Bob Dylan l'inafferrabile
di Alessandro Carrera

Un grazie di cuore ad Alessandro Carrera per questo suo articolo originariamente scritto per il Ravenna Festival
 

Nella città norvegese di Trondheim, in cima a una cattedrale che risale al dodicesimo secolo, verso la fine degli anni Sessanta venne eretta una statua, opera dello scultore Kristofer Leirdal. La statua raffigurava l’arcangelo Michele, colui che, secondo l’Apocalisse, alla fine dei tempi guiderà gli angeli nella battaglia definitiva contro le forze del male. Il volto dell’angelo alato non si poteva distinguere dal suolo, ma chi aveva avuto modo di osservarlo da vicino aveva notato una sua strana rassomiglianza con la figura di Bob Dylan. Ci sono voluti più di trent’anni perché l’autore della scultura si decidesse ad ammettere che si era ispirato davvero al viso di Bob Dylan, perché Dylan rappresentava l’America che si opponeva alla guerra del Vietnam e perché gli sembrava appropriato porre un grande poeta in cima al campanile di una cattedrale. Era il 1969. A quell’epoca Dylan viveva in una casa di campagna vicino a Woodstock, vecchia colonia di artisti progressisti, ma registrava i suoi dischi a Nashville, nel cuore dell’America conservatrice, e si guardava bene dal menzionare la parola “Vietnam”, che pure gli era stata sollecitata per anni da decine di intervistatori, di amici e di compagni di strada. Certo non appoggiava la guerra, ma aveva deciso che non si sarebbe più fatto intrappolare da nessuna causa e da nessun movimento, per quanto nobili potessero apparire, anche a costo di passare per insensibile o per cinico.
Come sappiamo, non avrebbe mantenuto la promessa. Altre crociate l’avrebbero sedotto nel corso degli anni: quella per il pugile Rubin Carter nel 1975, seguita dalle tournées evangeliche del 1979-1981, durante la sua breve conversione al cristianesimo. Ma da allora sono passati vent’anni, e Dylan si è fatto più accorto. Non ha sposato più nessuna causa se non quella della sua musica, e della musica popolare da cui trae ispirazione. Ma è una crociata anche la sua ostinata fedeltà alla tradizione. Non è meno impegnativa delle precedenti ed è anch’essa, a suo modo, una battaglia combattuta dagli angeli. Quando Dylan, ad apertura dei suoi concerti, intona canzoni bluegrass come Searching for a Soldier’s Grave o This World Can’t Stand Long, chiama a raccolta proprio quel suolo dell’America dove sono stati sepolti gli anonimi cantori di canti impossibili, coloro che in questo mondo non potevano vivere e che dopo morti non possono morire.
A sessant’anni compiuti, Dylan è uno strano arcangelo Michele, sopravvissuto alla sua stessa apocalisse. Si aggira per il mondo prestando molta attenzione a nascondere i suoi raggi, o facendoli balenare con estrema discrezione. Nel capitolo 20 del Tao-te-Ching, Lao Tze propone un ritratto del filosofo scontroso che sembra un ritratto di Dylan. Quando tutti hanno più di quello che sarebbe sufficiente, è proprio allora che a lui pare di aver perso tutto. Quando tutti stanno a loro agio sotto il sole, è proprio allora che lui se ne sta all’ombra. Quando tutti sono più certi di vederci chiaro, è proprio allora che lui gira gli occhi intorno come un miope. E nel capitolo 77 aggiunge che il filosofo scontroso agisce, ma dal suo agire non trae nessuna sicurezza. Quando un’opera è compiuta non si sofferma a contemplarla. Non è una citazione troppo lontana dai gusti dylaniani. Non si creda di indovinare quali sono le sue letture. In un’intervista apparsa su “Rolling Stone” del 22 novembre 2001, il giornalista Mikal Gilmore gli ha chiesto se voleva commentare gli eventi dell’ 11 settembre (lo stesso giorno in cui è uscito il suo ultimo album, Love and Theft). Dylan ha risposto:

Davvero non so cosa potrei dirle. Non mi considero né un educatore né uno che sa spiegare le cose. Quello che faccio lo vede, ed è quello che ho sempre fatto. Ma ora è il momento che si facciano avanti dei grandi uomini. In un momento come questo, niente di grande si potrà fare con piccoli uomini. Quelli che sono al potere, sono sicuro che hanno letto Sun Tzu, che ha scritto l’Arte della Guerra nel sesto secolo [a.C.]. È quel passaggio dove dice: “Se conosci il nemico e conosci te stesso, non devi aver paura neanche di cento battaglie. Se conosci te stesso e non il tuo nemico, per ogni vittoria soffrirai una sconfitta”. Chiunque siano quelli che comandano, sono sicuro che l’hanno letto.

Ne è sicuro, così dice, e non sta facendo dell’ironia. Ma è proprio perché non fanno dell’ironia che i processi di pensiero dylaniani tagliano la carne fino all’osso. Forse Colin Powell ha letto Sun Tzu; dopotutto è il più antico trattato di strategia militare mai scritto. Più difficile è immaginarsi George W. Bush che lo legge. Ed ecco che ci sembra di sentire la seconda parte dell’argomentazione di Dylan, quella non detta: “Ma se non conosci queste cose, se non le mediti, come pensi di poter essere un capo, come pensi di non essere solo un piccolo uomo?”
Dylan ha compreso come nessun altro che se vuoi celarti alla pressione delle folle e dei media la cosa migliore è farlo en plen air, dicendo cose incomprensibili come se fossero scontate e cose scontate come se fossero incomprensibili. Dylan, che fa in media centoventi concerti all’anno, e che ad ogni concerto viene fotografato senza permesso, registrato clandestinamente, immediatamente diffuso in Internet e contrattato da una vasta cerchia di appassionati che dedicano a lui almeno un’ora al giorno tutti i giorni, se non di più, come a una nuova, inflessibile religione che richiede preghiere e riti giornalieri, è riuscito, in tutti questi anni, a rimanere invisibile e incomprensibile. “C’è gente che mi vede tutti i giorni, e ancora non sa come comportarsi con me”, canta in Idiot Wind, del 1975. C’è qualcosa di disperante perfino nello scorrere le sue fotografie. Le guardiamo, ma non riusciamo a liberarci dalla sensazione che sia impossibile leggere il suo volto. Del resto, non è nemmeno facile capire quello che canta.
Che Dylan sottoponga la pronuncia dell’inglese a brutalità inaudite è un lungo tormento dei suoi ascoltatori. Non è sempre stato così, perché Dylan non è mai sempre in un solo modo. Ci sono periodi di maggior chiarezza di dizione, come un pittore che per una certa serie di quadri decide di usare solo colori chiari, e stagioni in cui la pronuncia è oscurata come una radio in tempo di guerra. Il 3 marzo del 2002, su “Arizona Republic”, un giornalista di nome David Leibowitz ha affermato che Dylan deve essere davvero uno dei grandi misteri dell’universo, visto che per capire