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GIE'S FARM

SITO ITALIANO DEDICATO A BOB DYLAN

2016 Nobel Prize in Literature

 

DOMANDA E RISPOSTA CON BILL FLANAGAN

22 Marzo 2017

Esclusiva per bobdylan.com

Traduzione a cura di Silvano Cattaneo e Alessandro Cavazzuti

D: Questo è il tuo terzo album consecutivo di standard. Shadows in the Night è stata una grande sorpresa e davvero un bel disco. Fallen Angels un piacevole bis. Adesso hai alzato la posta. Sentivi che dopo i primi due avevi ancora qualcosa in sospeso?

R: L’ho fatto quando ho capito che lì c'era qualcosa di più di quel che pensassi e che quei due dischi assieme erano solo una parte del quadro. Così siamo andati avanti e abbiamo fatto questi.

D: Perché hai deciso di pubblicare tre dischi in una volta sola?

R: È meglio che escano contemporaneamente perché tematicamente sono interconnessi, uno è il sequel dell'altro e risolve il precedente.

D: Ciascun disco dura 32 minuti, avresti potuto mettere tutto su 2 CD. 10 canzoni, 32 minuti, c’è qualche significato?

R: Certo, 10 è il numero del completamento. È un numero fortunato, simbolo della luce. Per quanto riguarda i 32 minuti, è il limite di tempo perché un long playing abbia un suono più potente, 15 minuti per lato. I miei dischi sono sempre stati sovraccarichi da entrambi i lati. Troppi minuti per essere registrati o masterizzati correttamente. Le mie canzoni erano troppo lunghe e non andavano a pennello con il formato audio di un LP. Il suono era debole e dovevi alzare il volume del giradischi al massimo per sentire bene. Per me questi CD rappresentano gli LP che avrei dovuto fare.

D: È una sfida cantare dal vivo con una sezione fiati?

R: Nessuna sfida, è meglio che sovrainciderla.

D: In studio di registrazione ti piace essere spontaneo, ma qui hai lavorato con arrangiamenti ben definiti e spartiti. Ti ha richiesto un nuovo modo di pensare?

R: In un primo momento sì, ma poi mi sono abituato. C'è abbastanza della mia personalità in quei testi, così ho potuto concentrarmi sulle melodie all'interno degli arrangiamenti. Come cantante sei costretto all'interno di schemi armonici ben definiti. Ma all'interno di quegli schemi hai un controllo maggiore di quanto ne avresti se non ci fossero limiti di sorta. In realtà ci vuole meno pensiero, quasi nessun pensiero. Quindi credo che si possa chiamare un nuovo modo di pensare.

D: In qualche punto della registrazione hai detto ai musicisti “Ehi, dobbiamo cambiare questo al volo, seguitemi”?

R: No, non è mai successo. Se l’avessi fatto, la canzone sarebbe caduta a pezzi, nessuno sarebbe stato in grado di seguirmi. Improvvisare avrebbe disarticolato la canzone. Non puoi andare fuori pista.

D: Ti preoccupi di quello che i fan di Bob Dylan pensano di questi standard?

R: Queste canzoni hanno un significato per l'uomo della strada, l'uomo comune, la persona di tutti i giorni. Forse un tipo così è un fan di Bob Dylan, forse no, non lo so.

D: Eseguire questi brani ti ha insegnato qualcosa di loro che non avevi colto da ascoltatore?

R: Avevo qualche idea di dove si collocassero, ma non avevo capito quanta essenza della vita ci fosse dentro, la condizione umana, quanto perfettamente si intrecciassero testi e melodie, quanto rilevanti siano per la vita di tutti i giorni, quanto non materialiste.

D: Fino agli anni Sessanta, queste canzoni erano ovunque, ora sono quasi sparite. Significano di più per te se le ascolti adesso?

R: Significano molto di più. Queste canzoni sono alcune tra le cose più struggenti mai messe su disco e ho voluto rendere loro giustizia. Ora che le ho vissute e ci ho vissuto dentro, le capisco meglio. Ti portano fuori dalla tradizionale routine dove sei intrappolato in cose che possono sembrare diverse, ma sono essenzialmente le stesse. La musica e le canzoni moderne sono così istituzionalizzate che non te ne rendi nemmeno conto. Queste canzoni sono fredde e lucide, dentro c'è un realismo esplicito, fede nella vita di tutti i giorni, proprio come nel primo rock and roll.

D: Ascoltandone alcune, è difficile non pensare alla Seconda Guerra Mondiale. Tu sei nato durante la guerra, ti ricordi qualcosa al riguardo?

R: Non tanto. Sono nato a Duluth - città industriale, cantieri navali, moli minerari, silos granari, depositi, scali ferroviari. È sulle rive del Lago Superiore, costruita su roccia di granito. Sirene antinebbia, marinai, forestali, tempeste, bufere di neve. Mia madre dice che ci furono carenze di cibo, razionamenti, a malapena un po' di gas, elettricità tagliata, tutto il metallo in casa donato per lo sforzo bellico. Era un luogo buio, anche alla luce del giorno i coprifuoco, uggioso, solitario, tutto quel genere di cose. Abbiamo vissuto lì fino ai miei cinque anni, alla fine della guerra.

D: Tra la Grande Depressione e la guerra, la gente ha dovuto ingoiare tanto dolore che canzoni che a noi potrebbero sembrare eccessivamente sentimentali avevano un'enorme risonanza. Una frase tipo “come un uomo che non si è mai affacciato al pozzo dei desideri” (1) potrebbe sembrare melensa a chi non ha una certa età. A settant'anni, riesci a entrare in queste canzoni in un modo che non saresti stato in grado di fare a venti o a trenta?

R: Certo, posso camminarci dentro. A venti o trent'anni non ero stato da nessuna parte. Da allora sono stato in tutto il mondo, ho visto oracoli e pozzi dei desideri. Quando ero giovane c'erano un sacco di segnali lungo la strada che non potevo interpretare, erano lì e li vedevo, ma erano oscuri. Ora, se mi guardo indietro, riesco a vederli per quello che erano, cosa significavano. Allora non li capivo, lo faccio adesso. All'epoca non avrei potuto saperlo.

D: Quando rivedi filmati di tue esibizioni di 40 o 50 anni fa, cosa vedi? Una persona diversa?

R: Vedo Nat King Cole, Nature Boy - un ragazzo incantato molto strano (2), un esecutore estremamente sofisticato, con un vasto campionario di musica dentro, già postmoderno. È una persona diversa da quella che sono ora.

D: Vent’anni dopo la fine della guerra, sembrava che tutto l'intrattenimento riguardasse quell’argomento - film, spettacoli televisivi, romanzi, tutto, da South Pacific (3) a Hogan's Heroes (4). Noi diamo per scontato che tutti condividano questo vocabolario comune, ma in realtà si sta dissolvendo nella memoria popolare. Hai sentito l'urgenza di mettere in salvo queste canzoni?

R: Non più di quanto cercherei di mettere in salvo Beethoven, Brahms o Mozart. Queste canzoni non si nascondono dietro un muro o sul fondo del mare, sono proprio lì all'aria aperta, chiunque può trovarle. Sono sincere. Si stanno liberando.

D: Ci sono alcune tue grandi interpretazioni qui - “When The World Was Young”, “These Foolish Things”. Il che pone la domanda: se puoi cantare così, perché non canti sempre così?

R: Dipende dal tipo di canzone. “When The World Was Young” e “These Foolish Things” sono canzoni colloquiali. Non hai bisogno di sputare fuori le parole in modo esplicito. Sarebbe impensabile. L'enfasi è diversa e non c'è alcun motivo per forzare il discorso. “Un biglietto aereo per luoghi romantici” (5) è un tipo di frase opposta rispetto, ad esempio, a “seppellite il mio corpo al lato dell'autostrada” (6). L'intonazione è diversa, più circospetta, più interiore.

D: Scegli gli approcci vocali come un attore che interpreta un ruolo?

R: No, è più come l'ipnosi, la instilli nella mente e continui a ripeterla più e più volte finché ce l'hai. Un attore che interpreta un ruolo? Come chi? Scatman Crothers? George C. Scott? Steve McQueen? Probabilmente è più simile a un attore della scuola del metodo, qualunque cosa sia un attore del metodo. Alla ricerca del tempo perduto (7), lo faccio sempre.

D: Una canzone che non canti perfettamente è “September of My Years”. La tua voce si spezza, ma si adatta al testo. Hai considerato di correggerla o hai capito che funzionava?

R: La mia voce spezzata qua e là non mi infastidiva, mi avrebbero infastidito di più note o accordi sbagliati. Su “September of My Years” non ho corretto nulla. Sarebbe stato comunque impossibile perché eravamo tutti nella stessa stanza a suonare insieme contemporaneamente e c'era un sacco di dispersione negli altri microfoni. Puoi correggere solo se si sovraincide la voce separatamente e qui non l'abbiamo fatto. Se sbagli un verso su dischi come questo, devi tornare indietro e cominciare da capo. Si tratta di una registrazione dal vivo. La mia voce spezzata qua e là magari è perché è stata registrata troppo presto nel corso della giornata, ma non danneggia l'effetto complessivo, non mi disturba.

D: La gente considera Shadows in the Night un tributo a Frank Sinatra. Quando hai fatto il disco sapevi che Sinatra aveva inciso tutte quelle canzoni?

R: Sì, lo sapevo. Molti altri le avevano incise, solo che le sue erano le versione migliori. Quando ho registrato queste canzoni ho dovuto convincermi di non aver mai sentito Sinatra, che non fosse mai esistito. Lui è una guida. Ti indica la strada e ti porta all'ingresso, ma da lì in poi sei da solo.

D: C'è una famosa storia su te e Springsteen invitati a cena a casa di Sinatra, più o meno quando registraste l'omaggio TV dedicato a lui. L'avevi mai incontrato prima? Hai avuto l'impressione che conoscesse le tue cose?

R: Non proprio. Penso che conoscesse “The Times They Are a-Changin’” e “Blowin’ In the Wind”. So che gli piaceva “Forever Young”, me lo disse lui. Era divertente, siamo rimasti fuori sul patio tutta la notte e mi disse: “Io e te, amico, abbiamo gli occhi azzurri, veniamo da lassù!” - e indicò le stelle. “Questi altri vagabondi sono di quaggiù.” Mi ricordo di aver pensato che potesse aver ragione.

D: In quello show tutti eseguirono una canzone di Sinatra, tranne te. Cantasti “Restless Farewell”. Come mai?

R: Fu proprio Frank a chiedere che la facessi. Uno dei produttori gliel'aveva suonata e gli aveva mostrato il testo.

D: È stata l'ultima volta che hai visto Sinatra?

R: Forse anche una volta dopo.

D: E la prima volta che l'hai visto?

R: Pittsburgh, '67 o forse '68, alla Civic Arena. Cantò “Summer Wind”, “Day In, Day Out”, “Moonlight in Vermont” (8).

D: Sinatra ha fatto un sacco di canzoni che parlano dell’invecchiare, ma “The Best Is Yet to Come”, invece, parla di sfidare l'età. È stata l'ultima canzone che lui ha cantato su un palco. Come sei arrivato dentro quella canzone? Cosa pensi di averci messo per darle il tuo taglio?

R: Non è stato difficile. Non ci ho messo niente di insolito. In quella canzone ci sono un sacco di cambiamenti chiave e di modulazioni, e tu devi scivolarci dentro e fuori. È quasi una sfida, ma una volta capita è abbastanza facile. È semplicemente una ballata con una base blues che arriva dritta, unica nel suo genere. È come “Mack the Knife”, ma niente a che vedere con “Mack the Knife”. È una frase vecchio stampo, non diresti che qualcuno possa farci qualcosa. “The Best Is Yet to Come” - il meglio deve ancora venire - potrebbe essere sia una minaccia che una promessa. Ha quel genere di liriche che sottintendono che anche se il mondo va a rotoli, uno migliore è già al suo posto. Il tipo di canzone che levita da sé, non c'è bisogno di fare molto per farla decollare. Mi piacciono tutti i testi di Carolyn Leigh, ha scritto anche quello di “Stay with Me”.

