“Nuvole su un mare di ostacoli e solipsismo”
Recensione ermetica sulla colonna sonora di “I’m not There”
di Dario "twist of fate"
Intro
Mi scuso in anticipo coi lettori per essere prolisso e partigiano, ma la
situazione e il tempo lo richiede. E mi scuso anche per la tentazione, di
quanti trovano inutili e scontati i dischi di cover. Chi vi scrive non la
pensa così e del resto la storia del rock sembra basata anche su riletture
magistrali, che a volte annullano l’originale.
Music from the motion picture I’m not there
Ovvero: tutto quello che il film di Haynes non aveva potuto-voluto mostrare.
Ritroviamo nella colonna sonora, qualcosa come il sessanta per cento della
musica che nella pellicola non abbiamo il piacere o il dispiacere di
ascoltare…
Un po’ perche’, chi avrebbe preferito la versione di Memphis blues again di
Cat Power, un po’ perche’ di che se ne dica, era pur sempre il film su Dylan
e con il benestare di Sua Bobbita’.
Anche qui Dylan fa la sua breve comparsa, (come nel film), con un prezioso
inedito, finalmente riesumato da quella monumetale opera che e’ poi Basement
Tapes. Ovvio che un fan di Dylan che si rispetti già la conosceva per via
della versione reperibile sul quintuplo Genuine Basement Tapes, dove si
trovava appunto questo diamante grezzo che e’ I’m not there (1954).
Ma resta comunque questa la sede ufficiale dove possiamo per la prima volta
ascoltare il brano, senza sentirci dei pirati sonori. E qualche anziano
dotto professore forse preferira’ ancora questa veste da orbo profeta. Non
certo io, che timbro il cartellino e controllo ordinazioni da iTunes col mio
nuovo Mac… E del resto anche Bob era d’accordo, e allora sia pure “Think
Different, baby!”
Giorni di pioggia, giorni dove neppure le sue piccole mani hanno guanti
cosi’ belli. Sara’ l’amore o il cielo d’Irlanda a parlare e io solo a
trascriverlo? Ma restiamo in tema…
Apre le danza la granitica resa di All along the watchtower ad opera di
Eddie Vedder and The Million Dollar Bashers, dietro cui si celano Steve
Shelley alla batteria, Tony Garnier al basso, John Medeski all’hammond, Tom
Verlaine alla chitarra, Lee Renaldo dei Sonic Youth, (qui alla chitarra e un
po’ dove gli pare nel resto del disco, visto che assieme a John Henry e ai
Calexico ha prodotto e orchestrato gran parte di questo notevole lavoro… E
non e’ stato facile, direbbe Locasciulli…) Smokey Hormel alla chitarra, e
Nels Cline alla chitarra…
E’ questa, una versione assai potente, che s’ispira ad Hendrix, ma anche
alla rilettura di Dylan & The Band del ’74. Giudizio: buono, per un brano
ormai abusato e suonato da chiunque abbia una formazione rock-blues di
rispetto, e composta da chitarra elettrica, basso e batteria. Non a caso gli
stessi Pearl Jam di Vedder ne avevano realizzato una versione potente ma
piu’ grezza.
Deludente e’ a mio avviso la versione di I’m not there dei Sonic Youth,
pesante ed inutile, il classico esempio di brano che non andrebbe trattato
in nessun modo e bisognerebbe limitarsi alla versione originale. Per la
serie nessuno canta Dylan come Bob Dylan. In questo caso vale il motto.
Passiamo ad uno dei carichi da undici di questo grande lavoro: Goin’ to
Acapulco ad opera di Jim James & Calexico, una versione davvero notevole del
brano e che, a mio avviso, era una delle parti migliori del film di Haynes.
Un brano da pelle d’oca, che farebbe sbiancare chiunque ed appropriato
elogio funebre.
Da qui l’operazione prende corpo e consistenza, sfilano infatti brani del
calibro di Tombstone Blues di Richie Havens, davvero bbluees baby! Uno dei
grandi vecchi che sfilano in questa raccolta e che ci fa sentire ancora una
volta la sua voce di caverna e liberta’. Esaltante e torrenziale la Ballad
of thin man di Stephen Malkmus, asmatica e viscerale, uno dei punti fermi
della soundtrack!
Bella e sexy Cat Power nella sua versione soul di Stuck Inside Of Mobile
With The Memphis Blues Again, anche se nessuno tocchi quel brano che nella
sua versione Blonde on Blonde era un fiume in piena di versi e musica, bel
coraggio da felide per la Power: io mi terrei alla larga da una tipa cosi’.
Pressing on eseguita da questo fantomatico John Doe, che ammetto di non aver
mai sentito nominare prima, ma che non e’ come molti pensavano uno
pseudonimo. Era un altro bel momento della pellicola e riprende con vigore
un brano del periodo di Cristiano Rinato. Sua e’ anche I Dreamed I saw St.
Augustine, decisamente una buona versione, calda e vibrante nel suo viscoso
tessuto sonoro. Grande voce e belle interpretazioni per questo misconosciuto
(per me) cantante.
Grandissima la resa di Dark Eyes da parte di Iron & Wine & Calexico, che si
concedono forse qualche licenza poetica, ma che entrano a gamba tesa sulla
bellezza sinuosa dell’armonia musicale del brano. D’atmosfera lounge. Uno di
quei brani che potrebbero risuonare al “White Lion’s Hotel” o in un film di
Lynch. Preziosa. Vorrei segnalare i nomi dei musicisti che meritano davvero
di essere ricordati: Sam Beam, Brian Deck e Joey Burns.
Scadente e’ Highway 61 Revisited, cantata o martoriata, fate voi, da Karen
O. Peccato perche’ la musica aveva un gran tiro e poteva dare ben altre
vibrazioni, e non il rifiuto: ragazzi scherziamo coi fanti ma non con brani
del genere!
C’e’ poi la versione capolavoro di One more cup of coffee (Valley Below).
Definitiva e crepuscolare: mozzafiato. Ci mostra panorami ancora non
contaminati dalla mano dell’uomo, a mezza strada fra il Messico e la
disperazione. Di una valle desolata: come il cuore di un amante tradito.
Roger McGuinn, coadiuvato dai Calexico dimostra di avere ancora qualche
buona canzone da reinterpretare e fa suo il brano stravolgendolo e
avvolgendolo di musica, emozioni e colori, come e meglio della vita stessa.
Questo brano da solo vale l’intera colonna sonora e pur senza detronizzare
l’originale dylaniano avrebbe meritato almeno una breve comparsata nella
pellicola.
Mason Jennings si cala con mestiere nella ballata di Hattie Carroll. Con
rara maestria, come se non avesse cantato altro per tutta la vita.
So di essere parziale, ma a me e’ piaciuta particolarmente questa resa di
Simple twist of fate, e anche se Jeff Tweedy a tratti appare calligrafico e
di maniera entra nella malinconia delle liriche e arricchisce il tessuto
sonoro con le percussioni e il fiddle. Notevole!
Di Mark Lanegan se ne sono dette tante, in passato, ma a parte una vita
votata al nichilismo, la sua Man in the long black coat e’ senz’altro uno
dei gioelli che non ti aspetti e che invece ti colpisce al primo ascolto. La
voce cerca addirittura il confronto col Maestro e strizza l’occhio a Nick
Cave. E nel paragone non sfigura affatto. Coraggio e decadentismo sfiorano
l’infinito!
Willie Nelson, il vegliardo, compagno di qualche battaglia assieme a Dylan…
e per quanti ricordano la sua grande versione di What was it you wanted,
sapranno di cosa il buon Willie è capace. Ma questa Senor (Tales of Yankee
Power), impreziosita dall’assolo di Salvador Duran, non e’ da meno e puo’
essere accostato alla versione di Jerry Garcia, per atmosfera e sentimento!
Un brano alla Willie Nelson, insomma.
Inusuale e conturbante questa Ring them bells di Sufjan Stevens, di gran
lunga superiore alle precedenti cover di Joan Baez e Joe Cocker. Torrenziale
e virtuosa nell’arrangiamento, quanto la versione originale era scarna ed
eterea, d’impatto ed atmosfera sixties. Vagamente beatlesiana e byrdsiana.
Gioiellino! Fedele e ben cantata mi e’ sembrata As I went out one morning di
Mira Billotte, segno distintivo di quel grande disco che era poi John Wesley
Harding. Suona ancora oggi fresca e vivace, e la sezione ritmica sa di
lavoro ben fatto.
Just like a woman di Charlotte Gainsbourg & Calexico. Sussurrato e sensuale
il cantato, ancora una volta convincente la veste sonora. Notturna e snella,
sensuale come la lingerie della donna dei tuoi sogni!
You ain’t goin’ nowhere di Glen Hansard & Marketa Irglova, pimpante e
nervosa come l’originale, convincente e sapida, tutta giocata su chitarra,
banjo, basso e armonica. Trascinante e melodiosa.
Can you please crawl out your window? di The Hold Steady, sembra ispirata
piu’ alla E Street Band di Bruce Springsteen dei tempi d’oro (73-75) che
all’originale dylaniano. Briosa e salutare come una notte d’estate.
Commovente e’ Just Like Tom Thumb's Blues di Ramblin' Jack Elliott, grande
dizione e pronuncia da vero pioniere del folk. Avercene oggi, di pezzi ed
artisti simili.
Maggie’s Farm di Stephen Malkmus & The Million Dollar Bashers, e’ sporca e
insolente, e con le sue chitarre in libera associazione sembra un piccolo
bozzetto astratto sixties. Non sembra neppure eseguita nei nostri tempi, ha
un’anima senza tempo e viaggia a velocita’ stratosferica, proprio come il
Dylan di quel tempo.
Moonshiner, una delle cinque produzioni del grande Joe Henry, brano che
Dylan aveva interpretato, ma non scritto, e’ qui in una corposa versione
strumentale. La voce di Bob Forrest convince. Grande versione.
Eterea e maestosa, la voce di Antony per una definitiva e impavida Knockin’
on heaven’s door. Giustamente inserita sui titoli di coda del film. A volte
basta farsi cullare dalla musica e dalla voce di un grande artista. Antony &
The Johnsons fa parte di questa schiera. Il classico autore d’atmosfera, per
un brano da notte di lacrime e sangue. Unica pecca del brano: dura troppo
poco!
Nel suo mezzo secolo di carriera Dylan ha collezionato letteralmente
migliaia di cover, e decine di album tributo, ma forse mai un progetto
ambizioso come questo: per la qualità dei partecipanti e per qualche bella
traduzione, anche, ferma restando l’inegualità delle proposte e qualche
scelta equivoca - sono trentatre cover più la Sua Bobbità in persona, quindi
qualche pasticcio era inevitabile. Un lavoro che segue la falsa riga di
Masked and Anonymous, inclusa la curiosa foto del booklet che ritrae Bob
dietro la macchina da presa, ma siamo qui di fronte al grande lavoro che
molti speravano fosse il film, mentre le intenzioni di Haynes erano appunto
scavare nel labirinto e con uno stile puzzle, eroico o infantile, onirico o
di cartone bagnato che scivola in un canale di scolo. Questa abbondante
raccolta di reinterpretazioni appare come un formidabile Dylan Songbook
capace di illustrare immediatamente l’influenza di his Bobness, anche sulle
generazioni di musicisti successive alla sua.
Ci sono trentatre rimaneggiamenti con un comune denominatore di rispetto e
coerenza verso il suo Autore. Salvo in rari casi, come la detestabile
interpretazione di Highway 61, su tutte. I musicisti coinvolti non hanno
voluto mancare di rispetto all’opera musicale originale, senza riuscire a
cancellare la propria originalissima impronta sonora. La versione che fanno
i Calexico con Jim James di Goin' to Acapulco sembra una canzone dei
Calexico a tutti gli effetti.
Sono riletture a volte entusiasmanti, altre volte semplicemente ben
confezionate di monumenti musicali che hanno fatto la storia della migliore
canzone d’autore. E non parlo solo della canzone americana. Dylan è stato
fuori dubbio il più influente autore pop rock di tutti i tempi. A lui si
sono ispirate generazioni e generazioni di cantautori, inclusi i nostri
esponenti dei gloriosi anni 70 italiani. Allo stesso modo è emozionante
ascoltare le voci più caratteristiche del rock americano più geniale (da
Stephen Malkmus dei Pavement fino a Cat Power passando per Antony & The
Johnson con menzione speciale per la bellissima versione di One more Cup of
Coffee ad opera dei Calexico che guidano col classe e feeling la voce del
leggendario Roger McGuinn) misurarsi con quello che è stato indubbiamente il
loro massimo ispiratore.
Questo disco non e’ un capolavoro, perche’ oggi non ci sono piu’ capolavori
e perche’ sarebbe anche ingiusto mitizzare a dismisura un disco di cover, ma
e’ un lavoro bello e variegato, capace di miscelare i classici con i brani
minori e lo fa con grande mestiere e passione. Anche se personalemente mi
sarebbe piaciuto recuperare, vista l’occasione ghiotta, qualche perla
dimenticata come la Blind Willie Mc Tell di The Band o Times they are
a-changin di Nina Simone.
Un ringraziamento speciale, da fan di Dylan, va fatto a Lee Ranaldo, Joe
Henry, ai Calexico (presenti con cinque brani) e ai Million Dollar Bashers
(cinque brani) per averci accompagnato in questa lunga cavalcata sonora. I
miei complimenti ragazzi, avete condotto e portato a termine un duro lavoro!
E dato che Bob legge Maggie’s Farm io lo scrivo: cosa ne pensi Bob di
portare nel prossimo album in studio qualcuno dei musicisti qui coinvolti,
dai Calexico a Joe Henry fino ai Million Dollars?
Voto: 9
Ha il suono di mille canzoni e mille profumi diversi shakerati in un solo
frullatore di nome Bob Dylan
Brano Migliore: One more cup of coffee ex equo con Goin’ to Acapulco
Brano meglio arrangiato: Dark Eyes e Ring them bells
Brano peggiore: Highway 61
Il brano dell’artista forever young: Senor
Il brano del critico imparziale: Simple Twist of Fate
Il brano del critico alla Vites: Ballad Of Thin Man
Un ringraziamento speciale a Marco Buzzoni e a Jose Leite, per avermi
fornito: un pc per scrivere, ascoltare il disco, e per avermi offerto un
tetto in questa mia missione irlandese.
