il discorso sulla “fine dell’amore” iniziato con Blood on the tracks, ma si pone anche come il seguito di Blonde on Blonde, per il suo cinico e antiromantico indagare sulla possibilità di un autentico rapporto uomo-donna, e in questo caso già il fatto di aver utilizzato come titolo un’espressione slang come non gli capitava da più di dieci anni a quella parte, è indicativo.
Ma torniamo al confronto con Reed. Si è detto che fra i due lavori la differenza di fondo la fa il senso di lettura, la direzione da loro intrapresa. Reed è appena uscito da un periodo durissimo a livello professionale, a coronamento del quale si situa la sua incauta decisione di lasciare la RCA per la Arista, cui si aggiunge la separazione da Rachel. Il suo addio sebbene definitivo è ancora pervaso da un dolore pressante, palpabile: il suo è un discorso in negativo. Mentre per quel che riguarda Dylan, lui sta già metabolizzando da tempo i suoi demoni: quello che esprime nel suo lavoro è la risoluzione ad andare avanti nonostante le lacrime piante. Il suo è un discorso in positivo, o meglio, propositivo seppure venato d’amarezza.
Il linguaggio dei due scrittori non potrebbe essere più diverso. Quello di Reed è crudo, diretto, altamente realistico, e perciò drammatico. Quello di Dylan è di un visionario come non lo si vedeva da anni, metafisicamente sospeso sulle verità della vita con lucida follia. Li accomunano però nelle scelte musicali un persistente richiamo alla black music del momento. Infatti, entrambi i dischi sono ricchi di venature blues e soul, e si arricchiscono dell’apporto di fiati e cori in gran quantità. Questo certo per una esigenza personale, nell’ambizione di conquistare come artisti, dei territori fino ad allora inesplorati. Ma anche forse il semplice tentativo di mantenersi al passo coi tempi, di non lasciarsi superare da un mercato discografico, che già li additava come eroi superati dalle mode – vedi cosa scrissero i vari giornali di Dylan in seguito al fiasco di Renaldo & Clara.
Veniamo all’analisi delle tracklist. Entrambi i dischi cominciano con un pezzo forte, teso a definire la situazione d’angosciosa confusione eppure di determinazione a venirne a capo di entrambi gli artisti. Reed che nel frattempo stava anche cercando di riaffermare (in qualità di co-fondatore dei Velvet Underground) la sua figura di rocker come padre della neonata scena punk newyorchese, rielabora in Gimmie some good times la sua Sweet Jane riscrivendone corrosivamente il testo e interpretandolo, con lo sdoppiarsi la voce in studio, come un dialogo su e con se stesso il cui tema di fondo s’incentra su di un (postulato) menefreghismo verso il resto del mondo. Quanto a Dylan riutilizza drammaticamente (ed è un espediente di grande fascino) il linguaggio misterico dei tarocchi, che già aveva usato con funzione strutturale (ma non di contenuto) in Desire, per designare un paesaggio oscuro e stregato in cui riambientare, ridisegnandola per metafore, la propria storia e offrire il suo caustico messaggio di speranza: “Verrà la pace… ma non ci porterà compensi”.
Ancora la traccia 2 è per entrambi quella destinata al veleno, allo spargimento del sale sulle ferite del rancore. Reed sputa la sua viscerale Dirt contro, pare, il suo agente e produttore Dennis Katz, colpevole di averlo sfruttato fino all’inverosimile e fin quasi a rovinargli la carriera e la vita, quando in preda alle paranoie e alla dipendenza dall’anfetamina, Reed avrebbe avuto solo bisogno di riposo e pace della mente (e non ricorda tanto la vicenda di Dylan con Grossman?). Zimmie invece parte nel suo discorso anti-romantico coll’annuncio (a Sara?) d’avere ora un nuovo pony da “montare” invece del vecchio (la stessa Sara), ed è, ammettiamolo, talmente infantile e scorretto nella sua presa di posizione, quanto libidinoso nell’ interpretazione.
Ma ora arriviamo alla parte più interessante del discorso. Il cuore dell’album di Reed. Una lunga suite, Street Hassle appunto, suddivisa in tre parti: Matilda Waltzing, Street Hassle e Slipaway, e considerata a ragione il suo capolavoro del dopo-velvet. La suite narra per atti (o come le scene di un noir) di una storia d’amore finita in tragedia, ovviamente quella traslata di Lou e Rachel.
In Matilda Waltzing, in slang “l’autostoppista”, si parla di una ragazza che, giunta in un bar, prende una sbandata per un tipo e gli offre del denaro per passare la notte con lei. La voce di Reed è così eccitata da rasentare quasi il fremito dei brividi sulla pelle per le carezze dei due amanti. Nella successiva “Street Hassle” è un terzo personaggio che parla al ragazzo. È passato del tempo, e il giovane e la ragazza sembrano ora fare coppia fissa. Succede però che lei sia una tossica e sia vittima di un’overdose. Il ragazzo distrutto e impaurito non sa come comportarsi. Interviene il terzo personaggio, forse il proprietario della camera a ore presso cui s’erano rifugiati (e la voce di Reed stavolta è fredda e distaccata mentre ne assume l’identità), e gli suggerisse di lasciarla perdere perché ormai è andata, e per evitarsi altri guai gli conviene, lui consiglia, trascinarla sull’autostrada e lasciarla lì così che qualcuno la metta sotto nel buio, e sembri solo un altro incidente della strada. Non sappiamo se il ragazzo abbia seguito il consiglio oppure no. Né sappiamo che fine abbia poi fatto la ragazza. Ma in Slipaway, dopo un intervento vocale di Bruce Springsteen che ci informa di come questa canzone sia amara e vera come la vita, Reed piange, tanto da straziarti il cuore, per un amore perduto a caro prezzo e non ancora dimenticato. E come dicevamo, il suo è un cantare in discesa, affacciato sul baratro. Si passa da una felicità ora perduta attraverso la maledizione della vita quotidiana di due sbandati (la stessa di Berlin) all’inevitabile separazione. Il lutto non è stato ancora elaborato.
Ora, Dylan compie nelle tre successive canzoni del suo disco gli stessi passaggi della suite, ma al contrario. Perché lui il suo lutto l’ha già elaborato, e il suo è un discorso in salita, proprio di chi stia risalendo lentamente ma caparbiamente la china. Si passa così dalla confusione iniziale di No time to think, in cui, dopo la sostituzione del pony e di conseguenza la fine del potere salvifico della donna sul suo destino, qualsiasi strada sembra buona e tutte ugualmente inutili all’uomo Dylan, il cui sguardo è insieme cinico e stanco (ma che poi in effetti sceglierà ancora il misticismo di un dio salvatore in vece della donna), all’altruistico tentativo di lenire la sofferenza di lei per la separazione in Baby stop crying.
Canzone che però è molto meno generosamente gratuita di quanto poi non sembri all’ascolto. Qui infatti s’instaura la prima interferenza younghiana di cui sopra si diceva. Fate attenzione al primo verso, lì dove Dylan canta:

