Lo scomparso Gregg Sutton ricorda il
“Real Live Tour” del 1984
RIP Gregg Sutton (1949-2023)
di Ray Padgett (25 ottobre 2023)
Traduzione di Silvano
Cattaneo
The 1984 band. L-R: Bob Dylan, Colin
Allen, Gregg Sutton, Ian McLagan, Mick Taylor
Ray Padgett: Qualche giorno
fa ci siamo scritti una e-mail a proposito di "Heart of Mine" che voi
suonaste un paio di volte. All’epoca, nel 1984, eri già abbastanza fan
da conoscere anche brani del genere, non propriamente grandi successi?
Gregg Sutton: Sì. Bob era il mio idolo. Lo seguivo dal 1963. Al
Greenwich Village, all'improvviso, certi ragazzi cominciarono a girare
con il berretto tipo quello di Bob Dylan sulla copertina del suo primo
disco, e il supporto per l'armonica anche senza l’armonica. Io ero uno
di quei ragazzi.
Conoscevo tutte le sue cose. Adesso sono più vecchio, ma se ci fosse da
risuonare “Heart of Mine”, probabilmente riuscirei. Ricordo che prima di
uno spettacolo eravamo nel camerino della band con i tre inglesi – Mick
Taylor, Ian McLagan e Colin Allen. Mick mi chiese: "Gregg, ma tu sei
davvero un fan?” Alzai le mano e dissi: “Mi dichiaro colpevole. E voi?”
Tutti risposero "Non particolarmente". Non gli piaceva, ma considerato
che non erano fan di Bob, se la cavavano piuttosto bene a suonare le sue
cose.
Di me, Bob poteva dire che conoscevo e amavo il suo repertorio. Sai,
avrebbe potuto avere qualunque bassista avesse voluto. Prese me perché
ero legato a lui. Capitava – stiamo parlando di un’epoca in cui non
esistevano i testi digitali, dove ti basta un semplice un clic per
consultarli – che gli chiedessi "C'è questo punto in 'Visions of
Johanna' dove non ho mai capito esattamente cosa dici”. Lo imbeccavo,
dandogli il verso prima, e lui semplicemente continuava: "Oh, quella fa
[imita la voce di Dylan] ‘Ya can’t look at much, man / As she herself
prepares for him’”.
Gli piaceva che chiedessi quel genere di stronzate. Ci siamo trovati
bene.
RP: Ho parlato con Benmont Tench qualche tempo fa e anche per lui
è la stessa cosa, come uno studioso della musica di Dylan.
GS: Sì, Benmont è molto accademico. Conosco Benmont dai miei
tempi con i Lone Justice. Veniva a suonare con noi.
RP: Hai visto lui e Mike Campbell suonare con Dylan all’ultimo
Farm Aid, lo scorso fine settimana?
GS: Sì, è stato divertente. Al primo Farm Aid [1985], i Lone
Justice si esibirono tra il set di Dylan e il set di Petty.
RP: Accadde appena un anno dopo la tua esperienza nella band di
Bob.
GS: Sì, passai da Bob ai Lone Justice.
RP: Riparlasti con Dylan a quel primo Farm Aid?
GS: Ci incrociammo, ma a quel Farm Aid c’era un'atmosfera un po'
strana. Lui era con la band di Petty e anche con Elliot Roberts, che un
tempo era stato il mio manager. C'erano vibrazioni contrastanti, diciamo
così.
Gli parlai un anno o due dopo. Graffiti Man, la band di Jesse Ed Davis e
John Trudell, aprirono alcuni concerti dei Lone Justice. Bob amava
Graffiti Man, era lì per vederli. E io e lui abbiamo fatto una piccola
chiacchierata.
RP: È singolare che tu abbia menzionato questo cosa di Graffiti
Man perché proprio ieri hanno pubblicato alcune foto da un libro in
uscita del Dylan Center. Una fotografia, che non avevo mai visto prima,
è del 1987: ci sono Dylan, Jesse Ed Davis, John Trudell e George
Harrison. Loro quattro.
GS: Potrebbe essere al Palace di Hollywood.
RP: Uno degli spettacoli con i Lone Justice?
GS: Sì, sicuramente. Non ricordo di aver visto George Harrison,
ma non significa che non fosse lì. Non credo che George Harrison avesse
alcun interesse a salutare i Lone Justice, quindi è probabile che sia
semplicemente entrato e poi uscito. Chi lo sa! Io potevo essere
impegnato in qualsiasi cosa. Mi drogavo anche tanto in quel periodo.
Avrei potuto essere in bagno a farmi. [ride] O aspettare che Jesse Ed
[Davis] uscisse fatto dal bagno, così potevo entrare e farmi io.
RP: Riavvolgiamo il nastro. Qui stiamo parlando della fine, ma
torniamo all'inizio. Come capitasti nella band di Dylan?
GS: Grazie al mio amico Charlie Quintana che era il batterista
dei Plugz. Chalo! Era un grande batterista e un bravo ragazzo. Bob usava
i Los Plugz da qualche tempo. Chalo mi chiamò e mi disse: "Perché non
vieni a casa di Bob a suonare un po’?" Così ho fatto. Ogni bassista
della città ci sarebbe andato.
Poi non ho più avuto notizie da nessuno, così ho pensato che non se ne
facesse niente. Ma due o tre settimane dopo mi chiamarono e dissero:
"Torna qui". Trovai una band completamente nuova, fatta eccezione per
Mick Taylor. Chalo se n’era andato. C'erano Colin Allen dei
Bluesbreakers e Ian McLagan. Suonai quel giorno, mi confermarono il
lavoro la notte stessa.
RP: A quella prima prova in cui c’eravate tu, Charlie e non so
chi altro, che successe? Raccontami.
GS: Eravamo io, Charlie, Mick Taylor e Bob. Non c'era ancora il
pianista. Fu molto bello. Stava accadendo.
Mick Taylor viveva nella casa in cui stavamo provando, all’interno della
proprietà di Bob a Point Dume. Viveva lì da circa un anno. Mick era il
capo della band. Era il più famoso, il mio preferito tra tutti i
chitarristi inglesi. Mi ritrovai lì a suonare non solo con il mio idolo,
ma anche con il mio chitarrista preferito al mondo.
RP: Suonaste canzoni di Dylan o semplicemente improvvisaste?
GS: Suonammo canzoni di Dylan. Vecchie e nuove canzoni. Alcune
cose da "Infidels”, e poi "Highway 61", "Maggie's Farm", un sacco di
roba che la gente conosceva. Tutti brani di Dylan, nessuna cover.
RP: Quale fu la tua prima interazione con Bob?
GS: Il primo giorno, quando bussai alla porta della sala prove,
fu lui stesso ad aprirmi. Eravamo vestiti in modo identico. Indossavamo
entrambi giacche grigie da motociclista, jeans neri, stivali da
motociclista e t-shirt. Una specie di versione morbida di James Dean. Ci
guardammo dall'alto in basso, come in quel film dei fratelli Marx. Fu
divertente. Poi ci stringemmo la mano. Ha la stretta di mano a pesce
lesso, lui non ti prende davvero la mano, semplicemente ti permette di
prendere la sua e dice: "Ciao, sono Bob".
Devo dirlo, è proprio un tipo normale. Per tutto il tempo in cui ho
suonato con lui, non ha mai detto: "Ehi, perché non suoni questo?" Non
ha mai detto a nessuno: "Perché non suoni così?" Assumeva i musicisti
per il modo in cui loro suonavano le sue canzoni.
Poi, la seconda volta che tornai, come ti ho detto c'era una nuova band
con Ian McLagan. Iniziammo a provare seriamente a casa sua per cinque o
sei giorni.
RP: Come andò? Vi amalgamaste subito o fu un inizio difficile?
GS: Procedeva abbastanza bene. Era un posto per le prove, ma
tutto era okay. A parte il fatto che quasi uccisi Mick Taylor.
RP: Cosa, cosa??
GS: Beh, a quel tempo avevo una forte relazione con la China
White [eroina]. Ero all'inizio di una dipendenza dalla droga durata 30
anni. Beh, non proprio all'inizio, però non ero così strafatto da non
poter andare in tour o cose del genere. Ero un po' schizzato. Due giorni
dopo aver avuto l’ingaggio, tirai fuori un pacchettino. Ne offrii un po'
a Mick. Dissi: "Perché non dai una piccola annusatina a questa?"
Ovviamente, lui pensava che fosse cocaina. Andò in bagno e – thud! –
sentii un tonfo. Mi dissi: “Uh uh! È solo il secondo giorno di ingaggio
e ho ucciso Mick Taylor”.
Lui esce e mi fa: "Gregg, questa non è cocaina!” Dico: "Sei Mick Taylor!
Sei un tossico famoso. Andiamo!” Alla fine lo trovò divertente. E io mi
sentii sollevato per non averlo ucciso, perché quel colpo mi aveva fatto
venire un brivido alla schiena.
Comunque, poi provammo al Beverly Theatre di Beverly Hills per due o tre
giorni, per essere ancora più sul pezzo. Un teatro da 3.000 posti.
RP: Vuoto? Affittato solo per voi?
GS: Vuoto. L'affittammo, il che mi colpì davvero. Pensai: "Questo
è davvero il grande momento". Avevo suonato in posti più grandi, ma
quelle erano solo delle cazzo di prove!
A quel punto avevo visto Bob forse sette o otto giorni nella mia vita,
quindi ogni volta che lo vedevo per me era sorprendente. Dovevo darmi un
pizzicotto e dire: "Ehi, sono con Bob Dylan, in questa stanza e in
questo momento".
Su un palco vero abbiamo faticato un po’ di più. I primi due concerti
del tour [ndt: Verona, 28 e 29 maggio 1984] non furono affatto belli.
RP: Secondo te, perché faticaste all’inizio?
GC: Ci stavamo ancora abituando al mare. Semplicemente non
eravamo uniti. Ascoltando le registrazioni delle prove che mi hai
mandato, ho capito perché i primi spettacoli furono terribili. Era come
se facessimo il passo a metà. Non lo stavamo facendo seriamente. Mi
sembra che nel tuo articolo tu dicessi che, come sempre nelle prove, Bob
era un pessimo esecutore. Cantava come se fosse costretto. E poi non
condivideva con noi. Così non avevamo la sensazione di come stavano le
cose e come potevamo migliorarle.
C'è un frammento di "Jokerman" su quel nastro… Alla fine suonammo una
versione fantastica di "Jokerman", ma alcune delle versioni [di prova]
che mi hai inviato non erano affatto buone. La versione di "Shelter from
the Storm" era semplicemente orribile. Sembrava un'altra canzone. Ma non
era tanto colpa della band quanto piuttosto che Bob voleva inserire una
certa progressione su "Shelter From the Storm". Penso che poi abbia
finito per farla di tanto in tanto nel suo set acustico.
RP: È come un'arma a doppio taglio con lui, giusto? Reinventa
sempre le canzoni: a volte è fantastico, ma se provi sempre a fare un
arrangiamento diverso, a volte fai cilecca.
GS: È proprio così. Voglio dire, complimenti a lui per non
essersi mai appiattito. E diciamocelo, alcune di queste canzoni le ha
suonate migliaia di volte. Prova ad ascoltare “Shadow Kingdom”: molte di
quelle canzoni festeggiano il loro cinquantesimo compleanno, davvero un
lungo tempo per suonarle ancora.
Ecco perché Bob è Bob. È un artista. Ma tutti gli artisti hanno un'idea
in testa e qualche volta funziona, qualche volta no. Deve essere
lasciato fare durante le prove. Non abbiamo mai visto tutta la robacce
che Van Gogh avrà tirato fuori, capisci cosa intendo?
Ma sì, è stato interessante sentire quella merda. Poi ovviamente sono
andato su YouTube per ascoltare le versioni dal vivo, giusto per capire.
E mi sono detto che eravamo molto meglio di quelle prove.
RP: Spero che avertele inviate non ti abbia creato problemi di
fiducia in te stesso.
GS: Ho una certa età perché la mia autostima venga colpita.
Quelle prove erano solo l'inizio del processo. Bob è un individuo strano
e imprevedibile. Non è uno di quelli che ti facilitano le cose. Fa
semplicemente quello che ha in testa in qualsiasi momento.
RP: In quei primi concerti, era chiaro a tutti che non eravate
amalgamati?
GS: Sapevamo tutti che il primo show non era stato granché.
Eravamo tutte persone con standard elevati. Io ho standard elevati.
Ricordo che sull’aereo con noi c'erano due giornalisti olandesi, vecchi
amici di Mick [Taylor]. Stavano parlando di quanto fossero rimasti
delusi dal primo concerto. Questo tipo olandese disse: "Penso che Bob
Dylan sia in una posizione molto sfortunata come essere umano, perché le
aspettative della gente sono sempre molto alte".
Non ero proprio d'accordo. Penso che Bob Dylan sia sempre stato in una
posizione abbastanza buona, qualunque fossero i suoi problemi personali.
È il più grande che sia mai esistito. Ma era un punto di vista
interessante. Io ho sempre pensato a Bob in un modo, e quel tipo pensava
a lui nell'altro modo.
Ma dal secondo o terzo show c’eravamo davvero. Ricordo che dopo circa
cinque o sei concerti, io e Bob stavamo camminando giù per una collina
dietro il palco. Gli chiesi: "Bob, era tutto okay il basso?" E lui:
"Ooh, non ci ho fatto caso". E pensai che fosse fantastico. Quello era
un buon segno!
RP: Se ci avesse fatto caso, poteva significare un problema.
GS: Nessuno va a un concerto di Bob Dylan per ascoltare il
bassista. Vuoi solo che la band sia in palla.
RP: Nelle canzoni più vecchie, ad esempio “Maggie's Farm” o
“Leopard Skin Pill-box Hat”, provavi a rifare quelle parti di basso
oppure cercavi di staccarti dagli originali?
GS: Suonai tutte quelle canzoni in un modo molto naturale.
“Maggie's Farm” l'abbiamo suonata come il disco, solo con un po' più di
energia. Una sorta di "My Baby Left Me" di Elvis Presley più su di giri.
Ascoltala su “Real Live”: c'è solo un'energia un po' più alta e hai Mick
Taylor che fa ottimi assolo di slide. Io ho solo provato a scuoterla un
po’. Lo stesso per “Highway 61”. L'ho suonata a modo mio, ma è anche il
modo in cui l'avevano suonata nel disco perché è fantastico, ed è
semplicemente bum-BUM, bum-BUM, bum-BUM. Sembra dirti, togliti di mezzo!
Io non sono concentrato sui colpi della grancassa. Penso che il bassista
debba capire tutto quello che sta succedendo. Il basso è uno strumento
molto compositivo. Anche nel rock and roll più essenziale, devi sapere
quando fermarti e quando suonare. Devi solo essere di supporto, ed
essere consapevole dell'intera composizione e di cosa farà il cantante.
RP: Una cosa sorprendente ascoltando quelle prove è che, oltre
alle sue canzoni, fece un sacco di cover, e molte non le ha mai eseguite
in concerto. Non avrei mai pensato di sentire Bob Dylan cantare "Always
on My Mind".
GS: Amo questa cosa. È il bello di Bob: è completamente
imprevedibile. E in più aveva tutte le altre sue canzoni. Mi sembra che
la prima volta che suonammo "Just Like a Woman" fu proprio in concerto.
RP: Mai provata prima?
GS: Mai provata. Non disse nemmeno cosa stesse suonando. Si
aspettava che riconoscessimo l’attacco di armonica, e così è stato.
[Nota: in realtà l'avevano provata; probabilmente Gregg sta pensando a
un’altra canzone.]
Voglio dire, ha un catalogo così vasto e ogni tanto pesca fuori
qualcosa. Sceglie una canzone così. Era molto sciolto. A volte
dimenticava la tonalità e chiedeva: "Ehi Gregg, in che tonalità faremo
'Simple Twist of Fate'?"
Una volta iniziò “Maggie's Farm” nella tonalità sbagliata. Mi guarda in
modo candido e mi fa: "Ehi Gregg, in che tonalità siamo?" Dissi: "Siamo
in SOL, Bob, come hai iniziato tu". E lui: "Bene, possiamo andare nella
tonalità giusta adesso?”
RP: Vuoi dire che avete dovuto cambiare la tonalità a metà
canzone?
GS: SÌ. Aveva cantato la prima strofa e quando iniziò a suonare
l’armonica si rese conto di aver sbagliato tonalità, perché aveva preso
l'armonica giusta. Allora dicemmo semplicemente "uno, due, tre, quattro,
chiave di LA" e via.
RP: Per abbinarla all'armonica, quindi, anziché cambiare
l’armonica.
GS: Esatto. Pensai che fosse divertente che non sapesse in che
chiave si trovava, e nemmeno gli importasse. Voglio dire, era così, ma
penso che anche Bob avesse la sua personale scorta di “medicine". Mi
vengono in mente un paio di volte in cui anch’io non sapevo in che
tonalità mi trovavo, ma in quei momenti ero estremamente “medicato".
[ride]
Dieci minuti prima che iniziasse il primo concerto della tournée [a
Verona], Bob mi fa: "Ehi, ti ho sentito cantare. Io farò sette o otto
canzoni, e poi ho bisogno che tu canti mentre mi preparo per il set
acustico. Va bene?" "Va bene!”
RP: E così hai finito per cantare in ogni spettacolo.
GS: Sì. Chiesi agli altri: "Allora, che pezzo facciamo?" E Mick
Taylor: "Non mi interessa cosa fai, basta che sia in SOL così posso
suonare la slide".
Quindi per le prime due o tre sere abbiamo fatto "I Got My Mojo Working"
perché era in SOL e l'avevo cantata nei club. Avevo cantato anche "I've
Got To Use My Imagination”, ma era in LA; allora pensai: "Beh, potremmo
fare 'Imagination' in SOL”. Così siamo passati a quella e ne abbiamo
cavato una versione piuttosto interessante.
Sono stato in due band con Barry Goldberg [co-autore di "Imagination", e
nella band di Dylan a Newport nel '65]. Una delle band con Barry si
chiamava The Coup, registrammo un disco che non fu mai stato pubblicato,
ma che conteneva una nuova versione di “Imagination”. Quindi, dopo aver
fatto due o tre volte "I Got My Mojo Working", mi dissi che avrei potuto
mettermi in mostra un po' di più. E allora perché non fare
"Imagination"?
L'altra band in cui avevo suonato con Barry erano i KGB. Il cantante,
Ray Kennedy, era uno dei co-autori di "Sail on Sailor"; poi c’erano
Michael Bloomfield e Barry [Goldberg]. È così che l’ho conosciuto. Feci
l’audizione, mi presero, il primo concerto fu il venerdì sera. La
domenica, l'articolo di Robert Hilburn sulla prima pagina della sezione
Calendario del LA Times, apriva così: "Michael Bloomfield dice di non
comprare questo disco". E il disco era uscito proprio quel giorno! Mi
dissi, “è così che i pezzi grossi di Hollywood mettono insieme un super
gruppo? Non funziona! Fanculo, torno a San Francisco”.
Adoro Mike Bloomfield. Sai, Bloomfield è stato il mio primo eroe della
chitarra. Aveva un vero carisma. Ho visto il primo concerto degli
Electric Flag, ho visto la Butterfield Band un milione di volte. E
quando avrei potuto suonare con Bloomfield, cazzo, lui ha mollato. Mi
chiesi se, per caso, io avessi detto qualcosa di sbagliato…
RP: Tu fai parte di un gruppo molto piccolo, o forse sei il solo,
membro della band di Dylan che ottiene un proprio spazio come voce
solista. La Rolling Thunder Revue fu una cosa a sé, là un sacco di gente
cantava le proprie cose, ma a parte quello, è insolito.
GS: Lo so. È molto insolito. Se avessi avuto una personalità più
da venditore di automobili, sul palco avrei detto: "Bene, grazie Bob!
Ehi gente, non è fantastico? Bob Dylan, dai, tutti!”
Stavo riascoltando alcune di quelle esibizioni e ho notato che spesso mi
faceva un'introduzione divertente. Diceva cose del tipo: "Gregg canterà
una canzone che ha scritto venendo qui in limousine". In realtà avrei
cantato una vecchia cover. Ricordo che era davvero divertente. C'è stata
una volta in cui stavamo scherzando e lui non riusciva a smettere di
ridere. Non ricordo che spettacolo fosse. C’eravamo detti qualcosa,
probabilmente riguardo a una ragazza che era a lato del palco, e lui
comincia: "Gregg Sutton sta per... [ridacchia] Gregg... [ridacchia]”.
Andavamo molto d’accordo, finché non gli chiesi un aumento. Da lì non
siamo più andati d'accordo.
RP: È stato a metà del tour?
GS: No, quasi alla fine. Non avrei dovuto farlo. Si incazzò.
La verità è che, ripensandoci, prima cosa non era lui a cui avrei dovuto
chiederlo; e seconda, forse io avrei dovuto pagare lui.
Un aumento, in ogni caso, sarebbe finito tutto nel braccio, quindi, che
cazzo? Però era duro sapere di essere il membro meno pagato della band e
vedere otto borsoni pieni di soldi lasciare lo stadio ogni notte. Ma non
importa davvero.
Aveva questi tre scagnozzi, Bob Myers, Gary Shafner e Bob qualcos'altro,
che mi fecero la ramanzina. Mi misero a sedere e mi dissero quanto Bob
fosse scontento di me. Io penso che lo considerasse un tradimento, ma
avrebbe dovuto dirmelo lui stesso. Ma lui non è quel tipo d’uomo, non
affronta le persone.
Shafner disse: "Oh, hai davvero rovinato tutto, Gregg, perché Bob ti
avrebbe tenuto. Al diavolo i tre inglesi, ma te ti avrebbe tenuto". Il
che è una totale bugia perché la band successiva furono gli
Heartbreakers. Non avrebbero rotto la band di Tom Petty, sbarazzandosi
di Howie [Epstein] per farmi suonare. Stavano solo cercando di essere
meschini, ma che cazzo? Vivere e imparare.
RP: Prima che le cose andassero male nei tuoi rapporti con Bob,
passavate molto tempo assieme nel backstage?
GS: Lui aveva un camerino separato. Ogni tanto entravo,
soprattutto se avevo una bella ragazza da fargli incontrare. Gli
piaceva. Gli stavo attorno.
Mi regalò una giacca nera da motociclista, così io gli regalai una mia
giacca di pelle bianca, che gli piacque molto. Andavo lì e scambiavo i
vestiti con lui. Ogni tanto diceva: "Oh, non andare sull'autobus, vieni
con la mia limousine". Lo facevo ridere, ero come il buffone di corte.
RP: Avevate la stessa taglia e vi scambiavate i vestiti?
GS: Sì, assolutamente la stessa taglia e avevamo gusti simili. È
sempre stato un uomo molto ben vestito. Certo, può spendere qualsiasi
cifra per l’abbigliamento, ma gli piaceva come mi vestivo.
RP: Non c’era solo Dylan. C’era anche Santana nel tour.
GS: Arrivava sempre per una jam nei bis. Chitarrista davvero
brillante. Spesso avevamo Mick Taylor, Eric Clapton e Carlos Santana sul
palco a suonare "Tombstone Blues" o qualunque cosa fosse. Era un tipo
molto simpatico, ma credo che non abbia mai imparato il mio nome. Mi
chiamava sempre "Ehi, amico". Era un po' offensivo.
RP: E sì che è stato un tour lungo e voi avete suonato insieme
praticamente ogni sera…
GS: Un paio di volte salii persino nella sua stanza. Una volta
provai anche a chiedergli: "Come mi chiamo?" Non mi rispose. Fece finta
di parlare con Bill Graham, probabilmente chiedendo a Bill come mi
chiamavo, perché Bill mi conosceva.
Bill Graham era un gran tipo. Quando ero ragazzo, a New York, avevo un
amico che faceva l'usciere al Fillmore, io vivevo in quel quartiere. Un
giorno stavo passeggiando lungo il Fillmore e decisi di andare a trovare
il mio amico, come avevo fatto un sacco di volte.
Il caso volle che, proprio quel giorno, il batterista di Rahsaan Roland
Kirk avesse picchiato un altro usciere che cercava di impedirgli di
entrare perché non sapeva chi fosse. Questo tipo era uscito da poco di
prigione per una questione di armi o qualcosa del genere, e aveva appena
picchiato questo ragazzo. Quindi erano tutti piuttosto tesi, ma io non
lo sapevo.
Entrai nel Fillmore. Bill Graham mi vide, mi guardò come la spazzatura
del quartiere. Mi prese per la collottola e per il fondo dei pantaloni,
mi sollevò da terra e mi scaraventò sulla Seconda Avenue.
Quando lo rividi nel backstage [del tour dell'84], gli dissi: "Tu ed io
ci siamo già incontrati". Gli ricordai l’episodio, e ora eccomi lì a
suonare per Bobby. Era davvero mortificato di avermi fatto una cosa del
genere, e non aver potuto fare abbastanza per me dopo. Ho pensato fosse
carino.
RP: Anche Joan Baez è stata in quella tournée, almeno per una
parte. Hai avuto rapporti con lei?
GS: Sì. Non quanto mi sarebbe piaciuto avere. Prima del suo primo o
secondo spettacolo, entrò nel camerino della band. Probabilmente non era
riuscita ad entrare da Bob. Eravamo lì, seduti a ridere e sballarci.
Disse: "Ragazzi, voglio che sappiate che considero un mio diritto salire
sul palco in qualsiasi momento durante lo spettacolo. Voglio solo che
siate pronti per questo.” Nessuno seppe cosa rispondere, perché non
c'entrava niente. Stavamo parlando tra di noi e all'improvviso Joan fa
questo annuncio folle. Ci fu un silenzio imbarazzato. Allora feci la mia
migliore imitazione di Jack Benny e le dissi: "Joan, è ridicolo!” In un
certo senso ruppe il ghiaccio. Dopodiché, io e lei diventammo amici.
Ricordo che, dopo uno spettacolo, stavo cercando di restituire qualcosa
a Bob, ma non potevo avvicinarmi a lui. Venne da me e mi disse: "Ti
frustra tanto quanto frustra me?" E affondò le unghie nel mio palmo.
Io ero molto bello a quel tempo. Avrei potuto concludere con Joan, cosa
che avrei dovuto fare. Avrei dovuto concludere quel giorno, ma non l'ho
fatto. [ride] Ho adorato la voce di Joan. Per me “Diamonds & Rust” è una
canzone grandiosa, grandiosa. Così personale e così reale. Non ci sono
altre canzoni simili su Bob Dylan. È così intima.
RP: In uno dei suoi libri, Joan ha scritto che in quel tour tra
lei e Bob c'era ogni sorta di vibrazioni negative.
GS: A Bob non piaceva averla intorno. Questo è un altro motivo
per cui ho esitato a concludere la storia, perché pensavo che potesse
essere una situazione strana. Ripensandoci, mi sarebbe piaciuto passare
la notte con lei.
RP: Fu un tour di 27 date. Sono sicuro che la maggior parte
furono concerti ben assemblati, ma c'è qualcuno che spicca in modo
particolare?
GS: Il primo in Inghilterra, a Newcastle, è stato fantastico. E
pensai che anche il concerto di Londra fosse stato davvero grande.
RP: Cosa mi dici di Newcastle?
GS: A quel punto eravamo come una macchina ben oliata. Eravamo
una band dal grande suono. Sembravamo Bob Dylan con i Rolling Stones di
“Get Yer Ya-Ya's Out!” Fu proprio grande e tempestoso. Aprire con
“Highway 61”, con quel ritmo, fu esaltante. La gente impazzì. Era il
primo pubblico di lingua inglese che vedevamo dopo molto tempo.
Ho avuto questa sensazione per la prima volta a Parigi il 1 luglio, mio
compleanno, e a Newcastle. È stata l'unica volta nella mia vita in cui
sono stato davvero orgoglioso di essere americano. In piedi su quel
palco, a suonare “Highway 61” con il più grande cantautore americano che
sia mai vissuto. Non sono un patriota o cose simili. Ma c’era qualcosa.
È stato come un momento karmico.
RP: E tu eri uno dei due americani sul palco.
GS: Ero uno dei due americani sul palco, io e Bob Dylan. Hai mai
visto il film “Zelig"?
RP: Non credo.
GS: “Zelig” è un film di Woody Allen dove ritroviamo il
personaggio Leonard Zelig, interpretato da Woody, in diverse situazioni
storiche. È inserito con trucchi cinematografici e cose del genere; è un
film molto intelligente.
Ho avuto una vita alla Zelig. Ero uno dei due americani in quel tour. Ho
suonato nell'unica band che abbia mai aperto uno spettacolo per Elvis
Presley. Ero il direttore d'orchestra di Andy Kaufman alla Carnegie
Hall. Mi sono successe tutte queste cose che erano come momenti Zelig.
L'intero tour di Bob è stato così. Suonare con Eric Clapton, Mick Taylor
e Carlos Santana: ci sono capitato dentro prima ancora di sapere chi ci
sarebbe poi stato.
RP: Non voglio andare fuori argomento, ma vorrei chiederti di
quando eri il bandleader di Andy Kaufman alla Carnegie Hall.
GS: Andy Kaufman è stato il mio migliore amico, da quando avevamo
10 anni fino al giorno della sua morte. Ero il suo direttore musicale
per tutto ciò che faceva, tranne che se fosse andato al Tonight Show,
avrebbe usato la band del Tonight Show. Ho viaggiato con lui, siamo
stati insieme alla Carnegie Hall, ho scritto le partiture. Grazie a lui
ho finito per lavorare anche con Robin Williams, e per un po' sono stato
il leader della band di Rodney Dangerfield perché Rodney Dangerfield
amava un personaggio interpretato da Andy.
RP: Quale personaggio?