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Alexan "Wolf"
I'm not there. Su questo magari tornerò, e magari in riferimento alla
recensione del New York Times: This is not a Bob Dylan movie
(http://www.nytimes.com/2007/10/07/magazine/07Haynes.html ).
Recensione che giustamente, fin dal titolo, rimanda al fatto che il film
vada visto come opera di Todd Haynes e non di BD (altrimenti la delusione è
inevitabile). Per inciso, la vignetta di Zimmy era irresistibile, ma dal
punto di vista drammaturgico Masked & Anonymous era proprio insostenibile
(ovviamente diverso il discorso per le musiche e per gli inserti dal vivo,
paradossalmente l'unica testimonianza video della miglior formazione degli
ultimi anni, quella con Charlie Sexton e Larry
Campbell).
Dunque, pochi giorni dopo l'uscita sono andato a vedere il film in lingua
originale. La sala era più vuota che piena. Con una discreta conoscenza
dell'inglese e l'aiuto dei sottotitoli il film risultava comunque
comprensibile. Sono un appassionato di cinema e devo dire che la visione mi
ha entusiasmato, magari con una minor preferenza per la parte di Richard
Gere - intendo proprio la sua recitazione - e la sensazione che
l'aggressione da parte delle immagini e dei suoni mi sopraffacesse senza
darmi il tempo
di riprendermi da un cambio di scena all'altro.
Sono tornato a vederlo dopo un mese nella versione italiana, in compagnìa di
un amico che di Dylan conosce poco (Blowin' in the wind, Jokerman), con
l'intenzione di verificare alcuni ricordi e vedere di riuscire a cogliere
almeno alcune delle cose che la prima volta mi erano sicuramente sfuggite.
Qualcosa è cambiato. Intanto il mio amico si è annoiato a morte (musiche
escluse).
In effetti al cinema ho sempre cercato delle emozioni e ho sempre diffidato
di quei film che hanno magari bisogno di una scheda introduttiva per essere
apprezzati. I'm not there rimane a mio parere uno splendido film, ma
limitatamente a chi ha gli strumenti per godersi tutti i riferimenti
(riferimenti a vita, musica e opere varie di Dylan, ma anche ad un periodo
storico - grosso modo 1950-1980 - e, infine, alla storia del cinema). Haynes
forse si è tolto uno sfizio da fan, ha combattuto una battaglia personale
con una sua ossessione e gli va senz'altro riconosciuto l'onore delle armi.
Il titolo - che secondo me andava tradotto Io non sono là (anche il testo
della canzone omonima lo fa pensare) - diventa giusto se lo interpretiamo
come Io (Bob Dylan) non sono neppure qui, in questo film, che pure mostra
cosi tante mie facce.
A rivedere il film, questa volta la parte che mi è piaciuta di più è stata
quella di Richard Gere - non solo visivamente, la strepitosa Goin' to
Acapulco, Enigma, etc. - ma proprio anche l'interpretazione dell'attore. E
da qualche parte, forse su una talkin' della fattoria, ho letto di una
chiave di lettura onirica, come se i primi 4/5 del film fossero un sogno di
Gere. Sono completamente d'accordo. Tra l'altro l'immagine con Richard Gere
e la coperta verso l'inizio del film rimanda alle lenzuola rosse di
Mulholland drive: Naomi Watts (aspirante attrice arrivata a Holliwood piena
di belle speranze) vi inizia il sogno che occupa 2/3 del film per poi
risvegliarvisi dopo che il sogno si è tramutato in un incubo. E Charlotte
Gainsbourg/Sara Lowndes immersa nella vasca da bagno rimanda a Carlotte
Gainsbourg immersa nel latte di Nuovomondo.
Alexan "Wolf"
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Toni "Albatros"
Due parole su I'M NOT THERE... A me è piaciuto molto. Lo definirei un'opera
d'arte... e come tale... Come tale può prestarsi a commenti più o meno
positivi, come tale nel giudizio non possono esistere i "grigi" ma solo
bianco o nero.
Chiaramente viene apprezzato (molto) da "chi sa" da "chi conosce" , pur con
tutte le metafore e le rappresentazioni "a sentimento" e sempre poco
rispondenti alla reale-realtà.
Io ho dovuto spiegare molte cose "in diretta" a chi assisteva assieme a me,
chiarire , giustificare, dare un senso (e se è per quello una...persona si è
anche addormentata dopo 15 minuti...ma lui era molto stanco...o forse ero io
non spiegavo bene...).
Personalmente durante IDIOT WIND mi sono anche commosso....
Paradossalmente la "parte" che è stata più compresa e apprezzata dagli altri
è stata quella di Richard Gere , per intenderci;
e magari è stata anche quella che io-noi dylaniani abbiam compreso e
decifrato meno.... (se non con calma..dopo.. a posteriori).
Ho apprezzato molto dylan-blanchett (ma va??) soprattutto perchè ho intuito
il grande lavoro che ha dovuto svolgere quest'artista per "entrare nella
parte"...., a differenza dalle altre interpretazioni-ruoli degli altri
attori.
Nel complesso GRANDE OPERA anche se credo che chi non leggerà mai questo
commento , avrà apprezzato molti di più la BIOfilmGRAFIA di Jerry Lee Lewis
...Great Balls of Fire !
Toni "Albatros"
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Alfredo "McTell"
Sono d'accordo con A. Carrera. Ho visto il film al piccolo brera di milano.
Venerdì sera. Sala affollata. una settimana fa. In una
settimana la mia considerazione per il film è mutata un po' ogni giorno.
Sono uscito dalla sala con un senso di saturo. Non voglio dire nausea, non è
proprio così. Ma il film, per un fan come me, è stato un bombardamento di
immagini clichè. un caleidoscopio di pezzi già visti ma ricostruiti a dovere
per l'occasione. Tutto il bene possibile per un regista che come haynes ha
saputo filtrare con tanta professionalità ed arte l'immaginario colllettivo
di Dylan. Ma non ha saputo emozionarmi. Io ho goduto del film, ma non ho
potuto fare a meno di mettermi nei panni di chi di Dylan non sa...
un'emerita mazza. Non è un film che cammina sulle sue gambe. Cammina sulle
gambe di Dylan. Senza l'amore per Dylan e senza la sua conoscenza, il film è
una sequenza di belle immagini per lo più incomprensibili e di canzoni
splendide. Certo che è comunque gradevole, ma lo si deve ancora una volta
alla meravigliosa colonna sonora e alla professionalità della produzione,
come in Masked and Anonymous. Non lo si deve al coinvolgimento emotivo che
ci si aspetta da un buon film. Ciò nonostante, come dicevo, le rivelazioni
di Alessandro Carrera che ho appena letto, hanno conclamato la mia voglia di
rivedere il film. Dopo una settimana di masticamento mentale del mio "io non
sono qui", leggere Carrera mi ha convinto che questo è come minimo il
miglior film su Dylan e sono felice di aver voglia di rivederlo. Per quanto
mi riguarda è stato un successo ma sento un senso di vuoto; nel cinema non è
ancora stata resa giustizia alla grandezza di Dylan. A livello
documentaristico, è stato fatto l'impossibile ma quello che mi manca è un
film che emozioni me ma anche mio figlio di otto anni e che di Dylan sa poco
o niente. Poteva essere un film splendido, da Oscar, se avesse raccontato
dall'inizio alla fine una storia. Haynes ha scelto di raccontarne tante ma
alla fine non ne ha raccontata nessuna.
McTell@tiscali,.it
Alfredo Della Valle
Varese
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Alessandro Carrera
Caro Michele,
finalmente sono riuscito a vedere “I’m Not There”. La Feltrinelli
pubblicherà il DVD a gennaio con un libretto accluso che comprenderà il
capitolo del mio libro in cui parlavo appunto della canzone “I’m Not There”,
parti di “Tarantula” e forse qualcos’altro. Mi hanno chiesto una breve
introduzione e così mi hanno mandato una copia, visto che in America per ora
il film è stato visto solo al New York Film Festival.
In due parole, mi è piaciuto moltissimo. Non lo dico per partito preso o per
andare contro a pareri contrari e che rispetto, ma mi ha proprio
appassionato. Ho cercato di vederlo soprattutto come film, come approccio
originale al problema di come parlare della vita di un artista senza cadere
nelle trappole del genere “bio-pic”. E anche come film sul rapporto tra
cinema e musica, sul come sposare una canzone, il testo e la voce, con le
immagini. Certo, Todd Haynes non è né più grande né più originale dei
maestri che cita. È l’opera di un epigono, o per meglio dire di qualcuno
che, facendo questo film, si è messo volontariamente nella posizione
dell’epigono, riservandosi la propria originalità di stile per pochi momenti
rubati all’insieme. È un film su Dylan, ma è anche un film su Fellini e
Godard, che sono presenti in maniera massiccia. Il parallelo tra il Dylan
del 1965/1966 e il Mastroianni di “Otto e mezzo”, con i fans, i produttori e
i pazzi che gli girano attorno, tutti a chiedergli che cosa vogliono dire i
suoi film e perché non racconta più quelle belle storie semplici come faceva
una volta, non è affatto forzato. E la lunga scena felliniana del party, con
Michelle Williams nella parte di Coco (leggi: Edie Sedgwick) e l’inserto
alla Richard Lester dei Beatles che si rotolano per terra in sequenza
accelerata, non è certo brutto cinema, anzi.
Tutta la storia delle incomprensioni coniugali tra Heath Ledger e Charlotte
Gainsbourg (che assomiglia parecchio a Suze Rotolo, se avete notato) è un
omaggio a “Masculin Feminin” e a “Il disprezzo”. Anche tutta la discussione
sulla misoginia del personaggio è un riferimento a Godard più ancora che a
Dylan. Non direi che queste scene sono altrettanto riuscite. Ho visto tanti
omaggi a Godard da parte di registi americani, e nessuno è soddisfacente
perché gli americani non hanno la leggerezza dei personaggi di Godard, non
posseggono il tono sofisticato e distaccato della conversazione alla
francese. Vanno giù pesanti, e qui Todd Haynes non fa eccezione. I suoi
limiti non mi hanno disturbato più di tanto, ma direi che Haynes è più a
casa sua quando si inventa la sua “repubblica invisibile”, quando fa
comparire Marcus Carl Franklin che dice di chiamarsi Woody Guthrie o Richard
Gere come un Billy the Kid invecchiato e sopravvissuto a se stesso in mezzo
a una città di fenomeni da baraccone sperduti nel nulla. Qui siamo più
vicini a Jim Jarmusch, e non è una cattiva compagnia.
Tutta la parte iniziale, il Village negli anni sessanta, la comparsa di
Franklin, compresa l’apparizione onirica della balena (non è Pinocchio, è
Giona) mi ha veramente colpito. Le canzoni della colonna sonora scorrono
lisce come l’olio, e soprattutto l’attacco di “Blind Willie McTell” mentre
Franklin fugge via, forse dal riformatorio o dalla famiglia che l’ha
ospitato, ora non ricordo bene, è assolutamente azzeccato. In “Chronicles
Volume 1” Dylan dice che gli sarebbe piaciuto vedere Denzel Washington a
interpretare la parte di Woody Guthrie. Credo che Todd Haynes se ne sia
ricordato quando ha girato queste scene.
Certo, ci sono alcuni momenti deboli, o non altrettanto risolti. La storia
della premiazione al Civil Liberties Committee, nell’occasione in cui Dylan
pronuncia il suo discorso strampalato su Lee Harvey Oswald, è praticamente
buttata via, e anche recitata senza convinzione da Cristian Bale (è
Christian Bale, mi sembra). Se uno non sa come erano andate esattamente le
cose non ci capisce molto, ma soprattutto quell’episodio è un vero
psicodramma americano, assolutamente cruciale per capire Dylan, e avrebbe
meritato più spazio. Anche la scena in cui Christian Bale canta “Pressing
On” non si decide a essere quello che deve. Non so se Haynes volesse
rappresentare Dylan come un predicatore fallito, che annuncia le sue visioni
di salvezza davanti a una congregazione piuttosto misera e che reagisce alla
musica senza calore, oppure se volesse suggerire che proprio quella sarebbe
stata la scelta di un ipotetico Dylan diventato predicatore a vita, lontano
dalle pompe televisive dei predicatori celebri e delle estasi vere o finte
in cui cade il loro pubblico, contento di parlare di Dio davanti a un gregge
di anime povere e malmesse. Può darsi, ma non direi che si afferrino
veramente le sue intenzioni.
Ma tutto il resto funziona, il montaggio è incalzante, il ritmo non cade, e
l’ultima scena con Cate Blanchett (non insisto sulla sua performance, sulla
sua bravura è già stato detto tutto) che finalmente spiega quello che Dylan
vuole dire e ha sempre voluto dire, citando letteralmente dall’intervista di
“Playboy” del 1966 la definizione dylaniana di musica tradizionale, è la
prova che Haynes ha capito abbastanza Dylan per meritarsi di avere fatto un
film su di lui. In tutte le scene con Cate Blanchett, l’unica battuta che mi
è sembrata troppo “voluta” è quando lei dice “Just Like a Woman!” alla donna
che stende a terra il fan furibondo che si è intrufolato nel party. Non era
veramente necessario, è forzato, ma di tutto il resto non cambierei un
fotogramma. Anche l’apparizione finale di Dylan all’armonica, senza bisogno
di dire una parola, è la conclusione giusta. Il musicologo Wilfrid Mellers
ha scritto che l’armonica di Dylan è “edenica”. Penso che volesse suggerire
che quando Dylan si mette a suonare l’armonica, ripetendo la melodia che ha
appena cantato senza le parole, allude a un linguaggio paradisiaco perduto,
in cui ci si poteva capire senza mediazioni. Una volta ho letto una lettera
o un articolo di qualcuno che si chiedeva perché mai ai concerti di Dylan la
gente va in estasi quando lui comincia a soffiare nell’armonica. Credo che
la risposta sia questa.
Come sai, non sono mai riuscito farmi piacere “Renaldo & Clara” e “Masked &
Anonymous”. Mi vanno bene solo le sequenze musicali e poco d’altro. Tutto
l’impianto di quei film mi sembra presuntuoso e tecnicamente incompetente.