“Go get my pistols, babe,
Honey, I can’t tell right from wrong.”

Cioè: “Vammi a prendere le pistole, cara, io non posso più distinguere fra sbagliato e giusto.” E poi nella strofa successiva:

“Go down to the river, babe,
Honey, I will meet you there.”

Cioè: “Vai giù al fiume, cara, ti incontrerò lì.”
Ora, vi ricordate di quel capolavoro assoluto del rock che è Down by the river di Neil Young?

“Down by the river
I shot my baby.”

faceva il ritornello, cioè: “Giù al fiume ho sparato alla mia donna.” Dylan in altre parole, richiamandosi esplicitamente alla canzone di Young, ci fa capire che il suo non è un tentativo consolatorio, ma l’estremo tentativo di liberarsi per sempre di Lei, cioè della donna. Vediamoci lì per parlare, ma in realtà la mia intenzione è quella di spararti. È che sia proprio così, che sia questa l’interpretazione giusta ce lo conferma in quell’altro pezzo avvelenato che è New Pony, di cui costituisce il prologo (e con cui, sempre sul primo lato del disco viene a incorniciare specularmente proprio No time to think, la canzone della confusione):

“I had a pony, her name was Lucifer,
She broke her leg and she needed shooting,
I swear it hurt me more than it could ever have hurted her.”