D: Nessuno può sentire “As Time Goes By” senza pensare a Casablanca. Quali sono alcuni film che hanno ispirato tue canzoni?

R: La tunica, Il re dei re, Sansone e Dalila, e qualche altro ancora, come Picnic e Un volto nella folla.

D: Una canzone come “Imagination” richiede un modo di suonare la batteria completamente diverso dal rock and roll. Non ha una scansione solida, gira intorno alla battuta. Ci hai pensato un attimo prima di cantare su questa sorta di ritmo?

R: Sì, ma solo un attimo. Tommy Dorsey suona sempre questo tipo di ritmo. Il drumming gira intorno alla battuta perché è così, il batterista è attento alla linea di basso e c'è una linea di basso che ticchetta come un orologio, come il pulsare del cuore. C'è anche un sincopato nascosto, quasi come una cosa di Son House, ma è nascosto così in profondità che è difficile notarlo. In superficie suona tutto sognante, come una semplice ballata, ma ti inganna. È la melodia che rende questa canzone quello che è, non necessariamente il modo di suonare la batteria.

D: Cosa deve sapere un batterista che entra nella tua band? E cosa dovrebbe evitare?

R: Nessuno entra nella mia band. Mi piace il batterista che ho adesso, è uno dei migliori in circolazione, ma se mai dovesse lasciarmi per qualche motivo, tipo unirsi ai Rolling Stones o qualcosa del genere, allora dovrei sostituirlo. Cosa dovrebbe evitare il ragazzo? Non dovrebbe cercare di farsi conoscere troppo in fretta - tipo un colpo di piatti sulla parola "kick" in “I Get a Kick Out of You”. Il batterista non è il leader, segue il battito regolare della canzone e il fraseggio ritmico. Se lo fa e resta sul semplice, non deve evitare niente.

D: Quali batteristi ti piacciono?

R: Molti. Gene Krupa, Elvin Jones, Fred Below, Jimmy Van Eaton, Charlie Watts. Mi piace Casey Dickens, il batterista che ha suonato con Bob Wills. Ci sono un sacco di grandi batteristi.

D: Tu hai avuto a che fare con autori che cantavano e con cantanti che scrivevano. Hai mai pensato che sarebbe stato meglio se avessero tenuto le due cose separate?

R: Forse qualcuno, ma non posso dire chi così sui due piedi. Ci sono molti grandi cantanti che scrivono canzoni deboli e un sacco di grandi autori che non sanno cantare. Il problema per loro è che non hanno gli sbocchi che avevamo noi - nessun posto dove piazzare queste canzoni, nessun film, nessun programma radiofonico, show televisivo, sessioni di registrazione, programmi che richiedevano sempre canzoni. Così devono cantarle loro. Gli autori devono avere un motivo per scrivere canzoni, ma ci deve essere anche uno scopo per eseguirle. E a volte non è in sintonia. Non esiste una formula magica perché accada. Tutti gli standard su Triplicate sono stati scritti da più di una persona, combinazioni di diverse persone, e nessuno dei cantanti che in origine le ha incise le aveva scritte. Riuscire a scrivere le tue canzoni sarebbe l'ideale, ma nessuno ti critica se non lo fai. Barbara Streisand e Tom Jones non lo fanno.

D: “Make You Feel My Love” è diventata un nuovo standard. È stata eseguita da Adele, Garth Brooks, Billy Joel. C'è qualche versione che ti ha colpito particolarmente?

R: Sì, tutte, una dopo l'altra.

D: “Braggin’” fu incisa da Duke Ellington nel 1938, è il genere di swingin’ blues da big band che ha portato direttamente al rock and roll. Quand'eri ragazzo, percepivi il rock and roll come una cosa nuova o come un'estensione di qualcosa che era già in corso?

R: Sicuramente il rock and roll era un'estensione di qualcosa già in corso - le grandi swinging band, Ray Noble, Will Bradley, Glenn Miller. Ho ascoltato quella musica prima che sentissi Elvis Presley. Ma il rock and roll era alta energia, esplosivo e tranciante. Era la musica scheletro, uscita dal buio a cavallo della bomba atomica e gli artisti erano star che avanzavano come divinità mistiche. Rhythm and blues, country and western, bluegrass e gospel c'erano sempre stati, ma era compartimenti stagni, tutto fantastico, ma niente di pericoloso. Il rock and roll era un'arma pericolosa, cromata; esplose alla velocità della luce, rifletteva i tempi, soprattutto la presenza della bomba atomica che l'aveva preceduto di diversi anni. Allora la gente temeva la fine del mondo. All'orizzonte c'era il grande duello tra capitalismo e comunismo. Il rock and roll fece scordare la paura, sfondò le barriere che razza, religione ed ideologie avevano eretto. Vivevamo sotto una nube di morte, l'aria era radioattiva. Non c'era un domani, ogni giorno poteva essere l'ultimo, la vita aveva poco valore. Questa era il sentimento di quei tempi e non sto esagerando.
Il doo-wop era l’altra faccia del rock and roll. Canzoni come “In the Still of the Night”, “Earth Angel”, “Thousand Miles Away” equilibravano le cose, erano sincerità e malinconia per un mondo che sembrava non avere un cuore. Anche i gruppi doo-wop avrebbero potuto essere considerati un'estensione degli Ink Spots o della musica gospel, ma non importava: anche quello era nuovo di zecca. Gruppi come i Five Satins e i Meadowlarks sembrava che cantassero da qualche immaginario angolo di strada lungo il quartiere. Jerry Lee Lewis arrivò come una cometa sfrecciante da qualche lontana galassia. Il rock and roll era potenza atomica, fulmini e tuoni (9). Non sembrava proprio un'estensione, ma probabilmente lo era.

D: In canzoni come “Bye and Bye” e “Moonlight” ti sei cimentato con stili popolari agli albori del cinema e dei dischi. “Duquesne Whistle” è un pezzo swing che avrebbe potuto fare Duke Ellington. Pensi che quelle canzoni abbiano gettato le basi per questi ultimi album?

R: Sì, penso di sì. Quelle due e anche “Sugar Baby”. “Duquesne Whistle” in realtà è nata come una pezzo di Fats Waller, “Jitterbug Waltz”. L'ho alterata in qualche modo, ma l’intenzione era quella. Comunque sì, quelle canzoni hanno gettato le basi per brani come “But Beautiful” e “It Gets Lonely Early”, entrambi su Triplicate. Questi non volevo alterarli, così li ho cantati come gli originali.

D: Alcuni dischi sono sociali, buoni per le feste e per ballare. Altri sono grandi in auto. Questo è un album realizzato per la tarda notte, la solitudine e la riflessione. Quando ti trovi in quella situazione, che disco metti?

R: My Kinda Love, di Sarah Vaughan. E anche quello che lei ha fatto con Clifford Brown.

D: I primi due dischi sono piacevoli, ma è con il terzo che arrivano le cose che davvero toccano il cuore, e le tue interpretazioni migliori. Perché tenere il meglio per ultimo?

R: Sembra così perché è una storia umana che diventa sempre più interessante ed è personale dall'inizio alla fine. Cominci con il chiederti perché hai comprato quei pigiama blu e dopo un po' ti stai chiedendo perché sei nato (10). Si va dallo stupidamente assurdo al mortalmente serio, dopo aver viaggiato attraverso il bello e il brutto. Sei arrivato al limite, non ce la fai più e ti chiedi, dov'è la buona notizia? Non ci dovrebbe essere una buona notizia? È un viaggio come nella canzone “Skylark”, dove il cuore si incammina sopra le ombre e la pioggia. E questo è tutto. È un viaggio del cuore. Il meglio doveva essere tenuto in serbo per ultimo.

D: Ho notato che quando hai una canzone particolare che non sembra adattarsi con il resto dell'album, la metti come prima: “Rainy Day Women”, “John Wesley Harding”, il duetto con Johnny Cash di “Girl from the North Country”,"All the Tired Horses”, “Tweedle Dee & Tweedle Dum”. È come se dicessi, “ecco una canzone strana”, e dopo comincia l'album. Perché lo fai?

R: Non credo proprio che “Tweedle Dee & Tweedle Dum” sia una canzone strana, da nessun punto di vista. Penso che fosse abbastanza standard allora come adesso, quindi questa canzone in particolare avrebbe potuto posizionarsi ovunque. Ma per le altre molto probabilmente mi sono chiesto che cosa potessi farci, visto che non sembravano adattarsi ovunque. È probabile che le abbia messe all'inizio per separarle dal resto. Non ci giurerei per “Rainy Day Women”, però, credo che fosse come una torre campanaria che annunciava quello che stava per arrivare. “All the Tired Horses” era solo un pezzo d'atmosfera, come un preludio, ma le altre avrebbero rotto il flusso del resto dei brani.

D: “There’s a Flaw in My Flue” è una canzone molto strana. Sembra la parodia di un certo tipo di torch song, in particolare il verso “smoke gets in my nose”, “il fumo arriva nel mio naso”. Pensi che Sammy Kahn stesse prendendo in giro quando la scrisse?

R: No, non credo sia così. Penso che sia una ballata romantica sincera. Il fumo che entra nel naso potrebbe essere metaforico, ma è anche molto reale. Ci sono un sacco di versi simili nel blues e nella musica popolare. “Il mio secchio è bucato”, “ci sono pietre sul mio passaggio”, “il mio motore non gira”, “c'è un alone nella mia vasca”, ”ho il fumo nel naso". Non è diverso da uno di Blind Lemon, “it’s been a meatless and wheatless day" - “è stata una giornata senza carne e senza grano” (11). Certo, è una ballata romantica, ma non credo possa essere liquidata così facilmente. Il fuoco del camino può incendiarti la casa (12).
Ciò che dà vita a questa canzone e che le altre canzoni non hanno è una splendida melodia che si intreccia con le parole, perfettamente. Anch’io ho visto immagini nel mio camino. Il verso “are you smart” in “My Funny Valentine”, quello ho sempre pensato fosse una presa in giro. Io la vedo così: la melodia in questa canzone è un po' come lo sfondo del dipinto della Gioconda. È un mondo di fantasia, mistico e fantasmagorico, ma per me è reale, come un mondo della fantascienza. La persona che mi guarda è solo un volto, non posso dire se lei stia sorridendo o prendendo in giro. Non ha una natura spirituale particolare, non sono neppure convinto che sia una donna. Ma sono incantato dallo sfondo, la melodia. È un po' come questa canzone, dove puoi vedere che “there’s a flaw in my flue” - c'è un difetto nella mia canna fumaria - e non notarlo o non sentirlo. Penso che sia una grande canzone, niente affatto una presa in giro.

D: Stai spendendo parecchio tempo su tutte queste vecchie canzoni. Pensi che la prossima che scriverai ne sarà influenzata?

R: Ne dubito. Queste sono così strutturate nella teoria musicale, così complicate nei tempi e in costante movimento nelle melodie, che vanno oltre le mie capacità. È difficile esserne influenzati se non hai familiarità con quel mondo. Potrò essere influenzato da una parte di melodia o da una frase, tutto lì. Dal punto di vista delle liriche, non penso che potrei essere influenzato da qualcosa.

D: Non vorresti scrivere canzoni apposta per qualcuno che lavora in questo stile, come Diana Krall o Harry Connick? Hai mai pensato di scrivere una canzone per Tony Bennett?

R: No, non ho mai pensato di scrivere una canzone per Tony. Non me l'ha mai chiesto e se l'avesse fatto non credo che sarei riuscito.

D: Molti cantanti quando registrano queste canzoni tralasciano le introduzioni, ma tu le hai lasciate: “September of My Years”, “P.S. I Love You”, “When the World Was Young”. I Beatles qualche volta hanno scritto canzoni con una intro - “To lead a better life, I need my love to be here...” (13) - ma difficilmente altri compositori della tua generazione o di quelle dopo l'hanno fatto. Tu l'hai mai fatto?