GS: Tony Clifton. Tony Clifton era il classico artista di Las
Vegas, ma anche il classico tipaccio di Las Vegas. Entrava in scena
fumando una sigaretta ed era molto vanitoso e meschino. Rodney
Dangerfield lo amava. Per un paio di settimane lo volle per aprire i
suoi spettacoli. Io ero il bandleader del personaggio Tony, così Rodney
finì per nominarmi anche suo bandleader.
Andy [Kaufman] e io c’eravamo conosciuti in quarta elementare. Eravamo
gli unici due fan di Elvis [Presley] in quarta elementare. Siamo stati
sempre, sempre migliori amici. Oltre a Bob, Andy è la cosa più singolare
che io abbia mai fatto. Perché per me era come Bob, un artista unico nel
suo genere. L'unico comico che non voleva necessariamente far ridere.
Era divertente e la gente rideva, ma non era proprio quello che stava
cercando di fare.
RP: Sono più giovane, quindi non ero presente ai suoi tempi, ma
sono un fan del Saturday Night Live. Un paio di anni fa, andai a
guardare alcune delle prime stagioni e la prima cosa…
GS: Mighty Mouse! Quando fa Mighty Mouse.
RP: Esattamente! Conoscevo il nome, ma non sapevo davvero nulla.
Esce e fa il numero di Mighty Mouse. Strabiliante. Non l'avevo mai
visto.
GS: Ascolta, su YouTube c'è un sacco di roba di Andy che vale la
pena vedere, specialmente quella della Carnegie Hall. Se hai un'ora e
mezza, lo spettacolo della Carnegie Hall è assolutamente surreale.
Inoltre, ripensando alle cose migliori di Andy, c’è “Old Macdonald” che
è molto, molto divertente. Lo improvvisò durante una registrazione,
attirando quattro persone dal pubblico. Era una cosa che faceva fin da
adolescente, quando organizzava feste per bambini.
RP: Mentre parlavi, ho cercato queste cose su Google e appena
abbiamo finito premerò play. Ma è vero che [Andy Kaufman] è morto
proprio prima del tuo tour con Dylan?
GS: Scoprii che era morto mentre ero in tournée con Bob. Proprio
prima che iniziasse il tour, Andy mi disse che aveva un cancro ai
polmoni. Pensavo stesse recitando qualche parte di un suo pezzo, gli
dissi: "Andy, non è divertente". E lui: "No, ce l’ho davvero". Andò da
molti dottori, nessuno poteva aiutarlo. Organizzammo una specie di
veglia funebre dal vivo per lui all'Improv. Era strano. Andy era lì, era
già calvo. Sapevo che sarebbe stata l'ultima volta che l’avrei visto.
Ricordo che eravamo da qualche parte in Italia, in uno di quegli hotel
con la rivendita di riviste nella hall. Stavo uscendo per il concerto.
Presi una copia di People e lessi: "Andy Kaufman è morto a 34 anni".
Nonostante tutte le cose che stavano succedendo con Bob, la mia mente
andò altrove. Non riuscii proprio a controllarmi. Mi sedetti e quando
arrivarono gli altri della band stavo piangendo nella hall. Era una
brutta scena, ma non potei proprio trattenermi. Il tempismo, in quel
caso, fu bizzarro.
RP: Da un lato stavi vivendo questo momento culminante della tua
carriera…
GS: Sì, e persi il mio migliore amico. Eravamo cresciuti insieme,
insieme fatto trip di acidi e tutta quella merda…
RP: Mi chiedo se Dylan fosse un fan di Andy Kaufman. Io ce lo
vedo.
GS: Sì. Gliene parlai quando quel giorno mi chiese: "Perché non
vieni con me?" Glielo dissi, rispose che gli piaceva Andy. Gli piacevano
gli aspetti bizzarri di Andy. Gli piaceva che fosse di orientamento
liberal.
RP: Volevo chiederti del concerto finale del tour allo Slane
Castle, perché all’epoca sembrò un avvenimento piuttosto importante.
GS: Fu un concerto incredibile, incredibile.
RP: Come mai?
GS: Beh, prima di tutto, era l'ultimo spettacolo del tour, ed era
anche in Irlanda, giusto? L'Irlanda è diversa da qualsiasi altro posto
sulla terra. Quando arrivammo lì, c’era appena stata una rivolta perché
avevano finito la Guinness. C'erano tutti i rifiuti gettati per strada e
tutto il resto, mentre cercavamo di arrivare al concerto. Quei ragazzi
si erano ribellati davvero perché avevano finito la birra.
C’era Van Morrison lì con Bob. Sia Bob che Van Morrison sono tipi
piuttosto scostanti, ma loro due insieme diventano due chiacchieroni.
Riuscivano a parlarsi così velocemente e a raccontarsi così tante
storie. Li vidi allontanarsi abbracciandosi, ridendo proprio. Con loro
c’era una bella donna, chissà cos’era successo la sera prima.
Ok, quindi, la folla era di nuovo oliata perché sul posto era arrivato
una sorta di pronto soccorso Guinness. Era estate, e d'estate lì c’è
sole fino alle undici di sera. Andammo in scena verso le otto ed era
ancora pieno giorno. Facemmo davvero un grande set, poi uscì Van e fece
"It's All Over Now, Baby Blue". Fu semplicemente fantastico. Eric
[Clapton] era lì. Chrissie Hynde era lì. C'erano un sacco di star.
Alla fine, Bob attacca "Blowin' in the Wind". Ogni cantante famoso sul
palco eseguì una strofa, ovviamente cantando i versi di Bob. Il brano
stava crescendo di intensità, diventando un po' più rock.
Bono, che era lì con Lord Slane e indossava un cappello nero, fu
l'ultimo a cantare. Cominciò e mi resi conto che stava inventando le
parole. Giocava in casa, quindi il pubblico era tutto con lui. Continuò
ad andare avanti. Tutti gli altri, dopo la loro strofa, avevano posato
il microfono, giusto? Lui, invece, non molla quel cazzo di microfono.
Marcia su e giù con il suo cappellino nero, inventando il testo di
"Blowin' in the Wind".
Dopo quattro o cinque versi, Bob se ne va. Eric se ne va, Carlos se ne
va. E noi ci ritrovammo a supportare Bono che stava ancora marciando su
e giù, sembrava una parata nazista.
Alla fine, Mick Taylor, disgustato, alzò la chitarra tenendola in
equilibrio sulla paletta e la lasciò cadere a terra. E se ne andò. Il
tecnico del suono aveva velocemente disattivato il suo Marshall, ma io
riuscii a sentire il botto. Quindi eccoci lì: io, Mac [Lagan], Colin
[Allen] e Bono. Non potevamo fermarci perché Bono stava ancora vomitando
versi.
RP: Non l’ha fermato nemmeno Mick Taylor che ha lasciato cadere
rumorosamente la chitarra?
GS: No, no. Bono non si è fermato. A dire il vero, non credo
nemmeno che se ne fosse accorto. Dopo un po' la cosa si esaurì e alla
fine ci fermammo. Quello fu l'ultimo pezzo che avrei suonato con Bob
Dylan. Se n’era andato, non sarebbe tornato a ringraziare.
Salimmo sull'autobus per uscire da lì e Bob mi fa: "Ehi Gregg, quel Bono
mi ha impressionato".
RP: In tono sincero o sarcastico?
GS: Penso entrambi. Penso che fosse sarcastico, ma allo stesso
tempo era vero. Bono aveva preso il sopravvento, come una presa di
potere nemica. Penso che Bob avesse una visione più ampia. Penso che si
sia fatto una risata. Ed era proprio tipico di Bob: "Ehi, quel Bono mi
ha impressionato”.
Ricordo che una volta gli diedi la tonalità sbagliata di una canzone.
Sceso dal palco, mi disse [imita la voce di Dylan]: "Quella era
assolutamente, decisamente la tonalità sbagliata”. Valeva quasi la pena
di sbagliare per sentirglielo dire, perché era proprio la sua
espressione. Avrebbe potuto essere “Positively 4th Street”.
RP: Pensi che l’album “Real Live” abbia reso giustizia al tour?
GS: Sì e no. All’epoca pensai che avrebbero potuto scegliere
altre canzoni. È un disco dal vivo, perché non inserire un paio di
dozzine di brani anziché solo dieci?
Molte persone pensano che non suoni bene o qualcosa del genere, ma [il
produttore] Glyn Johns sapeva cosa cazzo stava facendo. Pete Townshend a
Londra disse che sembrava che Bob suonasse con i Rolling Stones: ecco,
pensavo che il disco avrebbe restituito questa cosa.
Forse sapevano fin dall'inizio che avrebbero registrato un disco dal
vivo, ma di certo non ce lo dissero finché in tournée non arrivò Glyn
Johns per una settimana. Io penso che nelle prime due settimane non
fossero sicuri di voler davvero ricavarne un disco, ma man mano che le
cose andavano avanti abbiamo iniziato a suonare alla grande.
C'è una versione di "Imagination" in cui Mick Taylor fa quelle cose
folli che faceva anche su alcune canzoni di Bob. Otteneva un armonico
con la slide e poi il bending di quell'armonico. Cose impossibili per un
comune mortale. Suonava davvero fantastico. Mi sembra lo facesse su “All
Along the Watchtower”. Non ho sentito nulla di tutto ciò in “Real Live”.
Sarebbe stato bello avere uno degli assoli più squisiti di Mick Taylor
perché come lui non c’è nessuno.
RP: Hai detto che Pete Townshend assistette a uno degli
spettacoli?
GS: A quello di Londra. Londra fu davvero speciale perché il
backstage era una parete di star. Credo che Pete fosse nel palco reale,
quello che puoi vedere dal palcoscenico.
RP: Ti intimorì?
GS: No, affatto. Andava benissimo. Non c’era ragione per
intimorirsi. Lui era lì per vedere cosa stavamo facendo. Era come
un'opportunità. Non che io stessi cercando un'audizione per gli Who o
qualcosa del genere. Questo è quello che facciamo: serio rock and roll.
RP: Guardavi quando Dylan eseguiva da solo il suo set acustico?
GS: Assolutamente. Sempre. Nessun altro nella band lo faceva, ma
io sì. Ogni tanto gli dicevo: "Ehi, Bob, perché non fai 'Desolation Row’
una di queste sere?" E lui: "Oh no, no. Troppi versi, Gregg". Finché un
paio di sere dopo l’ha fatta [ndt: nella terza data di Roma, Palaeur, 21
giugno 1984]. Si girò per controllarmi, vide che ero lì in piedi.
Ha poi riscritto "Tangled Up In Blue" e una sera l'ha cantata. Per me è
una delle sue canzoni più grandi, e la riscrittura è ancora meglio. È la
continuazione della stessa storia.
RP: Sì, non ha cambiato solo uno o due versi qua e là. È la
stessa musica, ma liriche totalmente diverse.
GS: Ha aggiunto un terzo personaggio. Ci sono tre personaggi, e
lui ha reso il terzo più forte. C'è una nuova azione. È una riscrittura
totale.
RP: È qualcosa che hai visto mentre lo faceva sul palco, di
fronte a una folla enorme. Ti chiedesti cosa stesse cantando?
GS: Sì. Il capo della sua sicurezza era un dentista di nome Stan
Golden. Parlavo con Stan di queste cose, perché mi ascoltava. Il motivo
per cui Stan era il capo della sicurezza è perché poteva portare una
valigia di medicine attraverso qualsiasi frontiera del mondo. Non sapeva
un accidenti di sicurezza.
Ad ogni modo, ci dicemmo entrambi: “Wow. Hai sentito che roba ‘Tangled
Up in Blue’? È una fottuta riscrittura totale”. E non è che Bob abbia
detto qualcosa. Non ha annunciato: "Ecco 'Tangled Up in Blue'. Prima era
così, ma adesso va così." L’ha semplicemente cantata.
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Noel Paul Stookey di Peter, Paul &
Mary racconta di Bob Dylan negli anni ‘60
di Ray Padgett
(17 settembre 2022)
Fonte:
https://dylanlive.substack.com/p/peter-paul-and-marys-noel-paul-stookey
Traduzione di Silvano Cattaneo
Noel Paul Stookey è meglio conosciuto con
il suo secondo nome: Paul. Il "Paul" dell'iconico trio musicale Peter,
Paul & Mary. Hanno avuto i primi successi con il boom della folk music
negli anni '60 e, lungo la strada, hanno aiutato un giovane cantautore
con una voce cui bisognava abituarsi, a raggiungere un pubblico più
vasto. La loro "Blowin' in the Wind" è stata la prima registrazione di
una canzone di Dylan a raggiungere la vetta della classifica di
Billboard (Bob non sarebbe stato in cima a questa classifica con un suo
brano fino a "Murder Most Foul", nel 2020).
Sei decenni dopo, Stookey è ancora presente sia sul fronte musicale che
su quello dell'attivismo. Per la musica, all'inizio di quest'anno ha
pubblicato il suo ultimo album “Fazz”, fondendo folk e jazz (da cui il
titolo). E sul fronte dell'attivismo ha co-fondato con sua figlia
Elizabeth Stookey Sunde l'organizzazione no profit “Music to Life”.
Durante l'estate, Music to Life ha ricevuto una sovvenzione di 500.000
dollari dalla Mellon Foundation per formare musicisti di ogni area
geografica, genere ed età impegnati nella giustizia sociale. Per
ulteriori informazioni sul programma 2023, i musicisti interessati
possono iscriversi alla mailing list di Music to Life.
"Questi artisti sono attivisti sul serio", spiega Paul. “Non si tratta
solo di organizzare una cena di beneficenza dove qualcuno si alza, canta
una canzone e si donano 100 dollari per portare avanti la causa. Io sono
uno di quelli chiamati per concerti di beneficenza, ma questi attivisti
che Music to Life sostiene entrano effettivamente nella comunità, dalle
prigioni del Maine ai senzatetto di Houston. C'è un elemento di
partecipazione pratica che non c'era negli anni '60".
Quando ho chiamato Stookey abbiamo naturalmente parlato soprattutto di
Dylan. Dei giorni inebrianti del Greenwich Village negli anni '60,
ovvio, ma anche del tempo che ha trascorso con Bob e The Band a
Woodstock dopo l'incidente in moto, e anche di incontri successivi negli
anni '80.
Ray Padgett: Oggi è un giorno di buon auspicio per parlare, è il
giorno dopo il grande ritorno di Joni Mitchell a Newport [24 luglio
2022].
Noel Paul Stookey: Bello! Non ho mai prestato troppa attenzione
al lavoro di Joni, ma ho continuato a sentire le versioni dei suoi brani
fatte da Judy Collins. Ero più vicino a Judy che a Joni.
RP: Forse c'è un parallelo con Dylan e Peter, Paul & Mary, ossia
artisti che contribuiscono a rendere popolare un altro.
NPS: Sì, ma quello che è successo tra Dylan e Peter, Paul & Mary
è stata un'evoluzione naturale. Da un lato capisco quando le persone
attribuiscono a Peter, Paul & Mary di aver introdotto Bob Dylan. Ma
dall’altro lato sento davvero che era inevitabile in virtù della potenza
delle sue liriche. La natura dei testi, il fatto che parlassero di
qualcosa di così contemporaneo, stava cambiando il volto della musica
popolare negli anni '60, verosimilmente fino alla formazione del
folk-rock negli anni '70.
Penso che Dylan, indipendentemente dalla voce, sarebbe per forza di cose
diventato molto popolare. Nonostante il suo approccio forse un po’
troppo teatrale, quella voce aveva un certo tipo di autenticità che la
gente non poteva rifiutare. Con una voce del genere non pensi di andare
davanti a un pubblico, a meno che tu non lo faccia apposta. [ride]
RP: Ricordi la prima volta che lo incontrasti, presumo in uno dei
club del Village?
NPS: Al The Gaslight io ero il maestro di cerimonie e uno degli
artisti. Non ero solo un cantante folk. A dirla tutta indossavo tanti
cappelli: ero il maestro di cerimonie, ma capitava anche che servissi ai
tavoli. Ed ero l'ideatore del programma. Il Gaslight si stava lentamente
evolvendo come punto privilegiato per i cantanti folk. Certo, c'era il
Folk City, il locale di Mike Porco, ma il Gaslight era il posto in cui
si ritrovavano Len Chandler, Dave Van Ronk e Tom Paxton.
Una sera, dalla porta spuntò Bob Dylan. Dissi: "Sì, abbiamo il nostro
microfono a disposizione, possiamo farti salire." La prima volta che si
esibì lì, non ricordo l'anno ma erano i primi '60, cantò principalmente
derivativi, niente di originale che io possa ricordare. Onestamente, era
così così.
Tornò circa un mese dopo, nel frattempo aveva lavorato in un club di
scacchi nel New Jersey, e chiese se poteva continuare. Lo riconobbi e
dissi “certo”. Sapendo già che tipo di musica avrebbe fatto, lo inserii
tra un chitarrista di flamenco e il mio consueto numero di cabaret.
Salì sul palco e iniziò a fare un pezzo folk chiamato "Buffalo
Skinners". La canzone racconta la storia di un uomo che si trova a ovest
e ottiene un lavoro presso un gruppo di persone che scuoiano pelli di
bufalo. A fine stagione va dal contabile e viene pagato in pelli di
bufalo. Dice: "Cosa dovrei fare con queste?" E il tipo: "Oh, portale
all'emporio e scambiale." Così va all'emporio e le scambia con le
provviste necessarie a continuare il suo viaggio, sempre più a ovest.
Bene, Dylan iniziò a cantare questa canzone con gli stessi accordi. Solo
che era diventata la storia di un cantante folk che si esibisce in un
club di scacchi nel New Jersey. Alla fine, il proprietario lo paga in
pezzi degli scacchi. Dylan chiede: "Cosa dovrei fare con questi?"
"Portali dal barista. Sono come denaro." Quindi Dylan si siede al bar,
ordina una birra, paga con il re e riceve due torri come resto. [ride]
Mi fece impazzire. In retrospettiva, è ovvio per me che Dylan aveva idea
di cosa fosse la musica folk. Che la sua portata era molto più ampia
della storia specifica. Che poteva comunicare concetti prendendo in
prestito forme tradizionali collaudate e vere. Poco dopo lo raccomandai
ad Albert Grossman, che era il manager di Peter, Paul & Mary e non passò
molto tempo che Dylan divenne parte della sua scuderia.
Forse un anno dopo, Albert [Grossman] si presentò al The Gate of Horn di
Chicago, dove Peter, Mary ed io eravamo in cartellone con Shel
Silverstein, e ci fece ascoltare un acetato di due canzoni, convinto che
ci sarebbero piaciute. Una era "Don’t think Twice, It’s All Right" e
l'altra era "Blowin' in the Wind". Inutile ricordarlo, entrambe
sarebbero diventate punti cardine per Bobby.
Penso che noi fossimo appena reduci da "If I Had A Hammer". Si stava
introducendo il concetto di musica con un messaggio in quello che era
stato un genere musicale popolare. Allora i disc jockey potevano ancora
decidere le canzoni da mandare in onda, che si trattasse di Buck
Herring, che trasmise il nostro primo singolo di successo "Lemon Tree",
o di uno di quei disc jockey sempre più socialmente orientati come Dave
Dixon di Detroit. La musica che parlava a una coscienza sociale iniziò a
prendere il sopravvento nelle onde radio.
RP: Cosa mi dici di quelle due canzoni, "Blowin'" e "Don't Think
Twice"? Ti sembravano potenziali canzoni per Peter, Paul & Mary?
Ovviamente non ve le hanno date armonizzate a tre voci.
NPS: Abbiamo sempre scelto una canzone per il suo valore, non per
l'interpretazione dell'artista che l'aveva creata o che ce la portava.
Sapevamo di poter fare qualsiasi cosa avremmo voluto perché avevamo tre
voci molto particolari. La prima canzone che eseguimmo fu "Mary Had a
Little Lamb" perché noi tre facevamo versioni così diverse tra loro di
tutte le altre canzoni folk, che quella era l'unica su cui eravamo
d'accordo.
C'era un feeling così naturale tra le nostre voci che non importava chi
avesse il ruolo principale, gli altri due avrebbero trovato delle parti.
Dal punto di vista stilistico, ciò che Peter, Mary ed io siamo stati in
grado di fare è stato accentuare il significato delle canzoni. Abbiamo
sempre preso le nostre decisioni in base al significato più importante
del testo. Se questo implicava che qualcuno dovesse avere una linea
solista, allora avevano una linea solista. Se il significato del testo
usciva meglio da un duetto, avremmo cantato in duetto.
RP: E questo come si tradusse, ad esempio, con il testo di "Blowin'
in the Wind"? Puoi farmi qualche esempio di testi che vi indirizzavano
in determinate direzioni?
NPS: "Blowin' in the Wind" è come un accumulo di saggezza, quindi
dovevano accumularsi anche le voci. Il primo verso sarebbe stato una
voce sola, il secondo verso un duetto e il terzo tutti e tre assieme. Il
ritornello sarebbe stato armonizzato. Poi una voce solista diversa
avrebbe iniziato la strofa successiva, e qualcun altro si sarebbe
aggiunto nel verso dopo. In un certo senso, costruiva. Ha soddisfatto il
nostro desiderio di emulare ciò che la canzone stava cercando di dire,
cioè che insieme dovremmo prestare attenzione a queste cose. Non so
nemmeno se fossimo così calcolatori, ma intuitivamente ci sembrava la
giusta direzione da prendere.
Prendemmo sempre decisioni del genere. Ho un nuovo album in uscita
chiamato “Fazz”, un termine che ho incorporato dopo aver sentito Paul
Desmond provare a descrivere una canzone che Peter, Paul & Mary e il
Dave Brubeck Quartet stavano per fare insieme. Una specie di connubio
tra musica folk e jazz.
Nel realizzare questo album ho ripensato a molte canzoni che avevo fatto
con Peter, Paul & Mary. All’epoca stavo introducendo parecchi accordi
jazz alternativi nell'ambiente folk. A un certo punto, Peter mi sorprese
a fare un accordo di settima maggiore dietro una melodia di Woody
Guthrie. Disse: "Non suonare le settime maggiori per Woody!" Anche se
allora mi sembrò un po' arbitrario, sottolinea quello di cui ti parlavo:
la decisione finale se qualcosa dovesse essere incorporato in una
canzone, che fosse una voce o un accordo di chitarra, era ciò che la
canzone stava dicendo. Questa cosa migliora la canzone o sminuisce il
messaggio? Attenendoci a quelle decisioni drastiche, la vita è diventata
più facile. Magari una cosa può essere musicalmente intelligente, o
persino suonare bene, ma se vedi che non suona bene per quel particolare
testo, allora non inserirla.
RP: In quei primi giorni incrociavi spesso Dylan in vari caffè e
club. Com'era la scena?
NPS: Eravamo tutti consapevoli che c'era molto interesse per la
musica che stavamo facendo. Per un certo periodo, se eri a New York, il
Greenwich Village era il posto dove stare.
Per circa tre mesi, forse anche sei mesi, durante il periodo delle prove
di Peter, Paul & Mary, ricordo di aver sentito Bobby in tutti i caffè.
Gli artisti, di regola, passavano da un locale all'altro. Non per
lavoro, ma magari solo perché avevano amici nell' altro bar che li
avrebbero chiamati sul palco per fare qualcosa insieme.
C'è stata una grande interazione tra Figaro, Bitter End, Gaslight,
Rienzi e Gerde's Folk City. Un grande scambio di informazioni. Pensa che
qualcuno mi ha detto che una volta Odetta suonò una canzone dando le
spalle al pubblico perché non voleva che una persona che sapeva essere
lì davanti, un cantante folk competitivo, le rubasse gli accordi.
Tutto questo fu poco prima che Peter, Paul & Mary iniziassero a
trasferirsi in club come The Blue Angel, nei quartieri alti, "portando
la musica dell'uomo comune all'élite sofisticata" [detto con una punta
di sarcasmo], e ad andare in tour. Quello cambiò tutto. Una volta in
tour, capitava di fermarci al Gaslight per sentire che stava succedendo,
ma quella scena scomparve abbastanza velocemente. Quando tornammo al
Village, tutto era diventato elegante. L' esplosione folk finì molto
rapidamente.
RP: Tu rimanesti colpito da Dylan come autore, ma com'era come
esecutore, come presenza sul palco?
NPS: Probabilmente era nervoso, perché era così introspettivo.
Stava molto abbottonato. Non era a suo agio. Direi che le relazioni
sociali non erano in cima alla lista delle sue abilità.
RP: Cosa intendi?
NPS: Strette di mano deboli, saluti borbottati, strane
introduzioni ai brani. Non sono uno psichiatra, ma sembra che la sua
inclinazione naturale sia quella di essere un tipo solitario e
tranquillo. Anche se il suo talento lo stava attirando sul palco, non
sembrava il posto più confortevole per lui.
RP: Nel 1963, voi e Dylan cantaste entrambi alla Marcia su Washington
[28 agosto]. Ho visto i video degli artisti e ho visto i video di Martin
Luther King, ma puoi collegare le cose e spiegare quale fu il ruolo dei
musicisti quel giorno?
NPS: La musica era una parte molto importante del movimento. Che
si trattasse dei Freedom Singers o di semplici persone che cantavano
durante le marce a Selma, c’era musica in qualunque occasione si
parlasse di diritti civili. Forse perché Pete [Seeger] e "We Shall
Overcome" avevano grande importanza in tutto ciò. Forse perché fa parte
della vocazione della musica popolare connettere l’arte con la vita
umana. Persino alle prove che si svolsero davanti al Washington
Monument, con Odetta che cantava, Dylan e Baez che cantavano, noi che
cantavamo, la musica era integrata in mezzo ai discorsi. E poi marciammo
tutti al Lincoln Memorial.
La musica parlava su più livelli, ma quello che fece fu farci capire
l'interconnessione tra tutte le persone. Quando canti insieme sei
connesso in un modo che stare in piedi spalla a spalla ad ascoltare
qualcuno che parla non fa. Quella fu una parte importante, ed è ancora
una parte importante, per capire che siamo tutti coinvolti insieme.
RP: Sempre nell'estate del 1963 ci fu la prima esibizione di Dylan a
Newport. Il libro di Elijah Wald [“Dylan Goes Electric!”, edito in
Italia da Vallardi con il titolo “Il giorno che Bob Dylan prese la
chitarra elettrica”] parla di un aereo privato su cui Albert Grossman
mise i suoi artisti e portò voi tre e Dylan a Rhode Island. Ti dice
qualcosa?
NPS: A quel tempo, Peter, Paul & Mary stavano frequentando i
campus universitari. Comprammo un bimotore Lockheed Lodestar. Peter lo
chiamava “l'aragosta caricatutto” [ndt: gioco di parole tra “Lodestar”,
il tipo di aereo e “lobster”, aragosta]. Aveva tre pinne come i vecchi
aerei TWA. Fu davvero di grande aiuto perché potevamo volare da un
campus all'altro, da un piccolo aeroporto all'altro, senza fare
trasbordi. Penso che tu ti riferisca a quell’aereo. Se ricordo bene,
c’era una delle chitarre di Dylan nell'armadietto posteriore, potrebbe
essere stata proprio quella con cui a Newport ha suonato elettrico.
La maggior parte delle persone denigrò il suo passaggio da quella che
era considerata una scrittura politica a una scrittura introspettiva.
Phil Ochs, in particolare. Ma per quanto mi riguardava, corrispondeva
alla mia stessa visione.
Puoi parlare di politica, ma poi tutto ritorna alla responsabilità
individuale. E se vuoi essere individualmente responsabile, devi capire
chi sei. Pensai che il cambiamento di Dylan fosse molto naturale, e
penso che sia parte di un'evoluzione in cui mi sono rispecchiato quando
ho abbracciato la spiritualità alla fine degli anni '60. Non credo che
lui abbia rinunciato alla sua preoccupazione per la condizione umana,
penso che l'abbia semplicemente ampliata, ma le persone non erano pronte
per questo.
RP: Ci sono due canzoni su cui ho letto qualcosina di interessante e
mi chiedevo se potevi chiarire meglio. La prima è "Talkin' Bear Mountain
Picnic Massacre Blues". Fosti tu a dare a Dylan l'articolo che poi l'ha
ispirato?
NPS: Accadde uno o due giorni dopo che avevo sentito la sua
riscrittura di "Buffalo Skinners". Bobby era ancora in città, veniva al
Gaslight per esibirsi. Ero rimasto così colpito da ciò che aveva fatto
che, quando vidi l'articolo, pensai che quel ragazzo potesse trasporre
qualsiasi cosa in un modo che tutti potessero capire. Se ben ricordo,
gli portai il giornale e gli diedi l’articolo ritagliato. Tornò, giuro,
la sera dopo o al massimo passò un altro giorno, ma tornò molto
rapidamente e fece "Bear Mountain Picnic Massacre Blues".
RP: Quindi glielo desti con l'idea che c'era una canzone in quella
storia e lui sarebbe riuscito a scriverla?
NPS: Esattamente, che lì c'era una canzone di Bob Dylan.
RP: Cosa c’era in quella storia che te l’aveva fatto pensare?
NPS: L'assurdità. Pensavo che Dylan ne cogliesse l’assurdità e
fosse in grado di commentarla alla grande. Che potesse darle piena
efficacia. Nella canzone, alcune persone non finiscono gettate a riva?
Non sono sicuro che successe davvero, ma la barca si capovolse. La sua
capacità di darle un corpo e una struttura era piuttosto sorprendente.
Sapevo che l'avrebbe fatto, mi era bastato il brano "Buffalo Skinners".
RP: E qual è la storia dietro un altro talkin' blues, il tuo "Talkin'
Candy Bar Blues". Ho letto che Dylan ha contribuito, ma i suoi versi non
sono finiti nel disco. Cosa successe?