le parole di Cry A While, la canzone che ha eseguito la sera del Grammy Award del 27 febbraio, ci vorrebbe la stele di Rosetta, e che per quanto lo riguarda ha provato a trascriverla, ma non è riuscito a capire niente tranne qualche parola isolata come “rooster”, “Pennsylania” o “Denver”. Per essere un candidato al premio Nobel, ha concluso Leibowitz, Dylan potrebbe essere più generoso con i suoi versi, di cui si dice un gran bene (nei giorni successivi Leibowitz ha ricevuto circa mille mail furibonde da parte di dylaniani offesi).
Ma la distorsione della voce è parte integrante dell’estetica dylaniana. Provate ad ascoltare quella strana cosa che è Return to Me, una canzone melodica che Dean Martin cantava negli anni Cinquanta e che Dylan ha inciso nel 2001 per la colonna sonora della serie televisiva The Sopranos. Return to Me comprende un’ultima strofa in italiano, poche parole senza pretese, giusto per far sentire il suono della lingua: “Ritorna a me, cara mia, ti amo, solo qui, solo qui, solo qui, sul mio cuore”. Ma Dylan “sbaglia” completamente la pronuncia di “cuore”. Lo pronuncia, più o meno, “cu-rore”. Non è che Dylan non sappia pronunciare “cuore”, se vuole. È che non vuole. È che per lui la pronuncia delle parole è un materiale musicale, come un accordo rivoltato o una scala blues. Può e deve essere trasformato a seconda delle circostanze, così come del resto farebbe un performer di musica sperimentale, e tanto peggio per la fonetica dei dizionari. Se per ipotesi Dylan fosse italiano, sentiremmo da lui ben altri attentati alla nostra lingua, molto peggio di quell’occasionale “cu-rore”.
“Non c'è mai stato più inizio di adesso, né più gioventù né vecchiaia di adesso. Non ci sarà mai più perfezione di adesso, né più inferno o paradiso di adesso.” L’ha scritto Walt Whitman nel Canto di me stesso e anche Dylan potrebbe cantarlo; di fatto lo canta ogni sera. Non ci sono due esecuzioni uguali di Boots of Spanish Leather, né ci sono due fotografie in cui il volto di Dylan sia identico. Non è una coincidenza. È la stessa cosa. Ai tempi del Village, nei primi anni Sessanta, era già così. Oggi paffuto e gioviale, domani irsuto e dagli zigomi sporgenti; ora un bambino cresciuto tra cure materne, il giorno dopo un vagabondo dalle guance scavate, affamato come uno scoiattolo. Nelle foto di quegli anni Dylan è una folla di mascelle serrate, di occhiali scuri che sembrano posarsi su nasi differenti, di arcate di labbra che percorrono ogni via, dal sorriso allo spregio. Il volto di Dylan è sempre al lavoro, è un teatro senza giorni di riposo, una performance muscolare che inizia a comporsi dalla copertina di Freewheelin’ Bob Dylan e che continua ininterrotta fino al profilo scavato, con baffetti messicani, della copertina di Love and Theft. La storia del suo volto è la storia delle sue canzoni, perché sono inafferrabili entrambi.