R: Non l'ho mai fatto. Credo che devi fare quelle intro alla fine, dopo aver scritto la canzone. Mi è sempre piaciuto quella di “Mr. Blue”, in cui la nostra stella protettrice ha perso tutto il suo splendore. È una delle intro più belle. C'è n’è una anche in “Stardust”, che nessuno fa mai. Noi la chiamiamo intro, ma all'epoca la chiamavano strofa. E quello che noi chiamiamo canzone, loro chiamavano ritornello. “Stardust” non ne ha bisogno, ma “September of My Years” sì. Senza intro, la canzone non avrebbe senso.

D: Anche i Beatles scrissero una canzone chiamata “P.S. I Love You”. “Tossin’ and Turnin’” di Bobby Lewis era un riadattamento di “I Couldn’t Sleep a Wink Last Night”. Nei primi dieci anni di rock, gli autori studiavano la musica venuta prima. Ma più o meno dal 1970 in poi, quello che i nuovi rocker conoscevano era solo il rock, forse un po' di blues. Cosa si perse?

R: Dal 1970 a oggi sono passati circa 50 anni, ma sembrano 50 milioni. È un muro temporale che separa il vecchio dal nuovo e in questo lasso di tempo molte cose possono andare perse. I mercati avanzano, gli stili di vita cambiano, le multinazionali uccidono le città, nuove leggi sostituiscono le vecchie, gli interessi dei gruppi trionfano su quelli individuali, i poveri stessi sono diventati una merce. E anche le influenze musicali sono state inghiottite, assorbite in cose più recenti o si sono perse per strada. Però non penso che bisogna deprimersi, o che tutto ci stia sfuggendo. È ancora possibile trovare quello che stai cercando, se ripercorri quella strada. Potrebbe essere proprio lì dove lo si era lasciato, tutto è possibile. Il problema è che non puoi riportarlo indietro con te, devi stare lì con lui. La nostalgia credo sia proprio questo.

D: Qualcuno definirebbe "Triplicate" nostalgico...

R: Nostalgico? Non direi. Non è un viaggio a ritroso nella memoria o nella nostalgia, né aver voglia di quei bei vecchi tempi o ricordare quello che non c'è più. Una canzone come “Sentimental Journey” non è un modo per tornare indietro o emulare il passato se la canti; è accessibile e ancorata nella realtà, qui e ora.

D: Il modo in cui fai “Sentimental Journey” mi ricorda un po' Roger Miller. È una specie di canzone folk, non credi?

R: Sì, è un po' in quella sfera. È come una canzone che avrebbe potuto scrivere Lead Belly. Ci sono un sacco di canzoni di quel genere: “Moanin’ Low”, “He’s Gone Away”, “I Got It Bad and That Ain’t Good”. Gli autori di quei pezzi erano influenzati dal folk e dal blues.

D: Alcune di queste canzoni sono davvero romantiche, hanno molto a che fare con cuori infranti. Non ti chiederò chi, ma dimmi, c'è una donna reale che ti immagini quando le canti? O più di una?

R: Reale? Certamente sono donne reali. Lo spero.

D: Dimmi qualcosa sul lavoro con l’arrangiatore, James Harper. Che indicazione gli hai dato? “Stormy Weather” ha un arrangiamento davvero elaborato - un sottofondo sonoro drammatico, sembra l’arrivo di un sottomarino che poi sfocia in una chitarra hawaiana. Ha aggiunto qualcosa che ti ha fatto dire “È troppo, torna indietro"?

R: Forse un paio di volte la tromba era troppo acuta e ha dovuto essere rifatta. Ma a parte questo, non ha avuto bisogno di molte indicazioni. E comunque, io non posso fare gli arrangiamenti dei fiati. In una situazione del genere, non vuoi dirigere nessuno. Devi avere fiducia nelle capacità altrui, essere convinto che tutti siano in grado. Non volevo intralciare il lavoro di James, altrimenti non l'avrei ingaggiato. Ha orchestrato “Stormy Weather” senza problemi e quella è una canzone difficile da fare perché l'hanno fatta talmente in tanti.

D: “My One and Only Love” è un rifacimento di una canzone intitolata “Music from Beyond the Moon”. La versione originale fu un flop, poi arrivò un nuovo paroliere, scrisse nuovi versi sulla stessa melodia e la seconda volta fu un successo. Quando succede questo con le canzoni folk o il blues, si chiama tradizione popolare; quando succede con le canzoni rock, la gente grida al plagio; nell'hip hop, è campionamento. Ma è sempre andata così in ogni forma di musica, non trovi?

R: Sono sicuro che sia così, c'è sempre qualche precedente, quasi tutto è un'imitazione di qualcos'altro. Tu puoi avere qualche visione assurda, o un’idea un po’ confusa che non riesci a buttare giù e finalizzare. Ma poi vedi un ritaglio di giornale, o un cartellone pubblicitario, o un paragrafo da un vecchio romanzo di Dickens, o senti qualche strofa da un'altra canzone, oppure orecchi per caso qualcosa che potrebbe essere proprio una cosa che avevi in testa e non sapevi di ricordare. Quello ti darà il punto di avvicinamento e ogni dettaglio. È come essere sonnambuli; senza che tu le stia cercando, le cose ti sono trasmesse. È come se stessi guardando qualcosa da lontano e all’improvviso ti ritrovi in mezzo. Una volta che hai l'idea, tutto quello che vedi, leggi, gusti o annusi diventa un'allusione a quella. È l'arte di trasformare le cose. Tu non sei al servizio dell'arte, è l'arte che serve te e comunque è solo una manifestazione della vita, non è la vita reale. È complicato, bisogna avere la sensibilità giusta e integrità, o potresti ritrovarti in mano qualcosa di stupido. La statua del David di Michelangelo non è il vero David. Alcune persone non ci arrivano e rimangono nell’oscurità. Prova a creare qualcosa di originale, ti aspetta una sorpresa.

D: I musicisti jazz hanno sempre suonato standard, non importa se erano coinvolti in altre cose. “Why Was I Born” e “My One and Only Love” sono state registrate da John Coltrane. Coltrane si esibiva al Village nello stesso periodo in cui c'eri tu. Vi siete mai incrociati?

R: L'ho visto un paio di volte al Village Gate di Bleecker Street, era accompagnato da Jimmy Garrison e McCoy Tyner.

D: Qualche anno fa, a uno dei tuoi concerti mi sono trovato seduto accanto a Ornette Coleman. Dopo lo spettacolo, nel backstage, c'erano alcuni musicisti rock e attori molto famosi in attesa, ma l'unica persona che invitasti in camerino fu Ornette. Senti un legame con quei musicisti jazz?

R: Sì, sempre. Conoscevo un po' Ornette e avevamo alcune cose in comune. Ha affrontato un sacco di avversità, i critici erano contro di lui, gli altri musicisti jazz erano gelosi. Stava facendo qualcosa di così nuovo e così rivoluzionario che non potevano capirlo. Non era diverso dalle offese che mi gettavano addosso perché facevo cose di quel genere, anche se in un'altra forma musicale.

D: Non riesco a immaginare tu che scrivi una canzone così vulnerabile e sentimentale come “Where Is the One”. Alcune di queste canzoni ti hanno permesso di andare in un posto dove non puoi arrivare con la tua scrittura?

R: Certamente. Non scriverei mai “Where Is the One”, ma è come se fosse stata scritta per me, quindi non ho dovuto scriverla. È un luogo difficile da raggiungere, è vulnerabile e protetto. Per raggiungerlo dovresti essere come l'uomo invisibile, abbattere muri, spogliarti nudo, e anche se ci arrivi dovresti chiederti che senso ha. Qualcun altro ci è già stato, ha preso tutto e se n'è andato. Qualcun altro ha dovuto scrivere questa canzone per me. Una canzone che ha nervi troppo scoperti. E tu ti ritrovi troppo esposto. Preferirei non andare là, soprattutto per scrivere canzoni.

D: Ti capita mai di sedere al pianoforte e uscirtene con una grande melodia che è fuori dalla tua estensione vocale? Scrivi mai canzoni con in mente un altro cantante?

R: Al piano suono variazioni di temi diversi e se le sposto di un'ottava più alta o più bassa, capita che la melodia sia fuori dalla mia portata. Ma non sto cercando di cantare qualcosa, sto solo suonando una melodia. Per quanto riguarda gli altri cantanti, non ho mai scritto una canzone con qualcun altro in mente.

D: Negli ultimi anni sul palco hai suonato il piano, raramente la chitarra. Come mai?

R: La suono nei soundcheck e a casa, ma l'intesa è migliore quando sono al pianoforte. Se suono la chitarra cambiano le dinamiche della band. E forse è po' troppo noioso andare avanti e indietro tra uno strumento e l'altro. Comunque, fondamentalmente sono uno strumentista ritmico, non un solista, e quando il piano si fonde con la steel guitar, è come avere un'orchestrazione da big band. Questo non succede quando suono la chitarra. Con la chitarra è una band diversa.

D: Difficile fare “Stardust” dopo Willie [Nelson]. Hai pensato alla sua versione?

R: “Stardust” è una ballata per ballare e io l'ho interpretata così. Avevo in mente Artie Shaw.

D: Lo scorso anno sono morti un sacco di grandi. Muhammad Ali, Merle Haggard, Leonard Cohen, Leon Russell. Qualcuno ti ha colpito più duramente?

R: Certo, tutti. Eravamo come fratelli, abbiamo vissuto sulla stessa strada e tutti hanno lasciato un grande vuoto. Ci si sente soli senza di loro.

D: Tu hai conosciuto tanti musicisti, attori, scrittori leggendari. C'è stato qualcuno che, ripensandoci, ti dici “Avrei voluto capire quanto fosse grande quand'era ancora vivo”?

R: Non posso dire chi è grande o chi non lo è. Se qualcuno raggiunge la grandezza è solo per un minuto e chiunque può farlo. La grandezza va al di là del tuo controllo. Credo che ci si arrivi per caso, e dura poco.

D: Alcuni dei tuoi opening-act e artisti con cui hai diviso i tour, persino nomi famosi, hanno espresso il disappunto per il fatto che tu non passi il tempo assieme né socializzi. Perché?

R: Non capisco. Comunque, perché vogliono passare il tempo con me? Quando sono in tour io passo il tempo con la mia band.

D: Per The New Basement Tapes, T Bone Burnett ha messo insieme un gruppo con Elvis Costello, Rhiannon Giddens, Jim James, Marcus Mumford e Taylor Goldsmith per completare canzoni basate su tuoi vecchi testi. Hai sentito qualcuna di queste canzoni e ti sei detto “Non ricordo di averla scritto”?

R: Hai detto Taylor Swift?

D: Taylor Goldsmith.

R: Ah sì, ok. No, non ricordo di aver scritto nessuna di quelle canzoni. Sono state ritrovate in un vecchio baule saltato fuori da quella casa che la gente chiamava Big Pink, a Woodstock. Per lo più testi accantonati quando stavamo registrando le canzoni dei Basement Tapes. T Bone disse che poteva farci qualcosa, che avrebbe potuto finirle. Non ricordavo niente di loro. Per anni ho pensato di aver usato tutto.

D: Tra il tuo pubblico hai avuto ogni sorta di celebrità - presidenti, re, un papa, stelle del cinema, i Beatles, Muhammad Ali. Qualcuno ti rende nervoso?

R: Tutti loro.

D: Ho sentito e tu George Harrison una volta pensaste di fare una sessione di registrazione con Elvis, ma lui non si fece vivo. Qual è la vera storia?

R: Lui si fece vivo, siamo stati noi che non l'abbiamo fatto.

D: Warren Beatty dice che ti voleva nel ruolo di Clyde Barrow in Bonnie and Clyde. Ti arrivò quella offerta?

R: No, l'offerta fu inviata all'ufficio del mio manager e non riuscimmo a parlarne; avevamo avuto un litigio. Non ho mai ricevuto la posta o le proposte che furono inviate lì.