NPS: In realtà, non credo che Dylan abbia contribuito… No,
aspetta, hai ragione! Wow, la tua documentazione è fantastica. [ride]
Ora che me lo dici, avevo scritto "Talkin' Candy Bar Blues" e Albert
[Grossman] l'aveva inviata a Bobby perché gli piaceva il concept, ma non
era sicuro di dove sarebbe andata parare.
RP: Quindi era un lavoro in corso?
NPS: Non era finita quando Bobby la vide. Bobby tornò con
qualcosa di molto duro, il che mi sorprese. O forse non era duro,
semplicemente avevo la mia versione. Sono contento di come la canzone si
è sviluppata, ma non ho usato nessuna delle cose di Dylan. Mi sembra che
lui avesse introdotto dei concetti di comunità più che una storia di
quartiere. Erano... non ricordo. Penso che abbia provato due o tre versi
che semplicemente non mi calzavano. Mi piacerebbe trovare quel
contributo originale di Dylan nei miei archivi. Grazie per avermelo
ricordato.
RP: Hai un grande archivio? Sei una persona che colleziona e si
aggrappa alle cose?
NPS: Cosa intendi, un accumulatore?
RP: Sì, un accumulatore.
NPS: Beh, onestamente, sì. È come quando mia moglie guarda il mio
laboratorio al piano di sotto con gli oggetti di cui ho detto: "Oh, non
buttarlo via, lo sistemo io". Ma solo un misero 10% poi ritorna su per
le scale. Ecco, sto guardando i miei archivi allo stesso modo.
In una certa misura sono anche responsabile degli archivi di Peter, Paul
& Mary perché ho una stanza con umidità controllata qui nel Maine dove
tengo un sacco di nastri audio e video, nastri master di tutto il lavoro
che abbiamo fatto. Sto per assumere a tempo pieno un archivista che mi
aiuti a riordinarli.
RP: Ti senti con l'archivio di Bob Dylan a Tulsa? Ti hanno
contattato?
NPS: Sì, ci sono stati alcuni contatti, ma penso che parlino di
più con Peter. Abbiamo ricevuto una richiesta dalla Kentucky Music Hall
of Fame di allestire un chiosco per Mary [morta nel 2009]. Stiamo
raccogliendo foto, alcune lettere, materiale d'archivio, persino alcuni
costumi che probabilmente invieremo loro.
Per quanto riguarda Dylan, non so quanto Peter, Paul & Mary verranno
incorporati in quell’archivio [di Tulsa].
In termini di contatti effettivi con Dylan, nel corso degli anni le
nostre strade si sono poi incrociate solo un paio di volte. Lo abbiamo
incontrato nel backstage di quello spettacolo televisivo [un tributo a
Martin Luther King, all’Opera House di Washington, 20 gennaio 1986] in
cui ha massacrato la chitarra solista in "Blowin' in the Wind", con noi
e Stevie Wonder. È stato uno di quei pasticci dove il produttore dice:
"Oh mio Dio, possiamo mettere insieme tutti questi nomi sullo schermo,
faremo uno show col botto." Così hanno messo insieme Dylan, noi e Stevie
per fare “Blowin' in the Wind” e non è stato molto bello.
Nel backstage Dylan mi chiese: "Sei ancora con il Signore?" Risposi:
"Oh, sì!"
Successe in seguito a quel viaggio che feci a Woodstock dopo il suo
incidente. Lui stesso stava attraversando alcuni cambiamenti, poco prima
che pubblicasse “John Wesley Harding” e diversi anni prima dei suoi due
album da cristiano rinato.
Mi chiese di recitare una piccola parte in un film che stava girando a
Woodstock, nel periodo dell'incidente in moto.
RP: Ricordi qual era la tua piccola parte in quel film?
NPS: Sì, ero vestito con una tunica bianca da monaco. Era da
qualche foresta in mezzo a una foresta, ma sono sicuro che quasi tutto è
stato scartato.
RP: Cosa facevi in tunica bianca da monaco?
NPS: Penso che stessi pontificando. Ma fu prima delle nostre due
esperienze spirituali.
RP: Era una scena solo con te o anche con The Band o con Bob?
NPS: No, da solo. Mi sembra che il cameraman fosse Howard Alk.
RP: Vedesti qualche concerto dei suoi tour post-Newport con The Band?
NPS: Penso che in quel periodo non stessi prestando molta
attenzione alle faccende di Bobby, e se capitava era un interesse
sporadico.
Peter, Paul & Mary non dovettero combattere i giudizi dei puristi.
Eravamo già stati criticati un paio di volte per essere patinati.
Continuammo con i nostri strumenti acustici. Sebbene le nostre armonie
fossero forse una sfida per coloro che amavano solo la musica degli
Appalachi, abbiamo sempre fatto la musica che volevamo fare. Presa in
prestito da artisti folk, a volte cambiando le armonie. Abbiamo aggiunto
un bridge su "There But for Fortune" di Phil Ochs. Chi è abbastanza
audace da farlo? Tutto ciò era parte della nostra comfort zone. Se
sentivamo che doveva essere fatto, lo facevamo e sopportavamo le
conseguenze negative.
Siamo stati totalmente dentro al nostro mondo fino alla fine del ‘69.
Poi ci siamo presi sei anni di pausa, periodo che abbiamo
affettuosamente chiamato “di buona condotta”. Non siamo tornati insieme
fino al '78.
RP: Se dopo Newport eri ancora immerso nel mondo di Peter, Paul &
Mary, come finisti a Woodstock per quel piccolo film?
NPS: Ricerca spirituale. Il sospetto che la realtà non fosse
tutto ciò che sembrava essere. La ricerca di qualche direzione per
l'anima. E poi l'avvento dei Beatles, perché quello fu piuttosto
potente. La loro comparsa fu un cataclisma sulla scena della musica pop,
almeno quanto era stato l'arrivo della musica folk. E andava nella
direzione della scoperta di sé. Molti brani dei Beatles, dopo che ti sei
lasciato alle spalle "I Want to Hold Your Hand", erano sulla scoperta di
sé stessi.
Fu la grande domanda che feci a Bobby: "Hai sentito i Beatles? Cosa ti
fanno venire voglia di fare come artista?" E Bob mi disse: "Beh, devi
ascoltare il mio nuovo album.” Come se “John Wesley Harding” fosse la
sua risposta ai Beatles. Pensai che fosse curioso perché, di certo,
stilisticamente non lo era.
RP: Dove si svolsero queste conversazioni con Dylan? Eri lì per
qualche brano dei “Basement Tapes”?
NPS: Forse cenai con The Band e Albert [Grossman] nel ristorante
che lui possedeva a Woodstock. Può essere. Avevo un bassista che si era
sposato a Woodstock, Jim Mason, che poi ha prodotto i Firefall.
RP: Come ha fatto "Too Much of Nothing" a farsi strada dai nastri
della cantina al vostro repertorio? Immagino che anche qui ci sia stato
di mezzo Albert Grossman. [ndt: “Too Much of Nothing” fu originariamente
incisa proprio da Peter, Paul & Mary nel novembre 1967]
NPS: Non riesco a ricordare. Probabilmente di nuovo Albert e/o il
suo rapporto con Peter. So che ne facemmo una versione molto pop.
RP: Anni dopo, voi eravate di nuovo sullo stesso palco per il Live
Aid [13 luglio 1985], giusto?
NPS: Non fu una scelta felice, in particolare per Mary.
L'aspettativa era che noi saremmo andati a cantare "Blowin' in the Wind"
con Bobby a concludere. Quando chiamai Keith Richards e Ron Wood, fu...
non so. Penso che quello abbia tracciato una linea di demarcazione
definitiva tra ciò che Dylan pensava di essere e ciò che Mary pensava
dovesse essere la comunità folk.
Ricordo solo di essere andato alla roulotte di Dylan, lui era seduto
sullo scalino. Si supponeva che più tardi saremmo saliti sul palco con
lui, ma non successe. Salimmo per il gran finale e questo è tutto. Non
abbiamo mai cantato come trio al Live Aid. Non è stata una bella
sensazione.
RP: Fondamentalmente eravate lì solo per cantare con Dylan e lui vi
ha snobbato.
NPS: Già. Come ti ho detto, le relazioni sociali non erano in
cima alla lista delle abilità di Bobby.
RP: Quel trio con Keith Richards e Ron Wood: penso che oggi la
maggior parte dei fan di Dylan la consideri come la peggiore performance
della sua carriera.
NPS: Sì, persino Dylan potrebbe essere d'accordo. Ne ho visto una
clip di recente. O la chitarra di Ron Wood era spenta, o la chitarra di
qualcun altro non era accordata, quindi hanno continuato cambiando
chitarre. Nessuno cantava davvero, tranne Dylan.
Per cercare di trovare un valore in quella esperienza, penso che forse
stava cercando di tendere una mano alle buone intenzioni. Stava cercando
di dire: "Ehi, siamo tutti coinvolti in questa cosa, insieme. Anche le
persone che non ti aspetti, sono qui insieme". Gli concedo questo
beneficio. Non credo che l’abbia fatto per autoglorificarsi, non ne
aveva bisogno. E nemmeno perché era amico di quei due. Penso che l'abbia
fatto come una dichiarazione più ampia.
Questo è tutto. Non ho più sentito Bobby né parlato con lui, devono
essere passati ormai quarant’anni. Se dovessi sintetizzare, direi che
abbiamo avuto una relazione affettuosa ma distante. Penso che sia stato
davvero fantastico quello che ha scritto sulle note di copertina
[dell’album “In the Wind”, 1963] di Peter, Paul & Mary, su di me che
facevo l’imitazione di Charlie Chaplin sotto le luci tremolanti del
Gaslight. Aveva un senso poetico che di tanto in tanto poteva mettere su
carta senza musica.
Paul allora era un chitarrista cantante cabarettista Ma non il tipo
buffo ah ah.
La sua buffità poteva essere definita e descritta solo dalla parola
"hip" o "hyp", Una combinazione di Charlie Chaplin Jonathan Winters e
Peter Lorre. orse fu quella sera che qualcuno agitò un pezzo di cartone
davanti a un piccolo riflettore e lui fece rapidi ridicoli
movimenti sul palco e gli occhi di tutti videro di persona un film muto
dal vero, iIl cattivo barbuto di una vecchia fotografia.
Non c'è abbastanza spazio sul giornale per parlare di tutti quelli che
erano lì e di cosa facevano esattamente.
Ogni sera era davvero un romanzo di alto livello. Comunque fu una di
quelle sere che Paul disse "Dovete ora sentire me e Peter e Mary
cantare". Allora i capelli di Mary erano lunghi quasi fino alla vita, e
la barba di Peter era cresciuta solo per metà, e il palco del Gaslight
era più piccolo, e la canzone che cantavano era più giovane.
Ma le pareti tremarono, e tutti sorrisero, e tutti si sentirono bene.
Grazie Noel! Scoprite di più sul suo attuale impegno per la giustizia
sociale su Music to Life [https://www.musictolife.org], e sul suo nuovo
album “Fazz” sul suo sito web [https://noelpaulstookey.com].
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Suonare la batteria per Dylan nei ‘90.
Parla Winston Watson.
“Fu
solo il più strano di tutti i concerti”
di Ray Padgett - (4 agosto 2022)
Fonte:
https://dylanlive.substack.com/p/winston-watson-talks-drumming-for?utm_source=substack&utm_medium=email
traduzione di
Silvano Cattaneo
Winston Watson ha suonato nella band di
Bob Dylan per alcune delle migliori prime annate del Never Ending Tour.
Si è unito quasi senza preavviso nel settembre 1992, nel bel mezzo di un
tour, sedendo al secondo sgabello della batteria al posto di un amico.
Salvo poi ritrovarsi altrettanto bruscamente non solo a restare, ma a
diventare l'unico batterista di Dylan per quasi quattro anni.
Lungo la strada ha suonato in concerti importanti, come Woodstock '94 e
MTV Unplugged e dietro a ospiti all-star, da Sheryl Crow a Van Morrison.
Si è anche ritrovato a partecipare con un piccolo contributo a “Time Out
of Mind”, un anno dopo aver lasciato la band. Ho parlato recentemente
con lui al telefono, dopo le sue date in tour con i ricostituiti MC5:
una lunga e piacevole chiacchierata su tutto questo e molto altro
ancora.
Questa è la prima parte. Nella seconda parte, che pubblicherò tra poche
settimane, parleremo di una dozzina di spettacoli particolarmente
importanti del suo periodo con Dylan: Woodstock '94, MTV Unplugged,
l’esecuzione di "Restless Farewell" per Frank Sinatra e altro ancora.
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Ray Padgett: Come entrasti nella band di Dylan?
Winston Watson: Facevo parte di una piccola band di tre elementi
a Los Angeles e contemporaneamente lavoravo anche in una compagnia di
set cinematografici, facendo un po’ di tutto perché avevo una figlia di
due anni. All’epoca il mio migliore amico, Charlie Quintana, suonava con
Dylan. Charlie aveva già suonato con lui al Letterman Show, quella cosa
con i Plugz nel 1984, ma a quei tempi non lo conoscevo ancora. L'avrei
incontrato tre o quattro anni dopo: diventammo vicini di casa e migliori
amici. Charlie mi aveva invitato al Pantages Theatre di Los Angeles dove
si stavano esibendo per sette serate, nel '92 [dal 13 al 21 maggio]. La
prima sera andai con mia moglie, ma il telefono continuò a squillare: a
quanto pare mia figlia stava facendo un gran casino con la moglie di
Charlie, quindi dovemmo lasciare lo spettacolo e tornare a casa.
La serata successiva andai da solo. Non sapevo niente di Dylan. Avevo
ascoltato le sue canzoni più famose e scherzato sulla sua voce come
chiunque altro. Semplicemente non era proprio il mio genere. Mi
piacevano i Soundgarden e Alice In Chains.
Ricordo che a quello spettacolo nessuno sembrava soddisfatto e tutti
bevevano. Dopo, Charlie [Quintana] e io mangiammo un boccone assieme, e
ricordo di essermi detto: "In quella band non ci suonerei neanche se mi
pagassero!" Mi pareva che nessuno si stesse divertendo.
A quel tempo vivevo a Studio City [un quartiere di Los Angeles nella San
Fernando Valley], ed ero sempre in contatto con Charlie. Qualche mese
dopo mi chiamò e mi chiese: "Ehi, cosa fai la prossima settimana?"
Voleva che volassi a Kansas City per suonare con loro. Pensavo mi stesse
prendendo in giro. Dissi “Cosa significa? Io e te? Perché mi risulta che
in questo momento ci siete tu e Ian Wallace [entrambi alla batteria].” E
lui: "No, sarete tu e Ian." "Oh, amico, nemmeno lo conosco. Che cazzo
vuoi che faccia?" E lui: "Andrà tutto bene. Alla fine del tour mancano
solo poche date e io devo andare a suonare con Izzy Stradlin." Dissi
okay.
Volai a Kansas City. Dovetti pagarmi il taxi con gli ultimi soldi che
avevo e mi diressi all'hotel. Andai nella mia stanza, ordinai il
servizio in camera, feci il bagno. Stavo lì, sdraiato nella vasca,
chiedendomi che cazzo ci facessi in quel posto. Ero terrorizzato. Non
avevo idea di cosa potesse succedere.
Una delle prime persone che vidi fu il [tour manager] Victor Maymudes:
era preoccupato per qualcosa e non era molto interessato a parlare con
me. Così andai ai tour bus. [L'autista] Tommy Masters disse a Victor:
"Questo è il tipo arrivato per suonare la batteria." Victor si girò con
il sorriso più grande stampato in faccia e disse: "Sì, ti stavamo
aspettando." Finalmente anche il resto della band salì sul bus e provai
a chiedere: "Cosa sta succedendo? Come funziona qui?", per cercare di
raccapezzarmi.
RP: Ricevesti almeno qualche istruzione musicale prima del
concerto? Tipo "Impara queste canzoni, fai questo o..."
WW: No! Avevano un kit di batteria nel retropalco e mi sedetti lì
un minuto a provarlo. Mi chiedevo dove fosse l’altro batterista che
avrebbe dovuto essere già lì, ma l’incontrai solo all’ultimo momento.
Pensai: “Non so cosa farò. Cercherò solo di non essere d’impiccio."
C’erano 80.000 spettatori [al Liberty Memorial Park di Kansas City]. Era
come affacciarsi sul Grand Canyon, ma di persone. Prima di noi suonò
Albert King. Quando arrivò il nostro turno avanzai dietro il kit: mi
sembrava di entrare in scena legato a un razzo, senza possibilità di
tornare indietro. Tony [Garnier] mi disse solo: "Guardami e guardalo. E
ti si svelerà da sé."
Fortunatamente ero stato al Pantages Theatre e sapevo cosa stavano per
fare. C'erano un sacco di shuffle e cose che pensavo di saper suonare,
ma per quanto riguardava gli arrangiamenti era come tirare a indovinare.
Niente assomigliava a qualcosa che avessi già sentito prima. Mi resi
conto che il pubblico riconosceva le canzoni solo quando iniziava a
cantarle, indipendentemente dal fatto che le cantasse nel modo in cui le
ricordavano o meno. Quando finalmente uscivano le parole, allora
scattavano urla e applausi.
RP: Quando salisti su quel palco a Kansas City [il 6 settembre
1992], avevi mai parlato con Bob?
WW: No. Non avevo mai incontrato l'uomo, non gli avevo detto una
parola in vita mia.
RP: Oh mio dio!
WW: Fu solo il più strano di tutti i concerti. Sembrava finita
prima ancora di iniziare, anche se poi pensai: "Wow, non è andata poi
così male. Non è stato così terrificante come temevo." Avevo Ian
[Wallace] vicino ed era la mia guida. Cercavo di duplicare quello che
faceva lui, stando un po’ alla larga. Ogni volta che lui voleva fare una
fiorettatura, io cercavo di tenermi basso.
La cosa divertente fu che Bob sapeva che c’era un nuovo elemento, ma non
sapeva chi fosse. Capisci cosa intendo? Quando si avvicinò al microfono
per iniziare a cantare, non si era ancora voltato a guardare la band. A
un certo punto, mentre stava cantando, si girò lentamente alla sua
sinistra e mi guardò. Io ero lì, con i miei capelli più grandi di quelli
di Angela Davis e addosso la mia roba California Hurley. Tra strofe e
ritornelli andò avanti per due ore, continuando a guardarmi. Quello fu
un po' snervante.
RP: A cosa pensavi quando ti arrivavano quegli sguardi?
WW: Rob Stoner una volta disse qualcosa su di lui che sparava
sguardi e io dissi: "Ragazzi, lo so." Ricordo di aver pensato: "Sarà
così per l'intero concerto, o è solo una mia impressione?" Come ho
detto, aspettava qualcuno, ma non credo si aspettasse me. Avevo appena
compiuto 30 anni.
Finimmo il set, lui lasciò di filata il palco e io pensai: "Okay, torno
a casa." L'unica cosa cui riuscivo a pensare era come andarmene da lì e
dove fossero le mie cose personali. Non avevo portato nessun vestito.
Avevo solo una vera tuta da pilota, alcuni mutandoni, pantaloncini e un
apple cap come se fossi nei Pearl Jam, che erano la cosa più in voga in
quel momento.
Ma Bob venne da me, mi disse che gli era piaciuto il modo in cui avevo
suonato e arrivederci a domani. Mi chiesi cosa volesse dire: avrei
continuato a suonare con lui, o mi avrebbero lasciato all’aeroporto il
giorno dopo?
Quando finalmente ebbi la possibilità di chiamare mia moglie, lei mi
chiese: "Allora quando torni a casa?" Risposi: "Non lo so." Continuai a
ripeterlo per due settimane o per quanto durò quel tour.
Ogni serata era qualcosa di diverso. Come posso descriverlo? Iniziò a
insinuarsi una sorta di pesantezza perché le persone ne scrivevano e io
non ero abituato a cose simili, non a quel livello. Ero stato su Circus
e Kerrang! e tutte le riviste rock, ma finire su USA Today… Ci vuole un
po' per abituarsi! Guardavo al passato e pensavo alla sua storia, e non
c’era niente che avesse a che fare con me. Dovevo andare avanti come in
un campo minato e non c’erano impronte che potevano guidarmi.
Penso che da me abbia sempre voluto che fossi me stesso. Mi immersi in
cose più vecchie, più roots, come Levon Helm o Jim Keltner, che avevo
già sentito prima ma che non avevo mai apprezzato finché non iniziai ad
andarci in profondità e ad ascoltare bene quelle incisioni. Quando poi
mi liberai di tutte le stronzate che avevo sul palco e ridussi il kit a
quattro pezzi, le cose migliorarono decisamente, si fecero più
divertenti e non così tese.
RP: Perché il kit ridotto di batteria ti aiutò in quella band?
WW: Pensai solo che fosse più figo. Non sembrava così ridicolo,
come un grosso kit stile Phil Collins. Ian [Wallace] aveva un kit
abbastanza grande e pensai di dover competere con quello, ma non lo
feci. Ero più a mio agio con un kit stile John Bonham. Mi piacciono i
due timpani, ma Levon [Helm] ne aveva uno. Più studiavo quel genere di
cose, più mi ricordavo com'era stato suonare nella band di mia madre,
invece di essere in una rumorosa rock band. Quello fu la svolta per me.
Sono cresciuto ascoltando musica country, periodo ’55-’76; poi, quando
le cose iniziarono a diventare più pop, la lasciai perdere. La cosa
divertente della mia discografia è che non c'è molto hip hop, ma c'è un
sacco di roba americana che parte dalla Guerra Civile e arriva ai giorni
nostri. Quel legame con la musica country mi ha salvato il culo nella
band di Bob.
Sono un musicista rock, punto. Sono cresciuto suonando rock and roll.
Questo è quello che sono ed è dove mi muovo meglio, ma mi piace suonare
anche molte altre cose. Quando mi chiamano per fare cose da cantautore,
cerco di ricordarmi di gente come Jim Keltner, Levon Helm e Richie
Hayward dei Little Feat. Quei musicisti hanno una certa cosa che è la
quintessenza americana. C’è uno swing non dichiarato. Più ne sapevo di
quei tipi e più imparavo quello swing e a non essere così rumoroso.
Perché sono piuttosto rumoroso. Ora suono con gli MC5. Siamo piuttosto
rumorosi, ed è quasi tutta colpa mia.
RP: Ho ascoltato le registrazioni dei concerti e avevi alcune
canzoni su cui scatenarti. Non era tutta roba country. Ogni sera
facevate "All Along the Watchtower" dove andavi giù piuttosto pesante.
WW: Sì, perché lui voleva fare rock. Neil [Young] era in giro con
i Pearl Jam. In quel periodo il rock era la cosa che andava per la
maggiore. Secondo alcuni tipi del management con cui avevo parlato,
attirava i più giovani. Il fatto che stessimo suonando rock, che
potessimo fare Woodstock '94 e l’MTV Unplugged e tutte quelle cose, ci
permetteva di parlare a una generazione che non lo aveva mai sentito,
davvero.
Qualunque sia stato il mio contributo, spero sia stato buono. Molti
musicisti con cui suono adesso sono più giovani e [il concerto] MTV
Unplugged è quando hanno sentito parlare di me per la prima volta. Mi
dicono: "Wow, tu sei il tipo con quei capelli alla batteria?"
Ora, vent’anni dopo, tutti hanno la mia pettinatura. Ma all’epoca ero
una delle poche persone ad andare in giro così; non un taglio afro come
Rob Tyner, ma una sorta di grande riccioluto afro, capisci cosa intendo?
RP: Sì, quella cosa era grande. Non ti faceva caldo mentre
suonavi?
WW: No, era come un gigantesco dissipatore di calore. In realtà
lo portava via, come i cani che hanno un mantello superiore e uno più
interno. Ma ci furono serate in cui suonare era difficoltoso, come in
Louisiana o in Alabama dove l’umidità non ti mollava un attimo. Li
legavi a coda di cavallo, ti attaccavi al condizionatore, ma nemmeno un
secchio d'acqua fredda bastava. Vengo dall'Arizona e so com'è il fottuto
caldo, ma l'umidità che hanno nel sud è da stare male. È come indossare
un costume da orso mentre suoni.
Mi lamentavo di avere troppo spazio nelle riprese, come se non bastasse
che ero sempre inquadrato dietro Bob nei piani fissi frontali. Ho messo
a repentaglio la mia privacy. Era già abbastanza brutto che lui dovesse
avere la sua security, io non avevo bisogno di quel genere di cose.
RP: Certo, con quei grandi capelli eri una figura riconoscibile.
Gli altri sembravano un po’ tipi qualunque.
WW: Sì, e le persone pensano che tu sia in un certo modo e
proiettano un’immagine su di te. E quando non corrispondi a quella
proiezione, si sentono offese o peggio.
RP: Cosa intendi? Cosa proiettava la gente su di te?
WW: Come se fossi sempre Animal, [il pupazzo batterista] del
Muppet Show. Non lo sono. Sono l'esatto opposto. Mi piace rientrare in
hotel e guardare la TV o fare altro. Non sono mai stato un gran
casinista, e anche quando l’ho fatto avevo sempre i piedi per terra.
Sai, quando le persone vogliono uscire, vogliono trascinarti nella vita
notturna. Vai nei locali, ti presentano ragazze, ma tu non sei per
niente come si aspettano. A volte capiscono, a volte si offendono. Non
sapevo come affrontare queste situazioni su grande scala, perché siamo
stati parecchio in tour. Non riuscivo a far capire alle persone che
l'interazione che stavo avendo con loro quella sera era un’eccezione
fatta per loro, e invece dovevo rifarlo ancora, ancora, ancora… Anche se
non ne avevo voglia, o avevo il cuore spezzato, o nostalgia di casa, o
un'intossicazione alimentare o altro. Ma non è da me essere scortese o
fare il sostenuto. Perché non sono diverso da chiunque venga a vederci.
Sono stato solo molto fortunato.
Fu diverso rispetto ad andare in tour con qualcuno tipo Sheryl Crow.
Magari ne sapevi di più perché era roba contemporanea, ma, cavolo, la
sua è musica che va molto indietro nel tempo. Il primo anno non ho avuto
nemmeno una pausa per cercare di assimilare tutta quella roba. E
comunque, non avrebbe fatto alcuna differenza perché nessuna delle sue
canzoni era più così.
RP: Anche se avessi potuto tornare indietro e ascoltare i suoi
dischi, non ti avrebbe aiutato a rifare le canzoni.
WW: Esatto. Come fai a giocare a freccette quando qualcuno
continua a spostarti il bersaglio?
Era come Miles Davis. Non credo gli fregasse un cazzo di quello che
avevi suonato la sera prima o la sera dopo; lui voleva quella cosa
quella sera, qualunque cazzo di cosa fosse. Adesso lo capisco più che
mai, principalmente grazie a Bob e a qualcuno come Howe Gelb dei Giant
Sand. Avevo suonato con Howe [Gelb] negli anni '80, cosa che mi ha
preparato all'imprevedibilità di Dylan negli anni '90. I due si
assomigliano. Sono molto prolifici, parecchio stravaganti e sono davvero
speciali. Sono il tipo di persone che incontri raramente e hai solo da
imparare.
Un sacco di puristi pensavano che non avessi diritto a stare lassù, e
posso capire perché. Sto vivendo la stessa cosa con i fan degli MC5.
Dico, vi rendete conto che avevo cinque anni quando quella band ha
iniziato? E vi rendete conto che avevo tre mesi quando è uscito il primo
disco di Dylan? Quindi, che cazzo dovrei sapere? Non sono andato a
cercare niente. Mi è stato chiesto di unirmi dal management di Dylan, e
mi è stato chiesto personalmente da Wayne Kramer [degli MC5], e ho detto
di sì. C’è chi parla e c’è chi fa. Io preferisco stare con quelli che
fanno.
RP: Hai detto che l'unica persona di cui ti importava l’opinione
era Bob. Come facevi a conoscerla? Perché altri musicisti mi hanno
confermato che non è uno che ti dà commenti dettagliati alla fine di
ogni spettacolo. È un po' imperscrutabile.
WW: All’epoca mia moglie stava particolarmente attenta a una
cosa. Noi la chiamavamo “la cosa alla Charlie Chaplin”. Una mossa che
lui faceva, come se entrasse davvero in quel feeling. Quando accadeva,
sapevo che stava iniziando il “Bob e Winnie Show”, come lo chiamavano
alcuni fans.
Lui ha un senso del ritmo fantastico e innato. Se gli piace qualcosa a
116 BPM, la suonerà sempre dentro quelle battute. Se diceva che qualcosa
era troppo veloce, non stavo a discutere. Se diceva che qualcosa era
troppo lenta, non stavo discutere.
RP: Tornando ai primi giorni, dopo quel tour di due settimane
sapevi che saresti tornato?
WW: No. Lui ed io ci sedemmo in un ristorante vicino a Lafayette
[l'ultima tappa del tour], fumammo un paio di sigarette e conversammo.
Gli dissi che mi ero davvero divertito. Perché non c’è proprio niente di
uguale, nonostante fosse stato terrificante – hai presente quella lama
del terrore da palcoscenico? Non ho bisogno di cadere da un aeroplano o
scalare l'Everest per provarla.
RP: Quindi cosa accadde dopo? Quando il tour riprese nel 1993 tu
eri l'unico batterista. Ian [Wallace] se n'era andato.
WW: Sì. Andammo in Irlanda per le prove, al Factory, la casa
degli U2. Fu allora che scoppiò un gran casino.
RP: Racconta.
[ride, sospira, lunga pausa]
RP: Se ti va…
WW: L'attrezzatura di Ian era lì, ma lui no. Non sapevo perché.
Ricordo di essere entrato in panico.
RP: Andando a quelle prove non sapevi che non ci sarebbero stati
due batteristi come l'ultima volta?