Pensiamo alle foto che gli scatta Daniel Kramer a metà degli anni Sessanta. Kramer lo ritrae in uno dei pochi momenti in cui Dylan si concede, mostrando come sarebbe semplice apparire, mettersi in posa, trovare l’espressione, far scattare il lampo, se per Dylan fosse un bene che tutto fosse semplice. A Woodstock, pochi anni dopo, le fotografie a colori di Elliott Landy lo colgono rasserenato (“un padre di famiglia, un uomo”, come diceva di lui perplesso Ginsberg in quegli anni), tranne per quel minimo sguardo d’assenza che annebbia la più innocua riunione di famiglia. E dopo che la riunione di famiglia è finita, dalla metà degli anni Settanta in poi, le foto di viaggi e di concerti sono infinite come le sue tournées, ma ognuna sembra un furto perpetrato ai danni di una strana cassaforte, che è sempre aperta e non si svuota mai. In Don’t Look Back, il documentario che Don Pennebaker gli aveva dedicato nel 1965, ci sembra che la cinepresa non sia letteralmente in grado di riprenderlo. In Eat the Document del 1966 e perfino in Renaldo & Clara, girato dallo stesso Dylan dieci anni dopo, la percezione che abbiamo di lui è insieme eccessiva e insufficiente. Dylan ha un corpo strano. È piccolo ma ha spalle larghe, da peso piuma. È un pugile dilettante, sfugge bene ai colpi e nel sogghigno che sfodera in scena spesso è impossibile capire se pensa che questo è un concerto che fa schifo oppure se è davvero soddisfatto di come stanno andando le cose e di come il gruppo sta suonando.
Concentriamoci sugli occhi azzurro ghiaccio, occhi russi, poco ebrei. “Ho sangue cosacco nelle vene”, ha detto una volta di se stesso. Cosa probabile, se non altro perché i cosacchi della Lituania non potevano aver mancato di usare violenza ad alcune delle sue antenate. E occhi da furetto, occasionalmente. Durante la registrazione di uno spettacolo televisivo registrato a Chicago il 10 settembre 1975, mentre canta Hurricane in onore di John Hammond, che era stato il suo primo produttore, gli occhi di Dylan si assottigliano come le pupille di un serpente. E in Angelina, una canzone del 1981, è lo stesso Dylan che canta di uno straniero misterioso che aveva due fessure per occhi “che avrebbero fatto l’orgoglio di un serpente” (“His eyes were two slits that would make a snake proud”). Oppure consideriamo i capelli incomprensibili, quelli sì discesi dagli shtetl, i villaggi ebraici delle pianure dell’Europa orientale, come li hanno narrati Israel Zangwill, i fratelli Singer o Shalom Aleichem. C’è poca America in quel viso, se l’America è il quadrato di tempie e bocca ferma ostentato da un’anima impavida agli scrosci della sorte, all work and no play. Ma c’è tutta l’America, invece, se l’America è quella che si abbracciava con lo sguardo dal ponte di un vapore che entrava nella baia di New York per attraccare a Ellis Island.
Agisce in Dylan una forma dell’apparire che ha come meta lo sparire, l’essere dappertutto cancellando le proprie tracce. Registratelo quanto volete, non avrete mai la versione definitiva di una sua canzone. Né avremo mai un suo ritratto definitivo, come quello che Man Ray fece a Picasso.
In un concerto del 1999 al Madison Square Garden, al fianco di Eric Clapton, una foto lo coglie mentre lancia uno sguardo preoccupato oltre la spalla. In poche occasioni il volto di Dylan ha mostrato con tale scolpita nettezza la ricchezza della sua stratificazione. Le due rughe che dal naso si allargano al triangolo del mento incorniciano una bocca che non ride, perché non c’è niente da ridere per chi è un errante senza posa, sordamente sospettoso di costumi e convenzioni, al sicuro solo nell’inconcepibile. Ma nel momento successivo del concerto, che il video coglie, Dylan allarga la bocca in un sorriso larghissimo, che quasi la deforma. Per un istante il taglio piatto delle labbra fin quasi alla mascella, nonché il pungolo del mento, ci ricordano una figura delle carte e dei fumetti: è il joker che perseguita ogni benintenzionato Batman, il ghigno irrisore che porta lo sconquasso contro il falso man of peace, il jokerman che danza al canto dell’usignolo, puntando in direzione della luna (Man of Peace e Jokerman sono i titoli di due canzoni di Infidels, del 1983).