Soprattutto, non credo che Dylan possa rappresentare se stesso. Può essere
se stesso, come lo è in “Don’t Look Back” e in “No Direction Home”, ma non
può fare la parte di se stesso. Per questo mi è piaciuto “I’ Not There”. Ci
permette di liberare l’immaginazione così come sono capaci di liberarla le
sue canzoni, senza constringerci a ricondurle all’ego del signor Bob Dylan,
che quando mette in scena la sua persona si dimentica di quello che ha
sempre predicato, cioè che “je est un autre”, e diventa ingombrante se non
insopportabile. Per me, anche se lui non ci ha messo mano (anzi, anche per
questo), “I’m Not There” sta sullo scaffale dei migliori film di Dylan.
Un saluto a tutti,
Alessandro Carrera
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Elio "Rooster"
Ho visto I'm not there due domeniche fa, il 16 settembre al cinema Maestoso
di Roma - Via Appia Nuova, sala 4, spettacolo delle 17.30, spettatori 37 me
compreso.
Avevo già letto e sentito molte cose sul film e molte altre ne ho lette e
sentite nelle scorse due settimane, ma ho evitato di leggerne e sentirne
moltissime altre. Impressionante la quantità di parole che si sono spese su
questo film, è vero che siamo nell'era dell'iperinformazione ma mi è parso
tutto abbastanza eccessivo (se solo digitiamo "I'm not there Dylan" su
Google oggi vengono fuori oltre 2.500.000 di risultati!). Se penso poi alla
disinformazione pressoché totale con la quale circolò Renaldo & Clara nella
sale cinematografiche italiane una trentina di anni fa .....
Sono andato a vedere il film con la sensazione, quasi con la certezza, che
qualcuno avesse fatto su Bob Dylan una cosa nuova dal punto di vista
strutturale, ma una cosa che comunque stava adesso lì a beccarsi tutta la
solita trafila di interpretazioni e valutazioni da mezzo mondo, con i
relativi pro e contro finali, secondo il più classico e scontato filone
tirato puntualmente in ballo da oltre 40 anni ogni qualvolta qualcosa di o
su Bob Dylan offra la possibilità di farlo. E la quasi certezza è diventata
certezza assoluta a fine proiezione.
Il film mi ha tenuto incollato alla sedia per buona parte della sua durata,
provocandomi sensazioni di gioia, entusiasmo, commozione, divertimento,
ammirazione. Ho anche sbadigliato, un paio di volte, ma in definitiva a me è
piaciuto molto e mi farà piacere rivederlo presto, spero in una bella
versione dvd che troverà la sua logica e naturale collocazione vicino a
tutta quella serie di cose su Bob Dylan che il nuovo millennio ha saputo
regalarci e che nessuno di noi avrebbe probabilmente mai immaginato anche
solo 10 anni fa, penso a No direction home come allo Scrapbook, alla
versione deluxe di Dont look back come a Masked & anonymous, a Chronicles
come a Lyrics.
La conoscenza del personaggio Dylan da parte del regista mi è parsa ottima,
e interessante ho trovato il modo di proporre Bob non mediante una sorta di
biografia ma attraverso il tentativo di esprimerne e rappresentarne
cinematograficamente le sensazioni di vita a ridosso di sei fasi diverse
della sua esistenza.
Ne è uscito fuori un film dal montaggio particolare, con un continuo
spostamento in avanti e indietro nel tempo del personaggio Dylan, a cavallo
di tanti di quegli avvenimenti che lo hanno riguardato, di tante delle cose
da lui dette, di tante di quelle situazioni, anche di difficile
comprensione, che con Dylan hanno avuto a che fare.
Ho sempre pensato che la cosa più ovvia, più normale e naturale che sarebbe
potuta succedere a Bob Dylan dopo l'incredibile storia che lo vide, tra il
61 ed il 66, esordire con un album molto particolare e poi proporre due
incredibili tris di capolavori, folk il primo con freewhelin, the times e
another side, folk-rock il secondo con bringing, highway e blonde on blonde
(cambiando per sempre il corso della musica e anche della storia dello
scorso secolo), ho sempre pensato, dicevo, che la cosa più logica sarebbe
stata la sua morte in quell'incidente in moto. Sotto tanti aspetti sarebbe
stato l'epilogo più scontato e quello che aveva fatto in quei sei anni gli
sarebbe bastato per garantirgli per l'eternità una sorta di immortalità che
nemmeno Jim Morrison, Jimi Hendrix, Brian Jones o Kurt Cobain avrebbero mai
potuto insidiargli.
Questo film mi ha fatto molto ripensare a questa cosa, più di qualsiasi
altra cosa abbia mai visto - letto - sentito su Bob. In questo film io ho
visto una separazione ancora più netta e marcata tra il Dylan pre e post
incidente, ancora più di quanto non lo sia stata nella realtà, con
l'impressionante cambiamento che troviamo dopo Blonde on blonde. E con quei
Basement tapes che, come Greil Marcus ha sottolineato nel suo bellissimo la
repubblica invisibile, assumono sempre più una importanza fondamentale nel
tentativo d'interpretazione del personaggio Bob Dylan e della sua opera a
cavallo degli anni 60, e non solo di quelli.
Bellissimi parecchi passaggi musicali, meravigliose Tombstone blues - Goin'
to Acapulco - Pressing on nelle interpretazioni di altri ma indovinatissime
le versioni di Bob in alcuni passaggi, primo tra tutti quello di I want you
in una bella scena d'amore. Quando nel finale arriva finalmente Dylan in
persona in un assolo di armonica a me la pelle d'oca è venuta forte, anche
perchè appropriata mi è parsa pure Like a rolling stone sui titoli di coda,
ma tutti quelli che hanno provato ad interpretarlo in I'm not there lo hanno
fatto, a mio parere, molto bene.
Ora incrociamo le dita e speriamo che ottobre 2007 ci regali quello che Bob
merita da tanto tempo.
Elio "Rooster"
Quando un mistero si risolve, un caso si chiude. Nel caso di Bob Dylan, il
mistero non si risolve mai, e quindi il caso è sempre aperto (Sam Shepard)
Che Dylan abbia continuato a scrivere, registrare, esibirsi, rendere
perplessi, stupire, frustrare, sbalordire, provocare, sfidare ed
intrattenere così tante persone per così tanti anni è una cosa sorprendente.
Non c'è nessuno come lui. Quelli di noi che lo hanno seguito nella sua corsa
sono stati di fatto fortunati. Ed ancora non si ferma! (John Bauldie)
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Anna "Duck"
Ciao Michele,
sono andata anch'io finalmente a vedere "I'm not there", ed ecco qualche
impressione. Allora, il film non mi è sembrato certo un capolavoro, ma
comunque credo di aver trascorso due ore molto piacevoli, non mi sono
annoiata, e non mi aspettavo niente di più o di diverso.
Ho letto solo superficialmente i commenti al film, per evitare di essere
troppo influenzata, ma non sono affatto d'accordo con i commenti totalmente
negativi apparsi su MF; a quelli che hanno stroncato il film vorrei
chiedere: ma cosa cavolo avreste fatto voi se vi foste trovati a fare un
film su Dylan ??? Sappiamo tutti che la materia è terribilmente ostica... e
il regista secondo me se l'è cavata fin troppo bene, tenuto conto del
rischio. Come si fa a raccontare qualcosa di così immenso e di così
sfuggente come Dylan ? E' praticamente impossibile e semmai il regista ha
peccato di presunzione pensando di poter affrontare una simile sfida... E in
fondo ha scelto il modo migliore (e forse l'unico possibile): ha immaginato
quattro o cinque racconti che avessero a che fare vagamente con il
mondo-Dylan e che si intrecciano in modo caotico, e ha provato a
rappresentarli utilizzando esclusivamente citazioni dylaniane: brandelli di
canzoni, poesie, interviste, foto, biografie vere e false, miti, leggende e
perfino copertine di dischi (ci sono delle scene impressionanti che sembrano
l'animazione della copertina dei Basement Tapes). Insomma una specie di
gioco, di rompicapo, di puzzle onirico... ma probabilmente l'arte di Dylan è
proprio questo: un gioco, un rompicapo, un puzzle onirico... e il sogno
dylaniano è talmente vasto che sarebbero possibili altri cento film e altri
cento racconti e altri cento personaggi raccontati solo con l'aiuto di
molecole della sua "vita".
Per finire due fermo-immagine.
Scena uno: Cate Blanchett che per cinque secondi guarda dritto dentro la
cinepresa. Impressionante. Gli occhi sono diversi, ma lo sguardo è lo stesso
di Dylan, ti arriva dentro lo stomaco, ti incenerisce. Non so come ci sia
riuscita, è da Oscar.
Scena due: il ragazzino negro e i due bluesman con la chitarra che cantano
una versione di Tombstone Blues più blues che mai: forse bastava questa
scena a spiegare la musica di Dylan, questi pochi istanti valgono il film.
Saluti a tutta la fattoria
Anna "Duck"
PS: Michele, ti proprongo anch'io un gioco: proviamo a raccogliere tutte le
citazioni (immagini, suoni, voci, sensazioni) presenti nel film. Sono sicura
che ne ne troveremmo a migliaia...
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Marco on the tracks
ciao Michele,
vorrei aggiungere il mio parere(o forse sarebbe meglio dire i miei pensieri
sparsi) ai pareri su "I'm not here".
Il film, come dimostrato da tutte le opinioni che hai ricevuto, si presta a
mille interpretazioni e giudizi diametralmente opposti, e non credo si possa
mai arrivare a stabilire se sia un capolavoro o una cagata pazzesca senza
lasciarsi inevitabilmente influenzare da quello che per ognuno di noi
significa Bob Dylan(e le sue canzoni). Fondamentalmente io sono più per un
giudizio positivo, anche se non posso fare a meno di notare alcune note
dolenti del film.
A me è piaciuto è il tentativo del regista di farti vivere una giornata da
Bob Dylan, ovvero di entrare in qualche modo in quella che poteva essere la
vita di Dylan negli anni sessanta: la pressione dei giornalisti, l'ombra
silenziosa e inquietante di Grossman, il rapporto con i fans, il rapporto
con moglie e amanti varie, l'impossibilità di vivere tutte quelle emozioni
dentro una sola vita.
Mi è piaciuta l'idea di far vivere contemporaneamente più personalità di
Dylan, seppure alla fine emerga soprattutto l'interpretazione straordinaria
della Blancett, davvero eccezionale.
Bella l'idea di far rivivere il famigerato Dylan al Folk Festival nel '65, e
in generale mi è piaciuto il film perchè mi ha lasciato la sensazione di un
viaggio nel tempo e contemporaneamente di un viaggio -seppure parziale e
incompleto- dentro la mente di Dylan.
Sinceramente non l'ho trovato per niente offensivo nei confronti di Dylan o
dei Dylaniani, e io mi ritengo Dylaniano al 100%. E' vero, a volte
Blancett/Dylan è un pò intontito, ma non lo vedo come un intontimento da
"lobotomizzato", bensì come l'intontimento inevitabile quando sei
perennemente circondato da fans urlanti, giornalisti che ti fanno domande
idiote, e sei sempre in movimento e magari contemporaneamente fai uso di
qualche sostanza che altera mente e realtà...
Detto questo, è anche vero che nel film c'è poco cuore, ed è emblematico in
tal senso il fatto che alla fine l'unico personaggio che sembra possedere
umanità e cuore sia Billy the Kid/Dylan/Gere, come se il giovane Dylan fosse
privo di sentimenti.
Ci sono poi troppe citazioni/omaggio: va bene ricreare una scena da "Don't
look back" o da "No direction home" ma prendere a piene mani intere sequenze
e scene mi sembra un pò eccessivo.
Non so sinceramente quanto il mio giudizio comunque positivo sul film nasca
dalla mia passione per Dylan: poter andare al cinema ad ascoltare il meglio
di "Blonde on blonde" in formato videoclip o immaginare di essere davvero
lì, al Newport Folk Festival, mentre Dylan mitragliava il pubblico con
"Maggies farm" con Pete Seeger furioso e il pubblico che ancora oggi non si
sa a chi o cosa stesse fischiando... beh, a me fa un certo effetto.
Nonostante tutto, nel bene e nel male, resto convinto che sia un film che
valga la pena di essere visto, ma probabilmente chi non conosce anche solo
gli episodi fondamentali della vita di Dylan, di tante scene e tanti
aneddoti non saprebbe davvero che farsene.
ps: per la scena nel finale della "donna cadavere dentro la bara", non ho
avuto il tempo di leggere tutti i messaggi sul tuo sito e quindi non so se
dico cose già note, ma sicuramente il volto e i vestiti della donna sono
copia fedele di un famoso quadro (dove mi sembra di ricordare che la donna
sia galleggiante su di un lago: è un quadro bellissimo e inquientante).
C'è poi da dire che esistono diverse foto di fuorilegge famosi come Billy
the Kid, fotografati da morti, dentro la bara, e quindi Billy the
kid/Gere/Dylan in quella scena del film potrebbe guardare se stesso, il suo
destino o qualcosa del genere.
Il vero significato della "donna cadavere dentro la bara" che è in parte
copia fedele di un quadro non lo saprei dire, ma mi vengono in mente una
dozzine di idee, tra cui:
- Dylan che per "Blood on the tracks" è influenzato un fantomatico pittore e
dice di aver immaginato ogni canzone dell'album come fosse un quadro.
- Dylan/Gere/Billy the Kid che guarda in faccia la morte (così come gli è
accaduto con l'incidente in moto), morte rappresentata non solo
dall'assassino di Billy the Kid(Pat Garret) ma anche da quella bara con la
donna dentro.
- qualcosa che richiama "Idiot wind": nel testo della canzone non si
menziona una donna che muore?
Bè, non vorrei averne sparate troppe, quindi ti saluto, alla prossima.
Marco on the tracks
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Giovanni Giusti
ciao, è la prima volta che scrivo a Maggie's farm ma è da molto tempo che vi
seguo con interesse.
Mi inserisco nel dibattito scatenatosi intorno al film di Todd Haynes (che
ho visto sabato scorso) per dire brevemente la mia:
credo sia ingiusto ragionare sul film con una logica "documentaristica"
mettendolo sullo stesso piano di "No Direction Home" e "Don't Look Back"
(nel loro genere, capolavori) o criticandone la confusa e inesatta
corrispondenza di luoghi, date, situazioni, ecc.; quello di Haynes è
purissimo cinema che si tuffa nell'universo Dylan per compiervi un viaggio
emozionante e, quel che è da sottolineare, apertissimo alla moltitudine dei
significati/rimandi/suggestioni possibili (in un certo senso condivido
l'impressione, letta in una recensione sul sito, del film come "trailer"
anziché "storia compiuta", e mi è parso un complimento).