WW: No. La sua attrezzatura era ancora nel corridoio ed ero
convinto che fosse lì. Pensai: va bene, dovrò assestarmi con lui e
combattere per il mio spazio.
Bob mi aveva detto che non voleva che mi scoraggiassi, che se ero lì
c’era una ragione. Perché all'inizio ero intimidito. Poi, quando ho
preso confidenza, ha praticamente detto che non me sarei andato. Così
arrivai in Irlanda pensando che avrei mantenuto la mia posizione e se
Bob voleva un certo feeling, avrei fatto quello che mi veniva chiesto.
Entrai in sala prove e tutti gli strumenti erano sistemati, ma c’era
solo una batteria. La mia. Fu allora che feci due più due. Ricordo che
mi dissi: "Okay, adesso tocca a me."
Ti trovi in una situazione di lavoro con un gruppo di persone affiatate,
che hanno il loro modo di fare le cose e tu non vuoi sconvolgere il
branco. Vuoi allinearti, ma non andò così. Invece di introdurmi in
quello che stavano facendo, Bob cominciò a suonare il basso per un po',
con me che suonavo la batteria. Ricordo di aver pensato: "Accidenti, se
lui fa il bassista, cosa farà Tony [Garnier]?"
RP: Mentre suonava il basso cantava?
WW: No, suonava soltanto, cercando di stare alle mie battute e al
mio swing.
RP: Queste prove avevano un'atmosfera rilassata da jam session, o
Bob dettava certe canzoni o idee?
WW: Si iniziava con una sensazione. Potevamo costruirci sopra o
gettarla subito nella spazzatura. Potevamo cambiare strumenti, cenare e
iniziare qualcos’altro. Si beveva, si fumavano parecchie sigarette e si
ripartiva.
Non ho mai pensato di dover entrare nei panni di qualcun altro. Nessuno
mi disse mai suona così e cosà. È un sollievo, ma è anche terrificante
perché sta a te essere intuitivo. Ti intimidisce molto di più di quando
ti mettono davanti lo spartito. Siccome non sono un grande lettore di
spartiti, posso fingere di aver trovato la mia strada in mezzo a quello
che è scritto. Ma non puoi fingere di aver trovato la strada in mezzo a
un’atmosfera. La gente mi chiedeva come riuscissi a memorizzare tutta
quella roba. Io dicevo: "Facile. Non suonarla come se la ricordano
tutti. Suonala come lui la vuole oggi."
Ti dirò, qualunque cosa uscita in quei primi anni, è stata elaborata a
lungo. Ho affrontato di peggio, ma quello è stato uno stress mentale a
cui non ero preparato. Dopo la prima seduta, abbiamo avuto due o tre
giorni interi di prove, solo per prepararci al primo spettacolo di
Dublino.
Quello show era davvero importante. Chiunque all’epoca fosse famoso,
irlandese e vivo era presente in sala. Gli U2 erano lì perché eravamo
stati nel loro studio tutta la settimana, c’erano Carole King e Chrissie
Hynde e Kris Kristofferson ed Elvis Costello.
Devo ammettere onestamente che l'ultima sera che abbiamo chiuso le
prove, lui non era convinto che potessimo fare qualcosa di buono. Non
era felice finché non abbiamo iniziato il primo concerto in quel locale
dall'altra parte della strada, il Point Depot. Accendemmo la miccia e lo
incendiammo. Perché non avevamo niente da perdere. Suonai come un uomo
inseguito dai lupi. Dicono che un concerto vale dieci prove, ed è
fottutamente vero. Fu sbrindellato ma glorioso. Non c'era niente di
perfetto. Non era come una canzone degli Steely Dan, era rock and roll.
Poi suonammo sei sere all'Hammersmith [Apollo di Londra] e lì abbiamo
lavorato a un sacco di cose. John [Jackson] non era GE Smith e io non
sono Levon [Helm], ma per quanto riguardava il set rock non miravamo
certo a quel suono più morbido. Poi c’era la parte centrale dove faceva
tre o quattro canzoni acustiche, come "Little Moses” o "Boots of Spanish
Leather" o "It's Alright, Ma". Dopodiché mi arrampicavo di nuovo sul mio
kit e iniziavo a fare il mio piccolo fracasso con "God Knows" o "Wicked
Messenger". Anche i bis erano divertenti. Di solito c’era "Rainy Day
Women" e talvolta "Alabama Getaway" dopo che suonammo con i [Grateful]
Dead. Quella è sempre stata uno spasso da suonare.
Fece un sacco di cose che mi piacevano. Un sacco di brani da “Oh Mercy”,
“Blood on the Tracks” e “Blonde on Blonde”. Non ne sapevo proprio
niente, ma la mia ragazza dopo il liceo amava Bob Dylan. Metteva sempre
“Desire” mentre io avrei voluto lanciarlo dall'altra parte della stanza.
[ride] Lo metteva così tanto, e cantava sempre fuori tono, che alla fine
iniziai a metterlo sul giradischi da solo. Divenne lo sfondo della
nostra storia d'amore. Credo di averlo persino raccontato a Bob. Gli
dissi: "Se non fosse stato per Howie Wyeth [il batterista di ‘Desire’],
probabilmente non avrei mai ascoltato la tua musica così tanto." Howie
ci ha messo davvero tanta energia in quel disco.
RP: Hai menzionato le sezioni acustiche, più tranquille. Cosa
facevi mentre non stavi suonando?
WW: Quando Bob suona la chitarra acustica, penso che sia la cosa
più bella che qualcuno possa sentire. A parte Ry Cooder, non credo di
aver mai incontrato nessuno che lo sappia fare meglio e cantare allo
stesso tempo. Una volta stavamo provando parte del set acustico. Fu la
prima volta che ascoltai molto attentamente come eseguivano "Hattie
Carroll". Ne fui talmente commosso che non volevo tornare alla batteria
per la parte rock. Volevo sentirne altre di quelle cose.
Glielo dissi una sera: "Potrei sedermi lì e ascoltarti tutta la notte
senza mai suonare la batteria." E lui: "Pensi che lo farebbero anche
tutte quelle persone sedute là fuori?" E io: "Andiamo, amico, non
prendermi in giro!" Potevo parlargli in quel modo, il che era
fantastico. Ero diventato un fan. So che è meglio non dimostrarlo, ma
non potevo farne a meno.
Come chitarrista elettrico è considerato al massimo interessante, ma mi
piace anche quel suo lato. Sicuramente è un’impressionista. Penso che
suoni quello che vuole suonare e direbbe che è assurdo pensare che sia
matematica. È un pianista brillante, ma per quanto riguarda la chitarra,
anche dopo tutto questo tempo, ha ancora una sorta di candore. Sa tutto
quello che è implicato, ma conserva ancora una punta di innocenza lì.
Non lo si fa per interessi commerciali, si fa per motivazioni
esclusivamente artistiche e non te ne importa. Non è Eric Clapton, che
pure è fantastico. La parte di chitarrista che c’è in me sposa in pieno
quel suo lato. Anche se potrebbe non suonare bene in alcuni punti, mi
parla comunque. E se insieme finiamo da un’altra parte, sarà comunque
qualcosa di diverso.
E poi è uno spasso. Non credo che gli venga riconosciuto, ma per quanto
sia seria “Masters of War”, lui è un tipo davvero divertente. Lui e mia
figlia sono sempre andati d'accordo perché entrambi sono proprio
ridicoli assieme. Conosco donne adulte che ucciderebbero i propri cari
solo per stare con lui in una stanza. Quando mia figlia si palesava,
diceva: "Oh, ciao Bob!"
RP: Tua figlia è venuta con te in qualche tour o in alcune date?
WW: Sì. Lui scappava sempre con lei da qualche parte e avevano le
loro chiacchiere. Lei aveva dai due ai sei anni quando sono stato con
Bob, e poi nove anni quando ho suonato per Alice Cooper. È stata su
molti palchi e molto dietro le quinte. Per lei era solo un altro giorno
al lavoro di papà.
Ti racconterò questa storia divertente su di loro. Eravamo al Warfield
Theatre [di San Francisco] nel 1995, ci stavamo preparando per il
concerto. Mi stavo vestendo. Vedo mia moglie nella green room e non vedo
mia figlia. Chiedo: "Deb, dov'è Marcella?" Lei mi guarda, sbiancando:
"Non è con te?" Vado in panico. Incrocio uno dei nostri uomini, gli
chiedo se ha visto mia figlia. Dice: "No, amico, ti aiuteremo a
cercarla."
Tutti hanno dato una mano. Avevamo guardato ovunque tranne che nel
camerino di Bob. Salgo e busso in fretta e furia alla porta. Il suo
assistente apre ed eccola lì.
Eravamo già cinque minuti in ritardo per salire sul palco e loro due
stavano bloccando lo spettacolo. Dico: "Tesoro, andiamo. Bob deve andare
a lavorare adesso." E lei: “Oh, okay!” E lui le fa: “Dopo dobbiamo
parlarne ancora un po’, d’accordo?” Lei: “Ok, Bob.” E prende la sua
bibita ed esce incontro a mia moglie.
A quel punto raggiungo la band e aspetto Bob. Abbassano le luci del
teatro, Bob mi ferma con il braccio e dice: "Dobbiamo fare qualcosa per
quella ragazza." E io: "Oh amico, mi dispiace, ti adora e basta. Non
volevo che disturbasse il tuo spettacolo." Lui continua: "No, quella
ragazza alla lezione di arte. È davvero cattiva. Dobbiamo fare
qualcosa."
Avevamo comprato a Marcella un paio di stivali da cowboy e c'era questa
ragazzina pestifera nella sua classe di arte che ci aveva spruzzato
sopra della vernice. E Bob aveva chiesto a mia figlia come avesse fatto
a mettere quella vernice sugli stivali da cowboy. Quindi, mentre
cercavamo mia figlia, lei stava raccontando a Bob quella storia, e
stavano ritardando lo spettacolo. E lui mi ha fermato per dirmi: "Ehi,
dobbiamo fare qualcosa per quella ragazza." [ride]
RP: Di tutti quegli anni nella band, c’è un tuo tour preferito?
WW: Non so quale sia stato il mio preferito, ma direi '94 e '95.
Eravamo davvero impressionanti in quegli anni. A quel punto l'innocenza
era scomparsa, ormai era tutto business, ma noi avevamo qualcosa.
Ma proprio quando iniziai a crederci, fu allora che lui staccò la spina.
Sapevo che sarebbe arrivato quel momento, perché avevamo quella cosa che
facevamo tutte le sere e lui da un po’ non la faceva. Mi sentivo come se
fossi stato lasciato solo. Mi piaceva comunque, ma c'era meno
interazione. Non stavo facendo niente di diverso... forse era quello il
problema.
RP: La tua uscita deve essere avvenuta rapidamente visto che
passarono solo sei o sette mesi tra quei tour del '95 che ami e la tua
partenza nell'estate del '96, dopo i due spettacoli per le Olimpiadi di
Atlanta [3 e 4 agosto 1996, alla House Of Blues di Atlanta].
WW: Sì. Durante le Olimpiadi e tutti i concerti nel '96 non era
felice. Il suo manager ne aveva parlato con la band. Gli dissi: "Amico,
mi sento sull'orlo del divorzio, non è che abbiamo suonato assieme per
una vita, posso andarmene in qualunque momento. Non avere difficoltà a
dirmelo. Posso salire su un fottuto aereo in questo momento senza mai
voltarmi indietro." Ero stato con loro per parecchio tempo, potevo
capire.
Così successe che ricevetti una telefonata dal management. Dissi: "Va
bene, chi avete preso?" E loro "Cosa?" E io: "Ovviamente, se mi state
chiamando è perché volete che torni oppure perché avete qualcun altro.
Chi avete preso?"
Dissero che era David Kemper. Risposi: "È un ottimo musicista. Penso sia
quello cui sta mirando Bob adesso. Siamo stati rumorosi abbastanza a
lungo." È così che sono uscito da quel gioco. Sapevo che era meglio non
rimanere in Mississippi un giorno di troppo. [ndt: nel testo originale
“not to stay in Mississippi a day too long”, citando un verso della
canzone “Mississippi”.]
RP: Nel DVD che hai fatto anni fa [“Bob Dylan Never Ending Tour
Diaries – Drummer Winston Watson’s Incredible Journey”, di Joel
Gilbert], ricordi la volta in cui Van Morrison disse a Bob che avrebbe
dovuto licenziarti. Fu più o meno nello stesso periodo?
WW: Sì. Fu a cena. Van era visibilmente alticcio, ma continuava a
blaterare su qualunque cosa. Ad un certo punto sono stato tirato in
ballo per tutto quello che non andava. Mi sono alzato e senza tante
cerimonie ho posato il tovagliolo sulla sedia e sono uscito.
Quasi non avrei suonato il giorno dopo. Non mi importava cosa pensassero
gli altri e non avevo bisogno di qualcuno che aiutasse a minarmi il
terreno o a segarmi. Soprattutto non uno così.
Non avevo bisogno che qualcuno mi dicesse che facevo schifo. Volevo
sentirlo solo da Bob, e non me l'ha mai detto.
RP: Sei accreditato nel brano "Dirt Road Blues", ma “Time Out of
Mind” è uscito ben dopo che avevi lasciato la band. Com’è la storia?
WW: Era un’idea abbozzata che avevo registrato tempo prima.
C'erano due musicisti là dentro, Jim Keltner e Brian Blade, che
cercavano di replicare quello che avevo fatto io e non ci riuscivano.
Immagino non riuscissero a duplicare quel feeling che c’era nella mia
registrazione. Io lo chiamavo “porch stomp”, un sincopato da portico.
Come se ti sedessi in veranda e suonassi i cucchiai e battessi il piede.
Fu Keltner a dire: "Beh, perché non lo ripetete in loop? C'è Winnie che
suona lì. Basta mandarlo in loop e avete la canzone.”
RP: Ma [quando la suonasti] stavate provando proprio "Dirt Road
Blues" e quella era la parte che ti era venuta in mente, oppure stavi
semplicemente registrando una traccia di batteria casuale che poi è
stata usata?
WW: Non lo so. Sinceramente non ricordo.
RP: È interessante che [Dylan] si sia ricordato di un pezzetto di
batteria che avevi suonato forse diversi anni prima, o che qualcuno
abbia tirato fuori il file.
WW: Se ricordo bene la storia, o Daniel Lanois o lo stesso
Keltner disse che stavano lavorando a quell'idea e Bob o qualcuno fece
sentire la cosa originale, che era su una cassetta.
Il libro [“Listen Up! Recording Music with Bob Dylan”] di Mark Howard
[l’ingegnere del suono di “Time Out of Mind”] lo spiega. Penso di averlo
qui, aspetta un secondo. Okay, eccolo.
[Leggendo ad alta voce] “La canzone 'Dirt Road Blues' è stata creata da
una cassetta che Dylan aveva da un soundcheck. Mi chiese se potevamo
usarla, e così ho fatto un loop delle migliori otto battute e la band ci
ha suonato sopra. Ecco perché Winston Watson è accreditato alla batteria
nell'album. Siccome era una registrazione di un soundcheck, a Daniel
[Lanois] non piaceva, diceva che il suono sembrava la musichetta di Bugs
Bunny."
Quindi ecco qua. Una cosa improvvisata. Non c’entro con quel disco. O
perlomeno, così mi dice il mio ego modesto.
RP: È pur sempre una registrazione in studio in più di G.E Smith
e di molti altri membri delle band del Never Ending Tour.
WW: Giusto. Terrò presente.
RP: Nel tuo periodo con lui, si prese una pausa abbastanza lunga
come autore di canzoni, incidendo solo album di cover folk [“Good as I
Been to You” e “World Gone Wrong”]. C'era qualche sospetto che si fosse
lasciato alle spalle suoi giorni di autore?
WW: No, affatto. Il pozzo si asciuga mai completamente? Non credo che
possa accadere a qualcuno con una mente fertile come la sua.
Si fermerà? Forse ad un certo punto dovrà farlo come chiunque altro, e
sarà la prima persona a dirtelo.
A guardarlo lavorare c’era molto da imparare. Come quando sei un
apprendista e
tutti i lavoratori intorno a te come prima cosa si domandano perché
anche tu sei lì. Una frase che mi è piaciuta, con la quale sono in parte
d'accordo e in parte no, è che "è interessante, ma non è mai
divertente." Perché per me è stato interessante e molte volte pure
divertente. Non sempre. È stata sempre una faccenda seria, ma ci si
poteva divertire.
Come ho detto, ci furono volte così fragorose dove potevamo scambiarci
larghi sorrisi, tutti quanti; serate davvero eccitanti come la band da
roadhouse che eravamo. Non c'era niente di veramente sofisticato in
tutto quello. Avremmo potuto anche esserlo, ma non con me nella band.
MTV Unplugged, Woodstock ’94 e altri show memorabili. Parla il
batterista Winston Watson.
Supper Club Shows – 16-17 Novembre 1993
Winston Watson: Il locale era stato uno speakeasy, una sorta di
posto privato per i mafiosi o qualcosa del genere. Era uno show con
cena. Il palco era piccolo. Confezionarono dei doppiopetto giallastri
apposta per noi, pensavo fossero piuttosto eleganti.
Suonammo canzoni davvero interessanti come "Jack-A-Roe" e cose che non
erano proprio rumorose. Subito dopo suonammo al Letterman [Show].
Ricordo di aver pensato che si continuava a migliorare sempre di più.
In una delle due serate vennero a trovarci i Nirvana. Stavano suonando
all'Irving Plaza o in un posto del genere. Krist Novoselic e Dave Grohl
erano al piano di sopra. Il mio tecnico della batteria aveva dato a Dave
un paio di quelle bacchette che poi avrei usato nel nostro MTV
Unplugged, quelle con il nastro rosso sopra. Se guardi Unplugged dei
Nirvana [registrato il giorno dopo gli spettacoli di Dylan al Supper
Club], Dave le sta usando: penso siano quelle che gli ho dato io.
Woodstock ‘94
Winston Watson: Alloggiavamo in un hotel ad Albany, vicino
all'aeroporto. Incontrai i Nine Inch Nails, i Cypress Hill e alcune
altre band, tutti a far casino al bar dell'aeroporto. I ragazzi dei Nine
Inch pensavano che fossi con i Cypress Hill, e i ragazzi dei Cypress
Hill pensavano che fossi con i Nine Inch.
Il giorno dopo andammo sul posto. Pioveva e ci volle un'eternità per
arrivarci. Ci volle così tanto tempo che ci fecero arrivare il cibo,
ormai tutto freddo. Ci chiesero se volevamo prendere l'elicottero, ma
tutti dissero di no. Sull'autobus ci cambiammo con i vestiti di scena,
scendemmo e salimmo sul palco senza sporcarci di fango. Non ho mai avuto
un granello di fango addosso.
A un certo punto chiesi a Bob se voleva una sigaretta. Stavamo fumando,
noi due, alla destra del palco e ricordo un milione di fotocamere che
scattavano. Pensai: "Wow, chi si sarà appena esibito?". Guardai oltre la
spalla di Bob e vidi che erano tutte puntate su di noi. Fu piuttosto
scioccante.
Il palco era enorme, non avevo nessuno vicino. Odio questo tipo di
concerti. Sono cresciuto suonando nei bar e anche se sono in un'arena mi
piace avere i miei ragazzi vicini. So che con le arene si fanno soldi,
ma preferisco suonare più serate in un bel teatro. Era troppo grande.
Qualcuno sentì qualcosa? Non lo so.
Pete Townshend disse [su Woodstock originale]: "Oh, l'ho odiato. Ha
cambiato la mia vita, ma l'ho odiato." Ecco, so esattamente di cosa stai
parlando, Pete. Non è il mio concerto preferito, ma sentire tutti quelli
che conosci che ti chiamano da casa e ti dicono che ti hanno appena
visto in TV, è stato fantastico.
Roseland 1994 e suonare con Bruce, Neil e Little Richard
Winston Watson: Adoro suonare con Bruce. Lui e Neil Young sono
due dei chitarristi più fragorosi con cui abbia mai suonato.
Ray Padgett: Neil non mi sorprende, ma non l’avrei detto di
Bruce.
WW: Ricordi il leggendario spettacolo al Roseland [Roseland
Ballroom, New York City, 20 ottobre 1994] in cui entrambi salirono sul
palco con noi?
RP: Già, nel '94. Suonarono solo la chitarra, non credo abbiano
cantato.
WW: Fu fragoroso come gli MC5, te lo giuro. Solido come una
roccia, amico. Bruce è un grande chitarrista ritmico. Sono stato
fortunato a suonare due volte con lui e due volte con Neil Young. Mi
sembra che allo Shoreline Neil sia salito con noi, e poi abbiamo fatto
una piccola cosa da qualche parte in Germania, credo nel '95. Averlo
intorno è sempre stato divertente perché lui e Bob sono davvero buoni
amici.
Ma il massimo fu quando suonammo con Little Richard in Finlandia [Pori,
21 luglio 1996]. Davvero fantastico! La persona che io penso sia il
creatore assieme alla persona che è il creatore. Non lo vedi spesso. Ci
sedemmo tutti sul palco a sinistra e assistemmo allo spettacolo di
Richard. Bob e io ci guardammo, come due studenti e ci dicemmo qualcosa
tipo "Amico, che band!" La sezione fiati di Jerry Hey era come una banda
chiesastica, e conoscevano le mosse giuste. Erano tirati come la pelle
di un tamburo e Richard fu davvero eccezionale. Dopo aver visto quei
tipi, fu quasi imbarazzante andare in scena quando toccò a noi. Anche
Bob si sentiva così.
MTV Unplugged
Winston Watson: C'è lo show che hanno mandato in onda e poi ce
n’è un altro che non conteneva hit, niente che qualcuno avrebbe davvero
riconosciuto. È un filmato di noi nei nostri abiti quotidiani mentre
facciamo le prove e cose del genere, e a Dylan piacque di più degli
spettacoli veri e propri. Suonammo tutte cose che non vennero incluse
nell’edizione finale.
C'è una versione davvero interessante di "I Want You" che sta circolando
adesso su YouTube [ndt:
https://www.youtube.com/watch?v=tiZOqEF2HCQ ]. Sono sorpreso che non
l'abbiano editata. Siamo nei nostri abiti normali e ancora una volta è
una prova.
Poi ci furono le due serate. Dopo aver registrato la prima, tutti i
dirigenti [di MTV] si lamentarono che non ci fossero hit. Niente "Once
upon a time you dressed so fine", niente “Everybody must get stoned”,
non c'era niente di tutto ciò. Loro erano sottomessi a queste cose. A un
certo punto Bob disse okay. Il prodotto finale è quello che è successo.
Penso che sia un misto delle due serate, ma credo soprattutto della
seconda serata.
Ray Padgett: Quindi è stato assillato da un sacco di pressioni.
Sono sorpreso che abbia capitolato.
WW: Alla fine forse è stata una buona idea, ma ero convinto che
la parte più interessante fosse quella dove non suonavamo quelle cose.
Io ero ansioso di vedere cosa Dylan sarebbe stato capace di tirar fuori
da quei concerti. Non credo che al pubblico in generale fregasse un
cazzo di quello che stava facendo, a parte i successi di cui potevano
parlare ai figli o su cui fare la loro dissertazione o quant’altro.
Purtroppo le persone non vogliono davvero ricordarti per come sei,
vogliono ricordarti per come eri. Di te hanno il loro ricordo
imbalsamato.
RP: Mi sembra che Bob abbia dovuto combattere contro tutto ciò
fin dalla metà degli anni '60.
WW: Dal primo giorno. Anche Wayne Kramer [degli MC5] ti direbbe
la stessa cosa. Gli ho detto il termine che uso, "imbalsamatori della
memoria". Ha pensato che fosse fantastico.
Praga 1995
Ray Padgett: Abbiamo parlato [nella prima parte] del modo in cui
Bob suonava la chitarra. Volevo chiederti di quando non ha suonato la
chitarra. Quei concerti diventati famosi perché lui ha cantato al centro
della scena senza strumento, a Praga nel 1995 [11, 12 e 13 marzo].
Immagino fosse malato.
Winston Watson: Entrambi lo eravamo. Malati per davvero. La
battuta era che io avevo fatto ammalare Bob, ma fu il viaggio in aereo.
So solo che c'era qualcosa, che c'erano persone malate su quell'aereo.
Accadde prima che cominciassero a pulire a fondo le cabine. Eravamo nel
'95, nessuno immaginava quanto fossero sporchi gli esseri umani sugli
aeroplani. Sono stato scherzosamente accusato di tutto questo.
Mi sembra di aver chiamato il [tour manager] Victor Maymudes all’una e
mezza o nel pomeriggio. Gli dissi: "Amico, devi venire nella mia stanza.
Non credo di riuscire a fare lo spettacolo." Poi entrai nella doccia e
non lo sentii quando arrivò alla mia porta. Fece aprire la camera al
portiere e mi trovò svenuto sotto la doccia, con l'acqua che scorreva.
Avevo la febbre, avevo vomitato l’anima. Ero emaciato, disidratato e
tutto sottosopra.
Ancora non sapevo che avevano rinviato lo show. La cosa mi risollevò
perché, anche se non riuscivo a stare in piedi, ero determinato ad
andare a suonare quello spettacolo. Ma non c'era proprio verso che sarei
stato in grado suonare. Quando scoprii che avevamo cancellato il
concerto e che avevamo un giorno libero, potetti davvero rilassarmi. Il
giorno dopo, quando abbiamo fatto il concerto, stavo molto meglio, ma
avevo la gola secca e le mie costole sembravano essere state prese a
calci.
Dylan non suonava la chitarra, il che mi lasciò interdetto. Ricordi
quello che ti dicevo sul suo senso del ritmo? Guardavi la sua mano
destra e la paletta della chitarra, appena oscillava in una certa
direzione sapevi cosa fare. Quindi ho dovuto cercare altri riferimenti,
ma non c’è voluto molto per abituarsi.
RP: E mentre cercavi di capirlo, come se non bastasse eri ancora
malato.
WW: Ero rauco, riuscivo a malapena a parlare e avevo ancora un
po' di febbre, ma niente mi ha mai curato più velocemente di una sudata
a un concerto rock and roll. Nei giorni successivi ci volle un po’ a
rimettermi in forma, ma migliorai parecchio. Non ci furono altri giorni
di riposo dopo.
RP: Quei concerti furono un po’ turbolenti per voi, ma divennero
leggendari tra i fan.
WW: La gente si accodò immediatamente, divennero parte delle
storie che si raccontano. Ne parlarono i giornali. Bob aveva le sue
mosse [sul palco] e pensavo che erano fantastiche. Qualunque cosa
faccia, che sia animata o fuori dall'ordinario, vorrai vederla.
Soprattutto quando parla. Ogni volta che dice qualcosa sul palco, fa
notizia. Non è bizzarro?
1995 – I concerti con i Grateful Dead
Winston Watson: Secondo la crew di Jerry [Garcia], ero una delle
poche persone a parlargli in quel periodo. Me lo disse Ram Rod [roadie
di lunga data dei Grateful Dead]. Pensavo mi stesse prendendo in giro
Il nostro primo concerto con loro fu a Highgate [Vermont, 15 giugno
1995]. Abbatterono le recinzioni ed entrarono, come a Woodstock. Figo!
Ero famoso per rompere le bacchette. Dovetti prenderle di un’altra marca
perché non si rompessero mentre suonavamo. Se avessi suonato più
leggero, Bob l'avrebbe notato. Voleva che suonassi nel mio stile.
Durante il primo concerto [del tour] con i Dead, spaccai legna come un
castoro. Bob pensava che fosse divertente, perché cadevano pezzi
ovunque.
Il giorno dopo, eravamo al soundcheck, Ram Rod mi disse: "Alcuni di noi
della crew vorrebbero scambiare due parole con te quando hai un minuto.”
Pensai: "Oh cazzo, cosa ho fatto adesso?"
Terminato il nostro soundcheck gli dissi: "Amico, se si tratta delle
bacchette o se ho rotto qualcosa, senti il nostro contabile, ti farò un
assegno o altro. A volte mi lascio trasportare quando le butto." Perché
avevo visto che un paio di volte le bacchette rotte erano volate dalle
loro parti e pensavo di aver messo qualcosa fuori uso o rovinato una
delle preziose statuine di Jerry, o chissà che altro.
Si guardarono e iniziarono a ridere. Dissero: "No, fanculo le bacchette.
Vogliamo sapere di cosa gli hai parlato." Chiesi: "A chi?" E loro:
“Jerry." Ram Rod disse: "Sono stato con quel tipo [Jerry Garcia] più a
lungo di quanto tu sia in vita. In 13 anni non gli ho detto una parola.
Voglio sapere di cosa cazzo stavate parlando."
Pensai che fosse la cosa più divertente. Non avevamo parlato proprio di
niente! [Jerry] voleva sapere dove ero cresciuto. Ricordo che mi disse
che sembravo tanto giovane. Avevo appena compiuto 30 anni, ma sembrava
che ne avessi ancora 18. Parlavamo solo delle nostre vite e delle cose
ogni giorno.
A un certo punto, eravamo con loro al RFK Stadium [Washington] e mi
sentii sfinito. Caddi per davvero e dovettero somministrarmi ossigeno.
Quando mi ripresi, il mio amico era lì con me. Vidi la sua barba e gli
occhiali. Stava guardando il medico, serio come un caso di infarto.
"Abbi cura del mio uomo qui. Abbiamo bisogno di lui domani."
Dissi [imita il respiro affannoso]: "Non preoccuparti, Jerry... starò
bene..." Pensai che fosse bello che gli importasse davvero.