Cioè: “Avevo un pony, il suo nome era Lucifero, lei si ruppe una zampa e le si dovette sparare, giuro che fece più male a me di quanto potesse farne a lei.” Nel testo lo stesso tono distaccato ma crudele (necessario, verrebbe da dire, per sopravvivere alla delusione) del corrispettivo pezzo di Reed.
Per finire coll’accorato tentativo di riconciliazione con l’altro sesso di Is your love in vain?, in cui addirittura ribalta, per dare maggiore significato alla sua scelta, il senso del vecchio blues di Robert Johnson “Love in vain”, canzone dell’abbandono per eccellenza, verso un brano basato sull’incontro fra due universi (quello dell’uomo e quello della donna appunto) in cui un Dylan scottato dall’ennesima svolta del destino, stavolta pone le sue condizioni prima d’impegnarsi, onde evitare di essere poi nuovamente deluso e infine decide, con molta magnanimità verso se stesso e faccia tosta verso l’altra, di offrire a entrambi una nuova occasione.
Siamo adesso sui rispettivi lati B dei due vinili. Quello di Reed è più esplicativo. Ma non mancano le grandi canzoni. Quello di Dylan continua con la medesima tensione narrativa. Entrambi proseguono sulla strada di un tentativo di ridefinizione della propria persona. Reed propone uno dietro l’altro due brevi pezzi cattivi: la bella I Wanna be black, praticamente una presa per il culo del tentativo di ridefinire in chiave nera (allora di moda, si era pur sempre nell’era della discomusic) l’ambito culturale in cui era cresciuta l’élite borghese (bianca) dell’epoca, e la perfetta controproposta reediana al tentativo di avvicinamento al gospel di Dylan:

“I wanna be black,
Have a natural rhythm,
Shoot twenty feet of jism too,
And fuck up the Jews”