D: Avresti potuto recitare qualche scena d'amore con Faye Dunaway - qualche rimpianto?

R: No.

D: Parliamo di cantautori. Ci sono qualità che rendono un autore inglese diverso da un americano, o uno del sud diverso, ad esempio, da un canadese?

R: Se fossi un antropologo forse potrei dirtelo, ma in realtà non ne ho idea. Comunque, ormai tutti attraversano culture, fusi orari e nazioni. Sai chi potrebbe probabilmente dirtelo? Alan Lomax (14), o forse Cecil Sharp (15), uno di quei tipi.

D: Quando scrivi una canzone su una persona contemporanea - Hurricane Carter, Joey Gallo, George Jackson o Catfish Hunter - devi poi trattare con i parenti che chiamano per chiedere favori?

R: Non capita spesso. Una volta è venuta a trovarmi la nipote di Willie McTell e mi ha mostrato alcune vecchie fotografie. Non voleva niente, davvero una bella persona.

D: Quale delle tue canzoni pensi che non abbia avuto l'attenzione che meritava?

R: “Brownsville Girl”, o forse “In the Garden”.

D: Hai viaggiato parecchio e per molto tempo. C'è ancora qualcosa che rende il Minnesota diverso da altri posti? Qualche peculiarità della sua gente che altrove non si trova?

R: Non necessariamente. Anche il Minnesota ha la sua linea Mason-Dixon (16). Io vengo dal nord, che è diverso dal sud Minnesota dove ti sembra di essere quasi in Iowa o in Georgia. A nord il clima è più estremo - d’inverno si gela, in estate stormi di zanzare, non c'era aria condizionata quando sono cresciuto, il riscaldamento era a vapore e d’inverno dovevi indossare un sacco di vestiti quando uscivi. Il sangue ti diventa denso. È la terra dei 10.000 laghi, ideale per caccia e pesca. Territorio indiano, Ojibwe, Chippewa, Lakota, betulle, miniere a cielo aperto, orsi e lupi - l’aria è cruda. Il sud del Minnesota è un paese agricolo, campi di grano e balle di fieno, distese di campi di mais, cavalli e mucche da latte. Il nord è scarsamente produttivo. È un ambiente aspro, le persone conducono una vita semplice, ma anche in altre parti si conduce una vita semplice. Le persone sono più o meno le stesse ovunque tu vada. C'è il bene e il male in tutte le persone, non importa in quale stato tu viva. Alcune persone sono più autosufficienti che in altri posti, qualche posto è più sicuro e qualche altro meno, alcune persone si fanno gli affari loro e altre no.

D: Sei cresciuto con molti Indiani in giro?

R: No, vivevano nelle riserve, difficile che venissero in città. Avevano le loro scuole e quant'altro.

D: Andavi a caccia o a pesca?

R: Andavo nei boschi con mio zio, il fratello di mia madre. Era un cacciatore esperto e cercava di insegnarmi. Ma la caccia non era per me, la odiavo.

D: E la pesca invece?

R: Oh certo, tutti ci andavano. Spigole, storioni, pesci gatto, trote di lago, li prendevamo e li pulivamo pure.

D: Ti interessavano le armi?

R: Rivoltelle a scatto singolo, nulla di automatico. Sparare con fucili a pallettoni alle assi di legno, quello era divertente! Una fucile a pallettoni è più letale di una calibro 22.

D: Hubert Humphrey (17) era un personaggio importante in Minnesota mentre crescevi. L'hai mai visto di persona o incontrato?

R: No, non l'ho mai visto.

D: Quando ti innamorasti del rock and roll, avevi un amico con cui condividere il tuo entusiasmo? Qualcuno con cui da adolescente provasti a scrivere canzoni?

R: Solo la mia ragazza. Strimpellavo la mia chitarra e improvvisavamo nuovi testi su altre canzoni. Suonavo anche rock and roll in gruppi della città, ma da qualche parte lungo la strada ho avuto un'illuminazione. Sentii Lead Belly e Josh White e quello cambiò tutto.

D: Com'era Minneapolis come quando arrivasti per la prima volta?

R: Minneapolis e St. Paul - le Twin Cities - erano città rock and roll. Non lo sapevo. Pensavo che le uniche città rock and roll fossero Memphis e Shreveport. Minneapolis faceva parte della scena del northwest rock and roll. Dick Dale and the Ventures, Easy Beats, Castaways, i Kingsmen ci suonarono parecchie volte, tutte le surf band, gruppi ad alta tensione. Un mucchio di cose di Link Wray come “Black Widow” e “Jack the Ripper”, tutte quegli strumentali tipo “Tall Cool One”. “Flyin’ High” degli Shadows fu un grosso successo. Le Twin Cities erano surf e rockabilly, volume a palla con un sacco di riverbero, pedali tremolo, tutte chitarre Fender - Esquire, Broadcaster, Jaguar. Gli amplificatori su sedie pieghevoli, anche le sedie sembravano Fender. Il drumming di Sandy Nelson. “Surfing Bird” uscì da lì poco tempo dopo e non mi sorprese.

D: Ti fece pensare di cambiare direzione?

R: Stavo viaggiando su un sentiero diverso e la mia coscienza era già stata rifondata. Avevo sentito Lenny Bruce e Lord Buckley e avevo letto Ginsberg e Kerouac, avevo un forte senso dell'essere. Frequentavo anche gente diversa, più interessante e libera di spirito - veri poeti, ragazze ribelli, cantanti folk - era un mondo a sé, distante e indifferente alle opinioni correnti. Avevo abbandonato il passato ed ero fuggito, non avevo intenzione di ritornare in quel posto fatto di camicie abbottonate e capelli a spazzola, per niente e per nessuno. Quello che ascoltavo sul mio piccolo giradischi portatile erano Gus Cannon, Memphis Minnie, Sleepy John Estes, musicisti di quel genere. Anche Charlie Poole, e pure Joan Baez. Stavo cercando la mia identità e sapevo che era lì da qualche parte.

D: Cosa pensi di Joan Baez?

R: Era qualcosa di diverso, quasi troppo da prendere. La sua voce era come quella di una sirena di un’isola greca. Solo il suo suono avrebbe potuto farti cadere in un incantesimo. Era un’incantatrice. Avresti dovuto farti legare al palo come Ulisse e tappare le orecchie in modo da non sentirla. Ti faceva dimenticare chi eri.

D: Agli inizi della tua carriera, abbandonasti l'Ed Sullivan Show, un programma in diretta (18). I tuoi amici e la tua famiglia in Minnesota erano davanti alla TV che aspettavano la tua esibizione?

R: Ne dubito. Comunque non mi avrebbero riconosciuto dal nome, e forse nemmeno dalla faccia. Se avessero visto il mio nome nel palinsesto TV, non avrebbero potuto sapere che ero io. Non sapevano che era quel ragazzo che viveva lì.

D: Un sacco di altri cantautori ti hanno citato nelle loro canzoni - John Lennon in “Yer Blues”, Ricky Nelson in “Garden Party”, David Bowie in “Song for Bob Dylan”. È una bella lista. Hai una preferita?

R: “Garden Party”.

D: In “American Pie” di Don McLean sei sospettato di essere il giullare.

R: Sì, Don McLean, “American Pie”, che canzone che è. Un giullare? Certo, il giullare scrive canzoni come “Masters of War”, “A Hard Rain’s a-Gonna Fall”, “ It’s Alright, Ma”. Penso che stia parlando di qualcun altro. Chiedi a lui.

D: Tom Wilson è una specie di una figura misteriosa, non si sa molto di lui. Qual è stato il suo apporto come produttore?

R: Tom arrivava dal jazz, aveva prodotto parecchi dischi jazz, soprattutto di Sun Ra. Un giorno mi giro e me lo trovo lì. Oggi lo chiamano produttore, ma a quei tempi non lo chiamavano così; lui era il tipico uomo A&R (19), responsabile del tuo repertorio. A dire il vero io non avevo bisogno di un repertorio perché avevo le mie canzoni, quindi non sapevo cosa ci facesse un A&R. Qualcuno della casa discografica doveva essere lì per comunicare con il tecnico del suono. Credo che a quel tempo non mi fosse permesso di parlare con il tecnico del suono. Lo studio era semplice - due, al massimo quattro tracce. In quei primi anni andavi in studio e registravi dal vivo, un take dopo l'altro. Se qualcuno sbagliava, dovevi ricominciare da capo, o semplicemente dovevi lavorare sulla tua canzone finché non avevi la versione giusta. In nessuno dei principali studi di registrazione si facevano cose tipo Brian Wilson o Phil Spector, spostando le tracce qua e là per liberare altre tracce.
Tom aveva studiato a Harvard, ma era anche scafato. Quando l'ho incontrato, lui era più interessato al jazz non convenzionale, ma aveva un sincero entusiasmo per ogni cosa volessi fare e portò a suonare con me musicisti come Bobby Gregg e Paul Griffin. Quella era gente di prima classe, conoscevano cosa stavo facendo. La maggior parte dei musicisti di studio non ne aveva idea, non avevano ascoltato musica folk né blues o qualcosa di simile. Credo che lavorare con me abbia aperto anche il mondo di Tom perché dopo di me iniziò a registrare gruppi come Velvet Underground e Mothers of Invention. Tom era veramente un tipo in gamba ed è stato molto d'aiuto.

D: In che formato ascolti musica? Ascolti in streaming?

R: Ascolto per lo più CD.

D: Sentito buoni dischi ultimamente?

R: Après di Iggy Pop, quello è un buon disco. Imelda May, lei mi piace. Valerie June, Stereophonics. Mi piace l’album di Willie Nelson e Norah Jones con Wynton Marsalis, il tributo a Ray Charles. Mi piaceva l’ultimo album di Amy Winehouse.

D: Eri un suo fan?

R: Sì, assolutamente. È stata l'ultima vera individualista in giro.

D: Quanti anni avevi quando la tua famiglia comprò il primo televisore? Quali spettacoli ti colpirono?

R: Avevo 14 o 15 anni quando ne acquistammo uno, mio padre lo piazzò nello scantinato. I programmi erano dalle 3 alle 9, in quasi tutto il resto della giornata mostrava un disegno test, una sorta di strano simbolo circolare. L'accoglienza non fu buona, c'erano un sacco di disturbi nel segnale e dovevi sempre regolare l'antenna per cercare di vedere qualcosa. Mi piaceva quello che vedevo - Milton Berle, Sid Caesar, Highway Patrol, Father Knows Best. C'erano anche drammi teatrali, come Studio One e Fireside Theatre. E anche quiz - Beat the Clock, To Tell the Truth, Queen for a Day, erano tutti buoni. Uno intitolato You Are There, con Walter Cronkite e un sacco di episodi di The Twilight Zone.

D: Quando sei in tour sul tuo bus, che show guardi alla TV?

R: I Love Lucy tutto il tempo, non-stop (20).

D. Ogni volta che accendo PBS (21), trasmettono l'ennesimo documentario sulla musica folk degli anni '60 e tutti i tipi di quella scena parlano di te come se foste i migliori amici. Ti infastidisce?

R. Non lo so, forse eravamo i migliori amici. Non mi ricordo.

D: Nel 1966 avevi il taglio di capelli più ribelle che si fosse mai visto. Avresti potuto pettinarli in giù, uscire e nessuno ti avrebbe riconosciuto.

R: Sì, ma non volevo farlo. Stavo cercando di assomigliare a Little Richard, la mia versione di Little Richard. Volevo capelli ribelli, volevo essere riconosciuto.

D: Tu hai incontrato John Wayne nel 1966. Come vi siete trovati?

R: Abbastanza bene devo dire. Il Duca. Lo incontrai su una nave da guerra alle Hawaii, dove stava girando un film, lui e Burgess Meredith (22). Anche una mia ex ragazza era coinvolta nel film e mi invitò, me lo presentò e lui mi chiese di suonare alcune canzoni folk. Gli suonai “Buffalo Skinners”, “Raggle Taggle Gypsy” e credo “I’m a Rambler, I’m a Gambler”. Mi disse che se volevo potevo rimanere lì e avere una parte nel film. Fu gentile con me.