Senza avventurarmi in un'analisi dettagliata del film (me ne mancherebbero
anche i mezzi), mi limito a sottolineare la bellezza e l'importanza di
frammentare la figura di Dylan in una moltitudine di personaggi, come
frammenti di uno specchio rotto da ricomporre nella nostra immaginazione,
anche e soprattutto tenendo conto degli spazi vuoti/pezzi mancanti. Mi è
parso bellissimo il ruolo di Richard Gere nella terra di Enigma, e
soprattutto la circolarità della storia che si apre e si chiude sul treno
merci, unendo la figura del bambino e quella del fuorilegge. Credo che Todd
Haynes abbia espresso qui la sua visione dell'arte di Bob Dylan,
affrancandosi dal cliché del "grande artista ingabbiato dalle aspettative
del suo pubblico" per evidenziare la centralità del Mistero della tradizione
americana (musicale e non) che nell'opera dylaniana è stato presente sempre,
anche nei convulsi anni della svolta elettrica (sennò tutti quei personaggi
biblici nelle canzoni che ci stanno a fare? vedi anche tombstone blues
cantato da ritchie havens). Illuminante a questo proposito è il monologo in
auto di Cate Blanchett/Bob Dylan.
In conclusione di queste brevi impressioni, mi viene spontaneo il paragone
con un altro grande film, il Pasto Nudo di Cronemberg: anche lì il regista,
per rappresentare un'opera di per sè "irrappresentabile" non ha potuto far
altro che tradirne la lettera e riproporne lo spirito attraverso
un'immersione allucinata e visionaria nell'opera e nella vita dello stesso
autore. Credo che Todd Haynes si sia posto con il medesimo atteggiamento nei
riguardi di un artista complesso ed enigmatico quale è Bob Dylan, riuscendo
a trarne un opera cinematografica memorabile, e soprattutto capace di vivere
di vita propria e non solo del riflesso del soggetto che rappresenta - in
fondo non sembra quasi un film su una figura immaginaria?
grazie dell'attenzione e complimenti per la passione e l'intelligenza che
animano il vostro lavoro
Giovanni Giusti
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Michele "Napoleon in rags"
Ho visto 'Io non sono qui'.
Multisala Cinelandia di Aosta (Saint Cristophe).
Sala con 5 persone di numero, me compreso, un venerdì, primo spettacolo
serale.
Fine primo tempo, due delle 4 persone davanti a me vanno via e non tornano
più per il secondo tempo, visibilmente nauseate dal film.
Restiamo dunque in tre ma i due che restano fino alla fine (ogni tanto li
scruto), sono annoiati a morte e mi sembra restino lì solo perchè hanno
pagato il biglietto.
A volte sui loro volti leggo un punto interrogativo che mi ricorda la frase
di Greil Marcus a proposito di 'All the tired horses': "Che è 'sta merda?"
Siccome avevo perso i primi dieci minuti resto a guardare anche l'inizio del
secondo spettacolo serale: altre cinque persone in sala, sempre me compreso.
Vado via dopo i primi dieci minuti e dunque non saprò della reazione degli
altri.
Statisticamente dunque credo che il film sarà un flop per quanto riguarda
gli incassi ed il gradimento del pubblico non dylaniano.
E passiamo alla sostanza.
Il film non è brutto e orribile come è stato dipinto da qualcuno su MF nè è
da stroncare totalmente come ha fatto Paolo Vites con il quale sono però
d'accordo su più di un punto.
Il film non è bello nè un capolavoro come qualcuno su MF ha scritto anche se
contiene alcune cose molto belle.
Complessivamente ha molti pregi ma anche molti difetti. Andiamo con ordine.
Il primo pregio, quello più evidente secondo me, è che il film è girato
complessivamente molto bene, con una cura maniacale per ogni singola scena,
per ogni singolo dettaglio, con una splendida fotografia ed un eccellente
lavoro da parte degli scenografi, dei costumisti etc.
Si vede che Haynes ama Dylan, il suo mondo, le sue canzoni, e ha cercato di
rispettare quanto più possibile gli ambienti, il look, i vestiti, le
acconciature etc., dando alla parte più puramente visiva, più prettamente
estetica, una grossa importanza con fotografie note ed arcinote di Dylan,
dei suoi familiari e dei suoi amici che praticamente prendono vita sullo
schermo, come se tutte le immagini che avevamo visto in 45 anni fossero
degli 'still' di un film che ora vediamo davvero. Dunque tanto di cappello
alla bravura del regista, degli scenografi, dei truccatori, degli addetti
agli effetti speciali e di chiunque altro abbia lavorato su questo piano.
In questo senso ci sono molte scene davvero impressionanti per somiglianza
alla realtà dylaniana e su tutte mi ha colpito il Dylan (non scriverò mai i
nomi fittizi usati nel film, perdonatemi) della metà degli anni settanta che
torna a casa e fa una sorpresa alle bambine che gli aprono la porta. E'
veramente impressionante, sembra di entrare in quelle vecchie foto.
Questa maniacalità è però da un certo punto di vista anche un difetto perchè
è chiaro che qui è stato messo molto impegno e si è perso molto tempo in
fase di lavorazione per un qualcosa che però è stato colto solo dai fans
hard-core.
Ma il film si suppone che sia visto per la gran parte (80 per cento? 90 per
cento?) da spettatori che vanno a vedere appunto un film, non vanno a vedere
Dylan perchè ne sono fans e dunque di certi dettagli sanno poco o niente. Mi
chiedo: questa massa di spettatori cosa può aver apprezzato in questo senso?
Non avrà colto che l'un per cento delle citazioni, dei riferimenti ai
dischi, alle foto, alle immagini, agli ambienti così radicati ormai nelle
menti dei fans. E anche quelli che li hanno colti... alla fin fine, fino
a che punto hanno motivo di compiacersi di questi ammiccamenti? Sono poi
così fondamentali per capire la vita e l'opera di uno come Dylan?
Il secondo pregio è un po' la scoperta dell'acqua calda, ovvero
l'interpretazione della Blanchett che lascia davvero senza parole. Se non
prende almeno altri cinque o sei premi qua e là per questa interpretazione
allora, come dice Benigni, è tutto un 'magna magna' :o). E' di una bravura
sconcertante e dà veramente la sensazione allo spettatore in più di una
scena di stare assistendo alla visione di materiale d'archivio con il vero
Bob. Solo in un paio di scene secondo me si lascia prendere un po' la
mano rischiando di cadere nel macchiettistico, ma sono istanti brevissimi,
per il resto (non vorrei spararla grossa ma sono pronto ad essere smentito)
è probabilmente l'attrice (attore) nella storia del cinema che meglio ha
trasposto su schermo un personaggio realmente esistito o vivente (se
qualcuno me ne trova un altro che ha fatto meglio mi faccia sapere, sono
pronto a farla scendere in classifica).
La sua parte però paradossalmente è anche quella che ha più difetti dal
punto di vista dell'impostazione e della scelta del regista/autore Haynes.
Io mi rendo conto che se fai un film su Dylan devi pescare dalle sue frasi e
dalle sue dichiarazioni, però tutto il segmento col Dylan elettrico è fatto
esclusivamente di citazioni di frasi, di articoli, di interviste, di canzoni
e quant'altro, un enorme collage che alla fine diventa un po' freddo e
ripetitivo. Il punto più basso per me è quando mettono in bocca a Dylan la
frase "proprio come una donna" rivolta non ricordo più a chi per qualcosa
che la donna ha detto. L'ho trovato di una banalità sconcertante. Mi rifiuto
di credere che nella realtà Bob abbia detto una cosa del genere. Se no me lo
vedo come uno che se va al capezzale di un amico morente gli dice "stai
bussando alle porte del paradiso", o se parla con una donna che ama le dice
"i'll be your baby tonight" oppure se questa lo lascia le dice "you're gonna
make me lonesome when you go", e via di questo passo. In questo senso non mi
è piaciuto nemmeno tutto il pezzo frammentato del Dylan-Rimbaud che
snocciolava aforismi e frasi storiche. Mi è sembrato altrettanto banale e,
anche frasi potenzialmente profonde, in quel contesto mi hanno dato
l'impressione dei pensierini sui bigliettini dei baci Perugina.
Un altro pregio del film è tutta la sequenza con Richard Gere che non so
come mai molti hanno stroncato. Da un punto di vista di "storia" e di
"sceneggiatura" mi è sembrata invece la parte più interessante, molto
visionaria, molto suggestiva, poetica e commovente. La parte più corposa in
cui Haynes mi sembra che si sia dato da fare per scrivere finalmente
qualcosa di suo che non fosse solo un collage di cose già dette da Dylan nei
suoi film e nelle sue canzoni.
Il grosso difetto di questo segmento però è che al di là della bellezza
delle scene, delle visioni, dei costumi e di tutto il resto, sembra un
trailer di un film, piuttosto che un film in sè. Sembra cioè un'anteprima di
un film di prossima uscita. Un film che però non uscirà mai. Lascia
intravvedere una storia lunghissima, complicata, affascinante, epica, ma ne
vediamo appunto un trailer di dieci o quindici minuti. Niente di più.
Peccato perchè poteva secondo me essere la cosa più bella del film di
Haynes.
Grosso pregio di questo segmento è tutta la sequenza dell'arrivo di Gere nel
villaggio e la cover da brividi di Goin' to Acapulco che incredibilmente
oscura anche quella di Dylan.
Punto debole la scena banalissima di Garrett che si scopre essere il mr
Jones di qualche scena prima, magari non necessariamente lo stesso
personaggio ma uno con la stessa faccia, lo stesso attore truccato. Un
espediente che credo sia trito e ritrito da 50 anni a questa parte a partire
dal Totò di 'Siamo uomini o caporali?'
E poi che senso ha quella scena dell'incontro con Garrett? C'è una città
chiamata Enigma piena di gente strana e vestita in modo eccentrico non si sa
per quale motivo, ok... c'è questo Garrett che vuole costruire
un'autostrada, ok... gli altri si oppongono, ok, e poi? Dov'è il seguito
della storia?
Ripeto: un trailer.
Altro grosso pregio del film è la musica e la scelta delle canzoni che
suppongo sia di Haynes. Scelta perfetta dalla prima all'ultima e non era
facile dovendo pescare tra centinaia e centinaia di pezzi. La palma della
migliore cover va per me a 'Pressing on' che mi ha dato davvero i brividi
nella scena del Dylan pastore della Gateway che fa il sermone ai fedeli. Ma
al primo posto ex-aequo metto anche l'incredibile frammento di 'Tombstone
Blues' di Richie Havens col piccolo Dylan-Woody e l'altro
musicista nero. Superba. Al secondo posto metto Goin' to Acapulco. Bella
anche la Maggie's Farm di cui si sente un frammento. Non mi ha colpito
invece positivamente (ma voglio riascoltarla) la cover di 'I'm not there
(1956)' dei Sonic Youth. Soprattutto perchè la si sente poco dopo quella di
Bob nel film e l'originale la eclissa letteralmente.
La parte del Dylan bambino nero... Mah, l'idea non era forse male in linea
puramente teorica ma tutto sommato non me lo vedo proprio un bambino nero a
rappresentare Dylan... E poi il suo personaggio è appena abbozzato ed in
cinque minuti ha già detto tutto quello che aveva da dire, ha
l'illuminazione sulla via da seguire grazie ad una frase magica della donna
di colore che lo ospita e via verso la gloria... mah, tutto molto rapido e
indolore... e poi perchè inghiottito dalla balena?... Azzardo: forse perchè
aveva detto un sacco di bugie fino a quel momento (Sioux Falls, il Messico,
le canzoni scritte per grandi nomi) e quindi, essendo un bugiardo, fa la
fine di Pinocchio e viene inghiottito dal cetaceo? Comunque segmento
alquanto algido e poco coinvolgente. Sì, è vero, quando va da Guthrie in
ospedale si impenna per un attimo ma è solo un barlume.
I restanti segmenti, il Dylan marito ed il Dylan pastore evangelico, sono
alquanto scialbi e soprattutto troppo brevi per far capire due cose
fondamentali nella vita di Bob, ovvero il rapporto con la moglie e la crisi
spirituale... Come può Haynes liquidare cose fondamentali nella vita di
qualsiasi essere umano, l'amore, la separazione, la crisi personale e la
fede, con pochi minuti di sequenze così superficiali? Non era meglio a
questo punto nemmeno prenderle in considerazione?
E questo ci porta al più grosso difetto del film (anche se mi rendo conto
che è un difetto dovuto al fatto che devi farci stare dentro tutto in due
ore) ovvero al fatto che i personaggi della vita di Dylan sono a stento
abbozzati, anzi in molti casi nemmeno abbozzati. Norman ovvero Grossman ad
esempio. Appare moltissime volte ma allo spettatore non viene detto nulla di
lui. Non si sa chi è. Lasciamo perdere i fans che conoscono a menadito la
storia di Dylan. Ma i non fans? Forse nemmeno hanno capito che quello era il
manager/padrone di Dylan.
Bobby Neuwirth c'è ma non viene mai nemmeno citato di striscio, non si dice
niente del suo rapporto con Dylan, niente di niente... Joan Baez, ok forse
non avrà avuto l'importanza nella vita di Dylan che alcuni esageratamente le
conferiscono, ma nel film di Haynes è veramente inesistente... Eppure
qualcosa avrà anche detto nella storia con Bob, artistica e non... E poi
Sara? Ovvero Claire? Non ci viene detto NULLA di questa donna. Il nulla
assoluto. Tranne che è una pittrice francese. Come può
uno spettatore che non conosce la storia di Dylan capire qualcosa dei
risvolti umani di un rapporto se non sa nulla dei personaggi coinvolti? Se
gli viene detto solo il nome e la nazionalità? E ancora: Woody Guthrie.