(“Vorrei essere nero, avere un ritmo naturale, sparare sperma fino a sei metri, e fottere gli ebrei”, detto da un ebreo). E subito poi c’infila una nuova versione di Real good time together, altro cavallo di battaglia dei Velvet Underground, ora assunto dalle nuove leve del punk a inno rock, e con cui cerca ovviamente di riaffermarsi, col rimarcare un proprio posto in seno all’avanguardia musicale. Scelta non del tutto scontata, giacché all’epoca Reed si era gravemente rovinato la reputazione con una serie di dischi altamente commerciali, seppure non brutti.
Dylan risponde con la mistica Señor, pezzo che si muove in un ambito estraneo all’orizzonte tematico dell’ateo Reed. È la seconda interferenza younghiana nel confronto Dylan-Reed. Perché Señor infatti non sarebbe stata possibile senza l’influenza di Neil Young. Señor, come già Isis, sua canzone gemella (perchè a me sembrano proprio raccontare la stessa storia, ma narrata da punti di vista differenti), è influenzata dal favoloso mondo della mitologia precolombiana, e deve il suo carattere alle frequentazioni che Dylan ebbe con Young a Zuma Beach nel 1975, proprio mentre Young componeva, a sua volta ispirato dalla presenza del suo chitarrista ritmico chicano Frank Poncho Sampedro, il suo ciclo “indiano”.
Particolarmente si riscontrano affinità affascinanti con Ride my llama per Señor, così come con Pochaontas per Isis. Affinità che all’epoca non vennero notate perché Young pubblicò queste sue due importanti canzoni solo nel 1979, nel suo Rust never sleep, disco fra l’altro a sua volta registrato live, e poi rimixato e ripulito in studio, proprio come Street Hassle di Reed, e nella struttura per metà acustico e per metà elettrico, chiaramente ispirato a Bringing it all back home di Dylan; oltre ad essere ovviamente una summa di tutto il pensiero e le tematiche younghiane del decennio.
Fra le canzoni segnalate ci sono delle ovvie differenze di stile. E pure a Young manca l’afflato mistico dei pezzi di Dylan, giacché il suo interesse si muove più verso l’esperienza fantascientifica, “temporale”, propriamente il viaggio nel tempo di un nativo dall’epoca della colonizzazione bianca ai giorni nostri. Ma così come comune a entrambi è il tema della rievocazione di un amore perduto, il dato più interessante è la comparsa nei pezzi “indiani” (ma meglio sarebbe dire “misterici”) di Dylan, di un terzo uomo che funge da maestro-iniziatore-compagno d’avventura, personaggio precedentemente mai presente nella sua produzione, e probabilmente mutuato dalla poetica di Young. E che evolverà poi nella figura del salvatore del periodo religioso.
Il resto dei pezzi del confronto fra Reed e Dylan sono cose più leggere, a parte le due grosse ballatone che chiudono i due dischi col loro cupo messaggio da fine del mondo.
Reed, ancora frustrato, grida battagliero di lasciarlo in pace in Leave me alone, ispido rock blues infilato a ragione fra una Shooting star in cui si guarda allo specchio e denuncia (ma quasi con taglio masochisticamente autodistruttivo) la propria decadenza artistica, e una deliziosa Wait, pendant dal vago sapore anni ’60 dell’ultima parte della sua suite.
Dylan, dopo un paio di (buoni) riempitivi in cui ripete il suo rimprovero per l’amore finito e la sua presa di coscienza che è ormai l’ora per “a new transition” è pronto al viaggio col suo Señor. Ma prima necessita per l’ultima volta di fare il punto della situazione e scrive la sua lunga lettera d’addio alla moglie: Where are you tonight?, che proprio a Señor pare legarsi, non foss’altro che per le affinità di scrittura (soprattutto la seconda strofa di Señor è identica nella costruzione a quelle dell’altra, nell’incipit “there’s…” ripetuto a ogni verso). D’ora in avanti, come fa notare Carrera, a parte Precious Angel e Covenant Woman del periodo religioso (mediazioni con le precedenti figure di donne salvatrici, ma protese a una salvezza cristiana), non scriverà più canzoni d’amore pienamente felice, ma sempre venate di rimpianto. Per entrambi, Dylan e Reed, stanno per cominciare gli anni ’80, il periodo in assoluto più oscuro della loro carriera, il più compromesso. Alla fine del quale però riusciranno anche, attraverso un processo di ascesi a recuperare i legami con la propria creatività e a ricrearsi per davvero uno stile e un’identità come alla fine dei settanta non erano riusciti, pur nell’eccellente risultato dei propri rispettivi lavori.
A tal proposito, un ultimo punto da discutere mi pare riguardi una risposta dovuta a un commento comune a praticamente tutti critici di cui ho letto, riguardo alle canzoni minori del disco di Dylan. Mi riferisco a No time to think, True love tends to forget e We better talk this over. La verità è che per quanto minori esse sono necessarie allo svolgimento narrativo del disco, e sono, per quanto si sia espresso a volte parere contrario, ineliminabili dal discorso.
Perché è nella risentita consapevolezza che il vero amore, che concede la salvezza al poeta, tende a scordarsi di lui, che si determina quello stato di confusione verso la vita espresso da No time to think, da cui l’angoscia che porterà alla decisione di avviare un dialogo chiarificatore (We better talk this over), il quale si evolverà, con la risoluzione per un cambio della guardia, nell’omicidio di Baby stop crying e nella sostituzione del vecchio pony col nuovo, a patto che questo sappia poi adeguarsi ai bisogni di Dylan uomo, se troppo alti erano gli standard dell’artista (Is you love in vain?). Da ciò, in un crescendo letterario e performativo, l’elaborazione del proprio lutto descritta in Where are you tonight?, e la decisione di ripartire e ricominciare a viaggiare alla ricerca di un nuovo percorso ascetico verso la salvezza (giacché il misticismo rappresentato dalla donna era venuto a mancare con un bel colpo di pistola), decisione espressa prima in Señor, canzone del e contro il potere yankee, il potere dei conquistadores (lo stesso delle canzoni di Young), distruttivo ma prosaico, temporale, privo cioè di effettivo “fondamento”, poi nell’abbandono a Dio e al gospel.

APPENDICE. BOB DYLAN E NEIL YOUNG, UN SUNTO.

