“Incident on a 57th street”
“Si, i protettori fecero
ondeggiare i loro bastoni
e dissero: "Johnny, sei un bugiardo"
E dall'oscurità' si senti
la voce di una ragazza
che diceva "Johnny non piangere"
"Oh Portorican Jane, non vuoi proprio
dirmi il tuo nome?
Ti voglio guidare fin dall'altra
parte della città dove
il Paradiso e' così affollato,
ci sarà del movimento
in Shanty Lane stanotte
Tutte quelle bellezze dalle scarpe
dorate in una vera e propria zuffa
di puttane, uno sparo di P.38 e un bacio
della buonanotte alle ragazze
Oh, buonanotte, va tutto bene Jane”
(“Incident on a 57th street” di Bruce Springsteen)
Quella sera ero uscito fuori di casa senza un preciso
scopo. Nel pomeriggio ricevetti la telefonata di un amico, mi invitava ad
uscire per scolarci qualche birra. E così fu. Andammo in un locale, bevemmo
un paio di birra a testa, e non parlammo di nulla, se non di qualche
banalità. Ma ero uscito con due amici di vecchia data, quelli a cui hai già
detto tutto, e con i quali trascorri serate a ricordare qualche cazzata
successa in passato, senza aggiungere nulla di nuovo, ma sapendo che ti lega
a loro un affetto particolare. Finite le birre ci rimettemmo in macchina, e
ognuno si diresse verso casa. Percorrevo l’autostrada, la notte restava buia
e calma. La strada sgombra, qualche tir solitario, un automobilista
depresso. Guidavo e mi sentivo rilassato, ma allo stesso tempo in subbuglio.
Uno di quei momenti in cui la tua mente è colma di pensieri, paure, forse
malinconie, desideri e domande, ma il tuo corpo resta calmo: non palpita,
accetta ogni pensiero vigliacco e malinconico.
Mi fermai in un autogrill. L’orologio della macchina segnava le due del
mattino. Entrai nel bar e comprai una coca-cola in lattina. La ragazza
dietro al bancone, era vestita con la divisa del locale, portava un berretto
con visiera verde, e da dietro il berretto spuntavano dei capelli biondi. La
guardai, possedeva un fisico asciutto, occhi chiari. Pagai la coca-cola. Lei
nel darmi il resto accennò un sorriso, quel sorriso per un attimo mi appagò,
ma quando uscii dal bar mi fece sentire ancora più solo. Mi rimisi in
macchina e rimboccai l’autostrada. Nello stereo c’era una vecchia cassetta,
con canzoni svariati di Bruce Springsteen (proprio lo stesso cantante, che
quando compii quattordici anni divenne il mio idolo, ero un adolescente e
vedevo Springsteen non come il Boss, ma bensì: una sorta di Dio da
contemplare: colui che ha congiunto lo spirito di Elvis alla poesia di
Dylan). Feci partire la cassetta nello stereo. E la prima canzone fu
Incident on a 57th street, brano contenuto nell’album “The wild, the
innocent and the e street shuffle” del 1973 (e che apriva la seconda
facciata dell’album, quando ancora esistevano i 33 giri). Un disco
romantico, passionale, “dissoluto”, poetico, ironico. Nel quale vi sono
presenti canzoni come The e street shuffle, Rosalita (come out tonight) e la
magica New York city Seranade. Un disco composto con la prima formazione
dell’E-street band, quando ancora vi suonavano David L. Sancious (pianista
sostituito in seguito da Roy Bittan) e alla batteria Vini “Mad dog” Lopez
(al suo posto subentrò Max M. Weinberg). Su “The wild, the innocent and the
e street shuffle” Springsteen ha affermato: “con il secondo album, ho
cominciato lentamente a sapere chi fossi e dove volessi andare. E’ stato
come liberarsi dall’ombra di varie influenze e cercare me stesso”.
Ascoltare Incident on a 57th street è come immortalarsi in una scena di un
film. Il testo della canzone appare quasi una sceneggiatura, ci riporta alle
scene del film “West side story”, ai film di Martin Scorsese, di Abel
Ferrara: un personaggio solitario, ragazzi che vivono d’espedienti, peccati
da scontare e amori da conquistare. Un ritratto di una periferia,
accompagnato da una storia d’amore di due giovani immigranti, provenienti
dai bassifondi. Quella notte mi sentivo in preda alla solitudine, e quella
canzone, quel canto che si elevava nella notte, quel pianoforte romantico e
disperato, mi apparve un inno alla mia solitudine che schizzava fuori nella
tarda notte. E mentre guidavo, immaginai al mio fianco la ragazza
dell’autogrill: una complice incontrata in strada, un’anima da
tranquillizzare in una notte disperata. Fumai qualche sigaretta. E continuai
a percorrere l’autostrada, avrei dovuto svincolare, ma non mi andava di
ritornare a casa. Volevo stare in compagnia di me stesso, dei miei pensieri
e di quella voce ubriaca e rauca.