D: “Wagon Wheel” era una tua vecchia canzone incompiuta. È stata presa e completata dagli Old Crow Medicine Show che l'hanno portata al successo. Poi è stata incisa dai Mumford and Sons. E la versione di Darius Rucker ha vinto un Grammy. Non hai mai pensato di registrarla?

R: L'ho registrata con Roger McGuinn, Rita Coolidge e Booker T, in uno studio cinematografico di Hollywood. È su uno dei miei vecchi bootleg. La trovi lì, ha solo un titolo diverso (23).

D: A proposito di Hollywood, è lì che hai realizzato Triplicate?

R: Corretto. Ai Capitol Studios.

D: Il titolo Triplicate riporta alla mente la “trilogia” di Sinatra (24). Quell'album ha avuto qualche influenza sul tuo?

R: Sì, in un certo senso l'idea è quella. Stavo comunque pensando a triadi, come le tre tragedie greche dell’Orestea di Eschilo. Immaginavo una cosa del genere.

D: Ognuno dei tre dischi racconta una storia diversa. Sei partito sapendo che sarebbe stato così o i temi si sono rivelati strada facendo?

R: I temi sono stati decisi prima in un senso teatrale - grandi temi, legati a sopravvissuti e amanti o, meglio ancora, a saggezza e vendetta, o forse anche esilio. Ogni disco prefigura il successivo e non volevo dare a nessuna canzone una preminenza sulle altre. Niente vecchie storie o memorie, ma solo la semplice e difficile vita terrena, le sue realtà nascoste. Questa è la mia percezione.

D: L'hai pensato tutto esattamente così?

R: Non così esplicitamente, ma penso di averlo fatto inconsciamente.

D: Ci sono state canzoni che hai preso in considerazione, ma poi hai lasciato fuori perché non si adattavano a nessuno dei tre temi?

R: Sì, certo. “I Cover the Waterfront”, “Moonlight in Vermont”, “Let’s Face the Music and Dance”.

D: C'è stata qualche canzone che hai approcciato in un modo per ritrovarti alla fine con qualcosa di completamente diverso?

R: No, questo capita più spesso con le mie canzoni. Un paio di volte ho avuto l'approccio sbagliato per una canzone che volevo fare. Ho registrato “Deep in a Dream”, ma non mi quadrava e non l'ho usata. Aveva un approccio sbagliato fin dall'inizio.

D. C'è qualche testo o qualche verso qui che tu non scriveresti mai, ma sei contento che qualcun altro l'abbia fatto?

R: Parecchi. “Il fremito al pensiero che potresti aver pensato alla mia supplica” (25). “Quelle parole insicure che ti hanno svelato cosa intendeva il mio cuore” (26). “Quando sei solo, i bambini cresciuti e, come storni, volati via” (27). Sono contento che qualcuno abbia scritto queste strofe. Io non potrei mai.

D: Dagli anni '20 ai primi anni '50, il confine tra blues, pop, country e jazz era molto flessibile. Robert Johnson, Jimmie Rodgers, Bing Crosby, Ray Charles, tutti hanno messo le mani su tutto. Perché poi sono spuntate recinzioni tra i diversi stili della musica americana?

R: A causa della pressione a conformarsi.
 

Note di Silvano Cattaneo:

(1): Nel testo originale: “as a man who has never paused at wishing wells” (un verso di “The September of My Years”).

(2) Cita un verso di “Nature Boy”, di Nat King Cole: “There saw a boy / A very strange enchanted boy”.

(3) “South Pacific” fu un celebre musical di Broadway degli anni ’50, ambientato in Polinesia durante la Seconda Guerra Mondiale. Autori delle canzoni, Richard Rodgers e Oscar Hammerstein. Con la regia di Joshua Logan e Rossano Brazzi come protagonista maschile, divenne poi un film di grande successo (maggior incasso mondiale del 1958). Una delle canzoni di Triplicate, “This Nearly Was Mine”, faceva parte originariamente di quel musical.

(4) “Hogan’s Heroes” fu una sit-com televisiva trasmessa dalla CBS dal 1965 al 1971. Narrava in chiave ironica la vita di un gruppo di soldati prigionieri in un campo di prigionia nazista durante la Seconda Guerra Mondiale.

(5) Nel testo originale dell’intervista: “an airline ticket to romantic places” (un verso di “These Foolish Things”).

(6) Nel testo originale “bury my body by the highway side” (un verso di “Me and the Devil Blues”, di Robert Johnson).

(7) Nel testo originale Dylan dice “Remembrance of things past”, il titolo con cui inizialmente fu tradotto in inglese “Alla ricerca del tempo perduto”, di Marcel Proust.

(8) Frank Sinatra tenne un doppio concerto alla Civic Arena di Pittsburgh il 2 luglio 1967.

(9) “All zoom and doom” è l’espressione usata qui da Dylan. Non l’avevo mai incontrata, forse è una sua estemporanea invenzione linguistica e l’ho tradotta un po’ liberamente. Doctor Zoom e Professore Doom erano due personaggi dei fumetti della DC Comics. Più recentemente, “Zoom or Doom” è il nome di un videogioco basato sulle corse automobilistiche. “Doom” significa anche destino avverso, sorte tragica.

(10) Qui Dylan ripercorre la scaletta dell’album: “Why did I buy those blue pjyamas” è un verso di “I Guess I’ll Have to Change My Plans”, il brano che apre il primo disco di Triplicate, mentre “Why Was I Born” è il titolo della canzone che conclude il terzo disco.

(11) Sta citando un verso di “Rabbit Foot Blues”, di Blind Lemon Jefferson.

(12) Nel testo originale “A fire in the fireplace could burn your place down”, parodiando un po’ le liriche della canzone di cui sta parlando.

(13) Flanagan cita i versi inziali di “Here, There and Everywhere” dei Beatles.

(14) Alan Lomax (1915-2002), etnomusicologo e produttore discografico. Studiò e raccolse musiche in quasi tutto il mondo. Dalle sue registrazioni sul campo è nata la Columbia World Library of Folk and Primitive Music, monumentale collana dedicata alle musiche folk del mondo. Nei primi anni ’50 viaggiò e raccolse testimonianze sonore anche in Italia, raccontando questa esperienza nel bellissimo libro L’anno più felice della mia vita (Il Saggiatore, 2008).

(15) Cecil James Sharp (1859-1924), musicista e compositore inglese. È considerato colui che ha ridato vita al folk inglese, recuperando e riarrangiando brani della tradizione popolare che sembravano destinati all’oblio.

(16) La Mason-Dixon è la linea di demarcazione che segna parte del confine tra quattro stati americani (Pennsylvania, Maryland, Delaware, Virginia Occidentale). Fu tracciata nel 1767 dagli astronomi inglesi Charles Mason e Jeremiah Dixon per risolvere una disputa di territori tra le colonie britanniche. Oggi, nell’uso popolare, viene usata per indicare il confine culturale tra il nord-est e il sud degli Stati Uniti.

(17) Hubert Humphrey (1911-1978) fu sindaco di Minneapolis, senatore democratico del Minnesota e Vice Presidente degli Stati Uniti sotto la presidenza Johnson. Candidato democratico alle elezioni presidenziali del 1968, perse contro il repubblicano Richard Nixon.

(18) Accadde il 12 maggio 1963. A quel tempo l’Ed Sullivan Show era uno dei programmi televisivi più seguiti e Bob Dylan un giovane cantante completamente sconosciuto (non era ancora uscito The Freewheelin’ Bob Dylan). Durante le prove del pomeriggio, Dylan eseguì quattro canzoni tra cui “Talkin’ John Birch Paranoid Blues”, pezzo satirico su una presunta cospirazione comunista ai danni degli Stati Uniti. Poco prima di andare in onda i responsabili del programma gli chiesero di eliminare quel brano, nonostante Ed Sullivan non fosse d’accordo. Dylan preferì abbandonare gli studi e non esibirsi.

(19) L’A&R (sigla da “Artists and Repertoire”) era una figura molto importante nell’industria discografica dell’epoca, il tramite tra l’artista e l’etichetta. Era lui che scopriva nuovi talenti, negoziava con gli artisti, spesso ne sceglieva il repertorio, sovraintendeva alle sedute di registrazione prendendo le decisioni più importanti.

(20) I Love Lucy, sit-com degli anni ’50 di grande successo. Nella classifica di TV Guide dei 50 migliori spettacoli televisivi di tutti i tempi è al secondo posto. Alcuni episodi andarono in onda anche in Italia nel 1960 (titolo nostrano della serie, Lucy ed io).

(21) PBS è un network americano senza pubblicità (si regge grazie a donazioni di privati e organizzazioni i cui nomi vengono riportati all’inizio di ogni programma). Il palinsesto comprende documentari di vario genere e programmi educativi per bambini.

(22) Il film era In Harm’s Way, di Otto Preminger (titolo italiano, Prima vittoria). L’incontro con John Wayne sul quel set è raccontato anche in Chronicles Volume 1. L’ex girlfriend era Bonnie Beecher, amica di Dylan dai tempi di Minneapolis. In realtà le riprese del film avvennero nell’estate 1964 (il film uscì l’anno dopo), non nel 1966 come suggerito dall’intervistatore.

(23) La registrò nel febbraio 1973, durante le session per la colonna sonora di Pat Garrett and Billy The Kid. Si trova su diversi bootleg con il titolo di “Rock Me, Mama”.

(24) Trilogy è un album di Frank Sinatra uscito nel 1980 e composto da 3 LP a tema: The Past, The Present, The Future.

(25) Dylan cita una frase di “You Got to My Head”: The thrill of the thought that you might give a thought to my plea.
(26) Cita una frase di “These Foolish Things”: The stumbling words that told you what my heart meant.
(27) Cita una frase di “It Gets Lonely Early”: When you’re all alone, all the children grown, and, like starlings, flown away.

 

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Q&A with Bill Flanagan

MAR 22, 2017

Exclusive to bobdylan.com
 

This is your third album of standards in a row – Shadows in the Night was a big surprise and a really nice one. Fallen Angels was a sweet encore. Now you really upped the ante. Did you feel after the first two, you had unfinished business?

I did when I realized there was more to it than I thought, that both of those records together only were part of the picture, so we went ahead and did these.

Why did you decide to release three discs of music at once?

It’s better that they come out at the same time because thematically they are interconnected, one is the sequel to the other and each one resolves the previous one.

Each disc is 32 minutes long – you could have put it all on 2 CDs. Is there something about the 10 song, 32 minute length that appeals to you?

Sure, it’s the number of completion. It’s a lucky number, and it’s symbolic of light. As far as the 32 minutes, that’s about the limit to the number of minutes on a long playing record where the sound is most powerful, 15 minutes to a side. My records were always overloaded on both sides. Too many minutes to be recorded or mastered properly. My songs were too long and didn’t fit the audio format of an LP. The sound was thin and you would have to turn your record player up to nine or ten to hear it well. So these CDs to me represent the LPs that I should have been making.

What’s the challenge of singing with a live horn section?

No challenge, it’s better than overdubbing them.

You like to be spontaneous in the studio, but here you’re working with tight arrangements and charts. Did that require a new way of thinking for you?

It did at first but then I got used to it. There’s enough of my personality written into the lyrics so that I could just focus on the melodies within the arrangements. As a vocalist you’re restricted within definite harmonic patterns. But you have more control within those patterns than you would if there were no boundaries whatsoever, it actually takes less thought, hardly any thinking. So I guess you could call that a new way of thinking.

At any point in the recording did you say to the musicians, “Look, we have to change this on the fly – just follow me…?”

No, that never happened. If I did that the song would fall apart, nobody would be able to follow me. Improvising would disrupt the song. You can’t go off track.