Viene detto solo che è un famoso cantante folk. Ok, si dirà che molti
dovrebbero conoscere già la storia di Woody. Ma chi l'ha detto? Provate ad
andare per strada a chiedere di Guthrie e della sua storia, delle sue lotte,
della sua malattia, delle sue canzoni, del suo retaggio recepito da Dylan e
da quelli come lui, del suo libro fondamentale. Dubito che qualcuno sappia
chi è o quanto meno che ne conosca
la storia un po' nei dettagli. Dunque una scena commovente come quella del
bambino Dylan al capezzale di Woody (a proposito la pronuncia è "wudi"...
perchè tutti i doppiatori continuavano a pronunciare "udi"?) può essere
apprezzata da noi dylaniani, ma uno spettatore che quasi nemmeno sa chi è
Guthrie come può recepirla? Ora, Haynes non poteva pretendere che gli
spettatori del suo film andassero prima a leggersi tutti i libri su Dylan e
sui personaggi coinvolti nella sua storia e a vedere tutti i filmati che
lo/li riguardavano. Se fai un film biografico, anche se non è un film
biografico classico siamo d'accordo, devi dare gli elementi, anche minimi,
almeno quelli essenziali, perchè lo spettatore "normale" possa capire di che
cosa si sta parlando, a che cosa si voglia alludere, che possa rendersi
conto di quali sono i rapporti tra i personaggi, di quali sono le storie che
ci sono dietro i personaggi, perchè determinate cose sono avvenute (perchè
sono la conseguenza di altre... ma se tu le altre non me
le fai vedere ci vuole la sfera di cristallo per indovinare), e ancora, in
che epoca certe cose sono avvenute.
Altro difetto infatti è che lo spettatore "comune" è disorientato
dall'accavallarsi delle scene avanti e indietro nel tempo. Noi riusciamo ad
orizzontarci perchè conosciamo a memoria le date di riferimento ma il povero
spettatore non dylaniano come fa? Come può sapere che una cosa è avvenuta
prima di un'altra nella vita di Dylan, se oltrettutto non gli viene fornito
quasi alcun indizio? Chiaro che poi la gente alla fine del primo tempo si
alza e va via perchè non ha capito quasi niente di quello che sta vedendo.
Insomma il film è buono, girato bene, visivamente splendido, è una manna per
i dylaniani che possono apprezzarne gli ammiccamenti, i rimandi, le
citazioni, le ricostruzioni d'epoca, gli ambienti e tutto il resto (anche se
molti sono un po' fini a se stessi)... ma non va in profondità, si limita ad
utilizzare molti stereotipi, a dare tutto per scontato come se tutti
sapessero già tutto di tutto e di tutti, non approfondisce anzi nemmeno
quasi tocca un periodo fondamentale come quello di Dylan a New York ventenne
che muove i primi passi nel Greenwich Village. Si concentra molto sul Dylan
elettrico ma anche qui va
avanti per frasi fatte e per situazioni semplificate (terribile la scena
della band che spara con i mitra sul pubblico... mi chiedo come possa essere
venuta in mente ad Haynes una cretinata del genere), la Blanchett superba
salva tutto quel segmento da sola. La scenetta con Dylan e i Beatles che
sembrano dei bambini è carina ed è un piccolo (ma piccolo) colpo di genio di
Haynes che bilancia la stupidata dei mitra fortunatamente, ma
stilisticamente non c'entra niente con quel segmento. Soprattutto quando
sullo sfondo, mentre Dylan parla con gli ospiti, si vedono i Beatles prima
andare a sinistra e poi correre a destra inseguiti dalla folla dei fans.
Sembra un cartone animato e la scena è bellissima ma è anche fuori luogo in
quel segmento. La sequenza con Mr. Jones è splendida ma sembra un videoclip
di Ballad of a thin man. Non sembra la scena di un film. Un film dovrebbe
essere qualcosa di diverso da tanti videoclip messi insieme. O no?
'Io non sono qui' resterà per me un film che a molti dylaniani 'duri' potrà
piacere (a chi di più, a chi di meno), ma un film non dovrebbe essere per
pochi iniziati, credo, soprattutto quando riguarda un artista che ha avuto
un peso come quello che ha avuto Dylan. Forse l'idea di fare un film
biografico non convenzionale, con sei attori diversi, con sequenze
simboliche ed oniriche, con salti indietro e avanti nel tempo senza una
logica e chiara spiegazione, non è stata l'idea vincente. Forse
paradossalmente un film biografico classico e lineare sarebbe risultato
forse meno artistico e visionario, meno intellettuale ed elitario, meno
astratto e cerebrale, ma più coinvolgente ed emozionante. Forse.
Naturalmente però forse Haynes voleva fare solo ed esclusivamente un film
non convenzionale, un film per pochi iniziati, assolutamente non biografico
nel senso classico del termine, un film poetico e visionario, dalla
narrazione ellittica, voleva rappresentare le nevrosi e i tormenti di un
Dylan ingabbiato nel ruolo di rockstar, di profeta, di poeta, incapace di
vivere una vita vera sempre nell'occhio della macchina da presa, o
dell'obiettivo delle macchine fotografiche, o del taccuino, delle penne e
dei microfoni dei giornalisti, e non gli importava che si capisse
esattamente la cronologia degli avvenimenti o che si approfondissero gli
aspetti della vita di Dylan che sono serviti solo ed esclusivamente come
spunto ed ispirazione per un film che non vuole rappresentare la vita, o
meglio "le vite", di Dylan. E allora ha ragione lui e ritiro tutto.
Michele Murino
ps: "musica tradizionale basata sugli esagoni"? Ma non erano esagrammi?
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Franz
Salve amici della fattoria.
Ho visto il film su Dylan e sono rimasto molto deluso. Dylan è presentato
come se fosse un deficiente e non un genio.Mi chiedo come Bob abbia potuto
permettere che un simile film fosse proiettato nelle sale,anzichè destinarlo
ad una pattumiera.
Se lo vedesse qualcuno che non sa nulla di Dylan si chiederebbe: "Ma perchè
mai candidano uno così al Nobel?E perchè
tanta gente lo segue?". Spero di essere stato chiaro....In poche parole, il
regista ha fatto fare a noi dylaniani la figura dei cretini.
franz
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Davide Imbrogno
“Io non sono qui!”
Una breve recensione astratta su un’opera espressionista* di Davide “the
saint” Imbrogno
Sogno, visone, passione, dolore, realtà, finzione, vita!
Entriamo in una sala cinematografica. Quelle di un tempo in cui si
proiettavano i porno film. Le luci si spengono. E delle immagini iniziano ad
essere proiettate sullo schermo. Quello è un film! Il titolo è “I am not
there”! Un film sulla vita di un certo cantante. Un ex cantante folk passato
alla musica elettrica. Titoli di coda. Fine!
Rewind! Quello è un film! Inizio! Un film sulla vita non di un artista, ma
semplicemente sulla storia di un genio solitario e misantropo: Bob Dylan!
Il regista Todd Haynes, ha creato un’opera delirante, travolgente e
sopraffina. Le perfette immagini, ci mandano in un mondo surreale. In cui lo
spirito di Magritte, si lega alla tradizione di un sacro cinema: da Fellini
a Godard, da Antonioni a Vigo, da Peckinpah a Burton. In quelle immagini,
l’oggi diviene domani, e il domani è già ieri.
Diversi attori che interpretano differenti periodi della vita e del sogno di
Dylan. Sei volti, sei personalità, sei stati d’animo differenti. Dylan da
bambino che strimpella la sua chitarra, è un negretto, immaginiamo che
Haynes abbia voluto prendersi una “sacra” licenza poetica. Sublime la scena
in cui il bambino, va a trovare Woody Guthrie in ospedale, triste e commosso
nel guardare la sua “guida” in agonia. Il Dylan folk è interpretato da
Cristian Bale, un Dylan tormentato spiritualmente, si converte al
cristianesimo, loda Gesù cantando in una chiesa evangelica, in seguito si
riconvertirà all’ebraismo. Arthur Rimbaud interpreta il Dylan poeta. Ma
vediamo anche un Dylan padre e marito, interpretato da Heath Ledger. E poi
cambiano i colori, e ci troviamo dinanzi uno strepitoso Richiard Gere, sopra
un treno merci, pronto ad andare verso il tutto e verso il niente. Un “Bill
the Kid” solitario, un fuggiasco, un uomo consapevole del suo dolore,
consapevole di portare con se un fardello fatto di consapevolezza.
Consapevole di percorre una strada solitaria. Niente e nulla è scontato.
Tutto un giorno verrà pagato. “Bill the kid” è l’anima solitaria, pronta a
bussare alle porte del paradiso, chiedendo giustizia. Un’anima solitaria
diretta verso la valle. Bill vive in un paese chiamato Enigma, un posto in
cui modernità e passato si mescolano, un luogo immaginario, suggestivo. E
forse proprio in quel posto, Dylan si è sempre rifugiato da tutti e da
tutto, cercando di spingersi “al di là del bene e del male”.
E poi…poi veniamo trasportati in un mondo felliniano, come Mastroianni
interpretava un artista visionario in “8 e mezzo”, Cate Blanchett
(sublime!), interpreta un Dylan allucinato, smarritosi volontariamente nella
sua mente, tra allucinazioni e psicosi, tra complotti e desideri, tra amore
e misericordia. Così, la vita di Dylan diviene un poema beat. Un poema di
consapevolezza. Consapevole di un domani che è già passato. Consapevole di
un whiskey già bevuto. Consapevole di un amplesso già goduto. Consapevole di
una verità fittizia. Un poema scritto in una notte d’inverno, una notte in
cui il sangue ha bagnato i cuscini, e la pioggia è divenuta vento.
Quei volti, quelle immagini, illustrano un genio pronto a percorrere un
cammino, un sentiero selvaggio che l’avrebbe portato sul monte della
cognizione, in cui il male è bene, ed il bene è male. Un posto in cui verità
e bellezza non vengono più ricercate, ma solo guardate attraverso un vetro
nero di un Rayban anni sessanta.
*il sottotitolo si collega alla recensione del mio fraterno amico Dario
twist of fate (abbiamo visto il film insieme). Il sottotitolo della sua
recensione è “una recensione astratta su un’opera impressionistica”. Non
sono d’accordo, credo che d’impressionista nel film ci sia poco e niente.
Credo che l’opera sia di tipo espressionista e surreale! I segni trasmessi
dall’ immagine hanno un alto valore metaforico, sono allegorie di uno stato
d’animo. Nel film la realtà viene distorta. E che cos’è questo se non
espressionismo?
Per quanto riguarda Paolo Vites e la sua recensione, mi ha colpito ciò che
dice a proposito del cinema: “Poi a me il cinema non piace. Be’, mi
piacciono I vitelloni di Fellini o Un mercoledì da leoni, ma poco altro. Lo
trovo un mezzo limitato ad esprimere in un paio di ore storie, persone,
fatti. Le vite della gente insomma”. E allora io dico: ma perché il Vites
ascolta canzoni? Le canzoni raccontano storie e vite in circa tre minuti
(Dylan lo insegna)! Mi sembra una lieve contraddizione! Non c’entra il
tempo, non c’entra quanto si impiega a raccontare qualcosa, tutto dipende da
come lo si fa!
Voto: 9
Un consiglio per chi ancora non ha visto l’opera: andate a vedere il film in
compagnia della dolce Queen Mary.
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Junior
ciao...innanzitutto complimenti per il sito
ho visto il film mercoledi,e mi è piaciuto moltissimo... sicuramente per uno
che non ha seguito o,se vogliamo dire "studiato" bob
dylan,questo film è quasi incomprensibile,molte parti infatti devo ora
rivedermele appena lo potrò comperare,perchè ci sono moltissime scene
simboliche,ma credo che bisognerà mettersi tutti assieme per poterle capire
tutte...
sarei felice se si potesse fare una sezione in cui si spiegano le varie
simbologie del film...
vorrei in particolare sapere cosa rappresenta la ragazza sulla bara e la
balena che inghiotte woody...
ho visto poi il cavallo bianco morto,di cui parla in una canzone di cui ora
non ricordo il titolo...
ciao, junior
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Giovanni Della Corte
Martedì scorso, dopo il clamore delle prime recensioni positive, mi dirigo
solo soletto da casa per vedere "Io non sono qui" all''America Hall di
Napoli, supertraffico di ordinanza ma riesco fortunatamente a parcheggiare
l'auto a breve distanza dal cinema. Spettacolo delle 20:00, chiedo un
biglietto e mi viene indicata la sala n°1 quella grande, quella per
intenderci destinata ai film più gettonati.Ero l'unico spettatore, non solo
del film in questione ma di tutto il cinema che è un piccolo multisala. Era
aperto il bar, c'erano delle signorine con banchetto che pubblicizzavano gli
abbonamenti ad un cineforum, tutto come nei giorni di pieno regime, e tutto
questo solo per me...! Una grossa responsabilità mi è toccata, una atmosfera
irreale e suggestiva e diciamo anche suggestiva, molto dylaniana per
intenderci. Mi siedo al centro della sala e lascio il cell. ovviamente
acceso, al massimo disturberò me stesso, si spengono le luci e parte, oserei
dire in automatico, la proiezione. Un caleidoscopio di immagini già nel
prologo, e poi la musica, una stuck inside of mobile nella sigla di testa,
una delle mie preferite che mi trasmette un senso di pace e compiacimento.
Todd Haynes è un fanatico di Dylan e lo si vede chiaramente in tutto e per
tutto. La scelta delle canzoni non è quella da appassionato della prima ora,
le immagini sono modulate con le melodie di un canzoniere personale che ogni
seguace di Bob Dylan ha fatto proprio e che spesso coincide. Per intenderci,
Blind Wille Mc Tell e Man on the long black coat, anche queste tra le mie
preferite, non le senti per radio se non in programmi di memorabilia o di
"area protetta" ma proprio per questo ci appartengono di più rispetto alla
abusata Blowing in the wind, che è patrimonio di tutti, e al tempo stesso
individua ed etichetta il personaggio in questione, che in questo film come
nella vita reale sfugge alle umane comprensioni, reinventandosi sempre in
maniera diversa da quello che vuole il comune sentire del tempo. Volendo
fare un gioco di parole, Bob Dylan è figlio del pretempo nel modo in cui ha
precorso con la sua arte e la sua vita i cambiamenti della società, un vero
intellettuale, sempre contro e comunque e per questo infinitamente onesto.