Dylan ed Avedon

Essere famosi non è bello, ha scritto una volta Boris Pasternak. Cos’è tutto questo trepidare per i propri manoscritti? No, essere famosi non è bello, è solo necessario. E forse nessun fotografo ha colto l’evoluzione di Dylan con più profondità di Richard Avedon, il ritrattista per eccellenza di coloro per i quali essere famosi è necessario. Avedon ha fotografato Dylan in tre occasioni. 


La prima è stata il 4 novembre del 1963, a New York, sulla 132a Strada. Dylan aveva appena finito di registrare The Times They Are A-Changin’ e un mese prima aveva dato un trionfale concerto alla Carnegie Hall. Blowin’ in the Wind era l’inno ufficiale del movimento per i diritti civili, e il suo autore era al culmine della sua fase di folksinger, di autore di canzoni di protesta e di allievo di Woody Guthrie. Nella foto Dylan è in piedi, le mani infilate nelle tasche, un ginocchio piegato nella posa di qualcuno che non riesce a star fermo un momento, con la testa un po’ inclinata. Una penna gli spunta dal taschino della camicia a quadri e la fibbia della cintura forma una grossa “D” sui jeans stinti. Ai suoi piedi sta una custodia di chitarra piuttosto maltrattata. Sullo sfondo si vede l’East River e, sfocato in distanza, un ponte mobile che collega Manhattan al Bronx. Dylan non sorride, ma ha un’aria tranquilla e determinata. Guarda dritto nell’obiettivo come per dire: “Sono così e non altrimenti. Prendetemi”. È il personaggio che Dylan si era inventato venendo dal Minnesota, una concrezione di miti e di cliché ma anche, nel suo caso, di verità. Perché il giovane Robert Zimmerman viveva davvero la vita dell’alter ego che si era scelto, senza rimpianti e senza residui. Aveva davvero assunto su di sé l’eredità di Woody Guthrie e l’aveva aggiornata, scrostandola di ogni nostalgia e rendendola abbastanza forte per i tempi della guerra fredda, della crisi di Cuba e dell’incubo nucleare.


La seconda foto di Avedon ha luogo il 10 febbraio 1965, sul largo marciapiede che costeggia il Central Park. Non sono passati nemmeno due anni, ma sembrano dieci. Cinque giorni prima Dylan ha finito di registrare Bringing It All Back Home, il primo album nel quale, almeno nella prima facciata, abbandona l’estetica folk basata su voce-chitarra-armonica e si fa accompagnare da un gruppo rock. L’unico punto di contatto con la fotografia precedente è il ginocchio destro, inclinato nello stesso modo. Porta grossi stivali, un cappotto corto di camoscio, quasi una marsina, e una camicia abbottonata di fattura inglese, stile Carnaby Street. È ancora più magro di com’era due anni prima, ha gli occhi cerchiati e la testa quasi piegata sotto una sorta di criniera scomposta, impossibile da pettinare. Ancora una volta non ostenta traccia di un sorriso, ma lo sguardo non è né amichevole né desideroso di piacere. Il secondo ritratto di Avedon è uno studio sul prezzo di una fama e di una creatività sottoposti a un’incredibile pressione. In due anni, Dylan si è già lasciato alle spalle più di quanto capiti a un altro artista nel corso di un’intera vita. Sta per trovare il suo suono “selvatico, sottile e mercuriale”, di cui parlerà in un’intervista del 1978. Non è più disponibile per nessuno ed è, come ha scritto Michael Holborn commentando quella fotografia, “cool fino all’impossibile”.

La terza sessione con Avedon ha luogo molto tempo dopo, a Los Angeles l’11 settembre del 1997. Dylan si è appena rimesso da un’istoplasmosi, un’infezione che avrebbe potuto raggiungergli il cuore, e il suo nuovo disco, Time Out of Mind, sta per uscire. È l’album di una rinascita lungamente preparata, dopo anni nei quali la sua figura sembrava aver perso rilevanza pubblica. Con Time Out of Mind, Dylan è infine diventato ciò che si era inventato quando aveva vent’anni: qualcuno che possiede la stessa gravitas di un bluesman del Delta del Mississippi, ossessionato dall’immensità di Dio nel cielo e dalla sua assenza sulla terra. Questa volta Avedon si concentra solo sul volto: un po’ inclinato a destra come nella vecchia foto del 1963, con i capelli un poco bianchi che pendono sulla fronte, gli occhi non del tutto aperti e che guardano di sbieco. Una seconda foto mostra Dylan con gli occhi chiusi, da gatto, e con il mento appoggiato sulla sua chitarra acustica.
Ritratti vecchi e nuovi sono tutti pubblicati su “Newsweek” del 6 ottobre 1997, ma ce n’è un terzo, sempre realizzato da Avedon in quella stessa occasione e che si può vedere sul numero 76 di “Granta”. Il volto vi viene scolpito su uno sfondo bianco, la bocca è chiusa a tenere un segreto che forse si può cantare ma certo non si può dire, mentre gli occhi guardano l’obiettivo con una rinnovata aria di sfida. Proprio a questa foto, lo stesso Dylan appone una didascalia:
Sono ancora lo stesso. Sono ancora la stessa persona. Mi sento ancora la stessa persona. La musica che ascolto è ancora la stessa musica, una lunga lista di nomi di persone che non ci sono più. E loro sono stati i primi. Sono stati la traccia. Quello era il mondo che io ero venuto a cercare sulla costa dell’est, a suo modo una lunga odissea anche quella, solo a cercare di arrivarci. E queste persone di cui parlo conoscevano quelli ancora più vecchi, che c’erano stati negli anni Quaranta o nei Trenta. Le cose che facevano erano davvero sconosciute, ma loro sapevano di che si trattava e avevano la stoffa, l’avevano davvero. Io sapevo che mi sarebbe rimasta attaccata addosso. Lo sapevo eccome.