Che ci siano e ci siano state delle interferenze creative fra Young e Dylan è cosa nota e risaputa. Ma visto che ne ho accennato sopra, mi sembrava giusto proporne un breve sunto, giusto per schiarirci le idee.
Il primo a subire il fascino dell’altro è stato ovviamente Young, più giovane di pochi anni, e teso ancora ad affermarsi quando già Dylan aveva fatto la storia della musica. Particolarmente fu sempre affascinato dal lavoro di Dylan con la Band. Ed è lui stesso a confermare in varie interviste, che nel suo periodo più prolifico, quello che si situa fra fine anni ’60 e inizi anni ’70 passava ogni suo momento libero in tournée riascoltandosi il suo personale bootleg dei Basement Tapes, da cui ricavava nuove idee, e tanta ispirazione. Tanto che intitolò quello che poi divenne il suo disco più celebre, Harvest, così come in origine avrebbe dovuto chiamarsi il secondo disco della Band, quello della loro consacrazione.
Ma c’è ben altro. C’è, sempre in Harvest, una canzone: Heart of gold in puro stile dylaniano, canzone che non solo fu il suo singolo più venduto, ma che all’epoca della sua uscita suscitò addirittura l’ira di Dylan, che piccato rispose, utilizzando lo stesso giro armonico di Helpless, altro capolavoro di Young, per la sua Knockin’on Heavens Door.
Seguì un lungo periodo, nero per Young e grigio per Dylan, in cui i due non si frequentarono molto. Quando però si rincontrarono, a metà decennio a Malibu, in California, Dylan residente nella penisola di Point Dume, e Young che viveva in una villa in affitto sulla vicina spiaggia di Zuma, si ritrovarono eccome.
Young in quel momento era preso, molto probabilmente ispirato dalla presenza del suo nuovo chitarrista ritmico, Poncho Sampedro, chicano, nella composizione di alcune canzoni a carattere “indiano” (incentrate sulla mitologia d’epoca precolombiana) che poi avrebbe utilizzato in Zuma e in Rust never sleep, i suoi album di maggior successo della seconda metà del decennio. Mi riferisco a quei capolavori assoluti che sono: Cortez the Killer, Powderfinger, Pochaontas, Ride my llama… quasi tutti incentrati sull’idea di un ipotetico viaggio nel tempo di un nativo americano dall’epoca della colonizzazione bianca ai giorni nostri, e del relativo suo spaesamento nostalgico verso un’epoca presociale (e l’arrivo della società coincide con l’arrivo di Cortez l’assassino), e perciò assai migliore della nostra.
Dylan a sua volta, ispirato dalle composizioni di Young, scrisse, a distanza di poco più di due anni, due canzoni, che fra l’altro, a me sembrano raccontare la stessa storia ma da due punti di vista differenti, e cioè Isis e Señor, che possono considerarsi due dei suoi più importanti capolavori dei ’70, e che per altro rappresentano la perfetta cronaca del passaggio dalla fede nella donna come fonte di salvezza alla ricerca di una nuova fede mistica in sostituzione di quell’altra, con la comparsa di un terzo personaggio, mai prima presente nell’opera dylaniana, e cioè quella del maestro-iniziatore-compagno d’avventura, che forse fu suggerita da Levy (come ribatte mio fratello), ma più probabilmente è stata influenzata da Young (vedi le analogie soprattutto col personaggio del chitarrista marziano in Ride my llama e col Marlon Brando di Pochaontas), che diverrà mediatore per il divino. Vi è in più però, nei suoi due pezzi un sapore misterico e introspettivo estraneo all’orizzonte younghiano.
Dello stesso periodo è il medesimo furore performativo ad accomunare Hurricane di Dylan e Like a hurricane di Young, anche se qui, se poi c’è un vero nesso, lo si può ritrovare solo nelle affinità dei due titoli, giacché la prima è una canzone di protesta, e la seconda d’amore. E, come già si diceva nel capitolo precedente, nel chiaro riferimento in Baby stop crying di Dylan a Down by the river, forse il più bel brano del primo Young, peraltro ancora citato dallo stesso Dylan, e molti anni dopo, nel testo di Tryin’ to get to Heaven.
Negli ottanta non ci sono molte occasioni d’incontro fra i due, se non per il comune periodo di crisi, ma quello fu un decennio maledetto per tutti i grande vecchi del rock. Eppoi nel fatto, ma è una pura curiosità, che entrambi finirono per ritrovarsi a condividere per un breve periodo (dall’82 all’89) lo stesso agente, Elliot Roberts.