Parlammo molto. Semplicemente adorava che mi piacesse fare quello che
stavo facendo. Nello specifico, per lui era una cosa davvero
affascinante vedere me e Bob suonare insieme. Perché aveva visto Bob un
milione di volte. Gli dissi: "Sai, ultimamente abbiamo suonato alcune
delle tue canzoni. Non avrei mai pensato di avere la possibilità di
farlo." Pensava che fosse bello. Guardai la loro scaletta e gli dissi:
"Non so quale di queste adesso dovrai eliminare dal tuo set. O forse
puoi farle lo stesso e nessuno se ne accorgerà." [ride]
Ray Padgett: Credo che l'ultima volta che Jerry Garcia ha suonato
con Dylan sia stata uno di quegli spettacoli al RFK Stadium. Cosa
ricordi?
WW: Che Bob non lo lasciava suonare!
RP: Cosa intendi?
WW: Io volevo sentire quello che stavo aspettando di sentire. Non
è mai arrivato.
RP: Volevi sentire Jerry essere Jerry, che ti trasportasse nello
spazio.
WW: Esatto! Non c’era bisogno di fare Johnny Winter e Floyd
Radford [ndt: Floyd Radford è stato il secondo chitarrista della band di
Johnny Winter negli anni ‘70]. Mentre stavamo suonando, ricordo solo di
aver pensato: "Ho sentito la tua parte, Bob. Adesso lascerai entrare
Jerry?" Ma ovviamente era una cosa come tra fratelli, capisci cosa
intendo? È come se Bob stesse dicendo: "Ah, sì? Bene, senti un po’
questo.”
1995 [Montpellier, 27 luglio] – Concerto con i Rolling Stones
Winston Watson: C'è una storia divertente successa mentre stavamo
arrivando lì. Bob era sul nostro bus, tutti insieme. Stavamo accostando
e lui fa: “Sembra che ci sia una specie di grosso serpente lassù. Cosa
credi che sia?"
Stava indicando quella cosa degli Stones, come la testa di un cobra o
qualcosa del genere. Te lo ricordi il “Voodoo Lounge Tour”? Era come un
grosso cobra di metallo, che sputava fuoco o altro.
Dissi: "Non ne ho idea, amico. È grande, qualunque cosa sia." E lui:
"Sì... forse noi dovremmo prenderne due di quelli." [ride]
Uno era fottutamente ridicolo, talmente sopra le righe, ma due sarebbero
stati proprio assurdi e divertenti. Sono sicuro che cose così non
funzionino sempre, come tutti gli oggetti di scena. Solo a pensarne di
averne due, mi fa già ridere. Come la scena di Stonehenge in “Spinal
Tap”. [ndt: “This Is Spinal Tap” è il divertente film d’esordio di Rob
Reiner, un documentario musicale su una fittizio gruppo hard rock degli
anni ’70. Mai distribuito in Italia, si può ora vedere in streaming. Un
vero cult movie, soprattutto per gli appassionati di musica.]
Mud Island, Memphis – 19 ottobre 1995
Winston Watson: Quando ci esibimmo a Mud Island, Taylor Hawkins
suonava nella band di Sass Jordan e Percy Sledge aprì la serata per noi.
C’erano Sass Jordan, Jeff Beck, Percy Sledge e poi noi. Parlai con
[Jeff] Beck anni dopo e ricordava che la sicurezza fu davvero dura con
lui e il suo entourage, perché non poterono venire a salutarci.
Poi Taylor [Hawkins] è diventata il Taylor che tutti conosciamo e che ci
manca. Lo ricordo come fosse ieri. Il sole era già tramontato. Eravamo
gli headliner, guardai alla mia destra e lì c’era Taylor, seduto sulla
soglia del palco a seguire il nostro set. Non era ancora stato nella
band di Alanis [Morissette]. Era nuovo sulla scena. Lo ricorderò sempre
perché quando i Foo Fighters sono diventati quello che sono, ho pensato:
"Wow, non posso credere che sia lo stesso ragazzo che mi ha visto
suonare la batteria tanto tempo fa." Buffo come va questa vita, e ora se
n'è andato.
1995 – Tour con Patti Smith
Winston Watson: Quello fu uno dei miei tour preferiti. Amavo il
batterista di Patti, Jay Dee Daugherty. Era uno dei miei eroi. Con Paul
Collins’ Beat, con i Church… Jay Dee ha suonato con tutti. Guardavo il
loro set tutte le sere e guardavo il mio eroe Jay Dee al lavoro.
Quelle date che infilammo al Beacon Theatre [di New York] furono uno
spasso. Ne aggiungemmo una quando Michael Jackson diede di matto e
cancellò [i suoi concerti]. Occupava l'intero sesto piano del Four
Seasons e anche noi alloggiavamo lì in quel momento, il che era
piuttosto buffo. Quella serata in più è stata roba da leggenda.
Probabilmente una delle più divertenti che abbia mai avuto.
In seguito sarei andato a suonare con Oliver Ray, compagno di Patti e
suo chitarrista per circa dieci anni. Era un ragazzo allora. Ci
rivedemmo vent’anni dopo. Si era trasferito a Tucson, era lì da un anno
e ci incontrammo casualmente. Stavo suonando con un gruppo chiamato
Greyhound Soul, c'era una specie di notte degli artisti. Lui e sua
moglie erano annoiati a morte e stavano per andarsene. Poi mi vide e
aspettò che tutto finisse per ripresentarsi dopo vent’anni.
Adesso io e Oliver siamo in questa band, Saint Maybe. Con loro abbiamo
suonato a Città del Messico, al Diego Rivera Museum e Patti non aveva
mai suonato a Città del Messico. È stato incredibile. C'erano 6.000
persone lì, anche se non eravamo nessuno: ci amavano, perché ricordavano
che Oliver prima era stato nella band di Patti.
“Restless Farewell” per Frank Sinatra [19 novembre 1995]
Winston Watson: Avevamo provato un altro paio di canzoni. "This
Was My Love", ad esempio. Adoravo suonare le canzoni di Sinatra, ma
penso che a Frank piacesse molto “Restless Farewell”. Mi immaginavo
sentirgli dire "Quando arriva quel ragazzo di Dylan?" Quando guardi il
video, puoi vedere l'affetto genuino che entrambi avevano l'uno per
l'altro. Frank lo sta guardando e Bob sta guardando Frank come aveva
guardato Little Richard.
Dovetti indossare il mio completo stile Marvin Gaye. Ero in piedi
accanto a Tom Selleck che è enorme. Io sarò 1 metro e 78, 62 chili
bagnato fradicio, lui è grande e grosso e molto alto. Stava guardando il
mio vestito. Era verde lime, indossavo un dolcevita, scarpe slip on
stile Billy Fury. Avrei potuto essere uno dei Panther, l'unica cosa che
mancava era il berretto. Con quella sua voce mi fa: "Cavolo, quello sì
che è un vestito!”
Il cibo che c'era dietro le quinte era come guardare una scena di
“Caligola” con animali morti sparsi su un enorme tavolo lungo lungo e
qualsiasi cosa. Dire che era una festa sontuosa sarebbe sottovalutarla.
Chiunque tu possa immaginare era lì. C’erano Don Rickles, tutto il Rat
Pack, tutto il cast dei Sopranos e chissà chi altro, tutti lì. Il nostro
tavolo è stato davvero divertente. Mi sedetti a fianco di Bob. C'erano
Frank [Sinatra] e Barbara Marx, sua moglie. Clayton Cameron,
[batterista] che suonava con Tony Bennett, era l’altro seduto accanto a
me. Quindi, noi eravamo seduti a lato di Bob, e dall'altra lato c'erano
Danny Aiello e Don Rickles. Poi al tavolo vicino al nostro c'erano
Patrick Swayze e Roseanne Barr e Johnny Depp e Kate Moss. Era come se
fossimo in uno di quei disegni di Al Hirschfeld che vedi sul New Yorker,
caricature di persone che decorano una stanza in un evento di Hollywood.
Suonando quella canzone, in realtà, non dovetti fare molto, solo non
fare tanto rumore. Hai visto, nelle inquadrature sui presenti, come ci
guardavano mentre eseguivamo la canzone? C’era riverenza. Tutti ne
furono commossi. A un certo punto, quando staccano sul pubblico, vedi
che nessuno dice una parola, nessuno parla. Sono tutti davvero solenni.
Erano persone che avevo visto per tutta la mia vita in tv o al cinema, e
ci stavano guardando; e io lì, nel mio completo stile Marvin Gaye, che
mi stavo solo divertendo un po'. Puoi percepire la solennità mentre
fanno la panoramica.
Significa che musicalmente avevamo fatto il nostro lavoro, cosa che ho
sempre sentito di aver fatto in quella band, al meglio delle nostre
capacità. Anche se alcune sere non ci siamo riusciti, penso che nessuno
possa mai dire che non ci abbiamo provato o che io non abbia dato il
110%.
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In tour con Bob Dylan negli anni
‘80. Parla Stan Lynch, batterista degli Heartbreakers.
di Ray Padgett -
(9 giugno 2022)
traduzione di
Silvano Cattaneo
Fonte:
https://dylanlive.substack.com/p/heartbreakers-drummer-stan-lynch?s=r
Per l'anniversario della prima data del primo tour di Bob Dylan con Tom
Petty & the Heartbreakers [Wellington, Nuova Zelanda, 5 febbraio 1986],
lo scorso febbraio avevo pubblicato un'intervista con Benmont Tench,
tastierista degli Heartbreakers. Oggi, nell'anniversario della prima
data del loro secondo tour [San Diego, California, 9 giugno 1986], sono
lieto di presentare una lunga chiacchierata con il batterista della
band, Stan Lynch.
Dylan si fece accompagnare da Tom Petty & the Heartbreakers nel 1986 e,
dopo alcune date estive con i Grateful Dead, anche nel 1987. In
“Chronicles” avrebbe poi scritto: "Tom stava dando il meglio di sé e io
il peggio". Ma Stan Lynch non è d'accordo con la seconda metà di questa
affermazione, e pure io. Gli spettacoli dell'86, in particolare, furono
un gioioso mix di successi, gemme meno conosciute, cover di classici
rock and roll dei vecchi tempi, il tutto supportato da una band
incandescente e dalle voci delle Queens of Rhythm. Come ho già detto, è
la mia epoca preferita ed ero entusiasta di parlare con qualcun altro
presente su quel palco.
Per evitare troppe sovrapposizioni, ho cercato di chiedere a Stan
[Lynch] cose diverse da quelle chieste a Benmont [Tench]. E lui, come ha
sottolineato, ha portato una prospettiva piuttosto diversa rispetto al
suo compagno di band. A un certo punto mi ha detto: “Un giorno mi
piacerebbe essere intervistato con tutti lì nella stanza perché allora
otterresti la verità. Ci vorrebbero tutti lì per darti la verità. Io non
conosco la verità, so solo cosa penso di aver visto.”
Quindi, se non l'avete già fatto, per avere un altro punto di vista
leggetevi anche la mia lunga conversazione con Benmont Tench [ndt:
tradotta su Maggie’s Farm:
http://www.maggiesfarm.eu/hosuonatoconbob.html ].
E per un terzo parere, la mia intervista con Richard Fernandez, ex road
manager di Petty e Dylan
https://dylanlive.substack.com/p/tour-manager-richard-fernandez-talks?s=r
Ma adesso, ecco Stan Lynch.
Ray Padgett: Quando ti ho inviato la prima mail, mi hai risposto
che la tua esperienza è stata completamente diversa da quella di Benmont
[Tench]. In che senso?
Stan Lynch: Ho colto molta sofferenza nell'intervista a Ben. È la
dimostrazione di come cinque ragazzi possono essere davvero buoni amici,
ma non conoscersi a fondo. Ben era molto riservato, non mi rendevo conto
che fosse in difficoltà né di quanto dolore personale stesse
attraversando. Io non stavo vivendo niente di tutto ciò. Per me era solo
gioia. Ho volato per tutto quel tempo. La mia vita era fantastica, il
mio corpo non era mai stato così forte, nessuno mi diceva mai cosa fare
o cosa non fare. Non c’era mai un copione. Io battevo quattro e Bob
iniziava a suonare e, nel giro di un minuto, sapevamo di che canzone si
trattava. È stato magnifico. Ho trovato il tutto simile al jazz. Il
frontman era John Coltrane e io mi sentivo come Philly Joe Jones in
quelle tre ore. Tutti eravamo maestri di improvvisazione. Tu suoni?
RP: Un po' la chitarra.
SL: Hai presente quando stai facendo la miglior jam session della
tua vita? Una di quelle in cui dici "Mio Dio, non so dove stiamo
andando, ma è davvero fantastico". Ecco, era come entrare in una jam, ma
lo scheletro della jam era "Like a Rolling Stone"! Finché stavi
attaccato alle intenzioni di quella canzone e alla passione del testo,
non c'era niente che potevi sbagliare dal seggiolino del batterista.
Ascoltavo Bob e facevo quello che faceva. Era come rispondere alla
battuta di servizio, un pugno e contro pugno. Era aggressivo ed
eccitante quando ce n’era bisogno, splendido quando doveva esserlo.
Una sola volta ho saputo di essere uscito dalle righe: in “Hard to
Handle” c'è una scena fantastica in cui pensavo di dover entrare e
quindi suono un grande attacco di batteria che avrebbe dato il via alla
band. E Bob semplicemente alza la mano dietro la schiena, senza fermarsi
con l'armonica, e mi mostra il palmo; il che significava: "Non ora,
ragazzino. Indietreggia. Risparmia il tuo morso di serpente a sonagli
per dopo". Magari l'avevamo fatta un milione di volta in quel modo, ma
mi piaceva il fatto che tu non potevi chiudere gli occhi e fare qualcosa
a memoria, mai. L'ho trovato esaltante. Non ho mai dormito meglio in
vita mia, perché poi eri sempre all’erta, fisicamente ed emotivamente.
Suonare con Bob era un sovraccarico sensoriale.
RP: Eri preparato a tutto ciò, grazie al tuo lavoro con gli
Heartbreakers o con altri?
SL: “Caos” è il mio secondo nome. Sono nato per l'anarchia, e per
quella Bob aveva un talento naturale!
Una sera stavamo facendo un gran concerto. Mancavano forse tre canzoni,
Bob si gira verso di me e mi fa: "Ehi, Stan, cosa vuoi suonare stasera?"
Mentre ci penso, lui insiste: "Uh, domanda impegnativa?" Ma sto al gioco
e rispondo: "Beh, che ne dici di 'Lay Lady Lay'?" Perché non l’avevamo
mai fatta. Volevo suonare quel bellissimo accompagnamento che c'è nel
disco, quell’andamento swing, provare proprio quel ritmo dal vivo. E
questo succede quando sei senza paura. Non mi venne nemmeno in mente che
scegliere una canzone mai provata prima forse non era una buona idea.
Lui mi fa: "In che tonalità?" Ma non si chiede mai la tonalità a un
batterista! Vedo Mike [Campbell] nell'angolo che mi dice: "La! La! La!"
E io: "Che ne dici di La?" Tutti tirano un grande sospiro di sollievo.
Quindi Bob si avvicina al microfono e comincia una canzone che nemmeno
riconobbi. Non avevo idea se fosse "Lay Lady Lay", ma fu davvero
divertente. Come se i Ramones suonassero "Lay Lady Lay". Forse la band
era un po' inorridita, ma io rimasi sbalordito solo per un secondo.
Pensai: "Hey, stiamo davvero facendo questo!" Furono quattro minuti di
"Lay Lady Lay" come una canzone punk, arricchita dalle Queens of Rhythm
che cercavano di trovare la loro strada. Fu fantastico, ma era
l'anarchia assoluta.
RP: Ovviamente a quel punto avevate già raggiunto un certo
livello di familiarità, ma torniamo indietro al Farm Aid 1985. La prima
volta in una stanza insieme a provare, com’è?
SL: Fantastico. Bella storia! Credo sia successo proprio alla
prima prova: dovevamo iniziare alle due, ma Bob si presentò forse alle
cinque. Io avevo i biglietti per lo spettacolo di Frank Sinatra e Sammy
Davis al Greek Theatre di Los Angeles. Sono un loro grande fan. Verso le
sei ricordo che dissi: "Io devo andare." E pensai, fanculo! Bob si
avvicinò e mi chiese "Dove stai andando?" Ma il tono era, che cazzo c'è
che non va? Dissi: "Devo andare a vedere Frank e Sammy." L'intera band
indietreggiò da me come se avessi polvere radioattiva che mi usciva dal
culo. A Bob venne un colpo e, com’è vero Dio, disse: "Frank Sinatra?
Sammy Davis? Adoro quei ragazzi!" E così presi appuntamento con Bob per
andare a vedere Frank e Sammy.
RP: Come andò l’appuntamento?
SL: Ero spaventato a morte. Tipo: è nella mia macchina. Accendo
la radio? E se trasmettono Bob Dylan? Penso che rimanemmo semplicemente
in silenzio e andammo al Greek Theatre. Bob indossava una felpa con
cappuccio. Nessuno sapeva che lui era lì. Io feci una via di mezzo tra
l’amico e la guardia del corpo, e guardammo lo spettacolo.
Sammy uscì per primo e fu divertente da morire. Forse ero un po’ fumato
e mi godetti davvero lo show. Quando Sammy finì, tutti si alzarono. Bob
fece per andarsene, pensava che lo spettacolo fosse finito. L’afferrai
per il retro della felpa e dissi: "No, il prossimo è Frank!", "Oh,
giusto".
Ricordo che durante l'intervallo pensai tra me e me: "Accidenti,
immagino che dovremmo parlare. È quello che fa la gente." E così
parlammo. Pensai: "Beh, ai ragazzi piace parlare di moto e ragazze". E
parlammo di quello.
Poi si esibì Frank Sinatra. Guardavo Frank e guardavo Bob che guardava
Frank, e pensavo: "Wow, questo è il mio momento felliniano!" Finisce lo
spettacolo e qualcuno nel backstage si accorge di Bob. Arriva e fa:
"Frank dice di passare in camerino a salutarlo". Penso: "Cazzo, sì, sarà
fantastico!" Sono stato innamorato del Rat Pack per tutta la vita, è
stata una cosa importante per me. Così andiamo nei camerini e dico:
"Bob, Frank è qui. Entriamo e salutiamolo." Ma lui: "Nah! Andiamo".
RP: Proprio quando eri a un passo.
SL: In perfetto stile Bob. Tipo "Nah, fanculo, fuori di qui!"
[ride]
RP: Mi piace.
SL: Ogni volta che era nella stanza c'era una forte energia. Se
c’è uno che non sa leggere le situazioni sono io, ma quello che coglievo
era che Bob era pronto a divertirsi, a suonare un po' di musica, a non
stressarsi, a non assumere atteggiamenti. Possiamo ringraziare il
Signore? Ogni volta che si girava ballava con me. Se stavo prendendo un
ritmo, Bob faceva tutte le cose che vuoi che faccia il tuo frontman. I
fianchi ondeggiavano, le spalle si muovevano, ti guardava e ti puntava.
Amavo ogni istante di tutto ciò.
RP: È stato così dal primo giorno, lui e la band erano così
amalgamati?
SL: Sì. Da lui ho percepito energia e una libertà che non avrei
mai immaginato. L'unica mia paura era di deludere Bob Dylan. Non volevo
suonare qualcosa che potesse offenderlo. Ma ero convinto che me
l’avrebbe detto. Era proprio quel tipo di persona. Si avvicinava e ti
diceva: "Bella merda!" Per fortuna non l'ho mai sentito. In realtà, ho
avuto da lui dei bei "bravo ragazzo!", che a dire il vero non ricevevo
spesso.
RP: Hai qualche esempio?
SL: Ricordo che un giorno arrivò diretto al montante del tamburo.
Pensai: "Oh, merda, adesso ci siamo. Questo è il momento in cui vengo
licenziato." Ma quello che disse fu: "Amico, stai suonando alla grande
in questo momento. Lo adoro". Una parte di me si chiedeva: "È uno
scherzo? Forse è il suo modo per dirmi che faccio così schifo da non
crederci?” Ho pensato che il giorno dopo avrei ricevuto una chiamata da
Elliot [Roberts, manager] e lui mi avrebbe detto: "Ehi, Bob pensa che tu
faccia schifo." Ma non ho mai ricevuto quella chiamata.
Ho adorato quello che ha fatto alla chimica della nostra band. Ha
proprio cambiato la dinamica. Immagina di aggiungere un sesto membro a
un gruppo, e quello in più è Bob. È una cosa del tipo: "Beh, c’è della
dinamite nella carrozzina, muoviti con attenzione." Eravamo tutti molto
riverenti. L'ho visto subito anche negli altri ragazzi. Era come, "Oh,
merda, siamo in presenza di qualcuno che può davvero fare tutto!"
Pensavamo di essere veterani esperti e ci rendemmo conto che questo tipo
era stato cotto e servito molto prima di noi. Ed è rimasto grande per
molto, molto, molto tempo.
RP: Cosa ricordi di quel primo concerto al Farm Aid, qualche mese prima
del tour?
SL: Non ricordo molto, tranne che suonammo "Maggie's Farm". Fu
divertente un casino perché nessuno di noi sapeva davvero cosa sarebbe
successo.
RP: Mi sembra ci fosse anche Willie Nelson sul palco per quel brano.
SL: Probabilmente me la stavo facendo sotto. Probabilmente mi stavo
dicendo: "Wow, questo è il mio momento Wayne's World. Sto suonando con
Bob Dylan e Willie Nelson e Tom Petty & the Heartbreakers! Datemi un
pizzicotto! Questo è il tipo di sogni che faccio e sta succedendo
davvero." Sono stato praticamente in quella modalità per tutta la mia
carriera rock. Non ho mai potuto crederci. Stavo sempre dicendo "Santa
merda!"
Scoprii che Dylan era davvero adorabile. Spero che in questa intervista
tu possa trasmettere il grande sorriso sul mio viso quando penso a Bob
Dylan. Ecco perché ho detto che io e Ben [Tench] abbiamo ricordi molto
diversi. Io stavo sperimentando zero dolore: fisicamente, emotivamente,
spiritualmente. Stavo solo provando gioia. Avevo l'opportunità di
suonare canzoni fantastiche, con musicisti fantastici, in posti
fantastici in tutto il mondo. Non era tipo "Sì, va bene, suoniamo a
Spank, Idaho, poi andiamo in Nuova Zelanda, in Australia, suoneremo a
Berlino Est e in tutt’Italia.” Era invece "Oh, cazzo!!!" Lui è
universale. Bob parla il linguaggio universale della genialità.
RP: Hai citato l'Australia. Una delle cose che avete fatto lì fu
registrare la prima canzone di Dylan con gli Heartbreakers, "Band of the
Hand". Ricordi qualcosa in proposito?
SL: Fu una cosa veloce. Penso che l'abbiamo imparata in studio. Puoi
sentirmi andare giù un po’ troppo duro perché ero ancora in modalità
live. Tipo: "Non sto registrando un disco, sto facendo un documento dal
vivo della nostra favolosa aggressività." Probabilmente sono entrato, ho
pestato a sangue la mia batteria per un paio d'ore e poi mi hanno detto:
"Vattene da qui." [ride]
RP: Avevate anche i cori delle Queens of Rhythm. Dylan aveva fatto cose
del genere negli anni gospel, ma per te e gli Heartbreakers era una
novità.
SL: Non avevo mai provato niente di quel calibro. Erano favolose.
Suonavamo anche tamburelli e shaker. Stavano portando la chiesa dentro
il nostro casino.
Che spettacolo per me, avevo il posto migliore di tutti! Guardavo alla
mia sinistra e c’erano quelle donne meravigliose coinvolte proprio
fisicamente nella musica. Guardavo alla mia destra e c’erano Benmont
[Tench] e Mike Campbell. Guardavo davanti e c’erano Bob Dylan e Tom
Petty. Ovunque guardassi era fantastico!
RP: Com'era quando non eravate sul palco? Le persone uscivano insieme
durante le ore di riposo o stavano per i fatti loro?
SL: I rapporti erano abbastanza consolidati. C'erano notti al bar dove
incontravi di tutto. Non sapevi mai chi avrebbe potuto esserci. Le
persone che Bob attirava, persone che venivano da me con storie tipo:
“Sai, ero la massaggiatrice di Bob. Devi dire a Bob che Joe ha detto...”
Me ne arrivavano cinque all’ora così.
Ci fu uno show che mi stese definitivamente. Diciamolo, all'epoca non
brillavo per intelligenza, ero un po’ un fessacchiotto. Ero molto
egocentrico, come molti giovani musicisti. Poi una sera, eravamo in
Italia, ricordo di aver sentito Bob Dylan per davvero. L'ho proprio
“sentito”.
Di solito quando faceva le sue cose da solista, mi dicevo "Beh, se non
sono coinvolto, me ne vado." Ma quella sera rimasi seduto alla batteria,
dietro il kit, accesi una sigaretta e guardai quell'uomo. Era lì, lui
solo con la sola chitarra, e stava cantando "Blowin' in the Wind". Mi
sciolsi e piansi. Iniziai a piangere davvero perché in quel momento
finalmente mi colpì. Pensai “Questo ragazzo ha scritto tutta questa roba
e adesso la sta suonando qui. Gli esce come il sudore. Sembra facile, ma
mi sta uccidendo.” Ogni strofa mi ridusse a brandelli. Suonò una
canzone, parlava di un giovane che si offre volontario per andare in
guerra e torna a casa con le medaglie. Mette la medaglia nelle mani
della madre.
RP: “John Brown”.
SL: Quella. Solo a pensarci adesso può soffocarmi. Da quel momento non
sono più stato lo stesso per il resto del tour. Mai più lo stesso. Alla
fine di quel concerto ricordo di essere andato da Bob, mentre eravamo
ancora tutti sudati. Gli misi le mani sulle spalle e gli dissi qualcosa
del tipo: "Stasera mi hai davvero fottuto." Mi guardò con quello sguardo
da un milione di dollari e disse, con quella voce: "Stan... stai bene?"
Come se non capisse cosa gli stessi dicendo. Avrei dovuto starmene
zitto, ma, ovviamente aggiunsi qualcosa. E quello che disse lui fu: "No,
no, non tu!"
Era una situazione strana. Non sto dicendo che abbiamo avuto una
relazione profonda, ma non vedevo l'ora di incontrare Bob. Adoravo
parlare con lui. Qualunque cosa gli dicessi, quello che rispondeva non
era ciò che ti aspettavi. Una volta gli dissi una banalità tipo: "Wow,
adoro quel vestito!" E mentre ti saresti aspettato un “Grazie amico" o
qualsiasi altra cosa, lui rispose: "Sì, cosa ti piace?"
Bob era fantastico nel tenerti sempre sul piede sbagliato. Ma non l'ho
trovato scomodo, l'ho trovato stimolante per la crescita, insolito,
attraente. Impegnativo in senso buono. Tipo "Prova a dare il massimo!"
RP: Avevi delle canzoni preferite tra quelle che facevate ogni sera o
che suonaste solo un paio di volte?
SL: "Positively 4th Street" mi lasciava senza parole. "Like a Rolling
Stone" mi lasciava senza parole. "Knockin’ on Heaven’s Door" mi lasciava
senza parole. Dovrei dare un'occhiata all'elenco delle canzoni perché
probabilmente a ogni titolo direi "Cosa??" Per me è stato difficile non
essere sempre entusiasta di essere lì. Che meraviglia sapere di dover
suonare tre ore di canzoni scolpite nell’anima. Quando Roger McGuinn
cantò “Mr. Tambourine” a Berlino Est, davanti a centinaia di migliaia di
persone, il posto sembrava un mare sul punto di esondare. In quel
momento pensai “Questo è il massimo, lo zenit. Da qui in poi, non potrà
che calare."
Mi manca. Se mai ci fosse una parte della mia vita da poter rivivere, è
quella. Per il resto, sto bene. Sono contento di quanto ho realizzato.
Ma quella è la cosa che mi piacerebbe fare di nuovo.
RP: Vi esibiste con i Grateful Dead per alcuni concerti, grandi show
negli stadi degli Stati Uniti. Ricordi qualcosa del tour con loro?
SL: Anche qui ho avuto un'esperienza completamente diversa da Benmont
[Tench]. Non ero un fan e quindi non mi interessava. L’uomo con cui stai
parlando ora sa che è una cosa stupida da dire. L'uomo con cui stai
parlando ora, più di 30 anni dopo, sa quanto idiota era quel ragazzo.
Non mi conoscevi all’epoca, ma ero più di un edonista. Pensavo, "Sono in
una rock and roll band, con tutto quello che implica. Non si fanno
prigionieri. Voglio tutto!" Quello ero io. Non ero certo il tipo da
session o che voleva essere preso alla leggera o non essere notato.
Avevo una bocca grande e rullavo alla grande sui tamburi e probabilmente
emettevo troppo rumore sia dalla mia bocca che dalla batteria.
Fortunatamente tutti erano tolleranti.
RP: Per me, quello che c’è di così speciale in quei tour - e penso di
averlo detto a Benmont - è il puro divertimento che puoi cogliere. Anche
nei migliori show di Dylan, “divertimento” non è proprio la parola
chiave. E gran parte di questo lo portavi avanti tu, potente, forte e
coinvolgente. Penso che si colga anche solo ascoltando un bootleg.
SL: Suonai quei concerti ferocemente, come ero capace. La maggior parte
dei batteristi ti dirà: "Non andare mai a 10." Se vai a 10, sprechi solo
energie. Ma io l'ho fatto. Sono andato fino in fondo. Anche Benmont mi
ha seguito. Tutti lo hanno fatto. Tutti erano pienamente disposti a dare
il massimo. Quando arrivava il momento di andare, si schiacciava a
tavoletta.
RP: Hai citato Roger McGuinn. Stavo guardando le scalette, ci furono
così tanti ospiti. Stevie Nicks, Mark Knopfler, John Lee Hooker, Ron
Wood, George Harrison. Qualche bella storia su qualcun altro?