Il film in questione tenta di rappresentare tutto questo, è un film
dylaniano, dicevo in tutto, una sorte di enorme copia e incolla di Tod
Haines tra i simbolismi di Mr tambourine e la sua musica e i riferimenti ai
grandi del cinema con Fellini in testa. Bob Dylan è una spugna ebbene Haines
non lo è da meno. I sei personaggi non sono tutti pienamente riusciti, ma
soprattutto perchè Cate Blanchett sbaraglia tutti con il suo Dylan
verosimile, da premio Oscar. In tema di regia bellissima la fotografia del
Dylan Blanchett con i contorni della swinging london dell'epoca, ma ancora
più bella la basament tapes del Dylan Gere con Jim James che canta un
astraordinaria Going To Acapulco. Sono uscito dal cinema soddisfatto, sempre
da solo e salutando l'addetto al cinema che mi guardava in maniera stranita,
imperniato com'ero da quella dimensione onirica non mi avrebbe sorpreso
incontrare una giraffa girato l'angolo.
Giovanni Della Corte
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Bruno "Jackass"
Ho appena visto il film...
Mia moglie, che di Dylan conosce soltanto le canzoni più famose, s'è
annoiata molto e s'è fatta di Dylan una brutta immagine. Dal canto mio credo
sia la peggiore opera sulla vita di Dylan che ho mai letto/visto/ascoltato.
Sono stati presi tutti gli aspetti più
mitizzati del personaggio e sono stati mistificati a fini spettacolari.
Sembra più che altro un trip onirico su come Dylan può apparire nella mente
di un fan "decerebrato" e disinformato.
Molto peggio di quel film pessimo sulla vita di Jim Morrison.
Una cosa che mi ha sconvolto è che la consulenza ai dialoghi italiani sia
stata a cura di Tito Schipa Jr., cioè del peggior
traduttore/intreprete di Dylan in Italia. La versione in lingua originale
deve essere sicuramente meno peggio.
Il fatto che Dylan abbia autorizzato il film non significa nulla perché
credo che neanche l'abbia visto e comunque Dylan ha sempre giocato a
distruggere il proprio mito per poi rinascere, più forte, dalle proprie
ceneri.
Potremmo stare ore a criticare ogni singolo fotogramma... ma è una perdita
di tempo.
Le uniche emozioni sgorgano dalle canzoni di Dylan, e particolarmente da
quelle cantate da lui.
Per fare arte non bastano sei attoroni e un regista, ci vuole un cuore.
P.S.: come al solito anche la traduzione del titolo è toppata: "Io non sono
qui" è esattamente il contrario di "Io non sono lì",
e dal punto di vista del significato è totalmente fuorviante ed opposta al
senso della canzone "I'm not there".
Cordialmente
Bruno Jackass
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Matteo "Squirrel"
Mi sono recato a vedere “Io non sono qui” pieno di curiosità., come penso
tutti coloro che seguono le pagine di questo sito.
Per esprimere una valutazione complessiva riguardo l’opera c’è però bisogno
di suddividerla in diverse parti.
Intanto necessita sottolineare che è difficile esprimere un giudizio
obiettivo su un film che tratta un argomento del quale si è così partecipi,
conoscitori, direi affezionati.
Dal punto di vista puramente cinematografico ho notato una grande fotografia
e una scelta del bianco e nero che riproduce magnificamente l’ ambientazione
anni ’60 e lo fa in modo preciso e accurato già dal tipo di caratteri usato
nei titoli di testa.
Il film, come sappiamo è scomposto in diverse parti , diversamente trattate
tra loro. La mia opinione quindi è diversa a seconda del “segmento”.
Trovo decisamente fuori luogo il tipo di recitazione del bambino di colore,
oltre che forzata la scelta di un interprete del genere. La prima parte
della vita di Bob Dylan è già abbastanza romanzata e avventurosa senza
bisogno di aggiungere simbolismi quali balene o altro…
Trovo veramente inutili le “finte interviste” che tanto mi ricordano quelle
umoristiche presenti nei film di Woody Allen (ma quelle erano appunto
umoristiche).
Il Bob Dylan di Cate Blanchett è a mio modo di vedere il migliore, sia per
l’interpretazione sia per il modo di raccontarlo. Anche qui ci sono i
simbolismi, ma meglio si sposano con la sceneggiatura.
Il tutto mi sembra avere una uniformità stilistica decisamente superiore. Il
regista qui ha potuto usare un linguaggio a volte anche visionario che bene
ci trasmette lo stato di confusione interiore del Dylan di quegli anni.
Ecco, trovo che qui vi sia il cinema migliore raggiunto all’interno del
film. Purtroppo anche in questo segmento ho trovato delle forzature:
piuttosto dei mitra spianati sulla folla del folk festival, avrei preferito
una sceneggiatura che calasse il pubblico in sala (soprattutto quello
inconsapevole) nei panni del pubblico di Newport. Mi sarebbe piaciuto
percepire la grande attesa per il nuovo re del folk, la tensione che sale
tra i presenti e poi il grande schiaffo delle chitarre elettriche a volume
mostruoso. C’era bisogno di usare dei mitra? Non è stata quella una raffica
già abbastanza efficace?
La parte relativa al Dylan post incidente e la fase più “famigliare” è
intensa solo in particolari momenti come la scena tra Bob e Sara con Idiot
Wind che scorre in sottofondo.
Il Bob Dylan interpretato da Richard Gere è quello che più mi ha lasciato
perplesso. Ho letto, qui sul sito, che la città di Enigma rappresenterebbe
la repubblica invisibile ecc., ma personalmente trovo del tutto inutile una
rappresentazione così lontana dalla realtà. E’ vero, le immagini sono
nuovamente suggestive e Haynes dimostra davvero di saper usare la macchina
da presa, ma è proprio per questo che mi rammarico maggiormente.
Un film che è stato presentato in prima visione tramite uno sforzo
pubblicitario non indifferente rischia in questo modo di sparire dalle sale
in pochissimi giorni. Potete stare certi che chi poco sa di Bob Dylan
difficilmente sarà convinto da questa pellicola, così carica di riferimenti
e citazioni alla sua vera storia, in massima parte però solo simboliche e da
decifrare. In questo modo, grazie al passaparola, anche il vasto pubblico di
appassionati di musica sarà tenuto alla larga dalle sale. Non credo che
questa sia stata una scelta consapevole e deliberata visto il largo battage
pubblicitario che ne ha accompagnato l’uscita.
Devo aggiungere però una cosa importante: uscendo dalla sala ho avvertito un
forte peso, una certa angoscia e non perché il film mi fosse dispiaciuto
totalmente. Probabilmente è l’angoscia vissuta del protagonista? Alla fine,
quindi il regista è riuscito a trasferirci e a darci un’idea
dell’irrequitezza interiore di Bob Dylan? Beh se così fosse bisogna
ammettere che è un risultato che nessuno era riuscito ancora a perseguire e
che il film ha raggiunto uno scopo non indifferente.
Matteo "Squirrel"
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Alessandro Metlica
Caro Michele,
ho visto ieri sera I'm not there. Ora, se ti scrivo è perché ho letto il
dibattito sul sito, e francamente ho trovato imbarazzanti alcuni dei pareri
espressi, in particolare quello di Paolo Vites, critico che stimo e rispetto
ma che, questa volta, mi pare non averci capito un'acca.
Intendiamoci: qui parliamo tra dylaniani, e perciò è normale che un film
come Masked e Anonymous ci abbia toccato; personalmente, ne sono stato
emozionato. Questo non toglie che sia un cattivo film: a livello narrativo,
strutturale, e onestamente anche visivo, dove non si segnala per spunti
particolari. I gusti sono gusti, e non per questo un film deve non piacere.
Tutti hanno diritto alla propria opinione. Però paragonarlo alla pellicola
di Haynes è davvero troppo. A livello visivo I'm not there è superbo: è
realizzato da uno che di cinema ne capisce, e si vede. Il montaggio è
raffinato, propone alternanze di colori che danno i brividi, e i vari stili
di regia (dal documentario al cinema classico, sino al
grottesco/avanguardistico della parte della Blanchett) sono giustapposti
senza soluzione di continuità, con un'intuizione geniale, la sola che
potesse esprimere anche visivamente la molteplicità di Dylan. In questo
stile babelico e multiforme anche le citazioni da videoclip si innestano con
naturalezza.
Ora, che dire del montaggio della scena in cui la Blanchett scrive
Tarantula? Qui siamo ai livelli di un Godard, di un Eisentein. I dettagli
(in primis la tarantola su sfondo bianco), i piani medi o ravvicinati sono
alternati, ripetuti, stratificati come nel tentativo di rendere la stessa
scrittura dylaniana, fatta di ritagli incollati tra loro.
E come sarebbe a dire che a volte Haynes sbaglia nell'associazione tra
musica e immagine? Ma l'avete visto il cavallo morto che appare sulla strada
di Richard Gere mentre si sentono le prime note di The man in the long black
coat? Inoltre credo che, offrendo la propria interpretazione delle canzoni
di Dylan, Haynes abbia talvolta toccato il loro senso più profondo: mi
veniva da piangere, a vedere la Gainsbourg fare l'amore per l'ultima volta
sulle note di Idiot wind, o ancora (sarà banale, ma vero al tempo stesso)
quando Blind Willie McTell accompagnava il piccolo Dylan al letto di Woody
Guthrie, vicino al vecchio mondo che stava morendo…
L'operazione, in sé, è certo criticabile. Altri cinefili che hanno visto il
film con me, ma che non conoscono Dylan come lo conosco io, hanno trovato il
film molto interessante, splendido a tratti ma confusionario, un po'
caotico. Vero: difficile capire il dialogo tra la Blanchett e Coco sulla
collina, se non si colgono i versi di She's your lover now (non esattamente
una canzone celebre…) Non a caso la parte più apprezzata dai miei amici è
stata quella del Dylan elettrico, la più conosciuta, con alcuni particolari
da brividi, come il Dylan-aquilone che ondeggia in cielo, appeso a un filo,
nella metafora di un sogno (non si capisce di chi, se suo o di una
generazione).
Insomma: caotico forse, criptico sicuramente, e di arduo godimento per chi
non conosce Dylan. Ma noi, che Dylan lo amiamo, facciamo uno sforzo: qui è
un intero linguaggio, quello cinematografico, a rendergli omaggio, e nel
modo più sincero possibile; perché Haynes è un po' celebrale, forse, ma mai
freddo. Questa non è un'opera di Dylan, per cui non vi si parla il suo
linguaggio, come invece avveniva in Masked and Anonymous: ma è la più grande
opera su Dylan finora concepita. E dubito che, visivamente e poeticamente,
si possa fare di più, in un libro o in un film.
Alessandro
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Francesco Maggi
Ciao Michele,
riguardo a "I'm not there"!
Funzionano il Dylan 66 di Blanchett e il Dylan 60-61 del ragazzino nero,
evocano davvero la biografia di Scaduto, Chronicles (per il 60-61), i
documentari sul 66 e le varie leggende su Dylan, in una forma nuova
(prescindere da queste fonti era impossibile, ovviamente).
Nella parte Dylan 66 è meno riuscito l'accenno al rapporto Dylan-Hardy.
Ho trovato noioso il personaggio Dylan-attore con la sua fidanzata-moglie
francese ibrido fra Suze e Sarah. Privo del supporto
di fonti e modelli di spessore, la qualità della storia precipita verso un
polpettone sentimentale che non prova a raccontare nulla nè dell'amore di
Dylan per queste due donne nè della sua infedeltà cronica a entrambe... non
c'è un singolo episodio che contenga un minimo di poesia, di umanità...
davvero non si poteva inventare di meglio ascoltando le tante canzoni che
paiono evidentemente parlare di queste donne? Nota critica relativa
all'edizione italiana: o la fai parlare in italiano, o prendi una francese
vera e la fai parlare in italiano... ma prendere un'italiana che fa il verso
dell'accento francese è roba comica... la pantera rosa davvero!!!
Inguardabile il Dylan-di protesta del 62-63, pare un sociopatico! Chiunque è
entrato in contatto con foto, canzoni, scritti, filmati, interviste,
testimonianze del periodo sa che non c'entra nulla.
Certo poi arriva il Dylan-cristiano-rinato e allora rimpiangi quello di
protesta ehehehe
Carino il Dylan-intervistato.
La parte di Gere ha alti e bassi: il picco negativo è la scena con Pat
Garrett, il picco positivo la scena in cui si ferma ad ascoltare la canzone,
con la bara sul palco e quell'incredibile gruppo che suona... stupenda!
Bellisima la musica (ahahhaha!)
Nel complesso mi sono divertito perchè è sempre emozionante entrare in
contatto con la musica di Dylan. Mi sembra che il film non sia molto
riuscito in relazione al potenziale enorme che portava l'idea dei sei attori
e del montaggio a incastro, e purtroppo, a tratti, riesce addirittura ad
essere irritante! Il regista ha dimostrato tutti i suoi enormi limiti di
storyteller in svariati punti della storia, in particolare in quelli dove
aveva scarse fonti o riferimenti di altri registi, oppure dove li ha usati
parzialmente o affatto.
In conclusione, non credo lo riguarderò mai, o lo consiglierò a qualcuno che
voglia avvicinarsi a Dylan con un film. In questa
direzione, No Direction Home è infinitamente più valido!
Ciao
Francesco (Acoustic Visions of Bob Dylan)
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Dario "Twist of fate"
“Ode a Jude Quinn: baciato dalla Fortuna, ma lontano della grazia di Dio”
Sottotitolo:
Una Recensione Astratta su un’opera impressionistica
Hanno detto:
“Quello di Todd Haynes è una miscela perfetta di musica, arte visiva,
cinema!”
“L’autopsia di uno dei più eclettici talenti musicali d’ogni tempo!”
“Tecnicamente splendido per quanto riguarda la parte narrativa e
fotografica!”
“Uno scenario di libera e devastante indigenza.