La prima volta che ascoltai l’album avevo quindi anni, e fu un mio amico a
farmelo scoprire. Restavamo in una camera immersa di fumo, a bere rum di
sottomarca e succo di frutta alla pera. Ascoltavamo un vecchio Lp che quel
mio amico aveva comprato ad un mercatino delle pulci di Siviglia. Si
trattava di una versione spagnola di “The wild, the innocent and the e
street shuffle” del 1976, ed i titoli delle canzoni erano tradotte in
spagnolo. Questo Lp, ormai è entrato nella mia collezione ufficiale di 33
giri, dopo qualche mese decise di regalarmelo. Il fruscio proveniente dal
vinile, rendeva la voce di Springsteen ancora più poetica. Il mio amico
beveva e fumava molto, io all’epoca ero un “bamboccione” e non riuscii a
finire l’ascolto del disco, sul quarto brano (si trattava di Wild Billy’s
circus story), mi accovacciai su una poltrona, in preda agli effetti del rum
e del succo di pera.
Quella notte, guidavo e la mente si riempiva di pensieri. Decisi
d’immergermi nella canzone, alzai il volume dello stereo quasi al massimo, e
ogni volta che la canzone terminava, mandavo indietro la cassetta e facevo
ripartire il brano. Il protagonista della canzone è Spanish Johnny, un
balordo dal cuore tenero. Un ragazzo che vive la propria esistenza di
espedienti. Ma il suo cuore si scaglia nella notte, un Romeo alla ricerca
della propria Giulietta. Incontra Jane, e vorrebbe portarla dall’altra parte
della strada, in quel posto in cui il paradiso non è affollato. E prima che
Johnny esca in strada a cercare la sopravvivenza, augura alla sua Jane una
dolce buonanotte, tranquillizzandola, sussurrandole che tutto è tranquillo,
tutto va per il meglio. Rifugiati da tutto e da tutti, in una notte fatta di
peccati da compiere e da scontare, in una notte nella quale un abbraccio
sarà eterno. Jane chiede a Johnny di non lasciarla in quel preciso istante,
e lui le sta accanto, augurandole la buonanotte. E sembra quasi che la voce
di Springsteen auguri la buonanotte a tutti i sopravvissuti. Quella notte è
giusta per ricercare verità e redenzione giù in strada. Johnny torna in
strada, chiamato dai compagni, quasi un richiamo della foreste, o meglio un
richiamo da quella giungla d’asfalto. I due innamorati si danno un
appuntamento per il giorno dopo, un appuntamento che forse non avverrà,
perché Johnny scenderà in strada e dovrà sopravvivere alla notte.
Springsteen immortala delle scene, apre un sipario e mette in mostra
personaggi di strada, cuori solitari, notti ubriache. Notti nelle quali si
può ricercare la beatitudine in un pianto, nell’abbraccio di due
sconosciuti, nello sguardo di un folle. La strada resta fuori, e prostitute
in minigonna con scarpe dorate rimangono alla ricerca del loro Romeo. La
strada appare nella poetica di Springsteen una metafora dell’esistenza
umana. L’esistenza dei bassifondi, la vita fatta di ricerche e peccati.