Are you concerned about what Bob Dylan fans think about these standards?

These songs are meant for the man on the street, the common man, the everyday person. Maybe that is a Bob Dylan fan, maybe not, I don’t know.

Has performing these songs taught you anything you didn’t know from listening to them?

I had some idea of where they stood, but I hadn’t realized how much of the essence of life is in them – the human condition, how perfectly the lyrics and melodies are intertwined, how relevant to everyday life they are, how non-materialistic.

Up to the sixties, these songs were everywhere – now they have almost faded away. Do they mean more to you when you hear them now?

They do mean a lot more. These songs are some of the most heartbreaking stuff ever put on record and I wanted to do them justice. Now that I have lived them and lived through them I understand them better. They take you out of that mainstream grind where you’re trapped between differences which might seem different but are essentially the same. Modern music and songs are so institutionalized that you don’t realize it. These songs are cold and clear-sighted, there is a direct realism in them, faith in ordinary life just like in early rock and roll.

It’s hard not to think of World War II when we hear some of these. You were born during the war – do you remember anything about it?

Not much. I was born in Duluth – industrial town, ship yards, ore docks, grain elevators, mainline train yards, switching yards. It’s on the banks of Lake Superior, built on granite rock. Lot of fog horns, sailors, loggers, storms, blizzards. My mom says there were food shortages, food rationing, hardly any gas, electricity cutting off – everything metal in your house you gave to the war effort. It was a dark place, even in the light of day – curfews, gloomy, lonely, all that sort of stuff – we lived there till I was about five, till the end of the war.

Between the Depression and the war, people had to swallow so much pain that songs that might sound overly sentimental to us had tremendous resonance. A line like “as a man who has never paused at wishing wells” – it might sound corny to people who haven’t lived too much. Can you get inside these songs in your 70s in a way you might not have been able to in your 20s and 30s?

Sure, I can get way inside. In my 20s and 30s I hadn’t been anywhere. Since then I’ve been all over the world, I’ve seen oracles and wishing wells. When I was young there were a lot of signs along the way that I couldn’t interpret, they were there and I saw them, but they were mystifying. Now when I look back I can see them for what they were, what they meant. I didn’t understand that then, but I do now. There is no way I could have known it at the time.

When you see footage of yourself performing 40 or 50 years ago, does it seem like a different person? What do you see?

I see Nat King Cole, Nature Boy – a very strange enchanted boy, a terribly sophisticated performer, got a cross section of music in him, already postmodern. That’s a different person than who I am now.

It seems like 20 years after the war ended, all the entertainment was about it – movies, TV shows, novels, everything from South Pacific to Hogan’s Heroes. We assume everyone shares this common vocabulary, but in fact, it’s fading from popular memory. Did you feel an urgency to rescue these songs?

Not anymore than I would try to rescue Beethoven, Brahms, or Mozart. These songs are not hiding behind a wall or at the bottom of the sea, they’re right there out in the open, anyone can find them. They’re truthful. They’re liberating.

You do some great singing here – “When the World Was Young,” “These Foolish Things” – which begs the question, if you can sing like that, why don’t you always sing like that?

Depends what kind of song it is. “When the World Was Young,” “These Foolish Things,” are conversational songs. You don’t want to be spitting the words out in a crude way. That would be unthinkable. The emphasis is different and there is no reason to force the vernacular. “An airline ticket to romantic places” is a contrasting type of phraseology, than, say, “bury my body by the highway side.” The intonation is different, more circumspectual, more internal.

Do you pick vocal approaches like an actor playing a role?

No, it’s more like hypnosis, you instill it in your mind and you keep repeating it over and over until you got it. An actor playing a role? Like who? Scatman Crothers? George C. Scott? Steve McQueen? It would probably be more like a method actor, whatever a method actor is. Remembrance of things past, I do that all the time.

One song you don’t sing perfectly is “September of My Years.” Your voice cracks on that, but fits the lyric. Did you consider fixing that or did you realize it works?

My voice cracking here and there wouldn’t bother me, bum notes or wrong chords would bother me more. On “September of My Years,” I didn’t fix anything. That would be impossible to pull off anyway because we were all in the same room playing together at the same time and there was a lot of leakage into other mics. You only fix things if you overdub the vocals separately and we didn’t do that here. If you mangle a lyric on records like this, you have to go back and start over. It’s a live recording. My voice cracking here or there just might mean it was recorded too early in the day, but it doesn’t hurt the overall effect, it wouldn’t bother me.

People called Shadows in the Night a tribute to Frank Sinatra. Did you know Sinatra had recorded all those songs when you put that record out?

Yeah, I knew he did, but a lot of other people recorded them as well, it just so happened that he had the best versions of them. When I recorded these songs I had to make believe that I never heard of Sinatra, that he didn’t exist. He’s a guide. He’ll point the way and lead you to the entrance but from there you’re on your own.

There is a famous story that you and Springsteen were invited to a dinner party at Sinatra’s house around the time you did that TV tribute to him. Had you met him before? Did you feel like he knew your stuff?

Not really. I think he knew “The Times They Are a-Changin’” and “Blowin’ In the Wind.” I know he liked “Forever Young,” he told me that. He was funny, we were standing out on his patio at night and he said to me, “You and me, pal, we got blue eyes, we’re from up there,” and he pointed to the stars. “These other bums are from down here.” I remember thinking that he might be right.

Everybody on that show did a Sinatra song except you. You sang “Restless Farewell.” How come?

Frank himself requested that I do it. One of the producers had played it for him and showed him the lyrics.

Was that the last time you saw Sinatra?

Maybe once after that.

What was the first time you saw him?

Pittsburgh, maybe ‘67 or ‘68 at the Civic Arena. He sang “Summer Wind,” “Day In, Day Out,” “Moonlight in Vermont.”

Sinatra did a lot of songs about growing old, but “The Best Is Yet to Come” is about defying age. It was the last song he ever sang on stage. How did you get inside that song? What do you think you bring to it that makes it worth your cutting?

It wasn’t difficult. I didn’t bring anything unusual to it. There are a lot of key shifts and modulations in that song and you have to slide your way in and out of them. It’s a bit of a challenge, but once you figure it out, it’s pretty easy. It’s just a straight-ahead blues-based ballad, unique in its own way. It’s like “Mack the Knife,” but nothing like “Mack the Knife.” It’s such an old-fashioned phrase, you wouldn’t think anybody could do anything with it. “The best is yet to come” could be both a threat and a promise; the lyrics sort of insinuate that even though the world is falling down, a better one is already in its place. The song kind of levitates itself, you don’t have to do much to get it off the ground. I like all of Carolyn Leigh’s lyrics too; she wrote the lyrics to “Stay with Me.”

No one can hear “As Time Goes By” and not think of Casablanca. What are some movies that have inspired your own songs?

The Robe, King of Kings, Samson and Delilah, some others too. Maybe, like, Picnic and A Face in the Crowd.

A song like “Imagination” calls for an entirely different kind of drumming than rock and roll demands. It’s not as solid in the groove, it flies around the beat. Did it take you a minute to sing to that sort of rhythm?

Yeah, but only a minute. Tommy Dorsey plays this kind of rhythm all the time. The drumming does fly around the beat because it has to, the drummer is observant to the bass line and there is a walking bass line that is ticking like a clock, like a heart palpitation. There’s a stomp to it too, that’s buried in there, almost like a Son House thing, but it’s buried so deep you hardly notice it. On the top it sounds all dreamy-like, like a pure ballad, but that can be deceiving. The melody makes this song what it is, not necessarily the drumming.

What does a drummer coming into your band need to know? What should he avoid?

No one comes into my band. I like the drummer I have now, he is one of the best around, but if he ever left me for some reason, like to join The Rolling Stones or something, I’d have to replace him. What should the guy avoid? Probably trying to get to know anybody too quick – no big cymbal crashes on the word “kick” in the song “I Get a Kick Out of You.” The drummer is not the leader, he follows the steady pulse of the song and the rhythmic phrasing. If he does that and keeps it simple, he doesn’t have to avoid anything.

What drummers do you like?

Lots of them, Krupa, Elvin Jones, Fred Below, Jimmy Van Eaton, Charlie Watts. I like Casey Dickens, the drummer who played with Bob Wills. There are a lot of great drummers.

You had a lot to do with songwriters singing and singers writing – ever think it would have been better for people to keep their jobs separate?

Maybe some, but I can’t say who offhand. There’s a lot of great singers who write weak songs and a lot of great songwriters who don’t sing. Trouble for them is they don’t have the outlets we used to have – nowhere to place these songs, no movies, no radio shows, TV variety shows, recording sessions, programs that were always calling for songs. So they have to sing them themselves. Songwriters have to have a reason to write songs, there has to be some purpose to performing it too. And sometimes it doesn’t connect. There is no magic formula to make that happen. All the standards on Triplicate have been written by more than one person, different combinations of people, and none of the singers who originally recorded them wrote them. If you can write your own songs, that’s ideal, but nobody will fault you if you don’t. Barbara Streisand and Tom Jones don’t.

“Make You Feel my Love” has become a new standard – it’s been covered by Adele, Garth Brooks, Billy Joel. Any version that knocked you out?

Yeah, one after the other, they all did.

“Braggin’” was done by Duke Ellington in 1938 – it’s the sort of big band swinging blues that led directly to rock and roll. As a kid, did rock and roll feel like a new thing to you or an extension of what was already going on?

Rock and roll was indeed an extension of what was going on – the big swinging bands – Ray Noble, Will Bradley, Glenn Miller, I listened to that music before I heard Elvis Presley. But rock and roll was high energy, explosive and cut down. It was skeleton music, came out of the darkness and rode in on the atom bomb and the artists were star headed like mystical Gods. Rhythm and blues, country and western, bluegrass and gospel were always there – but it was compartmentalized – it was great but it wasn’t dangerous. Rock and roll was a dangerous weapon, chrome plated, it exploded like the speed of light, it reflected the times, especially the presence of the atomic bomb which had preceded it by several years. Back then people feared the end of time. The big showdown between capitalism and communism was on the horizon. Rock and roll made you oblivious to the fear, busted down the barriers that race and religion, ideologies put up. We lived under a death cloud; the air was radioactive. There was no tomorrow, any day it could all be over, life was cheap. That was the feeling at the time and I’m not exaggerating. Doo-wop was the counterpart to rock and roll. Songs like “In the Still of the Night,” “Earth Angel,” “Thousand Miles Away,” those songs balanced things out, they were heartfelt and melancholy for a world that didn’t seem to have a heart. The doo-wop groups might have been an extension, too, of the Ink Spots and gospel music, but it didn’t matter; that was brand new too. Groups like the Five Satins and the Meadowlarks seemed to be singing from some imaginary street corner down the block. Jerry Lee Lewis came in like a streaking comet from some far away galaxy. Rock and roll was atomic powered, all zoom and doom. It didn’t seem like an extension of anything but it probably was.

On songs like “Bye and Bye” and “Moonlight,” you were working with pop styles from the early days of movies and recording. “Duquesne Whistle” was a swing number that Duke Ellington could have done. Do you think those songs laid the groundwork for these recent albums?

Yeah, I think so, those two songs and “Sugar Baby,” too. “Duquesne Whistle” actually started out at as a Fats Waller song, “Jitterbug Waltz.” I altered it somewhat but that was the blueprint. But yeah, those earlier tunes did lay the groundwork for songs like “But Beautiful” and “It Gets Lonely Early,” which are both on Triplicate. I didn’t want to tamper with them so I sang them the way they were.

Some records are social, good for parties and dancing. Some records are great in the car. This is an album made for late nights, solitude and reflection. When you find yourself in that place, what records do you reach for?

Sarah Vaughan’s My Kinda Love. Also the one she did with Clifford Brown.

The first two discs are fun, but it’s on the third disc that you really get into the heart-bearing stuff, and your best singing. Why save the best for last?