SL: Quale fu con John Lee Hooker? Il concerto di San Francisco, con
anche Al Kooper lì?
RP: Sì
SL: Ecco una storia, ma non è una bella storia. Meglio che la tenga per
me. Quella fu una brutta serata per me e Tom [Petty]. Davvero molto,
molto brutta. Litigammo terribilmente. John Lee Hooker e Al Kooper
uscirono e ci salvarono dal diventare ancora più stronzi. E questo è
quanto posso dirti.
RP: La presenza di estranei vi riportò a un comportamento migliore?
SL: In realtà, probabilmente fu un punto di svolta per me e Tom. Non ci
siamo mai ripresi da quello, ma la serata fu salvata dalla presenza
della grandezza. Amo Al Kooper. È fondamentale. È stato davvero
fondamentale per tante carriere, inclusa la mia. È una calamita e
nemmeno se ne rende conto.
RP: È singolare che anche tu lo citi. Benmont [Tench] mi ha detto che
conosceva le parti di Al Kooper in cose come "Like A Rolling Stone" e le
suonava pari pari. Tu avevi un equivalente? Pensavi alla parti di
batteria di "Positively 4th Street", o a Sam Lay o...
SL: No. È patetico a dirsi, ma questo ti dimostra l'assoluta arroganza e
la profonda stupidità mia di allora. È stato solo dopo i tour che ho
iniziato a sentire come erano veramente i dischi. Non credo ci sia una
cosa che io abbia fatto con Bob Dylan che sia stata presa dal disco
originale, tranne forse... fammi pensare... No, le ho rovinate tutte!
[ride]
Non avevo idea di cosa avesse fatto qualcun altro prima. Mai studiato un
disco in vita mia. Probabilmente ero convinto che fosse così che suonava
il disco. Non sono sicuro se idiota sia la parola giusta. Ignorante. Era
straordinario che quel ragazzo venisse tollerato.
RP: Ovviamente conoscevi almeno i grandi successi. Conoscevi anche i
brani meno famosi?
SL: No. Possedevo alcuni dischi di Bob Dylan. Li amavo, ma non li avevo
mai studiati. Tutto quello che sapevo era che amavo il modo in cui
suonavano. Quando tutti mi dicevano cose tipo "Bob Dylan non sa
cantare", io rispondevo "No, è grande." Amavo il suo aspetto, amavo
quello che indossava, amavo le copertine dei suoi dischi. Per me era una
figura di culto che non avrei mai potuto conoscere, e perciò non mi sono
mai interessato alla sua vita o ad approfondire le sue cose. Ero giovane
e stupido, amico. Un fan del rock and roll. Amavo quello che amavo e
Dylan ne faceva parte. Amavo anche gli Steppenwolf. Ero più un tipo da
"Chissà che genere di ragazze piace a Bob o cosa guida."
RP: Vorrei chiederti di un paio di concerti in particolare. Ad esempio,
l'apertura dell’ultimo tour, in Israele. All'epoca suonare lì era un
grosso problema. Cosa ricordi?
SL: Ricordo la sicurezza. Portavano letteralmente le scimitarre alla
cintura. Chiesi: "Perché portate quelle invece di una pistola?" Mi
risposero: "Una pistola va bene da lontano, ma da vicino non serve. Con
questa, se ti avvicini a me, sei mio." Pensai: "Questi tipi fanno sul
serio. Potrebbero strapparmi le viscere."
Ricordo che andai a una festa ebraica, mi sembra organizzata dal Primo
Ministro, c'era anche Bob. Ricordo di aver parlato con delle ragazze
sulla spiaggia e, pensando di far colpo, dissi: "Sono qui con Bob Dylan!
Voi che fate?" Risposero: "Siamo nell'esercito. Tutte quattro tiratori
scelti, lavoreremo stasera." Ah, ok, ecco la realtà. Sul palco ero
piuttosto turbato, è stato il momento più cupo della mia vita musicale.
All'Hotel David di Tel Aviv ricordo che uscii sul balcone della mia
stanza. Sentivo odore di fumo, quindi telefonai. Appena riattaccato, si
presentarono due militari armati di pistole calibro 9. Questa è roba
seria! Mi spingono da parte, letteralmente, e vanno al balcone. Escono,
odorano, guardano. Si girano e dicono: "Non è niente, solo un incendio
di spazzatura. Grazie per aver chiamato."
RP: Presero sul serio la chiamata.
SL: Accidenti, sì! Ecco cos'altro ricordo. Una sera andammo in una
discoteca a fare un po’ di festa e tornammo a casa tardi. La hall
dell'hotel era buia. Sembrava tutto bloccato, non vedevi nulla. Gli
altri ragazzi si lamentavano: "Ehi, che cavolo, chi ha spento quelle
dannate luci?” Appena i miei occhi si abituarono al buio, vidi sei
fottuti militari con le mitragliette in tutti e quattro gli angoli
dell'atrio, che ci guardavano.
RP: Quello fu l'inizio del tour dell'87. Poi in chiusura del tour, gran
finale a Wembley con un sacco di ospiti speciali. Cosa ricordi?
SL: Dovevo incontrare Ringo [Starr]. Un grande momento per un
batterista. Oh Dio, me la facevo sotto cercando di inventare qualcosa di
divertente da dire, ma rovinai anche quello. Ho cercato di ringraziarlo
per tutto, ma quello che uscì dalla mia bocca fu qualcosa tipo: "Voglio
ringraziarti per il mio taglio di capelli, la mia macchina e il mio..."
Non so cosa. Ero completamente rapito. Mi diede un grande abbraccio e
disse: "Capisco, capisco!" Perché ogni batterista si caga sotto quando
incontra Ringo, caspita! Cosa sarei senza quel primo spettacolo [dei
Beatles] all’Ed Sullivan Show? Un idraulico?
Oggi indosserei volentieri una maglietta del True Confessions Tour. Ho
cercato di rincontrare Bob. Sono andato a diversi concerti, ma non sono
mai stato invitato a salutarlo. Tutto quello che vorrei dire sarebbe:
"Ti amo. Grazie. Spero che tu serbi qualche momento mio che ha
contribuito alla tua vita. Se te lo ricordi." Per me è stato
indimenticabile. Indimenticabile come la prima ragazza.
RP: Hai raccontato prima la storia di Sinatra. Ne ricordi altre con
Dylan?
SL: Ho ore e ore di filmati, 8mm, devo ancora sedermi e riguardarli.
Ricordo di essere andato al porto di Sydney con Bob. Qualcuno aveva una
barca a vela. Uscimmo e ancorammo al largo di una piccola isola. Pensai
di farmi una nuotata e mi tuffai. Si tuffò anche Bob e cominciammo a
nuotare, fino all’isola. C'era una corda che pendeva da un albero. Gli
dissi: "Vuoi arrampicarti con la corda?" Rispose: "Se lo fai tu, lo
faccio anch’io." Così mi arrampicai e Bob fece lo stesso. Dalla barca ci
urlarono: "Volete che veniamo a prendervi?" Chiesi: "Bob, vuoi tornare a
nuoto?" "Se lo fai tu, lo faccio anch’io." Così ritornammo a nuoto.
Questo è quello che mi sono portato a casa. Tutti pensano di conoscere
Bob Dylan. Io conosco la mia versione. Era molto semplice. "Se lo fai
tu, lo faccio anch’io" ti dice tutto. È la stessa esperienza che ho
avuto con lui sul palco. Io glielo dicevo musicalmente, ogni volta che
potevo. “Facciamo questo?” "Se lo fai tu, lo faccio anch’io."
RP: Un altro concerto di cui volevo chiederti – non legato a questi tour
– è quello per il suo 30° Anniversario, nel 1992. Tu suonasti sul palco
con Jim Keltner. Come successe?
SL: Quella fu una botta di fortuna. Credo che qualcuno gli avesse
chiesto: "Va bene se suona anche Stan?", e Jimmy: "Sì, certo." Col senno
di poi, mi chiedo se non avessi potuto trarre qualche vantaggio da
quella situazione. Mi sedetti col pepe al culo e non ascoltai
abbastanza. Jimmy Lee Keltner! La chiesa madre del rock and roll che ti
suona la batteria proprio lì davanti.
RP: Lui è il migliore. Gli ho parlato lo scorso autunno. [ndt: vedi
nostra traduzione dell’intervista:
http://www.maggiesfarm.eu/hosuonatoconbob.html ]
SL: Non c'è un tipo più stupendo. Non ce n’è uno più figo. Uno così
pieno di sentimento. Se mi adottasse, mi trasferirei da lui. Non c'è
niente in Jim Keltner che tu non voglia emulare. Suonai forse una
canzone, agitavo il tamburino su “Mr. Tambourine Man”. Ricordo di aver
pensato: "Sono io il mister Tambourine!" [ride]
RP: Ci sono delle belle foto con te appollaiato lassù, durante il gran
finale con tutti.
SL: Cosa sto facendo, suono il tamburino?
RP: Può darsi, dovrei guardare.
SL: Non è molto. Ricordo di aver pensato: "Il mondo non ha bisogno di un
altro batterista in questo momento." Ci regalarono una bella valigetta
con la scritta "Bob Dylan 30th Anniversary". Ce l’ho ancora nel mio
armadietto.
Sono uscito dagli Heartbreakers nel 1994, perciò la conservo anche solo
per dire: "Sì, ho suonato con Tom Petty & the Heartbreakers, e siamo
andati in tour con Bob Dylan.” E tutto ciò è fantastico! Mi sono
successe così tante cose da allora, nella musica e nella vita. Da allora
ho avuto altre due carriere. Ma quello è stato davvero bello.
RP: Non sono molte le persone che possono dirlo.
SL: Ho ricordi divertenti. Una volta ero in camerino con Ronnie Wood e
Garth Hudson. Ricordo che Ronnie entrò e mi chiese: "Stan, vuoi fumare?"
Aveva due pacchetti di Marlboro. Risposi: "Non fumo più." Me ne lanciò
uno in testa: "Allora ricomincia." Poi mi fa: "Stan, cosa stai bevendo?"
"Acqua." "Acqua? Com'è?"
Questi ragazzi non mi hanno mai deluso, mai deluso. Un tipo come Ronnie
Wood, lo idolatravo dai tempi dei dischi di Jeff Beck. Pensavo: "Wow! Mi
chiedo se mi faranno stare con loro."
Stessa cosa per Roger McGuinn. Non so quante volte avevo guardato la
copertina di ogni album dei Byrds e ascoltato i loro dischi in cuffia.
Ed era lì in piedi, proprio di fronte a me e mi aveva ammesso. Siamo
andati in tour insieme e ho fatto un disco con lui. Mi sono sempre
sentito come il figliastro dai capelli rossi con molto da dimostrare. Se
mi faranno entrare nel club, cercherò di dimostrare che sono degno di
essere lì musicalmente e, cosa più importante, di essere una buona
compagnia. Non sarò una seccatura.
Come ti ho detto, è per questo che sono rimasto colpito quando ho letto
la tua intervista a Ben [Tench]. Per me non c'era nessun altro posto
dove avrei voluto essere. Ma Ben voleva essere a casa. Per me la strada
non è mai stata un posto da temere. Sentivo gli altri ragazzi che
dicevano: "Oh, cazzo, quante settimane staremo via?" Io dicevo: "Sì!
Preparo la valigia per i prossimi 10 anni, non mi interessa!" È
un'avventura. Letteralmente. La prima volta che andammo a Londra negli
anni '70, non tornai a casa. La band mi disse: "Abbiamo sei settimane di
ferie. Torniamo a casa." Io avevo conosciuto una ragazza e mi trasferii
lì. Vissi a Londra fin quando fui costretto a ripartire.
Il rock and roll è una cartina tornasole. È uno specchio. Se gli
sorridi, ti sorride. Se gli sputi, ti risputa indietro. Se sei
arrabbiato con lui, allora lui è arrabbiato con te. Ecco come mi sentivo
riguardo al pubblico. Sei di fronte a 15.000 persone e se fai lo
stronzo, allora meriti di essere fischiato. Fin dai vecchi tempi è stato
così. Perché portare un cattivo atteggiamento alle persone che hanno
appena sborsato un sacco di soldi per venire a sentirti? Non ha mai
avuto alcun senso per me. Se sei di cattivo umore, allora cerca di
ritrovare il buon umore. "Ehi, amico, tutti sanno che la strada fa
schifo." D’accordo, ma lo fa davvero o fai schifo tu?
RP: Gli Heartbreakers cambiarono dopo quei tour? Dopo l’87, rimosso Bob
dal gruppo, suonavate in modo diverso?
SL: Pensavo che la band avrebbe continuato ad essere così grande e
suonare così per il resto della mia vita. Non successe. Quando si
concluse il tour probabilmente pensavo che tutti si sentissero come me,
che per tutti era stato così fottutamente bello e che sarebbe stato
sempre così. Mi sbagliavo. Da quel momento tutto cambiò per me, credo
sia iniziato tutto lì.
RP: Eri su un binario diverso?
SL: Completamente. Conosci la storiella dei cinque ragazzi che toccano
un elefante?
RP: Non credo.
SL: Ok, cinque ciechi scoprono un elefante. Tutti lo toccano e lo
descrivono, ma ognuno descrive qualcosa di completamente diverso dagli
altri. Perché uno tocca la proboscide e dice: "Probabilmente è un
serpente." Un altro tocca l'orecchio, un altro tocca la coda, un altro
il piede… E sono cinque persone che descrivono lo stesso elefante.
È così che descriverei la fine di quel tour. Me ne andai pensando che
fosse la cosa più bella che avessi mai visto in vita mia. Invece gli
altri se ne andarono probabilmente dicendo: "Grazie a Dio è finita." Un
giorno mi piacerebbe essere intervistato con tutti lì nella stanza
perché allora avresti la verità. Ci vorrebbero tutti lì per darti la
verità. Io non conosco la verità, so solo cosa penso di aver visto.
Ho amato tutti nella band. Erano i miei fratelli. Tutti davano il meglio
di sé. Si rideva. Non potevi prenderla seriamente. [Il bassista] Howie
Epstein e io nove volte su dieci non riuscivamo a mantenere la faccia
seria, perché eravamo così innamorati dell’idea che stesse succedendo.
Non potevi fare il figo. Non potevi assumere atteggiamenti e pensare che
qualcuno ci avrebbe creduto. Non potevi giocare a fare la rockstar
quando suoni con Bob Dylan. Sali sul palco e basta, cazzo!, e parti con
la musica.
Questo è quello che pensavo stessero facendo tutti nella band. Benmont
Tench, togli i casini da tutto ciò! Lui è il tipo che basta dargli il
via e sarà comunque magia, sa tirare fuori grandi cose anche dalla
fuffa. Mike Campbell: se guardi le sue mani, non puoi nemmeno dire quale
accordo stia suonando perché ne conosce talmente tanti. Non hai idea di
cosa stia facendo, ma Gesù, è così bravo! Lui li possiede i 21 tasti
[della chitarra elettrica]. Li possiede come se fossero la sua puttana.
E poi ascolta Benmont, e lui lo sta mandando in un'altra direzione, e
loro due insieme da un semplice Sol-La-Re tirano fuori musica che in
vita tua non hai mai sentito prima.
Se avessi avuto bisogno di divertirmi musicalmente, bastava prestare
orecchio a loro. E se avessi voluto divertirmi biologicamente, avrei
guardato Tom [Petty], le Queens of Rhythm e Howie [Epstein]. Questa cosa
è fondamentale: il rock and roll deve divertirti dal collo in su e dalla
vita in giù, capisci cosa intendo? Il lato destro del palco mi stava
divertendo alla grande, il lato sinistro aveva le mie palle in una
fionda e tutto questo mi mandava in orbita. E poi, tra l’altro, c’era
Bob Dylan! Come se ci fosse una corona sopra l'intera fottuta cosa.
Quindi, me la sono goduta? Penso proprio di sì.
RP: Pensi abbia influenzato Il fatto che non fosse un tour degli
Heartbreakers? Non dovendo fare le vostre canzoni per tutta la serata,
c’era meno pressione?
SL: Nessuno vuole pensare a se stesso come membro di una band di
semplice supporto. Anche quando eravamo negli Heartbreakers con Tom, non
abbiamo mai pensato a noi stessi in quel modo. Non devi mai avere la
libertà di considerarti solo una parte della band di supporto. Potresti
rovinare una serata. E con Bob Dylan, accompagnato da Tom Petty & the
Heartbreakers, non potevi rovinare la serata. Ascolta, Bob Dylan non ha
certo bisogno di te. Lo dimostrava ogni sera uscendo e suonando quattro
o cinque canzoni da solo che dicevi "Oh mio Dio!" Quindi la pressione
non era mai concentrata sulla band. Hai ragione, forse la situazione era
un po’ più sgonfia. Non erano miei quei brani. Quelli di Petty e gli
Heartbreakers sì. Se suonavamo "Refugee", doveva suonare come la fottuta
"Refugee". Se facevamo "Listen to Her Heart", dovevo cantarla in quel
modo. Ma con Bob, non erano cose mie. Nemmeno conoscevo i pezzi, cazzo,
ero così stupido e presuntuoso! Purché continuassi a metterci ardore,
non avevo davvero alcuna pressione.
Ogni uomo e ogni donna su quel palco furono straordinari. Fu una
convergenza molto fortunata che fossimo lì tutti assieme, sono cose che
non puoi pianificare. C’erano tutti gli elementi di una grande recita,
tutti lì per uno scopo. Tom cantava insieme a Bob nello stesso
microfono, anche se non l’avevano mai fatto prima. Quando Tom doveva
cantare "How does it feel?", lo urlava con lui nello stesso microfono.
Se uno dei due aveva l'alitosi, l’altro lo sapeva. Si annusavano il
rispettivo tabacco. Tutti eravamo così. Era così intimo e così reale.
Ricordo una volta di aver attaccato una canzone con un ritmo stupido.
Bob aveva iniziato a suonare qualcosa di simile al reggae e così decisi
“Beh stasera andrò con quello” – e mi inserii con quattro battute. È
stata l'unica volta in cui me l'ha fatto: mi guardò e mi diede il "No"
internazionale.
RP: Che sarebbe?
SL: Gettò la sigaretta sul pavimento e fece il gesto sotto il collo per
dirmi "no".
RP: Tipo, taglia?
SL: Esatto. Tipo, “così non decolla, non costringermi a farla così per
quattro minuti, idiota.” Sono stato un po' insultato per circa mezzo
secondo e mi sono detto “Va bene! Ho un brutto conto da provare a
saldare nei prossimi quattro minuti." Perché una volta che il batterista
ci mette il piede, si va da quella parte. E a volte ero fuori, forse
anche lontano un miglio. Di solito la band mi seguiva. Dicevano: "Okay,
Lynch ha parlato. Andiamo."
Da qualche parte ho letto che Bob pensava di non essere così bravo in
quel periodo. Questo mi ha spezzato il cuore. Mi ha letteralmente
ridotto ad amare le macerie emotive, perché ero convinto che quel figlio
di puttana avesse portato grandi cose. Non avevo mai visto niente del
genere. Non so se lui vorrà mai parlarne, ma se avessi la possibilità,
gli direi: "Hey, ho letto da qualche parte che pensavi di non stare
dando niente. Amico, non hai idea di quanto tu sia stato di ispirazione
per me. Non mi hai mai deluso.”
Grazie a Stan Lynch! Un paio di mesi dopo il nostro colloquio, Stan si è
riunito con il suo vecchio compagno degli Heartbreakers Mike Campbell,
per la prima volta dopo decenni. Potete leggere il resoconto del loro
tour su Rolling Stone:
https://www.rollingstone.com/music/music-features/tom-petty-hearbreakers-mike-campbell-stan-lynch-interview-1354013/
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I racconti dei ragazzi del suono del
primo Never Ending Tour.
di Ray Padgett - (20 febbraio 2022)
Fonte:
https://dylanlive.substack.com/p/stories-from-bob-dylans-first-never?s=r
traduzione di
Silvano Cattaneo
Lo scorso autunno ho intervistato alcune persone che furono in tournée
con Bob Dylan nei primi concerti del Never Ending Tour, nel 1988: il
batterista Christopher Parker, il tour manager Richard Fernandez e il
direttore di scena Mark Spring. Quella quasi-serie continua ora con un
tre-per-uno. Ho parlato con i ragazzi del suono di Dylan: David Robb,
responsabile dell’audio che il pubblico ascoltava in sala; Keith Dircks,
responsabile dell’audio che la band ascoltava sul palco; Robert “Fuzzy”
Frazer, che spostava l’impianto da un posto all’altro e aiutava ai
microfoni.
Diciamolo subito: il loro lavoro non richiedeva un’interazione molto
stretta con il nostro uomo. Raccontano sì un paio di aneddoti, ma per me
sono più interessanti le loro storie, quasi una finestra su com’era la
vita quotidiana per uno della troupe in tour con Bob. È probabile che
non sia cambiato molto da allora.
Se a un concerto vi siete chiesti cosa stessero facendo le persone che
si affaccendavano sul palco prima dell’arrivo di Bob, o cosa stessero
combinando le persone in piedi dietro quei grandi banchi, David, Keith e
Fuzzy aiutano a scoprirlo.
David Robb, mixer di sala
David Robb: Ho iniziato a lavorare
con Al Santos nel 1980, quando lui era direttore di produzione di Frank
Zappa, e con lui ho lavorato in tour per quasi tutti gli anni '80.
Insieme abbiamo fatto tre anni con Zappa, poi siamo stati con Tom Petty,
gli Yes e quindi con Bob Dylan. È interessante notare che Al [Santos] è
ancora il direttore di produzione di Dylan, trenta e passa anni dopo.
Feci un breve tour con Bob nell'estate ’86, quando suonò un mesetto di
date con i Grateful Dead e Tom Petty. All’epoca io ero con i Dead e non
avevo mai visto Bob dal vivo prima di allora.
Poi venne il vero e proprio Never Ending Tour, a partire dal maggio
dell'88. Assistetti a due o tre giorni di prove, a New York. La band di
tre elementi che iniziò a provare non aveva Kenny Aaronson al basso,
stavano provando con Marshall Crenshaw. A quel tempo, Marshall
[Crenshaw] e il batterista Chris Parker vivevano entrambi a Woodstock
come me, e io portai la loro attrezzatura alle prove. Penso sia stato
dopo il primo giorno o nel bel mezzo del secondo giorno, che Bob disse
che non era quello che voleva. Così [il chitarrista] G.E. Smith convinse
Kenny Aaronson a partecipare, e Kenny restò con lui per quel tour e il
successivo.
Ero molto fiducioso di riuscire a ottenere un buon suono da quel gruppo,
così stavo solo a guardare per capire come lavorava Bob, come lavorava
con la band, capire gli aspetti politici e tutto il resto.
Ray Padgett: Cosa intendi per “politici”?
David Robb: Voglio dire, come si relazionavano i membri della
band con Bob? E lui come si relazionava con loro? Come costruivano le
canzoni? Stavano imparando esattamente le cose da lui oppure lui gli
dava solo le battute iniziali? Bob è probabilmente uno dei musicisti
meno strutturati con cui abbia mai lavorato.
Il primo vero concerto fu al Concord Pavilion in California [il 7 giugno
1988]. La posizione del mixer a Concorde non era l' ideale e non potemmo
configurare l'intero sistema che avevo portato con me. Non fui
completamente soddisfatto di come realizzai quel primo show, ma da lì in
poi le cose migliorarono.
Sapevo che i testi dei suoi brani erano molto, molto importanti per il
suo pubblico. A essere sincero, non presto molta attenzione ai testi
degli artisti per cui lavoro. Quando la band suona non seguo i testi, ma
ascolto la voce per essere sicuro che sia ben posizionata tra gli
strumenti e sia perfettamente comprensibile. Alcuni artisti dicono
addirittura: "Abbassa un po' la voce. Voglio sentire la chitarra o la
tastiera altrettanto forte". Ma per Bob ero convinto che, per avere le
liriche intelligibili, la sua voce dovesse stare sopra qualsiasi altra
cosa nel mix.
Il mio stile di mixaggio era un po' insolito. La maggior parte delle
persone che mixano frontalmente al palco hanno una pedana alta circa un
metro in modo che possano sedersi lassù, vedere sopra le teste del
pubblico e guardare il palco mentre lo spettacolo è in corso. Io,
invece, penso che la persona che gestisce l'attrezzatura debba avere la
stessa esperienza del pubblico e per questo motivo non ho mai usato
alzate. Mettevo la mia console direttamente sul pavimento. Se il
pubblico era seduto, io stavo seduto. Se il pubblico era in piedi, io
stavo in piedi. Questa fu un'ottima notizia per gli organizzatori dei
concerti di Dylan, perché quando hai parecchia attrezzatura tutta su una
pedana, ci sono posti a sedere dietro inutilizzabili. Quando vedevano
che io ero allo stesso livello di tutti gli altri, dicevano:
"Fantastico, si sono liberati un sacco di posti che posso vendere!"
RP: Com’era il programma tipico del giorno del concerto?
DR: Uno dei tanti compiti che ho svolto durante i tour è stato il
ground rigging [ndt: assemblaggio e posizionamento di tutte le
strumentazioni e della scenografia]. Sapere dove è disposto il palco e
dove si troverà esattamente il pubblico determina dove installerò il
sistema audio. Come prima cosa bisogna montare e sistemare in alto le
luci, perché altrimenti si continuerebbe ad inciampare. Poi si pensa
alla parte audio. Si porta dentro tutta l’attrezzatura, si montano gli
amplificatori, si sollevano e si direzionano nel modo giusto.
Dopo pranzo arrivano sul palco gli strumenti della band e si sistemano.
Quindi microfoniamo e controlliamo tutti i collegamenti. Dopo che
l’impianto è completamente attivo, faccio alcuni rapidi controlli sulla
copertura dell’ambiente, faccio un po' di equalizzazione, riproduco un
po' di musica e un po' di rumore rosa, testo le capacità del sistema e
come funziona.
RP: Cos’è il rumore rosa?
DR: Il rumore rosa è un segnale elettrico con una forma d'onda
media particolare. Consiste in tutte le frequenze che l'orecchio può
sentire, suonate contemporaneamente. Se lo ascolti non percepisci le
note reali, suona come i disturbi elettrici tra un stazione e l’altra di
una radio. Viene utilizzato per testare gli impianti audio, perché puoi
monitorare come viene influenzata la forma d'onda mentre passa
attraverso l’impianto. In un locale, i tuoi altoparlanti sono puntati
tutti in direzioni diverse. Supponiamo che tu sia in un palasport o in
un ambiente simile: avrai molto riverbero, suono riflesso dalle pareti e
dal soffitto. Se prendi un segnale audio, lo riproduci attraverso
l’impianto e poi usi un microfono per catturare quello che sta uscendo,
ti aiuta a capire come l’ambiente sta influenzando il suono.
Verso le quattro o cinque del pomeriggio la band di solito si presentava
per un soundcheck, andavano sul palco e improvvisavano un po'. A volte,
specialmente all'inizio di un tour, hai bisogno di averli sul palco uno
alla volta. La batteria, in particolare, potrebbe avere anche dozzine di
microfoni, quindi ci vuole un po’ per ascoltarli tutti. Ma dopo alcuni
spettacoli di solito puoi lasciare che la band suoni quello che vuole al
soundcheck.
Dylan era unico perché raramente faceva un soundcheck. Non aveva bisogno
di provare le canzoni. Le ha scritte, le conosce. Probabilmente le
avrebbe suonate in modo diverso da come le aveva suonate prima. Ho
parlato con G.E. Smith a questo proposito: potresti conoscere l'intero
repertorio di Dylan, potresti aver ascoltato ogni singola cosa che ha
registrato, ma non sarà quello che suonerai stasera.
A volte Bob si presentava a controllare la sua chitarra elettrica.
Raramente controllava la chitarra acustica, così chiedevo a G.E. [Smith]
di suonare l’acustica di Bob dopo che Bob se n’era andato. Non c'era
molto da imparare o canzoni da provare. Al termine del soundcheck, Al
Santos faceva scendere la band dal palco. Quindi preparavamo rapidamente
il palco per il gruppo di supporto e facevamo un breve soundcheck con
loro, prima che aprissero le porte del locale.
Bob e G.E. stilavano la scaletta e Al Santos faceva copie per tutti. Una
per ciascuno dei musicisti, una per me, una per il tipo delle luci, una
per quello al monitor... Erano una guida interessante, ma di certo non
ci avresti scommesso che Bob si sarebbe attenuto a quella lista.
G.E. [Smith] era quasi sempre nella stessa posizione, alla destra di
Bob. Avresti detto che come musicista di accompagnamento sarebbe rimasto
più defilato, ma non poteva davvero farlo. Per l'intero concerto doveva
guardare le mani di Bob per capire quando avrebbe cambiato l'accordo e
quale accordo sarebbe stato. G.E. avrebbe preso spunto da quello. A
volte gridava qualcosa a Kenny [Aaronson], in modo che Kenny sapesse in
quale tonalità stavano suonando.
Avrei anche potuto indovinare quale canzone avrebbe fatto dopo, ma non
c’era molta differenza per me. Ho usato pochissimi effetti sulla voce di
Bob o sui suoi strumenti. Prima del tour con Bob ho mixato gli Yes e lì
avevo davvero bisogno di sapere quale sarebbe stata la canzone
successiva perché c’erano parecchie cose che avrei cambiato nel mix. Ma
per Bob, era una band di quattro elementi, non avrebbero cambiato molto,
tranne quando G.E. e Bob passavano dall'elettrico all'acustico, ma
questo è abbastanza ovvio.
