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Quattro chiacchiere con Mick Jagger
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Partiamo dal catalizzatore di tanti fermenti culturali degli anni 60: gli adolescenti. «Oh mio Dio». Non concordi sul fatto che i figli del boom post Seconda guerra mondiale accelerarono una rottura generazionale? «Non del tutto. La prima rottura culturale si ebbe addirittura negli anni 20, quando le ragazze iniziarono a indossare abiti corti e si rifiutarono di portare il reggiseno. Il fenomeno jazz fu sfrenato e chi aveva soldi provava un mucchio di droghe, o si ubriacava. Dopo la Prima guerra mondiale ci fu una grossa cesura culturale e musicale, grazie al jazz. Mia madre conosceva i balli scatenati degli anni 20, come il charleston e il black bottom, e me li insegnò». Proprio un bel quadretto, tu e mamma nel salotto di casa Jagger... «Adoravo fare quattro salti. Mia madre ballava spesso il jitterbug, allora lo chiamavamo jiving. Quelle ragazze che saltavano come forsennate avevano molta più libertà di prima. Intorno agli anni della Seconda guerra mondiale ci fu una grossa ribellione espressa negli abiti, vedi gli zoot suit dell'era swing. In Inghilterra, ciò volle dire teddy boys a inizio anni 50». D'accordo, ma in un contesto più ampio la rottura degli anni 60 fu più vistosa, sistematica... «Ok, gli anni 60 rappresentarono un grosso cambiamento, ma era pur sempre uno sviluppo dei tempi di Elvis. La sessualità dell'Elvis dei primi anni fu molto più scioccante per il pubblico medio di I Want to Hold Your Hand dei Beatles, che era insipida. Aveva le sue attrattive e la amavano tutti, me compreso, ma non aveva carica erotica. I selvaggi, tipo Elvis e Jerry Lee Lewis, facevano più paura, specie da un punto di vista sessuale». La rivoluzione iniziale degli Stones consistette nel rivisitare certa musica palesemente sexy come il blues americano e renderla rock. Ma al contempo gli artisti neri della tua generazione, Smokey Robinson e Isaac Hayes, da adolescenti evitavano come la peste il blues, considerandolo la musica dei loro genitori. Che cosa ti attirò verso il blues? «A 12 o 13 anni non sapevo cosa fosse il blues. Mi piaceva la musica pop bianca. Magari Connie Francis. Ascoltavo la sua Who's Sorry Now e Big Bill Broonzy per interi pomeriggi. Esisteva un'unica stazione televisiva, la Bbc, e i programmi li vedevi con mamma e papà. Alla tv inglese passavano alcuni artisti americani, tipo Sonny Terry e Brownie McGhee, in spettacoli gospel e blues. Oggi, quando si fanno ricerche, è questo il materiale che riaffiora. Sister Rosetta Tharpe, Memphis Slim, Lena Horne. E Big Bill Broonzy. Portati qui dagli appassionati di jazz tradizionale, musicisti skiffle come Lonnie Donegan». Poi fu James Brown a farti impazzire. Ricordo che la sua guardarobiera, Miss Sanders, si preoccupava di "Mick, quel ragazzino scheletrico" che bazzicava l'Apollo. «Adoro fare l'intrattenitore. Gli artisti che mi piacevano durante l'adolescenza, quelli che cantavano, ballavano e facevano casino, erano elettrizzanti. Con James Brown non contava solo il ballo, ma tutto l'insieme, compreso il gruppo che suonava. C'era la musica, asciutta e compatta. Poi c'era il pubblico intorno a te, con casalinghe che fumavano erba di pomeriggio. Lo spettacolo non si limitava all'artista, ma si estendeva al pubblico. La sua reazione era sempre interessante: sembrava di trovarsi in chiesa, in un certo senso». Ti sorprese l'arretratezza razziale in America, quando la visitasti con i Rolling Stones? «Girare il Sud per la prima volta fu scioccante. Andammo in tour con Patti LaBelle e i Vibrations: facevano acrobazie sul palco, qualcosa di grandioso. Quando viaggiammo con loro, in uno dei nostri primi aerei a nolo, ci accorgemmo che non potevano entrare in certi posti. Loro ci scherzavano su, ma non c'era da ridere. Avevo delle guardie del corpo, neri ex Fbi, ci fermavamo a un autogrill e loro venivano regolarmente sbattuti fuori. Io chiedevo: "Andreste a prendermi un panino, per favore?", e questo non era consentito». Spostiamoci al 1967. Quale fu la tua reazione quando uscì una rivista chiamata Rolling Stone? «Nel 1967 eravamo già famosi. Lo prendemmo come un complimento, ma si creò anche una certa confusione, perché la gente pensava che quel nome fosse di nostra proprietà, o che avessimo qualche legame con la rivista. Naturalmente, ben presto cambiarono idea».