It seems that way because it’s a human story that builds to a climax and it’s personal from end to end. You start out wondering why you bought those blue pajamas and later you’re wondering why you were born. You go from the foolishly absurd to the deadly serious and you’ve passed through the gaudy and the nasty along the way. You get to the edge and you’re played out and you wonder where’s the good news? Isn’t there supposed to be good news? It’s a journey like the song “Skylark,” where your heart goes a-journeying over the shadows and the rain. And that’s pretty much it. It’s a journey of the heart. The best had to be saved for last.

I noticed that if you had an odd song that didn’t seem to fit with the rest of the album, you put it first – “Rainy Day Women,” “John Wesley Harding,” the Johnny Cash duet of “Girl from the North Country,” “All the Tired Horses,” “Tweedle Dee & Tweedle Dum.” It’s like, “here’s a strange song” – and then the album begins. Why do you do that?

I don’t think “Tweedle Dee & Tweedle Dum” is a strange song at all, by any measure. I think it was pretty standard then and I think the same now, so that particular song could go anywhere. But the rest of them, most likely I did wonder what can I do with this, it doesn’t seem to fit anywhere. I probably did put these songs first and got them out of the way. Not sure about “Rainy Day Women,” though, I think it was like a bell tower announcement of what was to come. “All the Tired Horses” was only a mood piece, like a prelude, but the others would have broken up the flow of the rest of the songs on the record.

“There’s a Flaw in My Flue,” it’s a very weird song – it feels like a parody of a certain kind of torch song, especially the line “smoke gets in my nose.” Do you think Sammy Kahn was goofing when he wrote it?

No, I don’t think so. I think it’s a sincere romantic ballad. Smoke getting in my nose could be metaphorical, but it’s also very real at face value. There are a lot of lines like that in blues and folk music, “My bucket’s got a hole in it,” “there are stones in my passway,” “my motor don’t turn,” “there’s a ring in my tub,” “there’s smoke in my nose.” It’s not unlike a Blind Lemon line, “it’s been a meatless and wheatless day.” Sure, it’s a romantic ballad, but I don’t think it can be dismissed that easily. A fire in the fireplace could burn your place down.

What gives this song life and what all those other songs lack, is an exquisite melody which intertwines with the words, perfectly. I’ve seen images in my fireplace too. I’ve always thought that the line in “My Funny Valentine,” “are you smart,” is a goofy line. I kind of look at it this way – the melody in this song is kind of like the background in the Mona Lisa painting, a mystical, phantasmagorical fantasy land. To me that’s the real painting, like a science fiction world. The person looking at me is just a face, I can’t tell if she’s smiling or sneering, she has no particular spiritual nature. I’m not even convinced she’s a woman, but I’m captivated by the background, the melody. It’s kind of like this song, where you might see that “there’s a flaw in my flue” and not look past it or hear past it. I think it’s a great song, not goofy at all.

You’ve been spending a lot of time in all these old songs. Do you think the next song you write will be influenced by them?

I doubt it. These melodies are so structured in musical theory, they’re so tricky with time signatures and shifting melodies, that it’s beyond me. It’s hard to be influenced by any of it if you’re not familiar with that world. I could be influenced by a part of a melody or a phrase, but that would be about it. I don’t think I’d be influenced by anything lyrically.

Would you ever want to write songs specifically for someone who works in this style? Diana Krall or Harry Connick? Ever thought of writing a song for Tony Bennett?

No, I’ve never thought about writing a song for Tony. He’s never asked me and I don’t think I could even if he did.

A lot of singers leave off the intros when they record these songs, but you did them – “September of My Years,” “P.S. I Love You,” “When the World Was Young.” The Beatles occasionally wrote an intro to a song (“to lead a better life, I need my love to be here…”) but hardly any other composers of your generation or after did. Have you ever done it?

I’ve never done it. I think you have to put those in last after you write the song. I’ve always liked the one from “Mr. Blue,” the one where our guardian star lost all his glow. That’s one of the most beautiful intros. There’s an intro to “Stardust,” too, that nobody ever does. We call it an intro, but back then they called it the verse. What we call the song, they called the refrain. “Stardust” doesn’t need it, but “September of My Years” does. The song doesn’t make sense without it.

The Beatles also wrote a song called “P.S. I Love You.” “Tossin’ and Turnin’” by Bobby Lewis repurposed “I Couldn’t Sleep a Wink Last Night.” The first ten years of rock songwriters were students of the music that came before – but from about 1970 on, all the new rockers knew was rock, maybe a little blues. What was lost?

From 1970 till now there’s been about 50 years, seems more like 50 million. That was a wall of time that separates the old from the new and a lot can get lost in this kind of time. Entire industries go, lifestyles change, corporations kill towns, new laws replace old ones, group interests triumph over individual ones, poor people themselves have become a commodity. Musical influences too – they get swallowed up, get absorbed into newer things or they fall by the wayside. I don’t think you need to feel bummed out though, or that it’s out of your clutches – you can still find what you’re looking for if you follow the trail back. It could be right there where you left it – anything is possible. Trouble is, you can’t bring it back with you, you have to stay right there with it. I think that is what nostalgia is all about.

Some people would call Triplicate nostalgic.

Nostalgic? No I wouldn’t say that. It’s not taking a trip down memory lane or longing and yearning for the good old days or fond memories of what’s no more. A song like “Sentimental Journey” is not a way back when song, it doesn’t emulate the past, it’s attainable and down to earth, it’s in the here and now.

The way you do “Sentimental Journey” reminds me a little of Roger Miller – it’s kind of a folk song, isn’t it?

Yeah, kind of, it’s in that realm, it’s like a song Lead Belly might have written. There are a lot of songs like that – “Moanin’ Low,” “He’s Gone Away,” “I Got It Bad and That Ain’t Good.” The writers of those songs were folk and blues influenced.

Some of these songs are very sentimental, a lot deal with heartbreak. I won’t ask you who, but tell me – is there a real woman you picture when you sing some of these? More than one?

Real? Of course they’re real. I hope so.

Tell me about working with the arranger, James Harper. What direction did you give him? “Stormy Weather” gets a really elaborate arrangement – a dramatic drone, like a submarine resolving into Hawaiian guitar. Did he bring in anything that made you say, “It’s too much, dial it back?”

Maybe a couple of times the trumpet was too shrill, and had to be dialed back. But outside of that, he didn’t need much direction. I can’t arrange horn parts anyway. In a situation like that, you don’t want to direct anybody. You have to have confidence in their ability, you have to know they’re capable. I didn’t want to have to get in James’s way. I wouldn’t have hired him if I did. He orchestrated “Stormy Weather” flawlessly and that’s a hard song to do because so many people have done it.

“My One and Only Love” is a rewrite of a song called, “Music from Beyond the Moon.” The original version was a flop, so a new lyricist came in and put in a whole new set of words to the melody and the second time it was a hit. When that happens with folk or blues songs, it’s called the folk tradition; when it happens with rock songs, people yell about plagiarism; in hip hop, it’s sampling. But it has always gone on in every form of music, hasn’t it?

I’m sure it has, there’s always some precedent – most everything is a knockoff of something else. You could have some monstrous vision, or a perplexing idea that you can’t quite get down, can’t handle the theme. But then you’ll see a newspaper clipping or a billboard sign, or a paragraph from an old Dickens novel, or you’ll hear some line from another song, or something you might overhear somebody say just might be something in your mind that you didn’t know you remembered. That will give you the point of approach and specific details. It’s like you’re sleepwalking, not searching or seeking; things are transmitted to you. It’s as if you were looking at something far off and now you’re standing in the middle of it. Once you get the idea, everything you see, read, taste or smell becomes an allusion to it. It’s the art of transforming things. You don’t really serve art, art serves you and it’s only an expression of life anyway; it’s not real life. It’s tricky, you have to have the right touch and integrity or you could end up with something stupid. Michelangelo’s statue of David is not the real David. Some people never get this and they’re left outside in the dark. Try to create something original, you’re in for a surprise.

Jazz musicians have always played standards, no matter what else they were up to. “Why Was I Born” and “My One and Only Love” were recorded by John Coltrane. Coltrane was playing in the Village at the same time you were. Did your paths ever cross?

I saw him at The Village Gate on Bleecker Street a couple of times with Jimmy Garrison and McCoy Tyner.

A few years ago I went to one of your concerts and found myself sitting next to Ornette Coleman. After the show I went backstage and there were some very famous rock musicians and actors waiting around, but the only person you invited into your dressing room was Ornette. Do you feel a connection with those jazz guys?

Yeah, I always have. I knew Ornette a little bit and we did have a few things in common. He faced a lot of adversity, the critics were against him, other jazz players that were jealous. He was doing something so new, so groundbreaking, they didn’t understand it. It wasn’t unlike the abuse that was thrown at me for doing some of the same kind of things, although with different forms of music.

I can’t imagine you writing a song as vulnerable and sentimental as “Where Is the One.” Do some of these songs allow you to go to a place you can’t go in your own writing?

Sure they do. I would never write “Where Is the One,” but it’s as if it was written for me, so I didn’t have to write it. It’s a tough place to get to, it’s vulnerable and protected. You’d have to be like the invisible man to get through, or you’d have to batter down walls, strip yourself naked, and then even if you did get in you’d have to wonder what’s the point. Someone else has been here and gone and took everything. Someone else had to write this song for me. Its nerves are too raw. You leave yourself too open. I’d rather not go there, especially to write songs.

Do you ever sit at the piano and come up with a great melody that is out of your range as a singer? Ever write songs with another singer in mind?

I play variations of contrasting themes on piano and if I extend that into higher or lower octaves, the melody does get sometimes out of my range. But I’m not trying to sing anything, I’m just playing a melody. As far as other singers go, I never write a song with another singer in mind.

For the last few years you’ve mostly been playing piano on stage, very little guitar. How come?

I play at sound checks and at home, but the chemistry is better when I’m at the piano. It changes the dynamics of the band if I play the guitar. Maybe it’s just too tedious to go back and forth from one to the other. I’m strictly a rhythm player anyway. I’m not a solo player and when the piano gets locked in with the steel guitar, it’s like big band orchestrated riffs. That doesn’t happen when I’m playing guitar. When I play guitar it’s a different band.

Tough to take on “Stardust” after Willie. Did you think about his version?

“Stardust” is a dance ballad and I played it like that. I was thinking about Artie Shaw.

An awful lot of greats have died in the last year, Muhammad Ali, Merle Haggard, Leonard Cohen, Leon Russell. Any of them hit you especially hard?

Sure, they all did – we were like brothers, we lived on the same street and they all left empty spaces where they used to stand. It’s lonesome without them.

You’ve known so many legendary musicians, actors, writers – was there anyone you look back on and say, “Man, I wish I had appreciated how great he was when he was still around?”

I can’t say who’s great or who isn’t. If somebody does achieve greatness it’s only for a minute and anyone is capable of that. Greatness is beyond your control – I think you get it by chance, but it’s only for a short time.

Some of your opening acts and co-bills, even very big names, have expressed disappointment that you don’t hang out or socialize on the road. Why is that?

Beats me – why would they want to hang out with me anyway? I hang out with my band on the road.

For The New Basement Tapes, T Bone Burnett put together a group with Elvis Costello, Rhiannon Giddens, Jim James, Marcus Mumford and Taylor Goldsmith, to finish songs based on old lyrics of yours. Did you hear any of those songs and say, “I don’t remember writing that?”

Did you say Taylor Swift?

Taylor Goldsmith.

Yeah, OK. No, I don’t remember writing any of those songs. They were found in an old trunk which came out of what people called the Big Pink house in Woodstock,

mostly lyrics left over when we were recording all those Basement Tapes songs.

T Bone said he could do something with them, said he could finish them. I didn’t remember anything about them. For years I thought we’d used them all.

You’ve had all sorts of celebrated people in your audience – presidents, kings, a pope, movie stars, the Beatles, Muhammad Ali. Anyone make you nervous?

All of them.

I heard you and George Harrison were once supposed to do a recording session with Elvis, but he never showed up. What’s the real story?

He did show up, it was us that didn’t.