Mi vanto di guardare, oltre ad ascoltare. Questa è una delle cose che
dico alle persone quando mi chiedono "qual è il trucco per mixare?"
Cerchi di farlo suonare nel miglior modo possibile, ma poi ti fermi per
un minuto e fissi il palco, guardi ogni singola cosa presente sul palco
che emette un qualche tipo di suono e fai in modo di poterla sentire nel
posto giusto nel mix.
Il mix non cambiava molto, gli effetti non cambiavano, non c’erano veri
stacchi. Non c'erano nemmeno le battute iniziali delle canzoni. Avresti
detto che Bob stesse accordando la sua chitarra e poi all'improvviso
suonava un paio di accordi, a quel punto iniziava a suonare G.E. e,
okay, la canzone era partita. Era più un problema per il tecnico delle
luci.
Con Bob ho avuto praticamente zero interazioni. Sta sulle sue. Non so
come sia con la band quando sono soli, ma ogni volta che si trovava lì
c’era pochissima comunicazione. Ovvio, probabilmente io ero nella
posizione peggiore perché stavo dietro alla console di sala. Magari
aveva qualche commento per il tecnico dei monitor che era a pochi metri
da lui, ma non veniva mai a parlarmi.
E questo mi fa ricordare l'unica vera interazione avuta con lui, che è
stata affascinante. Eravamo al Fiddler's Green, un anfiteatro all'aperto
vicino a Denver. Nel primo pomeriggio Al Santos mi disse che avremmo
potuto avere brutto tempo, con relativi problemi. Poco prima del
soundcheck alzai lo sguardo sulle montagne, si vedeva un tornado che
iniziava a formarsi. Una cosa stranissima, sembrava che qualcuno sopra
le nuvole avesse un enorme cono gelato nero e lo stesse infilando tra le
nuvole per poi tirarlo di nuovo su. Giù e su, giù e su. Poi
all'improvviso questo cono nero scese fino in fondo, colpì il suolo e si
fermò. Il punto in cui colpì il suolo era a miglia di distanza da dove
ci trovavamo, ma potevamo vederlo molto chiaramente.
Dopo il soundcheck, andai al catering. Ero seduto a cena e successe un
fatto inaudito: entra Dylan, si avvicina e si siede al tavolo con me.
Discutemmo per venti minuti su come il tornado influisse sulla pressione
dell'aria e su come la pressione dell'aria avrebbe potuto influenzare il
suono. Non credo fosse preoccupato per il suono, penso che probabilmente
fosse più curioso dal punto di vista scientifico: cosa fa una cosa del
genere al suono?
Rimasi sbalordito che fosse interessato a questa cosa e che stesse
rompendo la sua routine di sedersi sul bus da solo e non parlare con
nessuno. È stata l'interazione più lunga che abbia mai avuto con lui.
A uno show successivo – eravamo al Garden State Arts Center, nel New
Jersey – nel bel mezzo del set di Bob, sentii qualcuno che mi stava
dando dei colpetti sulla spalla. Ero pronto a schiaffeggiare via quella
mano, ma mi girai ed era il manager di Bob [Elliot Roberts]. Mi disse:
"Ho un’artista che sta per firmare e voglio che si sieda qui e ascolti
Bob per un paio di canzoni.” Risposi: "Va bene, basta che non mi
disturbi." Quando finì la canzone, mi voltai e dietro c’era Tracy
Chapman. Come previsto, divenne una sua cliente e io, dopo Bob, finii
per mixare per Tracy.
Altro concerto memorabile fu l'ultimo di quel tour. Terminammo con
quattro serate al Radio City Music Hall. Era l'ultima data [18 novembre
1988], mi sentivo tranquillo, eravamo stati quattro giorni nello stesso
teatro, quindi sapevo cosa aspettarmi.
D’un tratto mi sporsi in avanti a dare un’occhiata alle attrezzature al
mio fianco. Sull’altro lato del rack c’erano alcuni posti a sedere
bloccati per farci stare la console dell’artista di supporto [Tony
Childs]. Riuscii solo a vedere queste scarpe da ginnastica dipinte a
mano che picchiettavano sul pavimento. Mi dissi: "Oh, fantastico, un
tizio è saltato dai posti economici a questi vuoti al mio fianco". Ero
preoccupato che qualcuno fosse seduto lì a cazzeggiare in mezzo a
100.000 dollari di elettronica. Mi alzai, guardai oltre il rack pronto a
far buttare fuori questa persona... Era George Harrison.
Dopo quello spettacolo, Al Santos mi disse che Bob voleva vederci. Solo
Santos e io. Gli chiesi: "Dici sul serio?" Camminammo per pochi isolati
fino al Russian Tea Room, il famoso ristorante. La guardia del corpo di
Bob, in piedi sul marciapiede, ci fece cenno di avvicinarci. Aprì una
porta privata e salimmo in una saletta. Penso ci fossero solo sette o
otto persone sedute in quella stanza, incluso Bob. Noi due entrammo e il
suo manager ci disse: "Bob vi voleva qui per ringraziarvi per il tour".
Molti manager si limitano a prenotare i concerti e poi tornano nel loro
ufficio a fare altre cose, ma il manager di Bob era sempre con lui. Era
il suo portavoce. A quel punto, le altre persone nella stanza si
alzarono e fecero un piccolo applauso per il lavoro che avevamo fatto.
Se non ricordo male, il gruppetto comprendeva Peter Gabriel, Rosanna
Arquette e George Harrison. Credo che sotto sotto stessi pensando: "Oh,
adesso ci daranno anche un sacco di soldi qui", ma non è mai successo.
Nessun grande bonus. Però è stato bello essere ringraziati.
Keith Dircks, band monitor
Keith Dircks: Ero il responsabile
dei monitor, quindi lavoravo a 6 o 7 metri da lui. Nel primo anno, mi
avrà detto forse 40 parole. Davvero. Lo incontrai per la prima volta ai
Montana Studios di New York, gli studi delle prove. Dave [Robb] era in
un'altra stanza con la console frontale, e io rimasi nella sala prove
con la console dei monitor. La band era arrivata per prima, come il
giorno precedente. Quando entrò Bob, gli chiesi: "Qual è la tua
filosofia sui monitor?" La sua risposta fu: "Tutt’intorno." E questa fu
l’indicazione con cui dovetti lavorare.
All'inizio fu tutto un "Abbassa quello, non voglio questo, non voglio
quello." Poi andammo a fare il primo spettacolo. La mattina dopo il
manager mi chiamò nella sua suite. Stavo per essere licenziato perché
Bob odiava i monitor. Intervenne Dave [Robb] che chiese: "Allora, cosa
non ti piace?" E lui: "Beh, non erano abbastanza alti di volume." E
Dave: "Davvero? Li vuoi alti?"
Al secondo spettacolo avevo [il manager di Dylan] Elliot Roberts accanto
a me, perché ormai ero sul filo del rasoio. Dopo la terza canzone mi fa:
"Abbassa quella merda!" E da allora non fu mai più detto nulla su come
facevo i monitor.
Sai, Bob è davvero un tipo di poche parole. Tra le 40 parole che mi
rivolse il primo anno ricordo una cosa in particolare. Eravamo ai
Montana Studios, solo io e lui nella stanza. Ero in fondo a trafficare,
lui si avvicinò e disse: "Alla fin fine, due sono le cose che ti
restano." E poi ci fu una lunga, significativa pausa. Hai presente le
pause di Bob. Finché aggiunse: "I ragazzi e il cibo.” Mise in bocca un
jalapeño, si girò e se ne andò.
L'anno successivo, nell'89, nacque la mia prima figlia. E dopo tutti
questi anni, maledizione, aveva ragione! Ti restano i ragazzi e il cibo.
L'aveva esattamente inquadrata. Allora non potei apprezzarlo, pensai
“Beh, okay, è un Bob-ismo”. Ma dopo tanti anni credo che avesse un
significato.
Nel tour americano tutta la crew aveva delle mountain bike che portavamo
con noi. Ogni volta che si aveva un'ora libera, andavamo a fare un giro.
Quando arrivammo in Europa nessuno aveva la bici, tranne Bob e il suo
entourage. Ma ogni volta che andavano in giro, lasciavano le bici
sbloccate e venivano rubate. Così nel Paese successivo dovevano comprare
un altro set di biciclette.
Non c'erano molte groupie. Negli altri tour del rock, quando vai al bus
ti trovi le groupie fuori. Un giorno vidi una ragazza in piedi vicino al
bus. Chiesi: "Posso aiutarti?" E lei: "Posso fare una domanda?"
"Sicuro." "Avete bisogno di altri poeti in tournée?" Dissi: "Oh, cavolo,
hai perso la barca per un giorno. Abbiamo assunto il nostro ultimo poeta
ieri." Si allontanò sconsolata.
Non so se Bob sapesse chi fossi io, anche se ho lavorato a pochi metri
da lui ogni notte per due anni. Nell'89 mia moglie era incinta della
nostra prima figlia. Ogni sera la chiamavo e le chiedevo: "Ci siamo?" A
Poughkeepsie, rientrato in hotel trovai un messaggio che mi diceva di
tornare a casa. Quindi lasciai il tour per una decina di giorni. Mi
sostituì Dave Taylor, un ragazzo che stava già in tour con noi. Il mio
soprannome durante il tour era Mel. Quando tornai, gli chiesi: "Allora
com'è andata?" E Dave: "Non credo che gli sei mancato." "Perché?" E
Dave: "Mi è passato davanti e mi ha chiesto: 'Ehi Mel, come va?'"
[Dylan] parlava con G.E.[Smith] e G.E. poi parlava con me. La mattina
dopo, G.E. magari mi diceva: "Riguardo alla scorsa notte, vorrebbe che
tu rendessi un po' più profonda la chitarra." In qualche modo abbiamo
capito cosa fosse meglio per Bob, per integrarlo con il resto della
band. Se piazzavo due monitor di fronte a lui, sarebbero stati
completamente separati l'uno dall'altro: uno aveva solo la sua chitarra,
l'altro la sua voce. E i monitor laterali avrebbero avuto più in
evidenza la band.
Dio, la musica era semplicemente incredibile! Sarei andato a sedermi in
sala solo per sentir suonare G.E. [Smith], Chris Parker e Kenny
Aaronson. G.E. ha un catalogo infinito di canzoni nella testa. La mia
parte preferita dello spettacolo erano le quattro o cinque canzoni
acustiche in cui c'erano solo Bob e G.E. Il più delle volte G.E. usava
una 12 corde e Bob la sua Takamine. Sai, io che lavoro sull’audio
apprezzo di più la qualità complessiva del suono piuttosto che i singoli
elementi. E dalla qualità di quello che stavano suonando e
dall’atmosfera che filtrava tra le note, potevi capire tutto.
Alla fine ho lasciato il lavoro nelle tournée perché mi stavo
completamente perdendo i miei figli. Il vicino di casa ha insegnato loro
come andare in bicicletta, cose di questo genere. È stato il prezzo da
pagare per vivere in un tour bus. Tutti quelli con cui parli dicono:
"Deve essere stato fantastico! Sei stato in giro per il mondo!" E in
quel momento è come se tu rivedessi la porta del bus che si chiude e poi
la porta del palco mentre entri. Se il catering o le docce ti sembrano
familiari, capisci di essere già stato lì. A parte questo, è sempre lo
stesso giorno.
Robert “Fuzzy” Frazer, impianto e microfoni:
Ray Padgett: Quando ti sei unito ai tour di Dylan?
Fuzzy Frazer: Ho iniziato con i Rush alla fine degli anni '70,
con loro sono stato sei anni. Poi cambiarono compagnia e io fui assunto
da Ultrasound. Poco dopo arrivò anche Dave [Robb] e lavorammo con i
Grateful Dead. Sono stato con loro dall'83 al '97, più o meno. Se avessi
dovuto mixare ancora Mickey Hart, mi sarei tagliato le vene. Persone
davvero simpatiche, non fraintendermi, ma dovevi pagarmi per ascoltare
quella musica. Dio mio, il Beam! [Ndt: il “Beam” è un complicato
strumento a percussione formato da una trave di alluminio su cui sono
posizionate corde di pianoforte; spesso usato per creare effetti nelle
colonne sonore dei film di fantascienza, faceva parte della
strumentazione di Mickey Hart.]
RP: Non li paragoneresti un po’ a Dylan? A suo modo, anche lui
improvvisa. Non è certo i Rush.
FF: Sì. César Díaz, il suo tecnico delle chitarre, rideva del suo
modo di suonare. Diceva che faceva la "scansione degli accordi",
scorrendo le dita su e giù per il manico cercando di trovare un accordo.
Lui è Bob. Non c'è nessun altro come lui. Non suona mai la stessa
canzone due volte nello stesso modo. In effetti, dovevo ascoltare il
testo per capire che canzone fosse, perché magari era diventata un
reggae o aveva un tempo nuovo. È stata una sfida.
Grande merito a G.E. Smith: era un vero maestro sul palco. Gestiva
quella band. Conosceva 600 brani di Dylan. Ci ha impressionato ogni
notte. Ho assolutamente il massimo rispetto per G.E.
RP: Qual era il tuo ruolo specifico negli spettacoli?
FF: Ero addetto all’attrezzatura, montavo l’impianto e aiutavo a
sistemare i microfoni. Piccole cose del genere. A volte facevo i
monitor, ma per quelli ero in basso nella scala gerarchica.
RP: Dici che ascoltavi per capire che canzone fosse. Ma cosa
facevi durante gli show?
FF: Guardavo per assicurarmi che le cose andassero bene sul
palco, che gli amplificatori fossero a posto, che non fosse caduto un
microfono, che non ci fossero problemi. Bob era piuttosto criptico. Non
ha mai comunicato veramente con Keith [Dircks]. Sarebbe stato difficile
per me mixare Bob e sapere se andava bene e se era felice del risultato.
Non parlava mai con nessuno. Uno dei ragazzi, Matthew, che anni dopo è
diventato il suo addetto ai monitor, mi ha detto che ci sono voluti due
anni prima che Bob gli dicesse qualcosa. Con nonchalance gli disse
qualcosa tipo: "Bella giornata oggi, eh?" E bastò questo per stendere
Matt: "Hey, Bob mi ha parlato oggi!"
RP: Quindi tu eri il tipo che corre sul palco se qualcosa va
storto, per sistemare un cavo o cose del genere?
FF: Si, esattamente. Principalmente cose dell’impianto. Niente a
che vedere con gli strumenti, per quello c’era Red. César [Díaz] fece un
ottimo lavoro con le chitarre di Bob. Dal suo lavoro, capii perché era
stato assunto.
RP: Divenne persino il chitarrista di Bob per un po' [Ndt: oltre
settanta date, a cavallo tra il 1990 e il ‘91]. Non sono molti i tecnici
della chitarra che diventano veri chitarristi sul palco.
FF: Si, esattamente. César era davvero talentuoso. Mi è
dispiaciuto proprio quando è morto [nel 2002]. Era un personaggio
divertente. A proposito, hai mai visto il video che Stephen Bickford
girò in quel tour?
RP: Non mi dice niente.
FF: Stephen Bickford era il lightning designer e in quel periodo
era uno dei migliori al mondo. Aveva un elenco enorme di clienti. Un
vero, vero talento. Fu difficile fare le luci per Bob: voleva un
palcoscenico buio, lo voleva notturno, non voleva luci nei suoi occhi.
Una sfida per Bickford riuscire a fare un buon lavoro.
Bickford aveva con sé una videocamera di fascia alta e fece alcune
riprese durante il tour, non materiale sul palco, ma la troupe e le
persone nel backstage, i pasti e cose del genere. Una delle cose che
filmò fu G.E. Smith che aveva scritto una poesia dedicata alla troupe e
che lesse davanti alla videocamera. Fu una cosa davvero bella. Te lo
giuro, Bickford era pieno di talento e una persona così semplice,
onesta, schietta e buona. Raramente, quando sei in tour, porti qualcuno
a incontrare la tua famiglia, ma lui era quel qualcuno che vorresti che
la tua famiglia incontrasse.
Non ricordo interazioni avute con Bob. Mi sono tenuto a debita distanza.
Alla gente piace la propria privacy e io non ero lì per essere il loro
amico, o per fare il simpatico o chiacchierare con loro. Hanno già
abbastanza persone che provano a stargli addosso ogni giorno.
Per un periodo ho lavorato con i Kiss. Loro avevano il sistema giusto:
si truccavano [in scena] così poi potevano camminare per strada senza
essere riconosciuti. Quando mi sono unito ai Rush facevano club e
teatri, ma poi sono passati ad arene da 10.000 posti e il livello di
interesse dei fan è diventato prepotente. Andavamo fuori a cena tutti
assieme e non ne potevamo più: i fan ci assalivano anche al ristorante.
RP: Ti ricordi per quanto tempo sei stato con Dylan?
FF: Se non ricordo male, ho fatto i tour di Dylan con i Dead, con
Tom Petty, e poi con G.E. Smith. Da allora ho visto tutte le
incarnazioni della sua band. Al Santos è davvero gentile, si ricorda di
me, mi invita agli spettacoli e facciamo sempre una bella chiacchierata.
Personalmente penso che il periodo con G.E. [Smith] sia stato di gran
lunga la cosa migliore, persino meglio dei tour con Petty. G.E. guidava
davvero la band. Seguiva gli accordi di Bob, si girava e faceva un cenno
ai ragazzi: quale canzone, in quale chiave.
Ho un poster appeso alla parete con le date del Radio City Music Hall,
l'ho fatto firmare a tutta la band tranne Bob perché non volevo
disturbarlo. Però, quasi al termine del periodo con lui, comprai un
libro dei suoi testi e lo tenevo sempre con me. Un giorno, parlando con
Suzie [l'addetta al guardaroba di Bob], le chiesi: "Che probabilità ci
sono che riesca a farmelo firmare?" E lei: "Oh, non lo so. Dammelo e
vediamo." Non avevo grandi speranze. Come ti ho detto, ero abbastanza in
basso nella scala gerarchica. Ma che io sia dannato se non l'ha firmato!
Ho quello firmato da lui, e quello che ho fatto firmare a Lou Reed
quando ho mixato per Lou.
RP: In generale, com’è paragonabile un tour con Bob rispetto ad
altri musicisti con cui hai lavorato?
FF: I Grateful Dead erano il top perché si prendevano davvero
cura della loro squadra. Avevamo quattro chef che viaggiavano con noi,
portandosi appresso tutta la loro cucina. Le chiamavamo le nostre
ragazzotte cuciniere, anche se erano tutti ragazzi. Ogni mattina
uscivano, prendevano prodotti freschi e cucinavano pasti speciali. C’era
un menu diverso ogni giorno. Il cibo era buono, i soldi erano buoni, i
bonus erano buoni,
Dylan appena sotto di loro. Dylan attira il meglio. Il suo contabile si
fermava ogni volta a contare i posti in sala per confrontarli con i
biglietti strappati. Perché diciamolo, i promotori ci marciano, vendono
biglietti extra e posti in corridoio. Lui stava in cima al meglio.
[ride]
RP: Cosa ricordi dei concerti di Dylan con i Grateful Dead, prima
degli anni con G.E. Smith?
FF: Mi piaceva di più Bob con Tom Petty rispetto a Bob con i
Dead. Anche se ho lavorato con loro per 15 anni, non ero un grande fan
della loro musica. Ti sedevi dietro di loro, ascoltavi i due tipi alla
batteria e non avresti mai detto che stavano suonando la stessa canzone.
Billy [Kreutzmann] era un buon batterista, ma Mickey [Hart] era... Ha
questa reputazione di "planet drum", il tamburo del pianeta, come se
fosse un batterista di livello mondiale. Oh mio Dio, non potrebbe
esserci niente di più lontano dalla verità. Se andavi alla console
vedevi i fader di Billy tutti in alto nel mix e quelli di Mickey in
basso. La gente non voleva sentirlo.
RP: Sì, anch’io sono un grande fan di Dylan con Petty, più che di
Dylan con i Dead.
FF: Lo stesso per me. Talenti musicali molto migliori. Mi sarebbe
piaciuto vedere la loro collaborazione andare avanti più a lungo, però
poi forse non ci sarebbe stato G.E. [Smith]. G.E. e Kenny Aaronson al
basso, che mostro! Il basso e la chitarra insieme erano proprio... Dio,
erano proprio da godere. Molte volte si tratta di clienti, non devono
per forza piacerti. È un lavoro e tu fai del tuo meglio. Ma se ti piace
la musica, è un bonus in più!
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Andare in tour e registrare con Bob
Dylan. Parla l’Heartbreaker Benmont Tench.
di Ray Padgett -
(5 febbraio 2022)
Fonte:
https://dylanlive.substack.com/p/the-heartbreakers-benmont-tench-talks
Traduzione di Silvano Cattaneo
Come ho già scritto altre volte, pochi tour di Bob Dylan amo tanto
quanto il cosiddetto “True Confessions Tour” del 1986. Quella è stata la
prima volta che Dylan si è fatto accompagnare da una band già famosa:
Tom Petty & The Heartbreakers. Lo scorso autunno Richard Fernandez, tour
manager di lunga data di Tom Petty, mi ha raccontato alcuni episodi
dietro le quinte. Oggi, nell'anniversario del primo show di Dylan con
gli Heartbreakers [Wellington, Nuova Zelanda, 5 febbraio 1986], sentiamo
qualcuno che fu sul palco ogni notte: Benmont Tench, il leggendario
tastierista degli Heartbreakers.
I due tour di Dylan con gli Heartbreakers non sono stati l'unica
occasione in cui Benmont ha suonato con Bob. All'inizio degli anni '80
aveva già registrato per “Shot of Love” e “Empire Burlesque”, e decenni
dopo è riapparso nel mondo di Bob: prima nel brano colonna sonora "Cross
the Green Mountain" (2003) e poi in due tracce di “Rough and Rowdy Ways”
(2020). Ovviamente abbiamo parlato anche di questo.
Ecco la mia chiacchierata con Benmont.
Ray Padgett: Vorrei parlare soprattutto dei tour con gli
Heartbreakers, ma tu ti sei incrociato altre volte con Dylan. La prima
volta furono le sessioni di “Shot of Love”? So che partecipasti con Mike
[Campbell, chitarrista degli Heartbreakers].
Benmont Tench: Sì. C’era anche Mike, ma non finì sul disco. Registrarono
con Mike una versione diversa di "Heart of Mine", ma alla fine non la
usarono. Mike è su “Empire Burlesque”, un paio di dischi dopo.
Tutto iniziò perché mi chiamò Jimmy Iovine. Stava facendo delle prove
con Bob per vedere se potevano lavorare insieme. Jimmy mi coinvolse
perché non conosceva nessun altro di quelle sessioni e voleva il mio
suono lì dentro.
Ma Lui e Bob non andavano d'accordo. A mia insaputa, Jimmy se ne andò
nel mezzo delle sessioni e mi lasciò in quello studio dove non conoscevo
nessuno, nemmeno Bob. Alla fine della giornata, Bob mi chiese: "Puoi
tornare domani?" E io: "Non posso". C'era una riunione della band o
qualcosa del genere, non potevo saltarla. Nemmeno per Bob.
Ma poi mi richiamò un paio di mesi dopo per registrare “Shot of Love”.
Forse proprio perché gli avevo detto di no.
Quella fu la mia prima esperienza di lavoro con lui, e fu meravigliosa.
Gli Heartbreakers come band hanno lavorato con lui quattro o cinque anni
dopo. Ma nel frattempo la maggior parte di noi – credo tutti noi tranne
Tom [Petty] – avevamo suonato su alcune tracce di “Empire Burlesque”.
Quindi ci conosceva un pò prima che Elliot Roberts [manager sia di Dylan
che degli Heartbreakers] ci proponesse di essere la sua band per un
tour.
RP: Ho letto una voce secondo cui sei stato coinvolto nelle prove per
il tour del 1984, ma non potesti farlo. È vero?
BT: Il tour da cui Glyn Johns ha tratto il disco “Real Live”?
RP: Quello. Con Mick Taylor, in Europa.
BT: Sì. Qualcuno mi chiamò e mi chiese: "Puoi venire a questo indirizzo
a provare?" Risposi: "Non posso andare in tour, perché sto lavorando con
Tom". E quello: "Vuole solo capire come suonerebbe con un tastierista".
Così andai. C’era Colin Allen dei Bluesbreakers di John Mayall alla
batteria e al basso credo ci fosse Gregg Sutton. E loro, indicando il
tipo alla chitarra, mi dissero: "Quello è Mick". Dissi: "Fantastico”.
Iniziammo la jam. [Bob] voleva improvvisare, provare alcune canzoni e
altre cose. Dopo un pò mi resi conto che quel "Mick" era Mick Taylor.
Appena iniziò a suonare dissi: "Hey, aspetta un minuto! Aspetta un
minuto! Wow!" Ma sarebbe stato impossibile per me fare quel tour.
Finirono per prendere Ian McLagan, una scelta molto brillante. Mac
[Lagan] era uno dei miei eroi.
RP: Parliamo del Farm Aid, prima del tour. [La prima esibizione di
Dylan accompagnato da Tom Petty & the Heartbreakers fu in occasione
della prima edizione del Farm Aid, a Champaign, Illinois, il 22
settembre 1985.] Poco fa hai accennato che fu Elliott Roberts il vostro
anello di collegamento. Come successe che gli Heartbreakers e Dylan si
unissero?
BT: Ci sono un paio di cose che ho capito. Quando registrammo “Shot of
Love”, l'assistente di Bob era Debbie Gold. Aveva un bel caratterino, ma
era intelligente. Io e lei andavamo d’accordo. Poi arrivò Mike
[Campbell], e questa fu un'idea di Chuck Plotkin [il produttore]. Debbie
mi rivelò che disse a Bob: "Beh, se ti piacciono Benmont e Mike,
dovresti provare a suonare anche con qualcuno degli altri
Heartbreakers". Forse gli suggerì Howie [Epstein, bassista] e forse Stan
[Lynch, batterista], così quando fu l’ora di “Empire Burlesque”, tutti
noi quattro eravamo su brani di quel disco. Quindi lui ci conosceva già.
Non so se andò esattamente così, ma questo è ciò che mi ha raccontato
Debbie.
Comunque, per Farm Aid, Elliot [Roberts] ci rappresentava insieme a Tony
Dimitriades. Penso sia stato Elliot che alla fine ha collegato tutti i
punti. Tom [Petty] probabilmente aveva già incontrato Bob, ma non credo
avesse registrato con lui. Non era su “Empire Burlesque” come noi altri.
Quindi Elliot o qualcun altro gli avrà detto: "Perché non fai questa una
tantum con Bob?"
La cosa mi rese davvero felice perché le esperienze in studio mi erano
piaciute molto. Non solo era un autore e un interprete leggendario, ma
era diventato un autore e un interprete leggendario perché è
dannatamente bravo. In “Shot of Love” avevo avuto modo di suonare questa
musica fantastica con il suo creatore. E la band… semplicemente assurda!
Jim Keltner, Tim Drummond, Fred Tackett, Steve Ripley, Danny Kortchmar,
le Queens of Rhythm ai cori… Hai parlato con Keltner, vero?
RP: Sì, un paio di mesi fa.
BT: Okay. Jim Keltner è uno dei miei migliori amici. Ci siamo visti
proprio ieri. Due anni fa mi sono trasferito in una nuova casa,
scoprendo che, in cinque minuti a piedi giù per la collina, arrivavo a
casa di Jim. Durante tutta questa pandemia, la nostra clausura è stata
con Jim, [sua moglie] Cynthia e la tata. Una clausura piuttosto buona.
RP: In un certo senso, Jim [Keltner] sembra un pò come te: una di
quelle persone che Dylan si porta dietro negli anni. Magari passano
decenni, ma poi te li ritrovi sul palco o in studio.
BT: Credo che lui e Jim abbiano una relazione più stretta della nostra.
Poi Jim è una meraviglia. Molte delle persone più speciali sanno che Jim
è davvero speciale. E Bob Dylan, oh sì, quello è unico! Il nostro lavoro
è un pò prendere ciò che abbiamo imparato da Bob e dire agli altri:
"Ehi, che ne dici di questo?"
Al Farm Aid suonammo forse cinque canzoni. Puoi trovarne brutte copie su
YouTube. Pensavo fosse stato eccezionale, elettrizzante. E non per il
nome di Bob Dylan, ma perché era stato grande rock and roll. Poco dopo
ci dissero: "Ragazzi, volete fare un tour?" Naturalmente rispondemmo di
sì, o forse fu Tom [Petty] a rispondere di sì perché sapeva che tutti
noi l'avremmo fatto. È così che abbiamo iniziato un viaggio di due anni
a suonare con Bob.
RP: Quindi, quando vi esibiste insieme al Farm Aid pensavate che
sarebbe stata una tantum che finiva lì?
BT: Non ricordo, è probabile. Averlo fatto forse convinse Bob che
eravamo adatti. Forse Bob si divertì davvero. Forse capì che eravamo
veramente bravi. Forse l’ingaggio era a buon mercato. [Ride] Non lo so.
Finimmo per accompagnarlo per alcuni tour. Fece di noi una band molto
migliore perché ci insegnò. Avevamo già un ottimo swing. Prestammo molta
più attenzione ai dischi di Howlin' Wolf, Little Richard, Earl Palmer, a
certi dischi country che suonavano davvero bene perché avevano delle
ottime sezioni ritmiche. Bob è un uomo che ha contribuito a creare il
vero swing del rock and roll. L'ha ereditato in qualche modo attraverso
lo spirito, attraverso il vento, attraverso qualcosa nella sua linea di
sangue, cercando semplicemente di essere il migliore. Ha ereditato lo
swing di Charley Patton, Robert Johnson, Tom Johnson, Memphis Minnie,
Howlin' Wolf, Elvis Presley, Buddy Holly, Earl Palmer, Little Richard.