Come ti sembrò il modo in cui RS illustrò l'omicidio di un ragazzo nero per mano di un Hell's Angel al vostro live di Altamont nel 1969? «Onestamente, fu spiacevole. All'interno della comunità di San Francisco c'era la sensazione che quel genere di evento traumatico non sarebbe dovuto accadere proprio là. Non scordarti che Rolling Stone allora si considerava essenzialmente una rivista di San Francisco. Naturalmente noi dovemmo assumerci la nostra fetta di colpa, ma non fummo gli unici responsabili». Gli anni 60, quando gli Stones divennero superstar, furono straordinari, in particolare per l'America. Con una simile posizione privilegiata, perché questa tua riluttanza a guardarti indietro? «Ci furono enormi cambiamenti, è innegabile. Hai letto il libro Postwar, di Tony Judt? Un mattone, ma è illuminante, soprattutto da una prospettiva storica. Naturalmente, gli anni 60 furono importanti ma, in retrospettiva, quali furono i pro e i contro? La questione resta aperta a discussioni senza fine, da un punto di vista filosofico, morale, artistico/popolare o musicale. Ci sono così tanti fattori...». Che mi dici delle influenze di questa nuova musica, il rock, sul lessico popolare? Non è diventata essa stessa una vera forma culturale? «La cultura popolare e il r&r sono diventati uno strumento di comunicazione piuttosto sbrigativo. La gente cita versi di canzoni come un tempo faceva con la poesia, Shakespeare, o la Bibbia. O Lincoln». Allora concentriamoci sul nesso artistico/popolare. In quel periodo diverse discipline iniziarono a interagire. Andy Warhol realizzò la copertina di Sticky Fingers. Count Basie suonò alla festa per il tuo 29esimo compleanno per ospiti che andavano da Diana Vreeland di Vogue a Woody Allen, fino all'evangelista Marjoe. C'era anche Bob Dylan, che pronunciò la celebre frase: «È l'inizio della coscienza cosmica». Cosa si provava all'interno di quell'universo abbagliante? «I mondi dell'arte, della musica e della moda furono felici di incontrarsi. C'erano un mucchio di salotti. Il critico teatrale Ken Tynan e sua moglie Kathleen davano ricevimenti molto belli e non sapevi mai chi ci avresti incontrato. Magari eri l'unico cantante rock a casa di Ken, ma magari c'erano un commediografo e un cineasta. Io per loro ero qualcosa di esotico, ma lo erano anche tutti loro per me. Comprese le donne». Dunque concordi sul fatto che fosse una commistione piuttosto fuori dall'ordinario? «Certo, quel genere di eventi non era così comune nel decennio precedente. Accelerò molte cose. E, a causa di tutte queste intersezioni, la gente si mescolò. Fu stimolante. Mi faceva pensare a tante cose diverse, meglio e più creativamente che se fossi rimasto nella mia casella, quella del cantante rock». C'è qualcosa che ti fa ricordare volentieri quei tempi? «Penso agli effetti dei Beatles e di tutti gli altri gruppi sulla scena musicale. Ho scritto un soggetto per un film di Martin Scorsese, intitolato The Long Play. Parla dell'industria musicale. La struttura della musica popolare americana fu temporaneamente sconvolta da questa invasione. Prima sembrava di essere in un'altra era, come se fossimo ancora negli anni 30». Stai parlando del meccanismo di produzione e di vendita dei dischi? «Sì, e di come venivano divisi i profitti. Immagina io sia Frankie Avalon e qualcun altro l'autore. Il 50% dei proventi della composizione andava a un editore che poi vendeva a me, Frankie Avalon, la canzone. Io sceglievo la canzone con il mio impresario, o arrangiatore, o casa discografica: insomma, un sacco di persone. Poi entravamo in studio e c'era una big band, un'orchestra, un produttore e un addetto stampa. Io, Frankie Avalon, cantavo il brano e gli altri decidevano che fare». Cosa fu a cambiare le cose tanto drasticamente? «Arrivarono i Beatles e altri come loro. D'un tratto scomparvero arrangiatore, compositore, editore, addetto stampa. C'era un'etichetta discografica, ma i dirigenti stavano lì a chiedersi che fare, perché di loro non c'era bisogno. Si dovevano occupare solo di promozione e distribuzione. Dunque tutta questa pletora di funzioni fu stravolta da un giorno all'altro». Stai dicendo