Nei novanta invece vanno citati almeno due casi d’interferenza reciproca. Il primo da parte di Young (che fra l’altro scrisse anche una canzone, Days that used to be, in Ragged Glory, ispirata a My back pages), che nel suo tour del 1991, quello contro la guerra del Golfo, e da cui poi venne tratto quello che personalmente ritengo uno dei più grandi live della storia del rock, cioè Weld, reinterpreta genialmente e in chiave ferocemente hendrixiana Blowin’ in the wind.
Il secondo da parte di Dylan, che nel suo blues chiave dei ’90, Highlands, cita Young in una divertentissima strofa: “Sto ascoltando Neil Young, provo ad alzare il volume, ma qualcuno mi grida sempre di abbassarlo.” (Young è troppo rumoroso, evidentemente, e a tal riprova basterebbe vedere cosa succede a casa mia quando metto nel lettore qualcuno dei suoi dischi più recenti).
Per concludere una piccola teoria non accreditata, solo un’opinione, magari anche stupida. Nella sua intervista a Spin del dicembre 1985, Dylan ci racconta di come all’epoca dell’uscita del singolo di Young, Heart of gold, e cioè nella prima metà del 1972, vivesse in Arizona, a Phoenix, e di quanto brusco fosse stato l’impatto con quella canzone, che addirittura, ci dice, era arrivato ad odiare, perché troppo simile al suo stile, e per di più con grandissimo successo di pubblico in un periodo invece per lui di sterilità creativa. Sempre secondo Dylan però, fu in quello stesso periodo che compose uno dei suoi massimi capolavori, e cioè Forever Young. Ora, è stata per anni opinione comune della critica che quel pezzo, basato com’è sul Libro dei Proverbi, sia stato scritto per suo figlio Jacob, perché il Libro dei Proverbi è costruito (proprio come la canzone) come una serie di consigli che un padre dà al proprio figlio, e perché coincidono i periodi di scrittura della canzone con la di poco precedente nascita del bambino. Ma in realtà tutto questo non significa poi molto.
La nascita di Jacob può certo essere stata l’occasione scatenante, ma non necessariamente il tema di fondo del brano. Da più parti oggi si nota come in effetti Forever Young sembri essere stata scritta più per se stesso che per chiunque altro. A questo va aggiunto che il Libro dei Proverbi è un realtà un libro delle norme sociali e civili che il Padre di Israele dettò ai propri figli, cioè il popolo di Israele, non semplicemente una serie di consigli pratici per i ragazzi, ed è un libro il cui tema di fondo è il miglioramento di se stessi nella vita, e non andrebbe sottovalutato a questo modo, quasi fosse una guida pratica per genitori, non almeno nell’opera di Dylan così fortemente legata alla dimensione mistica della Bibbia.
A noi però interessa il ritornello, che molti hanno legato, e giustamente, dato l’ovvio richiamo all’Ode su un’urna greca, a uno dei poeti preferiti di Dylan, John Keats. Quello che mi chiedo è: non potrebbe essere che, senza togliere di nobiltà alla canzone e ai riferimenti di Dylan, ci sia, nascosto in tale ritornello una botticella trasversale proprio a Neil Young? E a questo proposito non scordiamoci quanto velenoso possa essere l’umorismo del nostro Bob. Non potrebbe essere che mentre innalzasse il proprio inno all’autoconservazione del genio, si lanciasse al contempo in una pungente frecciatina a Young, quello Young che giusto in rima a Heart of Gold cantava: “…and I’m getting old”, “…e sto diventando vecchio”, poetica poi confermata nella splendida Old Man…? Dylan allora gli risponderebbe (a lui, come pure a se stesso) “Possa tu restare per sempre giovane”, con un caustico gioco a doppio senso sul termine “young”, giovane appunto, ma pure letteralmente “Possa tu restare per sempre Young”, cioè, non mi copiare, fai quello che devi fare senza imitarmi. O per dirla come fece Guthrie proprio con lui molti anni prima: “Non sono ancora morto”. Il che (e non mi dilungo oltre) potrebbe esserci confermato dal fatto che, come ci dimostra Carrera nell’analisi che fa di Highlands nel suo saggio, utilizzi il medesimo gioco di parole – ma in maniera ben più raffinata – con lo stesso doppio significato fra “Young” e “giovane” in una canzone scritta ben venticinque anni dopo ed incentrata, anche, sul tema del confronto col tempo e con la propria vecchiaia.