Se questa è forse una dichiarazione definitiva, e che potrebbe essere messa in esergo all’intera carriera dylaniana, la fotografia che l’ha ispirata già non lo è più. Ora è sopravanzata dalla serie di ritratti che accompagnano l’esterno e l’interno di Love and Theft. Le foto in cui Dylan ostenta i suoi già famosi baffi sembrano ritrarre qualcuno che è appena uscito da un casinò dove ha scommesso tutto quello che aveva e ne è uscito sbancando la cassa. Un giocatore di professione, forse un ladro. Il titolo dell’album, Amore e furto, è uguale a quello di un libro di Eric Lott sul fenomeno del minstrelsy, quegli spettacoli in cui attori e cantanti bianchi si truccavano la faccia di nero e mimavano le musiche e le danze dei neri. Amore e furto perché, per prendere in giro il blues, gli spiritual, il ragtime e il cake-walk, i performers bianchi dovevano pur impararli, e non potevano far finta che non gli piacessero. La cultura nera esercitava il proprio fascino più profondo precisamente su quei bianchi che credevano di rubarla impunemente. Si è sentito come loro, Dylan? O si sente così tuttora, come qualcuno che ha rubato qualcosa che non gli apparteneva, ma che almeno può dire di averlo fatto per amore?
Durante un’intervista rilasciata il 15 novembre del 1978 per “Rolling Stone”, il giornalista Jonathan Cott raccontò a Dylan che il celebre rabbino hassidim di nome Dov Baer, noto come il Maggid di Metzerich e morto nel 1772, amava ripetere che ci sono tre cose che si devono imparare da un bambino e sette che si devono imparare da un ladro. Da un bambino si deve imparare: 1) a essere sempre allegri; 2) a non stare mai con le mani in mano; 3) a gridare forte per ottenere quello che si vuole. Da un ladro si deve imparare: 1) a lavorare di notte; 2) se non si riesce a ottenere in una notte quello che si cerca, a provarci la notte dopo; 3) a rispettare i propri colleghi di lavoro, come i ladri si rispettano tra loro; 4) a metter in gioco la propria vita anche se il bottino è misero; 5) a non dar troppo valore alle cose, neanche a quelle che si rischia la vita per ottenere, proprio come un ladro che rivende un articolo rubato per una piccola parte del suo valore; 6) a sopportare le percosse e le torture pur di rimanere fedeli alla propria natura; 7) a credere nel proprio mestiere e a non volerlo cambiare con nessun altro. “È la migliore descrizione del comportamento umano che abbia mai sentito” ha commentato Dylan. “Chi ha detto queste cose è uno che mi andrebbe di seguire in capo al mondo”. Ma l’ha già fatto. Ha seguito se stesso, il gran ladro, l’uomo il cui volto, e la cui voce, sono impossibili da rubare.
Alessandro Carrera


Richard Avedon