L’esistenza di personaggi diseredati, di superstiti in viaggio verso una
Terra Promessa, di un paradiso che è al di là della strada, al di là di ogni
conformismo, al di là di ogni ipocrisia borghese. Springsteen assume le
vesti di uno Shakespeare contemporaneo, rock e selvaggio. Pronto a
raccontare esistenze disperate e rabbiose. E ascoltando la canzone si riesce
ad immaginare tutto il cotesto che vive attorno a quella storia. Immagini
poetiche, in ambienti squallidi, asfalto e luci al neon. Caffetterie
notturne e cameriere sorridenti. Un ultima zuffa tra ragazzi. Un bacio che
si perde nella notte, fino a giungere sul cuore di ogni ragazza di vita. Lo
sparo di una P.38 pronto a ricordaci che è stata fatta giustizia di strada
domenica in chiesa, lunedì all’inferno *. E la musica scorre, come lacrime
solitarie, di un antieroe che vive la propria esistenza sperando di giungere
nel vicolo degli innamorati, in quel posto dove ogni perplessità troverà
conforto, nel luogo in cui sarà lo sguardo di lei a trasportarlo al di là
del reale, verso un paradiso clandestino, fatto di prigionieri dell’ultimo
secolo e poeti di periferia. In un eden dove bari e prostitute cammineranno
per mano, e le colpe saranno purificate nel “fiume mistico”. “Good night
it’s all right Jane” è la vita a chiamarlo, è il mondo a non volerlo. E
Johnny è disposto a battersi per un pezzo di Terra Promessa.
Nelle canzoni di Springsteen si assapora la speranza, la delusione, la
voglia di liberazione. L’urlo che resta imprigionato in ognuno di noi,
sembra che diventi voce. L’assolo di chitarra che chiude la canzone, appare
come un grido liberatorio, un pianto di disperato, una voce di libertà, un
desiderio di fuggire via. E cos’è il rock se non desiderio di fuga?
Springsteen da voce alla fuga, da voce ai diseredati attraverso canzoni che
divengono racconti di vita quotidiana, fotografie di un America non
raccontata, sepolta, dimenticata.
*citazione del film di Martin Scorsese “Mean streets”
NOT
DARK YET
“Not dark yet”
“Il mio senso di umanità è andato giù nello scarico
dietro ogni cosa bella c'e' stato un qualche tipo di dolore
lei mi ha scritto una lettera e la ha scritta con tale dolcezza
ha messo sulla carta quello che aveva in mente
non vedo proprio perché avrei dovuto preoccuparmene
non e' ancora buio, ma lo sarà presto”
(“Not dark yet” di Bob Dylan)
Quella notte l’aria era davvero fredda. Ma quel freddo
rendeva Londra ancora più poetica. Restavo fuori dalla stazione di Vittoria,
in attesa che giungesse il bus che mi avrebbe portato all’aeroporto. A farmi
compagnia c’era il mio stomaco: bruciava a causa della vodka che avevo
bevuto qualche ora prima. Tenevo le mani nelle tasche della mia giacca di
pelle, ma quella giacca non mi dava molto calore: proprio come una moglie
frigida. L’autobus arrivò. Erano le tre di notte. Feci il biglietto e salii
sul pullman. Restavo seduto a guardare fuori dal finestrino. Accanto a me,
una ragazza irlandese dai capelli castani, aveva abbassato lo schienale del
sedile: teneva gli occhi chiusi, ricercando forse un sogno pronto a
consolare la sua partenza. L’autobus partì, in direzione dell’aeroporto.
Passammo nelle strade del centro città. Mi ricordai che nel mio lettore mp3,
c’era una canzone del grande Bob Dylan, e in una strofa di quella canzone
Dylan citava Londra. Accesi il lettore e feci partire il brano. Si trattava
di “Not dark yet”, canzone contenuta nell’album “Time out of mind” del 1997,
disco prodotto da Daniel Lanois, e registrato a Miami (ai Criteria Studios).
Un disco eccellente, un vero e proprio capolavoro, ispirato al lavoro di
Hank Williams e Buddy Holly. Un disco colmo di malessere, che si scaglia
sulla dura realtà, rifiutando ogni speranza. Elvis Costello definì “Time out
of mind” il miglior disco in assoluto di Bob Dylan. Disco nel quale musica e
letteratura vanno di pari passo. Le canzoni di “Time out of mind” contengono
frasi tratte dall’Anthology di Harry Smith, e dai dischi di Fats Domino e
Jimmie Rodgers. E l’influenza di queste opera è più che viva, lasciando un
segno dopo l’ascolto. Canzoni che ti attraversano come un uragano, pronto a
devastarti.