che il primato del gruppo autosufficiente, dagli Stones ai Beatles, fu un fattore decisivo nella trasformazione dell'industria musicale? «Il fattore "gruppo" fu di enorme importanza. L'autosufficienza cambiò completamente il modello finanziario della faccenda. Tutti quei compositori, arrangiatori, direttori d'orchestra e musicisti furono minacciati dal mutamento. Elvis non aveva mai scritto una canzone, così come Frank Sinatra». In conclusione, chi ha beneficiato del cambio? «I Beatles guadagnarono una fortuna. D'un tratto c'erano artisti a scrivere canzoni e ricavare denaro da composizione, pubblicazione e album». Ma gli uomini dell'industria discografica è difficile che restino a guardare gli artisti comandare... «Le case discografiche si trasformarono in enormi multinazionali. Le etichette furono tutte comprate da grandi gruppi. Diventarono meno indipendenti, guarda il caso dell'Atlantic venduta alla Warner Bros. Di conseguenza, in studio si vedevano sempre meno persone alla Ertegün (mitico fondatore dell'Atlantic, ndr)». Dirigenti e compagnie cambiano, ma gli enormi mutamenti tecnologici restano. Come hai fatto ad adattarti? «Preparo tuttora le scalette per i cd. I miei collaboratori dicono: "Be', questo pezzo non dovrebbe stare lì". E io replico: "Non prenderti nemmeno la briga di discuterne, perché nessuno ascolta più la musica in quel modo". La tecnologia nell'industria discografica è cambiata costantemente. Io ho cominciato con i 78 giri, ben presto non ce ne furono più e dovetti andare a comprare i 45. Nei giorni d'oro dei 45 potevi impilarli tutti nel jukebox e se non te ne piaceva qualcuno, bastava premere un bottone e veniva giù il disco successivo. Ero volubile come i ragazzini d'oggi che ascoltano un minuto di un brano in cd o mp3. Wear My Ring Around Your Neck di Elvis arrivava a stento a due minuti. Lo ricordo bene: 2:15. Mi basta e avanza». Tuttavia, se la tecnologia è cambiata, alcuni temi restano. Se prendi canzoni come Gimme Shelter e Undercover of the Night e le riporti agli avvenimenti mondiali di oggi, pare che tu avessi immaginato la colonna sonora per il terrore contemporaneo già molti anni fa. «Sì, siamo passati dalla rabbia degli anni 60 al terrore. Ma nel terrore c'è sempre molta rabbia. Politica e terrore non sono temi facili su cui lavorare. Se il ritmo funziona, ma i testi non sono all'altezza, il pezzo può suonare puerile e triviale. È un equilibrio delicatissimo. Il problema con la musica rock è che tende a volgarizzare le cose, se non vi si presta attenzione. Personalmente trovo molto più facile scrivere canzoni d'amore che pezzi sui tempi di oggi». Ma nel vostro ultimo album, A Bigger Bang, hai lanciato una piccola molotov. «Sweet Neocon. In effetti penso che l'attacco sia cattivello. Ho scritto quel pezzo all'inizio della guerra in Iraq. George Bush si era spinto un po' troppo in là, era tutto così palesemente sbagliato che pensavi: "Come può qualcuno appoggiarlo?". Tutta quella mescolanza di teoria democratica con una bella dose di fervore evangelico mi pareva completamente fuori dalla realtà». Che ne diresti di scrivere della vita e dei tempi di Mick Jagger? Non sarebbe ora? «Realizzare un'autobiografia sarebbe uno spasso. Una volta mi fu offerta una grossa somma, il che costituì una bella tentazione, e così iniziai a scrivere. Una noia mortale. Me ne stavo seduto con un giornalista come te, parlando all'infinito di questo famoso passato, vivendoci dentro e mi sembrò piuttosto ottuso. Farlo da solo, seduto di fronte al mio portatile? Be', per ora non se ne parla. Mi piacerebbe trovare un'altra forma. Non la consueta autobiografia della gente di spettacolo, che costituisce un genere a parte». Si potrebbe obiettare che Bob Dylan abbia sconvolto e reinventato quel genere con Chronicles. «Sì, l'ha fatto molto bene. Una parte del libro era decisamente mistificatoria (ride). C'erano passi meravigliosi, tipo quando descrive come si costruì un tavolo nel suo primo appartamento al Greenwich Village. Io non riesco neppure a ricordare il mio primo appartamento, figuriamoci l'arredamento...».
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