C’è uno struzzo, gente sfollata, uomini a piedi diretti verso la fine del
tempo, nel Missouri, in un piccolo villaggio chiamato Enigma, fantasmagorica
polis minacciata dall’Autostrada della Modernità, di sicuro situato lungo la
Highway 61, dove Dio chiese ad Abramo di sacrificare suo figlio…
Gli occhi ingannano il vecchio fuorilegge, Kid, che scorge nel caos una
giraffa…
Gabriele nel cielo suona la sua tromba, ma si può vedere solo da un
marciapiede di Los Angeles, quando ci sente soli, sperduti fra il nulla e
l’addio, alla ricerca di verità e bellezza…
Una tarantula in bianco e nero sfila ripetutamente, con la sua cadenza
perversa ed ammaliante…
Ginsberg che rincorre su un macinino il menestrello traditore annunciandogli
che se si è venduto lo ha fatto a Dio, ringraziandolo per aver introdotto
l’arte nel jukebox all’idrogeno…
I Beatles, quattro candidi monellacci, si rotolano in un giardino
alto-borghese, le loro voci sanno di elio, ma non lo è quello che hanno
appena spippettato…
Colpa di un ex- cantante folk che adesso fa tossire termosifoni, mentre i
gatti sul tetto miagolano il loro amore…
E’ un cantante con voce asmatica e imperfetta quello che fa risuonare la sua
armonica, le chitarre mercuriali, l’organo e il piano come se fossero
coltelli a serramanico, o peggio fucili mitragliatori, che luccicano in una
notte senza fine…
Le anfetamine, la mancanza di riposo, le contestazioni di un pubblico
evidentemente impreparato che arriva a chiamarlo Giuda… facendo di lui un
pallone aerostatico…
Soltanto una pedina nel loro gioco o forse un semplice scherzo del destino,
quello che ti fa perdere la donna amata, forse perchè “Tu hai domato il
leone nella mia gabbia ma non era abbastanza per cambiare il mio cuore!”
Ispirato alla musica e alle molte vite di Bob Dylan, recita la didascalia
iniziale…
Visivamente fascinoso, miscelato fra un rotocalco menzognero, biopic,
tecniche da videoclip, verità e fantasia, I’ m not there, brilla d’intense
luci lisergiche.
C’è dentro una bella fetta del glorioso cinema anni 60-70 e non solo…
Da Fellini (Dolce Vita e 8 e ½, su tutti, ma anche Giulietta degli spiriti e
Casanova) all’Antonioni di Blow Up, da Godard a Peckinpah, fino a Gus Van
Sant e Tim Burton, perfino una citazione da Jean Vigo e dal Woody Allen di
“Zelig” e di “Accordi e Disaccordi”, ed almeno un pezzetto di Renaldo &
Clara…
Il tutto impreziosito dall’inimitabile song book dylaniano, nelle sue
versioni più conosciute o in nuove riproposizione di altri artisti, ed è
doveroso citare almeno le rivisitazioni di Goin’ to Acapulco, Ballad of thin
man, Knockin’on heavens door, Pressing on e un’audace Maggie’s farm…
Una sinfonia di immagini, dove con grande coerenza ed abilità sfilano i
pezzi da novanta del repertorio dylaniano: Vision of Johanna, Idiot wind,
Sad eyed lady of lowland, Memphis blues again, All along the watchtower,
Simple twist of fate, Like a rolling stone, Blind Willie Mc tell, Man in the
long black coat)
Hanno detto:
Le storie dei sei personaggi s’ intrecciano, pur essendo diverse e lontane
tra loro, non solo nel tempo e nello spazio ma anche nello stile: alcune
sono in bianco e nero, altre a colori, tutte comunque legate in qualche
modo, esattamente come si legherebbero le multiple personalità di un Genio!
A Cosenza, Cinema Garden, Sala A, quella piccola, per fare posto a Shrek 3,
che si è beccato la grande…
Ci sono poche persone, durante i tre spettacoli. L’esercente dice che il
film resterà fino a giovedì in programmazione e che nei primi quattro giorni
ha incassato una miseria! M’incupisco: ci sono poche persone, ripeto,
tutt’altro che entusiaste, a parte me e un signore anziano, un’Eminenza
Grigia, sarà stato un Poeta o un professore che la sa molto lunga…
Il suo commento finale è stato, “Non so in che modo questo film possa
interessare e piacere alla gente comune, in fondo ci sono molti più elementi
che in una vita media”.
E poi “non lo definirei proprio un vero Capolavoro, anche se oggi, dove sono
“questi Capolavori!?!”
Ho ringraziato e mi sono accucciato nella poltrona mentre i titoli di coda
scorrevano lenti su una maestosa “Knockin ’ on heavens door” eseguita da
Antony & The Johnsons
“La recensione nella recensione”
La narrazione si confonde, fra passato presente e futuro, alla Rimbaud,
sogno e realtà, pillole & alcool, bianco e nero misto a colori sgargianti,
foto che prendono vita, canzoni che si trasformano in film, documento e
finto documentario, e un film che è una canzone!
Todd Haynes, dirige questo caleidoscopio senza sbavature e senza poi tanti
eccessi barocchi, muove la fotografia e la fa vibrare di luce come se fosse
un elemento aggiunto, la sua sfida è quella di restituire poesia al cinema,
e ci riesce, musica, immagini, linguaggio dei segni, pittura astratta,
pescecani che inghiottono sogni di gioventù e candore…Un predicatore coi
capelli ricci, sul finire degli anni 70…
Strepitose le interpretazioni di tutti gli attori, incantevole Julianne
Moore nei panni di Joan Baez, dotata di una melanconia dolce e disarmante…
E poi eccellenti Richard Gere, nei panni di un ex- bandito ora indigente che
ha probabilmente perduto la sua strada ed è miracolosamente sopravvissuto ad
una pallottola oppure a se stesso, alla sua leggenda…
Christian Bale che ancora una volta rivendica la sua sconfinata bravura,
fuori dal comune e dagli schemi…
Heat Ledger, modesto divo della nostra epoca, che però regge bene al
confronto nella calata agli inferi del periodo dylaniano dark, che ha però
prodotto dischi come Planet Waves, Blood on the tracks e Desire, ma che ha
tormentato l’autore con la solitudine, lontano dalla sua bucolica visione di
vita e di famiglia…
Senza parole l’interpretazione mimetica ed eterea di Cate Blanchett,
vincitrice della Coppa Volpi al Festival di Venezia e sicura candidata dei
prossimi Golden Globe…
Amore ed invidia per questa grande attrice!
Un film su Dylan, sull’America e forse anche su noi stessi, su come siamo
cambiati per sopravvivere e su come siamo stati capaci di distruggere ogni
cosa che amavamo, fino all’Apocalisse. E l’abbiamo fatto proprio come una
donna, incapace di fare gran poesia e per questo motivo votata soltanto al
nichilismo; quando un’altra luce si spegne e un'altra notte risplende nei
nostri cuori!
Buona fortuna ai sopravvissuti da Dario Twist of fate, il parassita di Piano
dei Rossi Lounge # 41
Una scena su tutte: Richard Gere osserva il panorama e in lontananza si
sentono echi di cannoni,
Guerra Civile a Babilonia! A me sembra la mia Catena Costiera e mi emoziono
un po’, in un breve twist of fate…
La parte meno convincente: quella del poeta Rimbaud, interpretato dal
modesto Ben Wishaw, lievemente superflua e impalpabile
La canzone: “Goin’ to Acapulco” eseguita da Jim James & Calexico
La frase: "Io non scelgo le canzoni da cantare, sono loro a scegliere me”
Voto: 8 e ½ (non a caso)
Un consiglio: prima del film (ri) -ascoltate Highway 61, Blonde on Blonde e
Blood on the tracks!
“They sat together in the park, as the evening sky grew dark, She looked at
him and he felt a spark tingle to his bones. 'Twas then he felt alone and
wished that he'd gone straight
And watched out for a simple twist of fate”
Dario "Twist of fate"
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Adrea Orlandi
foto di Andrea Orlandi
Caro Michele
ho visto l'altra sera la proiezione a Venezia di "I'm not there" e
finalmente si è dissolto l'incubo di assistere ad un clamoroso flop.
Emozionatissimo, ero in sala con circa 1.800 sconosciuti. Appena pochi
secondi dopo le prime immagini ed i primi suoni, la paura è svanita, e son
rimasto inchiodato alla sedia, come TUTTI gli altri 1800 presenti, per 2 ore
e mezza, travolto dalla forza evocativa della rappresentazione della vita di
uno dei più grandi artisti del secolo.
Montaggio incalzante , spostamenti in avanti ed indietro nel tempo - e nei
personaggi - continui , citazioni familiari, musica grandiosa (e molta di
più di quanto mi aspettassi in versione originale ufficiale di Bob) attori
entusiasmanti.
Non voglio andar oltre per non rovinare la sorpresa della prima a chi non ha
ancora visto il film, ma voglio dire che, almeno per me, ha superato ogni
aspettativa.
Originale nel raccontare la storia e nel rappresentare l'artista, la cosa
che più mi ha colpito è il modo in cui ti fa entrare nella sua mente , fino
quasi a farti provare l'emozione di come possa funzionare.
Ecco , è come un viaggio all'interno della mente di Dylan e delle sue
canzoni per i primi venti anni della sua carriera.
Forse la parte meno riuscita è in alcuni rimandi alle vicende familiari, con
scene troppo forzate e frettolose, messe per cucire la storia del divorzio.
Cate Blanchett è diventata la mia attrice super preferita: è di una bravura
sconvolgente, e posso dire che il minore dei pregi è la straordinaria
somiglianza che riesce ad avere con l'artista di Blonde on Blonde e del
British tour.
Era impossibile fare meglio di quello che ha fatto lei, non la cambierei con
nessun altro in quel ruolo.
E Todd Haynes è un genio per la scelta di una donna a rappresentare Bob in
quel periodo, come per il modo originale in cui ha saputo rappresentare i
momenti topici delle sue performances.
Haynes con la Blanchett ha catturato per sempre l'essenza del Dylan
"hipster" del '66, rivelandone anche il lato femminile che spiega il fascino
che emana forte anche per il pubblico maschile.
foto di Andrea Orlandi
Ho voglia di vederlo subito di nuovo per
rivivere l'esperienza dell'altra sera sperando che venga confermata .
E' un film che, tra l'altro, potrebbe sicuramente colpire dritto al cuore
anche uno spettatore che non sa nulla di Dylan, e penso che potrà
incuriosire molti, portando ad allargare la platea dei suoi ammiratori.
Andrea Orlandi
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Gipsy Flag
Il dibattito su I am not there si fa acceso e interessante. A me sembra che
il film di Todd Haynes tenti di avvicinarsi realmente all’estetica
dylaniana. I piani diversi sovrapposti e intersecati, a formare un
caleidoscopico disegno generale, ricordano l’idea che Dylan ha espresso
parlando di Blood on the Tracks. Così anche tutto il gioco di sostituzioni e
spostamenti, di sfasamenti temporali e di soggetti fluttuanti, che
caratterizza il film e lo rende caotico, difficile, forse impossibile per
chi non ha sufficienti
conoscenze per decodificare tutto l’intrico di riferimenti. Riferimenti che
possono essere estremamente precisi e raffinati o assolutamente infedeli e
fuorvianti. Non sono forse sempre stati così i riferimenti culturali e
musicali dello stesso Dylan?
Le migliori e più coinvolgenti interpretazioni degli attori che impersonano
Dylan sono le più lontane dalla somiglianza: Marcus Carl Franklin è un
ragazzino nero, Cate Blanchett una donna, Richard Gere tutt’altro tipo. Il
registro interpretativo è affettivo o di magistrale immedesimazione, nel
caso della Blanchett. Il sorriso della Blanchett nella sua ultima
inquadratura è talmente enigmatico e inquietante che merita secondo me di
essere ricordato nella storia del cinema.
Dopo decenni in cui la figura di Dylan ha continuato per un verso o per un
altro a essere imprigionata a Blowin’ in the Wind e ai soliti stereotipi,
qui troviamo un regista che inchioda Dylan alla canzone più oscura,
sconosciuta, sconclusionata e inquietante di tutto il suo repertorio: I'm
Not There (1956). Infatti sono proprio l’enigma, lo sfuggimento,
l’indefinitezza (e la libertà) a essere poste come chiavi di lettura del
personaggio Dylan e dello stesso film. L’autostrada a sei corsie che
minaccia il piccolo villaggio
chiamato “Enigma”, nel frammento di storia con i riferimenti a Billy the
Kid, mi sembra il passaggio nodale per la comprensione di tutto il film. La
rivendicazione del diritto a essere complessi, stratificati e
contraddittori, di fronte all’appiattimento del costume generale a cui Dylan
fu testimone nel passaggio tra gli anni cinquanta e sessanta, e contro cui
protestò. Il rifiuto di qualsiasi cliché, di qualsiasi ruolo o atteggiamento
preconfezionato, che Dylan ha espresso in tutta la sua vita. Il suo “non
esserci” quando doveva esserci, nell’estate dell’amore, a Woodstock, in
quegli anni settanta che non gli appartenevano
più. La “chiave” di Dylan è nei Basement Tapes: Greil Marcus e Alessandro
Carrera lo hanno abbondantemente argomentato. Todd Haynes coglie nel segno
intitolando così il suo film. Lasciando nel finale i due riferimenti più
importanti: l’autenticità esoterica della tradizione popolare e l’enigmatica
concezione dylaniana del tempo...
Perché dunque lamentarsi con questo regista e con questo film? Todd Haynes
non celebra né beatifica né documenta il fenomeno Dylan, piuttosto lo
rielabora creativamente e affettivamente. Così come anche Sam Shepard aveva
fatto nel suo Rolling Thunder logbook.
Gipsy Flag
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Stefano C.
Ho visto il film, finalmente!
Che dire? Da una parte mi e' piaciuto in modo totale dall'altra un po' meno,
ma andiamo in ordine. Esco dal lavoro e andiamo io, mia moglie e le mie
figlie (virtuali) al cinema, non so perche' ma mi sembra di stare andando a
un concerto di Dylan l'emozione e' la stessa. In sala siamo in tutto 5
persone piu' le mie figlie che sono 2 virtuali perche' stanno nel pancione
di mia
moglie e quindi siamo in totale 7.
Si spengano le luci e... BOB DYLAN!
Si! Bob Dylan perche' questo film e' suo, e' di lui che si parla, le vicende
che si dipanano per tutta la durata del film sono unicamente sue.
Si apre il film con il Dylan elettrico nell'obitorio a dire cosa sarebbe
accaduto se Bob fosse morto in quell'incidente motociclistico...
E via si parte con il film. E' incredibile! E' incredibile come ogni
dettaglio non viene trascurato e questa e' la parte che mi e' piaciuta di
piu' del film, e' incredibile come le foto che abbiamo visto di Dylan,
durante gli anni prendono forma e vita, mi riferisco soprattutto al periodo
mostrato dal film con Dylan e Claire (Sara), la casa, e come e' l'aspetto di
Dylan, di quel periodo.