Attraversavo Londra, e nelle mie orecchie la voce di Dylan, quelle parole,
quella musica. Vidi il Tamigi scorrere e macchine andare via. Un barbone
sotto un ponte, rifugiato tra cartoni e fogli di giornali. E le parole di
quel testo mi spingevano al di là della commozione, al di là di ogni
pensiero ottimista.”Not dark yet” appare un monologo interiore di un uomo
diretto verso l’ultima stazione, verso il tutto e verso il niente. Un uomo
che si dirige verso la fine, in direzione della morte. E’ la voce
consapevole, di colui che sta per morire nello stesso luogo dov’è nato,
nello stesso luogo in cui ha vissuto la propria vita, intuisce che il
viaggio sta per finire contro la propria volontà. E ogni senso di umanità è
andato via, perso, svanito dietro le verità, dietro la bellezza. Tutto è
celato, nell’ora in cui il buio sta per calare, e non resta troppo tempo.
Senso di morte e di oblii perpetui, su note di disprezzo e amarezza. E il
dolce camminare verso ciò che si è stati senza averlo desiderato, sperato,
creduto. E poi Lei, nella canzone appare una Lei, quasi una figura
stilnovista, una donna che avrebbe potuto redimere, oltrepassare l’oscurità
della notte, oltrepassare le nubi nere. E Dylan assume le vesti di un Dante
contemporaneo, in viaggio verso gli inferi, in viaggio dentro se stesso.
Guardai la ragazza irlandese che avevo di fianco, lei continuava a dormire:
avrei voluto abbracciarla, farla dormire tra le mie braccia, mentre la città
fuori scorreva. Continuavo a guardare la città, continuavo ad immaginare lei
tra le mie braccia. Ma quel testo, quella voce, quel brano si spargevano
nella mia mente e nel mio corpo, rendendomi consapevole di una strada che
stavo percorrendo, di un Andare contro ogni volontà. Parole maieutiche, che
mi rendevano consapevole di restare immobile, su un mondo che continua a
girare, privo di coordinate, colmo di menzogne. Tra maschere greche, e
tragedie di umana rassegnazione, dove ogni urlo diviene bisbiglio. E la
solitudine si espandeva nella notte, come pioggia sull’asfalto. E ancora
Dylan, ancora la sua voce, a ricordarmi di cicatrici, di ferite che ogni
essere umano possiede. Cicatrici esposte al Sole, sfregi mostrati alla luce,
ma nessuna guarigione giunge, e nessun eco di preghiera si elevò in quella
notte londinese. Nessuna lacrima, da occhi che non hanno cercato
comprensione in sguardi altrui. Cielo nero e nubi calanti. Pioggia che suona
e amore ubriaco. E solo il desiderio di un abbraccio col Nulla, un bacio
perpetuo con la vita, un Fato che sfida a duello ogni volontà nascosta,
evidente, infetta.
Ma l’autobus quella notte arrivò a capolinea.
Io scesi e fuori l’aria era fredda. La ragazza irlandese prese il suo
bagaglio e si diresse verso il terminal dell’aeroporto. Svanii. La vidi
allontanarsi, e avrei voluto incontrarmi con quello sguardo, in quella notte
di nostalgia e stupore. Mi sentii come Michael Douglas nel film “Wonder
boys”, ricordai la scena di quel film quando in sottofondo si ascolta “Not
dark yet”: la musica va e il professor Tripp (personaggio interpretato da
Douglas nel film) rientra a casa e trova la festa finita: odore di andato,
di perduto, di fittizia felicità svanita, i suoi amici si sono chiusi in
camera, le porte restano serrate, una ragazza dorme abbracciata ai suoi
sogni. In quella notte i suoi occhi avrebbero voluto perdersi in un’eterna
danza di sguardi. E lui, resta seduto sui gradini di un portico, a pensare
alla sua Lei, mentre una lattina di birra vuota posta su un davanzale, si
lascia trasportare dal vento, cadendo a terra e lasciando un ultimo rumore,
un ultimo segno di realtà, un ultimo brindisi al tempo andato, perduto tra
solitudine e rimpianto, tra oblio e oscurità. E l’immagine come un quadro, e
la musica come un elegia, e la tristezza come un clown a spettacolo
terminato…e la vita come una vasca da bagno colma di calcare, ruggine e
acqua gocciolante, ticchettio dirompente.
Da quella notte londinese, “Not dark yet” ha tracciato un segno dentro me
stesso. La considero una delle più belle canzoni di Bob Dylan. E’una canzone
con la quale mi piacerebbe poter morire un giorno: quando fuggirò via da
qualcosa, senza ricordarmi il perché della mia fuga, quando in un alba
sbiadita il Fato duellerà con la mia volontà. Ed io mi gusterò lo
spettacolo, bevendo un ultima vodka, fumando l’ultima sigaretta del
condannato.
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