Warren Beatty says he wanted you to play Clyde Barrow in Bonnie and Clyde. Did that offer get to you?

No, the offer was sent to my manager’s office and we weren’t speaking; we had had a falling out. I didn’t get any mail or offers that were sent there.

You could have had some love scenes with Faye Dunaway – any regrets?

Nope.

Let’s talk about singer songwriters. Are there qualities that make English songwriters different from American, or Southern songwriters different from, say, Canadian?

You got me. If I was an anthropologist maybe I could tell you, but I really have no idea. Everybody crosses cultures and time zones and nations now anyway. You know who could probably tell you? Alan Lomax, or maybe Cecil Sharp, one of those guys.

When you write a song about a contemporary person, Hurricane Carter, or Joey Gallo, or George Jackson, or Catfish Hunter – do you then have to deal with their relatives calling you up and asking for favors?

Not often. Willie McTell’s niece came to see me once and showed me some old photographs. She didn’t want anything, she was just a nice person.

Which one of your songs do you think did not get the attention it deserved?

“Brownsville Girl,” or maybe “In the Garden.”

You’ve traveled a lot for a long while. Is there still something that makes Minnesota different from other places? Is there any quality people have there that you don’t find elsewhere?

Not necessarily. Minnesota has its own Mason Dixon line. I come from the north and that’s different from southern Minnesota; if you’re there you could be in Iowa or Georgia. Up north the weather is more extreme – frostbite in the winter, mosquito-ridden in the summer, no air conditioning when I grew up, steam heat in the winter and you had to wear a lot of clothes when you went outdoors. Your blood gets thick. It’s the land of 10,000 lakes – lot of hunting and fishing. Indian country, Ojibwe, Chippewa, Lakota, birch trees, open pit mines, bears and wolves – the air is raw. Southern Minnesota is farming country, wheat fields and hay stacks, lots of corn fields, horses and milk cows. In the north it’s more hardscrabble. It’s a rugged environment – people lead simple lives, but they lead simple lives in other parts of the country too. People are pretty much the same wherever you go. There is good and bad in most people, doesn’t matter what state you live in. Some people are more self-sufficient than other places – some more secure, some less secure – some people mind their own business, some don’t.

Did you grow up around a lot of Indians?

No, they lived on the reservation, hardly ever came to town, had their own schools and whatnot.

Were you into hunting or fishing?

I went into the woods with my uncle, my mother’s brother – he was an expert hunter and tried to teach me. But it wasn’t for me, I hated it.

How about fishing?

Oh sure, everybody did that, bass, sturgeon, flatheads, lake trout, we caught and cleaned them too.

Were you into guns?

Single shot revolvers, nothing automatic. Shooting pellet guns through 2x4s, that was fun. A pellet gun is as lethal as a .22.

Hubert Humphrey was a big figure in Minnesota when you were growing up. Did you ever see him in person or meet him?

I never did, never saw him.

When you first fell in love with rock and roll, did you have a pal who shared your enthusiasm? Anyone you tried to write songs with as a teenager?

Only my girlfriend. I strummed my guitar and we’d make up new lyrics to other songs. I was playing in rock and roll bands around town too, but somewhere along the way I had had an epiphany. I had heard Lead Belly and Josh White and that changed everything.

What was Minneapolis like when you first came there?

Minneapolis and St. Paul – the Twin Cities, they were rock and roll towns. I didn’t know that. I thought the only rock and roll towns were Memphis and Shreveport. In Minneapolis they played northwest rock and roll, Dick Dale and the Ventures, The Kingsmen played there a lot, The Easy Beats, The Castaways, all surf bands, high voltage groups. A lot of Link Wray stuff like “Black Widow” and “Jack the Ripper,” all those northwest instrumentals like “Tall Cool One.” “Flyin’ High” by the Shadows was a big hit. The Twin Cities was surfing rockabilly – all of it cranked up to ten with a lot of reverb; tremolo switches, everything Fender – Esquires, Broadcasters, Jaguars, amps on folding chairs – the chairs even looked Fender. Sandy Nelson drumming. “Surfing Bird” came out of there a little while later, it didn’t surprise me.

Did it make you want to consider changing your direction?

I was traveling down a different path and already my consciousness had been recast. I had heard Lenny Bruce and Lord Buckley and had read Ginsberg and Kerouac, so I had a heightened sense of being. I was hanging out with a different crowd too, more stimulating and free-spirited – real live poets, rebel girls, folk singers – it was a self-ruling world, aloof and detached from the mainstream. I had been bailed out of the past and had broke free, I wasn’t going to go back to that other place with button down shirts and crew cuts for anyone or anything. What I was listening to on my little portable record player was Gus Cannon, Memphis Minnie, Sleepy John Estes, players like that. Charlie Poole, too, and even Joan Baez. I was looking for my identity and I knew it was in there somewhere.

What do you think of Joan Baez?

She was something else, almost too much to take. Her voice was like that of a siren from off some Greek island. Just the sound of it could put you into a spell. She was an enchantress. You’d have to get yourself strapped to the mast like Odysseus and plug up your ears so you wouldn’t hear her. She’d make you forget who you were.

Back in the beginning of your career, you walked off The Ed Sullivan Show. It was a live show; were all your friends and family back in Minnesota sitting around the TV waiting for you to appear?

I doubt it, they wouldn’t have known me by name anyway. I don’t even think they would have known my face. If they saw my name in the TV listings, they wouldn’t know it was me. Wouldn’t know it was the boy who used to live there.

A lot of other songwriters have mentioned you in their songs – John Lennon in “Yer Blues,” Ricky Nelson in “Garden Party,” David Bowie in “Song for Bob Dylan.” It’s quite a list. Do you have a favorite?

“Garden Party.”

In Don McLean’s “American Pie,” you’re supposed to be the jester.

Yeah, Don McLean, “American Pie,” what a song that is. A jester? Sure, the jester writes songs like “Masters of War,” “A Hard Rain’s a-Gonna Fall,” “It’s Alright, Ma” – some jester. I have to think he’s talking about somebody else. Ask him.


Tom Wilson is kind of a mysterious figure, not much is known about him. What did he bring to the party as a producer?

Tom was a jazz guy, produced a lot of jazz records, mostly Sun Ra. I just turned around one day and he was there. Nowadays they’d call him a producer, but back then they didn’t call him that; he was a typical A&R man, responsible for your repertoire. I didn’t exactly need a repertoire because I had songs of my own, so I didn’t know what an A&R man did. Somebody had to be there from the record company to communicate with the engineer. Back then I don’t think I was ever allowed to talk to an engineer. The board was simple – two, at the most four, tracks. In those early years you went into the studio and recorded live, take after take. If someone made a mistake you had to start over, or you just had to work your way through a song until you got the right version. Nobody at the major recording studios was doing Brian Wilson and Phil Spector type records, bouncing tracks around, freeing up other tracks.

Tom was Harvard-educated but he was street-wise too. When I met him he was mostly into offbeat jazz, but he had a sincere enthusiasm for anything I wanted to do, and he brought in musicians like Bobby Gregg and Paul Griffin to play with me. Those guys were first class, they had insight into what I was about. Most studio musicians had no idea, they hadn’t listened to folk music or blues or anything like that. I think working with me opened up Tom’s world too, because after working with me he started recording groups like The Velvet Underground and The Mothers of Invention. Tom was a genuinely good guy and he was very supportive.

What format do you listen to music on? Do you stream music?

I listen on CDs mostly.

Heard any good records lately?

Iggy Pop’s Après, that’s a good record. Imelda May, I like her. Valerie June, The Stereophonics. I like Willie Nelson and Norah Jones’ album with Wynton Marsalis, the Ray Charles tribute record. I liked Amy Winehouse’s last record.

Were you a fan of hers?

Yeah, absolutely. She was the last real individualist around.

How old were you when your family got their first TV? What shows made an impression on you?

I was about 14 or 15 when we got one, my dad put it in the basement. It came on at 3:00 and went off at 9, most of the other time it showed a test pattern, some kind of weird circular symbol. The reception wasn’t that good, there was a lot of snow on the screen and you always had to adjust the antenna to get anything to come in. I liked everything I saw – Milton Berle, Sid Caesar, Highway Patrol, Father Knows Best. There were theater dramas, too, like Studio One, Fireside Theatre. Quiz shows, too – Beat the Clock, To Tell the Truth, Queen for a Day, they were all good. There was one called You Are There with Walter Cronkite, The Twilight Zone, there were a bunch of them.

When you’re on your bus, what shows do you watch on TV?

I Love Lucy, all the time, non-stop.

Every time I turn on PBS, they’re running another documentary about folk music in the 60s and all sorts of people from that scene are talking about you like you were best friends. Does that bug you?

I don’t know, maybe we were best friends. I don’t remember.

In 1966 you had the wildest hair anybody had ever seen. Could you slick it down and go out and no one would recognize you?

Yeah, but I wouldn’t have wanted to do that. I was trying to look like Little Richard, my version of Little Richard. I wanted wild hair, I wanted to be recognized.

You met John Wayne in 1966 – how did you two hit it off?

Pretty good actually – the Duke, I met him on a battleship in Hawaii where he was filming a movie, he and Burgess Meredith. One of my former girlfriends was in the movie too, and she told me to come over there; she introduced me to him and he asked me to play some folk songs. I played him “Buffalo Skinners,” “Raggle Taggle Gypsy,” and I think “I’m a Rambler, I’m a Gambler.” He told me if I wanted to I could stick around and be in the movie. He was friendly to me.

“Wagon Wheel” was an old unfinished song of yours that got picked up and completed by Old Crow Medicine Show, who had a hit with it. Since then it’s been covered by Mumford and Sons. Darius Rucker’s version won a Grammy. Are you ever going to record it?

I did record it, it’s on one of my old bootleg records. I recorded it with Roger McGuinn and Rita Coolidge and Booker T, at a movie studio in Hollywood. That’s where they got it, it just had a different title.

Speaking of Hollywood, that’s where you made Triplicate.

That’s right. At the Capitol Studios.

The title Triplicate brings to mind Sinatra’s trilogy. Did that album have any influence on this one?

Yeah, in some ways, the idea of it. I was thinking in triads anyway, like Aeschylus, The Oresteia, the three linked Greek plays. I envisioned something like that.

Each of the three discs tells a different story. Did you set out knowing it was going to be that way or did the themes reveal themselves as you went along?

The themes were decided beforehand in a theatrical sense – grand themes, each of them incidental to survivors and lovers or better yet, wisdom and vengeance, or maybe even exile – one disc foreshadowing the next and I didn’t want to give any one song preeminence over any other. No old wives’ tales and memoirs, but just hard plain earthly life, the hidden realities of it. That’s my perception.

Did you think about it all in that exact way?

No, not in so many words, but I think subconsciously I did.

Were there songs you considered but left off because they didn’t fit any of the three stories?

Yeah there were; “I Cover the Waterfront,” “Moonlight in Vermont,” “Let’s Face the Music and Dance.”

Any tracks here where you came in with one approach and ended up with something completely different?

No, that happens more with my songs. A couple of times I picked the wrong approach to a song I wanted to do; “Deep in a Dream,” I recorded that but it didn’t resonate so I didn’t use it. It was the wrong approach to begin with.

What’s a line or lyric here that you would never write, but you’re glad someone else did?

Lots of them… “The thrill of the thought that you might give a thought to my plea,” “the stumbling words that told you what my heart meant,” “when you’re all alone, all the children grown, and, like starlings, flown away.” I’m glad someone else wrote these lines. I never would.

From the 20s into the early 50s, the line between blues and pop and country and jazz was very flexible. Robert Johnson, Jimmie Rodgers, Bing Crosby, Ray Charles, all tried their hand at everything. Why do fences come up between different styles of American music?

Because of the pressure to conform.

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Un doveroso e sentito ringraziamento agli amici Silvano Cattaneo ed Alessandro Cavazzuti per aver fatto questa lunga traduzione a beneficio di tutti i lettori di Maggie's Farm