E poi il ragazzetto di colore, bellissima la scena del bambino-Dylan che va
a trovare Woody Gutrie a letto veramente commovente.
E il Dylan elettrico con Cate Blanchett che imita Dylan raggiunge quasi la
perfezione!
Ma la scena migliore del film secondo me e' quella (tutta l'intera sequenza)
del giornalista, in cui Dylan sputa veleno cantando Ballad of a Thin man,
soprattutto quando il giornalista entra nella sala del concerto e c'e' il
pseudo Dylan che recita la song e 'Non e' cosi Mr. Jones?' GRANDE!
La cosa che mi ha colpito del film sono i dettagli, addirittura le unghie di
Cate Blanchett nere come Bob le aveva in quel periodo o le movenze di questa
in tutte le situazioni.
Grande la colonna sonora.
La cosa che non capisco e' quale e' la chiave di lettura del film?
Chi conosce Dylan sa molto vedendo e ne sa cogliere anche le varie sfumature
del film stesso anche i continui flash-back ma a chi non lo conosce come ne
esce fuori qui? (bob)
Eppure questo film e' stato addirittura autorizzato da Dylan quindi viene
presentato come un qualche cosa di 'VERO'.
In poche parole per me e' un grande film su Bob, non so quanto si poteva
chiedere di piu' al regista visto come e' Dylan e le cose che si hanno su
Bob Dylan.
Peccato che riguarda solo alcuni periodi della carriera di Bob!
Ad ogni modo la cosa che traspare dal film e' la grande sofferenza di Bob a
tutto questo, al mondo musicale e non solo, anche sofferenza alla vita
stessa.
Joan Baez lo disse una volta: Dylan non e' mai stato felice.
Stefano C.
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Ferdinando "Ferdyp" Pollastri
Cari amici, ieri sera (7 settembre) sono andato a vedere Io Non Sono Qui.
Premetto che non sono un esperto di cinema ma, a differenza di Paolo Vites,
a me il cinema piace, non capisco quali siano le caratteritiche per dire che
un film sia valido però credo che un film come Forrest Gump, ad esempio, sia
meglio di Natale A Miami, ma quello lo sapevano anche i gatti. Posso inoltre
dire da modesto scrittore di canzoni che è molto più facile esprimersi in
due ore di film che in 50 minuti di disco, ma questa è un altra storia. Con
questo "bagaglio cinefilo" ho ritenuto che Masked & Anonymous sia stato un
film molto bello, magari alla seconda visione dove ho capito meglio, ma l'ho
ritenuto valido. Io Non Sono Qui non è un film facile, bisogna avere
pazienza, capire che non si ha a che fare con un biopic comune perchè del
resto una storia recitata sulla vita di un personaggio ancora in vita
sarebbe poco credibile. Cate Blanchett è straordinaria ma non perchè
assomiglia a Dylan ma perchè ha saputo cogliere gli aspetti più interiori di
Dylan che nè in Don’t Look Back e nè in No Direction Home emergono veramente
dalle immagini. Credo inoltre che nella storia del cinema sia rarissimo
trovare una donna che interpreta un uomo tra l'altro difficile da capire,
enigmatico e complesso e in uno dei momenti più difficili della sua vita. A
volte le inquadrature mi ricordavano alcuni telefilm inglesi degli anni '60.
Il Dylan-Rimbaud degli anni della protesta ha un filo in comune col
Dylan-attore degli anni '70 e cioè la Suze Rotolo/Sara Dylan pittrice dagli
occhi tristi e che rappresenta un lato importante della vita di Dylan,
quello dell' amore, delle donne. Il motivo per cui il Dylan hobo è un
ragazzino nero secondo me è
dovuto al fatto che egli stesso si dipingeva come un piccolo bluesman e che
faceva credere di essere stato in New Mexico, Gallup, Sioux Falls e tutte le
altre fandonie che raccontava appena arrivato a New York e dato che
dimostrava 14 anni anzichè 19 era oggetto di coccole e attenzioni da parte
di qualche mamma del Village. Nel Dylan/Gere/Billy The Kid ho visto il Dylan
rifugiatosi nella pace di Woodstock, lontano dalle scene e dai riflettori
che conduceva una vita serena, modesta e felice ma che
poi ha dovuto abbandonare per il clamore dei fans, dei pazzi, dei curiosi,
dei giornalisti, dei paparazzi, etc. Praticamente l'autostrada a 6 corsie
che spazzerà via le cose buone. Il costruttore Mr. Jones smaschera
Billy/Dylan che è costretto a tornare al suo destino. Se viene rappresentato
come un vecchio è per lasciare intendere di trovarsi in un momento di
saggezza. Purtroppo la fase Dylan/religioso non viene approfondita come
dovrebbe. Il personaggio rappresentato qui è un individuo
maturo e positivo, mentre nella realtà Dylan si trovava nel bel mezzo di un
esaurimento nervoso che poi superò tenendosi stretta la sua spiritualità. La
colonna sonora, inutile dirlo è straordinaria e in alta definizione rende
ancora di più. La scena coi Beatles ragazzini è bellissima così come quella
della conferenza stampa. La mitragliata di Newport e relativa performance
sono buone. In conclusione direi che a parte in qualche caso dove la canzone
scelta per la scena non è appropriata si tratta di un film
molto interessante anche se non di facile digestione. Inoltre sarebbe
consigliabile, per chi non conosce Dylan, di leggersi una biografia prima di
vedere il film per fare in modo di riconoscere nelle battute degli attori,
le dichiarazioni di Dylan tratte da interviste, i riferimenti alle sue
canzoni, alle sue poesie e al libro Tarantula. In questo modo il film è più
comprensibile.
Mi spiace che Vites non abbia gradito il film ma come egli scrive non è un
amante del cinema (anche se però non capisco come abbia potuto apprezzare
Masked & Anonymous). Come al solito Dylan spiazza.
Ferdinando "Ferdyp" Pollastri
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Luigi Catuogno
Sono stato a vedere il film ieri sera.. Sono tornato frastornato, e
nonostante la stanchezza, stanotte
ogni tanto ci pensavo.
Poi ho letto la recensione di Paolo Vites. Per la verità non ho mai
condiviso una sola parola su Dylan di
questo "critico".. ma questa recensione tocca il fondo. Intendiamoci: uno
può condividere o meno le
scelte artistiche di chiunque ma non capire a cosa si riferisse il
personaggio interpretato da Richard
Gere mi sembra proprio una cosa da ignoranti (nel senso latino del termine).
La parte di Gere per me è
stata la più bella. Era Woodstock e La Repubblica invisibile!! (sentito il
concerto in lontananza?) e
Dylan/Gere con il suo cavallo, la sua maschera ad incontrare quei personaggi
fantastici della musica
popolare, e difendere quel mondo dalle autostrade di Garrett... ma quel
mondo non aveva bisogno di
essere difeso da nessuno... rivede se stesso... butta via la maschera e di
nuovo sul treno/never ending
tour..
E' un film strepitoso.. il massimo che si puo' fare in due ore..
Luigi Catuogno
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Giulia "Rabbit"
He's not there.
L'ho visto.
Oggi davanti al cinema ero già alle 17,30 , a scrutare la locandina affissa
al muro.
Ci siamo fatti 100 km per andare a Foggia al cinema più vicino a casa, primo
giorno di proiezione e primo spettacolo.
Alle 17,50 entriamo... siamo i primi , tre speranzosi che un po' scoraggiati
si sentono, alle 18 si abbassano le luci nella piccola confortevole sala del
cinema Falso Movimento e siamo sempre solo noi tre.... per un po' avevamo
temuto che annullassero la proiezione... dopo qualche minuto arrivano alla
spicciolata altre persone , nove in tutto noi compresi... evvabbè.... sono
le 18 di un venerdì... chi ci va al cinema a quest'ora?
Non ero mai stata lì e sono piacevolmente sorpresa dall'audio, perfetto,
meno male...
Comincia, comincia e finisce dopo due ore ininterrotte..
Ne usciamo silenziosi, dobbiamo trovare le parole.. le trova mio figlio
quando mi chiede: "mamma, un parere? ti è piaciuto?"
e io laconicamente: "mah..."
Difficile esprimere giudizi , magari sono io che non ho abbastanza
intelletto da capire le sfumature, però non mi è piaciuto.
Capitolo a parte è l'interpretazione della Blanchette, che ha talmente
metabolizzato il personaggio da diventarne la reincarnazione.
E' da Oscar.
L'unica cosa che si nota è il grande amore di Todd Haynes per Dylan, amore
cieco che lo ha fatto impantanare tra fantasmi e sogni.
Amore che si vede anche dalla selezione dei brani della colonna sonora ,
compito estremamente arduo.
Amore che ci ha risparmiato (emmenomale) blowin' in the wind .
Di tutto il film, quello che colpisce perchè è geniale e immortale, è la
musica, senza tempo, impigliata nella nostra mente e pronta a darci ogni
volta le stesse emozioni a ogni riascolto.
Rimango sempre più convinta che Dylan non lo si può interpretare nè
reinventare, ma solo raccontare.
E' troppo grande, ci si perde.
Giulia "rabbit"
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Maurizio Polverelli
Ho letto la recensione di Paolo Vites sul film tanto atteso.
Beh, apprezzo la sintesi molto sincera e senza mezzi termini ma non mi trovo
d'accordo.
Io l'ho visto venerdì in compagnia, e sono rimasto colpito dalla ricerca di
introspezione psicologica che il regista ha cercato.
Chiaro, Dylan non lo si può descrivere in un film di 2 ore, ma alcuni spunti
sono degni di nota.
Per non parlare della interpretazione della bravissima Cate Blanchette (che
ho letto è stata premiata) che è qualcosa di veramente incredibile !!
E' più Dylan di Dylan stesso. Mi sa che anche lei ha proprio le palle !!
Ho trovato come dice Paolo una colonna sonora bellissima, tutta da godere e
solo per quello due ore passate lì meritano in pieno il prezzo del
biglietto.
Ma anche il film mi ha lasciato aperte delle domande, mi ha interrogato, mi
ha fatto pensare se conosco bene Bob e quello che ha rappresentato.
Un film che non da' risposte, ma suscita interrogativi; e nella vita oggi
purtroppo tendiamo sempre a non interrogarci ma solo a voler dare risposte.
Fantasica la scena che rappresenta in pieno l'assurdità degli anni 60 con
Bob e la famosa modella di Andy Warrol, Coco.
Bellissima la scena dei Beatles e concordo con Paolo Vites sulla forzatura
di Billy the Kid, forse non c'entra nulla !!
In sostanza io non penso che chi non conosce Bob pensi che sia l'uomo più
noioso del pianeta, anzi penso che possa arrivare a pensare come noi che Bob
Dylan è il più grande genio della storia della musica rock !! E da un genio
come lui riusciamo a scoprire quello che troppo spesso rimane nascosto in
mezzo alla ns banale quotidianità.
Ah, con Paolo condivido in pieno la visione del film tratta dai due grandi
documentari (Don't Look Back e No Direction Home) ma penso li abbia
trapiantati di sana pianta volutamente inserendo le scene da vero film in
maniera intelligente ed originale (escludendo forse il cowboy Richard Gere).
Bellissimo il personaggio del ragazzino di colore, come le stesse parti di
intervista ci dipingono esattamente quello che Bob ha vissuto nel suo
momento di fama, quindi niente di scandaloso!!
Per non parlare della bellissima intervista di Mr Jones !!! Scena studiata
con ingegno e rispetto al vero Bob!!
Mi è piaciuto il commento di skywalkerboh che dice che il carisma è sempre
al top .... gli altri artisti sono in coda dietro .... chi con rispetto, chi
con invidia .......
e questo nel film è lampante e chiaro ....... come Bob sia sempre stato
avanti a tutti ci ha regalato delle strade e delle emozioni che senza di lui
forse non avremmo vissuto. E' vero che Bob non è solo gli anni 60 , ma un
film dura 2 ore :o))
L'ultimo aspetto che vorrei sottolineare è come anche in questo film esce
fuori un grande concetto che Paolo vede molto nel film Masked and Anonimous
: "della condizione esistenziale dell'uomo. Cioè dell'impossibilità di
sfuggire al mistero che ci afferra. Sempre." Anche qui si tocca con mano
quello che Dylan ha sempre cercato nella sua vita, quella domanda che sta a
cuore a tutti gli uomini veri , a cui Bob ha dato forse risposta ?
Beh , sicuramente ci ha aiutato a cercarla .
Maurizio
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Teo Lorini
ecco la mia recensione a I'm Not There:
http://www.ilcritico.com/modules.php?name=News&file=article&sid=342
Visto che "bilancia" un po' la stroncatura, secondo me eccessiva di Vites,
ho pensato che magari ti poteva interessare metterla sul sito in questi
primi giorni di programmazione del film.
Teo Lorini
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Edo
Ieri sera ho potuto assistere alla proiezione di "I'm not there" e posso
dire di essere rimasto soddisfatto: non so se il mio giudizio e le mie
sensazioni incontreranno quelle della maggioranza, but... I don't care!!
Innanzitutto la storia, intricata, ma comprensibile (almeno per me che la
conoscevo - la mia ragazza e i miei amici hanno guardato la fine del film ad
occhi sbarrati e molti punti non gli erano chiari) e se si presta attenzione
le storie dei vari Bob Dylan non sono così a se stanti, ma sembrano avere
dei punti in cui, anche se solo di sfuggita, si incontrano e si mescolano.
Il regista e gli sceneggiatori hanno fatto, nel complesso, un ottimo lavoro
anche se si sono ispirati troppo a "No direction home" di Scorsese: i
dialoghi e le inquadrature di molte scene sono state prese pari pari, ma
d'altronde non potevano inventare un'altra storia da quella che in realtà è.
Gli attori mi sono piaciuti molto, ma ovviamente spicca Cate Blanchett che
si è impersonificata alla perfezione tanto da essere, in molte scene, del
tutto identica al Dylan "ghost of electricity".
Alcune trovate, forse, non erano ottime (i Beatles che giocano con Dylan
come fossero alunni idioti di un asilo infantile per esempio) ma, nel
complesso, è un buon film, costruito sulle visioni che immaginiamo sentendo
le canzoni, leggendo gli scritti o vedendo i filmati di Dylan.
Tentativo riuscito insomma.
Edo
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