Lo conosceva. Lui era quello. Suonare con lui alla chitarra ritmica era
come dire: "Bene, questo è ciò che abbiamo sempre cercato di fare".
Eravamo lì, però non sapevamo che ci fosse un altro posto dove andare.
Lui ci ha portato in quell' altro posto. Quella consapevolezza non mi ha
più lasciato, perché ne ero assetato. Non sapevo dove fosse l'oasi nel
deserto, ed eccola lì, acqua da bere. Acqua fresca e limpida, ciò di cui
avevo bisogno per la mia anima.
Gli Heartbreakers sono sempre stati in grado di suonare a braccio. Se
Tom [Petty] diceva suoniamo "I Fought the Law", noi la facevamo, non
avevamo bisogno di provarla, l'avevamo sentita un milione di volte alla
radio. Uscivamo e suonavamo. Penso che probabilmente a Bob sia piaciuto
questo di noi. Non è stato molto difficile insegnarci una canzone – e a
volte non ce l’insegnava nemmeno. Iniziava a suonarla.
Non importava se c'erano 20 o 60 o 70mila persone a guardare. In un
certo senso, se conosci a fondo la canzone ma non l'hai mai suonata, sei
nella condizione migliore per farla. Non avevo mai fatto una cover di
"Desolation Row" con una band. Non l'avevo mai suonata in vita mia, ma
l'avevo ascoltata un milione di volte. A un festival iniziò proprio a
suonarne gli accordi. Nel giro di quattro battute, pensai: "Buon Dio,
stiamo suonando ‘Desolation Row’!" Ed eravamo sul palco ed è stato
bellissimo.
Una sera a Filadelfia disse: "Possiamo suonare "I Dreamed I Saw St.
Augustine'?" Sono sicuro che non l'avessimo mai provata, al massimo
potremmo averla accennata in camerino. Quella è una delle canzoni che mi
hanno portato in profondità nella sua musica. Quando uscì “John Wesley
Harding” sentii qualcuno che lo suonava dalla finestra di un dormitorio,
andai direttamente al negozio e mi persi in quel disco. Così suonammo “I
Dreamed I Saw St. Augustine”. Più avanti, stessa cosa con "Lonesome
Death of Hattie Carroll" e con "Tomorrow Is a Long Time". Lui ed io
stavamo camminando uno accanto all'altro mentre la band saliva sul
palco. Per chiacchierare, gli chiesi: "Cosa vuoi fare come canzone
lenta?" E lui: "Conosci "Tomorrow Is a Long Time’?” Risposi di sì e lui
disse: "Facciamola, solo io e te e forse Mike". Quando arrivò il
momento, iniziò a suonare "Tomorrow Is a Long Time" solo con me e Mike
[Campbell, chitarrista]. Fu a Göteborg, in Svezia, c’erano 20.000
persone. Non l’avevamo mai suonata con lui prima, né tra di noi. Fu
trascendente, fu trascendente.
RP: Qual era il ruolo di Tom [Petty]? Erano co-bandleader? Oppure Bob
era il leader e Tom solo un altro membro della band di accompagnamento?
Come funzionava la dinamica tra loro due?
BT: Beh, per me gli Heartbreakers non si sono mai sentiti solo un gruppo
di accompagnamento. Con Tom abbiamo lavorato come una band in cui lui
era il nostro chitarrista e cantante. [Dopo che i Mudcrutch, la sua
prima band, si sciolsero] stava lavorando a un disco da solista con
gente come Jim Keltner, Al Kooper e Jim Gordon. Leggende. Ma decise di
lasciar perdere quel disco per tornare al formato band con il gruppo di
Gainesville, cioè noi.
La mia opinione sul suo ruolo era che lui era ancora il leader degli
Heartbreakers, ma era anche una specie di collegamento. Bob diceva:
"Voglio suonare questa canzone", "Voglio usare questo finale", "Così è
sbagliato, gli accordi sono questi". E noi ci rimettevamo a lui, ma non
avremmo mai detto "Accidenti, è fantastico" se non avessimo pensato che
lo era davvero. E lui non ci avrebbe mai detto "Accidenti, è fantastico"
se non l’avesse realmente pensato. Poteva essere severo quando voleva,
ma alla fine ce l'abbiamo fatta.
Non per fare confronti o discutere la qualità, ma The Band erano già
Levon & the Hawks. Erano un gruppo quando Bob iniziò a suonare con loro.
Fu la stessa cosa. Prendere una band già pronta, essenzialmente fratelli
di sangue. È stato semplicemente meraviglioso. Avevamo tutti fatto
qualcosa per “Empire Burlesque”, ma per essere davvero così ci voleva
l'intera band, incluso Tom, tutti insieme, a suonare quelle canzoni.
Amico, è stato stupendo!
Gli Heartbreakers hanno sempre avuto grandi canzoni perché avevamo Tom,
ma mettici Bob e hai un altro livello. È stato bellissimo. Il ruolo di
Tom era chitarra ritmica e armonie voci. Penso che fosse davvero felice.
Felice di essere il ragazzo che suona la chitarra ritmica, quindi senza
più bisogno di discutere ogni cosa. Tom non doveva contare su di noi,
non doveva darci indicazioni. Guardavamo tutti Bob come falchi, come
avevamo sempre guardato Tom, ed eravamo giusto in contatto con lui. È
stato magnifico, sì magnifico.
RP: Cosa ricordi dei primi giorni del tour in Australia e Nuova
Zelanda? Ricordi qualcosa dei primi due spettacoli?
BT: Credo che il primo concerto sia stato a un festival in Nuova
Zelanda. Arrivammo lì circa una settimana prima per fare un pò di prove,
acclimatarci al tempo, e ci fermammo a Wellington. In Nuova Zelanda, se
ben ricordo, non andò bene. Almeno per noi sul palco. Molte cose erano
un mezzo disastro. Situazioni tipo “Ah, non sapevo fosse in questa
chiave...” Allora partivamo con la nuova chiave e Bob si rendeva conto
che non voleva essere in quella chiave, quindi tornava alla chiave
originale. Era piuttosto traballante. Non so cosa ne pensasse il
pubblico.
Dopo un paio di date in Nuova Zelanda, volammo in Australia. Lì siamo
stati davvero bene. Da quel momento in poi, penso che quel tour in
Australia e Giappone sia stato in gran parte veramente buono. Era
davvero uno spettacolo rock and roll, quindi ci furono momenti incerti,
ma, buon Dio, chi vuole la perfezione? È molto più divertente volare
senza rete, quando fai un errore e dici "Uh, come farò a tirarmi fuori
da tutto questo?" Poi ne vieni fuori, atterri in piedi e potresti
persino aver migliorato le cose.
Quando [l’esecuzione] veniva un pò grezza, non era una cosa tipo “così
non va proprio bene”. Era grezza come il rock and roll dovrebbe essere.
Non stonata, non sbagliata, ma viva, qualcosa che respira, cambia e
vive.
RP: Una cosa che colpisce guardando i video e ascoltando le
registrazioni è che sembra che tutti, incluso Bob, si stiano divertendo.
Dylan, anche quando si diverte, di solito non sorride da orecchio a
orecchio come sembrava fare quando suonava con voi.
BT: Mi sembra che ci stessimo tutti divertendo davvero. Io ero
estasiato. Se vedi il film realizzato da Gillian Armstrong [“Hard to
Handle”], ti rendi conto che non sto nella pelle. Ballo dietro l'organo,
salto su e giù perché sono davvero elettrizzato.
Alla fine, non credo che Bob fosse molto felice. Non credo sia stata
colpa nostra, ma penso solo che non fosse molto felice. In “Chronicles”
puoi leggere la sua opinione su tutto questo. Ma l'inizio fu
meraviglioso e per tutto il tempo ci furono parti semplicemente
fantastiche. C'erano sempre concerti o parti di concerti eccezionali.
Sempre.
In Australia, la prima notte effettuammo il check-in in hotel e chi
stava facendo il check-in alla stessa ora? Lauren Bacall. Così più tardi
scendemmo tutti al bar, o alla caffetteria, o qualunque cosa fosse. Lei
era laggiù. Bob ci aveva fatto imparare alcuni standard. Diceva
“Impariamo ‘Lucky Old Sun’, impariamo questo, impariamo quello…” Ci
aveva fatto imparare un vecchio standard, "All My Tomorrows". Non capivo
quel tipo di accordi, ma ci arrivammo. Lui ed io sedemmo al pianoforte e
la suonammo per Lauren Bacall. E lui la cantò. Che bel momento! Lauren
Bacall e Bob Dylan. Semplicemente bellissimo, un ricordo ancora vivo di
quel tour. Accaddero cose del genere.
Sfortunatamente ero al culmine, o quasi, del mio uso di cocaina, quindi
ero in uno stato mentale alterato. Ma penso di aver suonato bene. So che
la band suonò bene e non credo fossi l'unica persona che assumeva
cocaina in quel tour. Bob non l’ho mai visto fare nient'altro che bere
un bicchierino di whisky e fumare una sigaretta. Io ero decisamente
trasgressivo, non molto responsabile di me, ma non credo abbia influito
sui concerti.
Fu una bellissima performance quella di Sydney ripresa nel film. Ma c'è
molto, molto di più. Credo che Bob abbia messo mano al montaggio e sono
sempre stato curioso di conoscere il montaggio originale della regista,
e se Bob lo pubblicherà mai in qualche modo.
A quel punto non stava ancora decostruendo le canzoni, erano versioni
molto simili ai dischi. Canzoni che avevamo ascoltato per tutta la vita
e che ci piacevano com'erano. Diceva “questa canzone” e iniziavamo a
suonarla, oppure lui iniziava a suonare e noi lo seguivamo. Conoscevamo
i lick di apertura di "Just Like a Woman" e di tutte queste cose, quindi
ci veniva naturale.
In seguito, ha trovato la sua strada nel cambiare le melodie o nel
cambiare completamente la struttura degli accordi. Nel film “Masked and
Anonymous” c’è una scena in cui stanno pensando di convincere Jack
Frost, il personaggio interpretato da Bob, a partecipare a una sorta di
Telethon e uno dei presidenti del board dice: "Jack Frost! Nessuno più è
in grado di dire quale canzone stia cantando." Garantisco che quella
battuta l’ha scritta Bob. Ma quello è venuto dopo.
Noi le suonammo nel modo in cui le sentivamo e nel modo in cui le
avevamo sempre sentite. Ma non eravamo una cover band. Era tutto tranne
che una cover band. Non era karaoke. Come ho detto, era qualcosa di
vivo, era bello.
RP: Nel film [“Hard to Handle”] ti si vede suonare la parte d'organo
di Al Kooper in "Like a Rolling Stone". Mi chiedo se sia stato eccitante
eseguire una parte così iconica. Tu hai un sacco di canzoni iconiche con
Tom Petty, ma hai contribuito a crearle; forse è diverso con una canzone
che ti ha preceduto.
BT: È diverso, sì. È una canzone che sento da quando avevo 12 o 13 anni.
Il nostro primo tour è stato come opening per Al Kooper. Al era stato a
lungo un mio eroe.
RP: Veramente? Il primo tour degli Heartbreakers?
BT: Sì. Nel disco solista che Tom aveva abbandonato c’era Al Kooper. Al
in realtà era il musicista leader delle sessioni. Conoscevo Al, perciò è
stato doppiamente dolce interpretare la sua parte d'organo. Penso che mi
si veda saltare felice in quel brano.
RP: Ti è piaciuto suonare i vecchi standard? Le canzoni rock 'n roll
dei primi anni '50? Gli spettacoli si aprivano con "Justine" e ci sei tu
all'organo che fai questo divertente riff. Ci sono un sacco di canzoni
del genere nei set.
BT: "Justine"? Penso di essere al piano e che sia Bob all'organo. Aveva
una tastiera DX7 con sound program. Uscivamo noi e trascinavano davanti
al palco la tastiera che Bob suonava e facevamo "Justine". Non la
conoscevo, come non conoscevo "Red Cadillac and a Black Moustache” e
canzoni del genere. Non so se le trasmettevano alla radio di Gainesville
e comunque al culmine del primo rock 'n roll io avevo tre o quattro
anni. Non conoscevo quelle canzoni. Quale modo migliore per impararle se
non da Bob?
RP: Hai qualche ricordo del periodo in cui siete stati in tour con i
Grateful Dead nell'86? Penso che abbiate fatto solo alcuni spettacoli,
Dylan con gli Heartbreakers e i Dead.
BT: Dividevamo il cartellone. A volte aprivamo noi, a volte loro.
Suonammo negli stadi. Non era come uscire dai camerini, fare un paio di
gradini ed essere ai lati del palco, perciò non era così facile uscire
ad ascoltarli. Ero un grande fan dei Grateful Dead, quindi ero un pò in
soggezione. Salutai e parlai con Bob Weir perché avevamo un amico in
comune, ma non credo di aver parlato con nessun altro.
Quegli spettacoli erano troppo grandi per me. Troppo grandi per capirli
o concentrarmi. Era tutto un pò strano.
C'è un filmato su di noi mentre suoniamo in uno di quei concerti,
l’hanno inserito in una trasmissione del Farm Aid. Sembra che siamo in
uno stadio vuoto o qualcosa del genere. Ma non era affatto vuoto. È solo
il modo in cui è stato girato, sembra che stiamo suonando in un limbo.
Ray Padgett: Hai citato “Chronicles”. Una
delle cose che Bob ha scritto lì è che tu gli chiedevi specificamente di
fare canzoni meno conosciute. Mi sembra che dica che inventava deboli
scuse per non farle, almeno all'inizio. Furono le tue insistenze ad
accendergli la lampadina?
Benmont Tench: Beh, sono sempre fastidioso. Dicevo le stesse cose anche
a Tom [Petty]: "C'è questa bellissima canzone nel secondo disco, è
fantastica Tommy, facciamola". Di solito Tom non la faceva, perché
voleva che le persone ascoltassero le canzoni per cui secondo lui erano
venute al concerto. Con Bob probabilmente stavo diventando irritante, ma
da quello che ha scritto in “Chronicles”, in retrospettiva avrà pensato
che allora avessi ragione. Ciò non significa che non lui pensi anche che
io sia stato irritante.
Suonava cose misconosciute, brani da “Saved” e qualcosa da “Shot of
Love”. Poi nel suo set da solista tornava al passato con cose tipo "To
Ramona" e grandi canzoni acustiche come "Masters of War" o, buon Dio!,
"Gates of Eden". Fece interpretazioni mozzafiato di "Girl from the North
Country".
Per quanto riguarda l'approfondimento del suo repertorio, non so se nel
tour australiano lo abbia fatto, ma nel nostro ultimo tour, il tour
europeo [del 1987], è stato quando ha detto facciamo "Tomorrow Is a Long
Time", facciamo “Hattie Carroll”. Quel genere di cose.
RP: Certo, l'ultimo tour, quello dell'87. Mi sembra abbia scritto di
essere stato un po' più aperto ai tuoi suggerimenti.
BT: Sai, cercavo di non stargli troppo addosso, credevo di non essere
all’altezza della situazione, di non essere in grado di capire e
apprezzare quello che succedeva attorno. Non che lo evitassi, ma nemmeno
andavo continuamene a chiedergli: "Ehi Bob, come stai? Hai dormito
bene?" Fondamentalmente lo consideravo come il tipo che guidava l'intera
faccenda e le cui canzoni stavamo suonando.
Con me è sempre stato fantastico. Non ho conosciuto nessun lato di Bob
che non fosse quello gentile, a meno che non fosse frustrato nel cercare
di ottenere un certo suono che io non capivo. In studio capitava che mi
cacciasse dal piano, lo suonava lui e mi diceva di tornare all'organo.
Nessuno suona il piano come lui! Io di sicuro non riesco.
RP: Ora è diventato il suo strumento principale, specialmente dal
vivo. Da vent’anni ormai.
BT: Ha iniziato come pianista.
RP: Vero.
BT: Una volta, in studio per “Empire Burlesque”, stavamo imparando "I'll
Remember You". Me la stava mostrando al piano, ma non riuscivo a
cogliere le parti cantate e il feeling di quello che stava facendo
esattamente. Non è mai stato il mio forte. Alla fine dissi: "Bob, perché
su questa non suoni tu il piano?" Per un minuto insistette: "No, puoi
farcela", poi si rese conto che avrebbe dovuto suonarla lui. Dovrebbe
sempre suonare il piano se la canzone la scrive al piano, perché è un
pianista molto interessante.
RP: Un'altra domanda su “Chronicles”. Sono sicuro che ti ricordi la
parte riguardante il concerto di Locarno del 1987: racconta che si
avvicinò al microfono e le parole non gli uscivano, finché trovò un
altro modo di cantare. Ne parla come di un momento cruciale, che lo fece
uscire da un vicolo cieco. Fu qualcosa di evidente in quel momento?
BT: La prima volta che ne ho sentito parlare è stato quando lui lo ha
scritto. Locarno, per me, non fu un'esperienza felice. Era all'aperto,
piovigginava. C'era stata una specie di scaramuccia o di litigio tra la
band. Cioè, non arrivammo alle mani, ma ci fu una sensazione di
malessere tra noi prima che iniziassimo. Mi era pure venuta l'orticaria
sulle mani. Fu un concerto infelice per me. Le circostanze, la pioggia,
le mani che mi prudevano continuamente mentre cercavo di suonare il
piano, il fatto che nel backstage c'era stato con la band quello
screzio, o qualunque cosa fosse. Non sapevo che dire.
Fin dalle prove per quel tour europeo, [Dylan] non sembrava felice. Ad
esempio, diceva: "Impareremo "Frankie Lee & Judas Priest". E io pensavo:
"Fantastico!" Ma il modo in cui l’abbiamo imparata è stato con lui
seduto a suonare la chitarra ritmica, senza cantarla. Suonò il giro di
accordi, che è sempre lo stesso per tutto il brano, molto più a lungo di
quanto duri la canzone.
Mi colpì che non fosse felice. Mi colpì che non sarebbe stato un buon
tour. Chiesi persino al nostro manager: "Puoi farmi uscire?" Mi disse:
"Non essere ridicolo, Ben. Si inizia tra un paio di giorni". A quel
punto ero anche parecchio incasinato con droghe e alcol, e questo ha
influenzato.
Quel tour sembrò iniziare alla grande. Come ho detto, ero io un
disastro. Gli Heartbreakers avevano un impegno di pubbliche relazioni al
Cairo per MTV Europe. Bob c'era, ma non suonò. Poi suonammo a Tel Aviv,
a Gerusalemme, in Svizzera. Attraversammo l'Italia, dove gli
Heartbreakers non avevano mai suonato e io non ero mai stato, e ci
furono dei grandi concerti. Concerti davvero fantastici, ma non furono
la maggioranza. In retrospettiva la ricordo così. Penso alla Svezia e
rivedo lui che mi dice: "Suoniamo "Tomorrow Is a Long Time", "Lonesome
Death of Hattie Carroll", solo tu, io e Mike".
In tour con noi c’era Roger McGuinn. Apriva gli spettacoli con un set da
solista, poi entravamo noi Heartbreakers e ci univamo a lui per un paio
di canzoni. McGuinn era fantastico, un ragazzo davvero meraviglioso con
cui viaggiare. Avevamo iniziato la nostra carriera facendo da spalla per
lui. Per Al Kooper e per Roger McGuinn. Loro furono i primi due artisti
per cui abbiamo aperto, e rimangono entrambi nostri eroi. Ora, avevamo
pure McGuinn in tour, e McGuinn ha fatto la storia con Bob, e noi
avevamo un amore smisurato per McGuinn e i Byrds: quindi non posso
guardare indietro e dire "Che tour orribile!”
In “Chronicles” [Dylan] ha scritto che non riusciva a capire, ma che
alla fine del tour, a Locarno, ha decifrato il codice. Il che è
meraviglioso. Ho letto commenti di persone che hanno visto alcuni di
quei concerti e hanno pensato che fossimo terribili, e altri commenti di
persone che invece hanno pensato che fossimo meravigliosi. Un po' come i
commenti che si sentono da chi va ai concerti di Bob adesso. Io penso
che lui stia suonando alla grande.
RP: Il clamoroso finale dell’intera vicenda fu a Wembley. Quattro
sere con George Harrison, Ron Wood e ospiti vari. Si parlò di un
seguito? Oppure si sapeva che quello era il gran finale?
BT: In quel momento non pensavo che fosse un gran finale. Non mi fu
detto "Non lo faremo mai più". Ho sempre vissuto qualsiasi cosa giorno
per giorno. Sarebbe come dire, "gli Heartbreakers torneranno in tour o
si scioglieranno?” o “Bob ci chiamerà di nuovo per un tour?” Accidenti,
lo spero, ma spero che sia un tour più felice.
Wembley è dove… non sto cercando di farne una questione personale, ma ti
dico la mia prospettiva. In quel tour mi stavo drogando poco e bevevo
poco. Prendevo i miei sonniferi solo di notte, anche se ne prendevo dose
doppia, e penso di aver assunto un po’ di cocaina tre volte in tutto nel
corso delle sette settimane. Poi negli ultimi tre spettacoli sono
ricaduto nell'abuso di droghe. Ho ricominciato a bere dopo che avevo
smesso per sette settimane, e ho bevuto molto, tanto da avere un
collasso nervoso a Londra. Quando arrivò quell'uragano che sradicò un
albero gigante vicino all'hotel in cui ci trovavamo, e i Wilburys si
stavano formando e stavano succedendo tutte quelle cose, io avevo un
collasso nervoso.
Furono comunque bei concerti. Voglio dire, non stavo collassando sul
palco. Arrivarono George Harrison e Jeff Lynne. George aveva parlato di
qualcosa, pensavo avesse detto che voleva formare una band chiamata The
Trembling Wheelbarrows [Le Carriole Traballanti]. Invece aveva detto
Traveling Wilburys. Era un'idea che aveva in testa, non credo l'avesse
lanciata prima. C'è una fotografia con una torta, penso fosse il
compleanno di Tom [Petty]: Tom, Bob, Jeff, George, McGuinn, Campbell ed
io. Folle, vero?
RP: Sì, quattro su cinque dei futuri Wilburys già lì insieme.
BT: In definitiva, mi sono piaciuti quegli spettacoli. Appena sceso dal
palco, ero un relitto. Tornai a casa, toccai il fondo e mi ripulii.
Avrei voluto continuare a lavorare con Bob. Dopo che si erano conclusi i
tour con i Dead e gli Heartbreakers, Elliot Roberts mi chiamò e mi
chiese di fare un nuovo tour con lui. Ero appena tornato sobrio. Ero
sobrio da 90 giorni e non mi fidavo di me stesso, non abbastanza per
andare in tour e stare da solo in una stanza d'albergo. E così
rinunciai.
RP: Quel tour sarebbe stato il primo Never Ending Tour, del 1988 e
'89?
BT: Esattamente. Avrei dovuto suonare con lui in quei tour. Bob Dylan ha
un dono straordinario per la narrazione, per la scrittura di canzoni,
per non fermarsi mai artisticamente. Non ripete lo stesso suono, non
ripete lo stesso stile. Se ascolti con attenzione l'ultimo disco, Bob è
la “cosa vera”. È la “cosa vera” in assoluto. "Goodbye Jimmy Reed" è a
tutti gli effetti Jimmy Reed! Per non parlare di "Murder Most Foul" o
"Key West" o "Crossing the Rubicon".
RP: Hai suonato su "Goodbye Jimmy Reed"? Non saprei dire se c’è un
organo su quel brano.
BT: No, non su "Jimmy Reed". Ho suonato in "Key West (Philosopher
Pirate)" e "Murder Most Foul", l'organo su entrambi i brani.
RP: Sono anche canzoni molto lunghe.
BT: Sì, due bellissime canzoni. È stato meraviglioso vedere Bob.
Meraviglioso vedere i ragazzi della band. Li conoscevo tutti. Non c’era
più George Receli alla batteria, ma conoscevo anche Matt Chamberlain.
Conosco Charlie Sexton da anni, Tony Garnier, Bob [Britt] e tutti gli
altri da molto tempo. Anche Blake Mills stava lavorando con lui, e Blake
è davvero un mio caro amico, un musicista brillante.
Quando sono arrivato per la prima volta, mi sono seduto fuori dalla sala
di controllo e ho mangiato un boccone perché stavano registrando e lì
dentro non volevano nessuno che non stesse lavorando. Quando sono
entrato mi hanno fatto ascoltare alcune cose registrate, potrebbe essere
stata "Crossing the Rubicon". Mi sembra che Bob abbia detto: "Fate
sentire a Benmont quell'altra canzone. Non fategliela sentire tutta
perché è davvero lunga". Era "Murder Most Foul". È stato stupendo,
davvero stupendo, e me l’hanno fatta ascoltare per intero.
Quel giorno ho suonato su "Key West" e basta. Cercavo una sorta di
effetto ambiente, ma non avevo la mia attrezzatura. Così ho chiesto a
Chris [Shaw], l'ingegnere del suono, di provare a simularlo. Pensi che
sia il riverbero dell’ambiente, ma in realtà è l'Hammond.
Poche settimane o un mese dopo, ho ricevuto un'altra chiamata per
tornare là. Io avevo ascoltato una versione da urlo di "Murder Most
Foul"; successivamente avevano inserito Fiona Apple al piano. [Dylan]
voleva ora che Alan Pasqua aggiungesse qualcos’altro al piano e io
suonassi l’organo.
Quindi tornai là a fare quella canzone: non una sovraincisione di
tastiere, ma Bob, io, Blake [Mills] e Alan [Pasqua]. In qualche modo
abbiamo suonato sul take precedente della canzone. Fu una specie di
alchimia. Suonavamo e osservavamo come falchi Bob per sapere come
muoverci.
RP: Intendi dire che la registrazione precedente stava suonando
assieme a voi? Oppure eravate solo tu, Alan, Blake e Bob?
BT: No, non abbiamo fatto un semplice take di solo noi tre e Bob. Era
un’alchimia, perché stavamo suonando insieme a qualcos’altro. Blake non
avrebbe potuto emettere tutto quel suono sull'armonium. E quello che sta
sul risultato finale sono la band di Bob, Fiona e noi. Fu stupendo. Che
bella cosa lavorare di nuovo con lui, essere così rilassato e avere la
possibilità di dire dopo tanto tempo: "Okay, farò del mio meglio su una
canzone per Bob".
Puoi leggere della vita di Bob o prestare attenzione a ciò che dice, e
impari comunque qualcosa. Ma quando suoni musica con qualcuno di quel
calibro, impari qualcosa di completamente diverso. Qualcosa che può
essere trasmesso solo da quella persona. E quelli di noi che hanno avuto
l'opportunità di suonare con lui, possono trasmettere ciò che si sono
portati via, anche se è solo una piccola parte di quella esperienza. Che
possa vivere a lungo, perché lui è qualcosa di diverso.
RP: Una domanda prima di lasciarti andare. Anche tu eri nella canzone
"Cross the Green Mountain"?
BT: Sì, ero in quella sessione, certamente. 2002 o 2004 o giù di lì. Non
la sento da così tanto tempo. Dove l’hai trovata? Nella colonna sonora?
Su YouTube?
RP: Era nella colonna sonora del film “Gods and Generals”. Non l'ha
mai pubblicata su un album.
BT: Quello fu uno di momenti dove è stato fondamentale che ce la
spiegasse al piano. Iniziai a suonare, poi penso di aver detto: "Perché
non suoni tu il piano?" ci volle un po’ di tempo per arrivarci, ma ci
arrivammo. Ho bisogno di ascoltarla di nuovo perché ricordo che allora
pensai che fosse una gran canzone. Bob sa molto di quella guerra [la
Guerra civile americana]. Sa molto di molto.
Ricordo che durante le prove per il “Temple in Flames Tour” dell'87,
quella volta che ripetette all’infinito gli accordi di "Frankie Lee and
Judas Priest", suonò anche una cosa molto bella, da solo in un angolo.
Mi chiesi: "E questa cos’è?" Era come una delle “Child Ballads” o
qualcosa del 18° o 19° secolo.
Possiedo l'”Anthology of American Music”, o come diavolo si intitola, di
Harry Smith. Ma quello che stava suonando, lì non c’è. Tutti quelli
della sua generazione e della sua stessa scena avevano quel disco e
impararono le canzoni da lì, ma lui non le ha fatte così. È andato da
qualche altra parte. Nei suoi due dischi “Good As I Been to You” e
“World Gone Wrong” ci sono canzoni che arrivano da quella raccolta, ma
non sono nel modo in cui le fa Bob. Lui le davvero ha portate da qualche
altra parte. Quel ragazzo, oh mio Dio! So che sto divagando, ma potrei
divagare all’infinito su di lui.
RP: Quasi mi uccide il pensiero che non abbiano pubblicato un vero e
proprio disco dal vivo, specialmente di quel tour dell'86. Ha pubblicato
un album dal tour dell'84 e poi uno dal tour con i Grateful Dead che non
piace a nessuno. Probabilmente sono solo logiche di mercato, ma è un
peccato che non ci sia un disco ufficiale.
BT: È stato registrato, per il film “Hard to Handle”. Ed è stato davvero
ben registrato. Furono buone esecuzioni, come puoi vedere dal film. Non
lo so, forse non l'ha mai pubblicato perché gli arrangiamenti suonavano
troppo familiari. Forse pensa: "Non voglio suonare come uno show
nostalgico. Non voglio suonare come se stessi facendo una cover della
mia stessa canzone". Noi non eravamo pedissequi, ma se suono "Like a
Rolling Stone", suonerò sempre quel riff di organo! Non so perché non
sia mai uscito, ma forse un giorno lo pubblicherà.
Ho passato gran bei momenti, ho imparato molto. Bob ha suonato con tante
persone e suppongo che per tutti loro abbia avuto lo stesso significato
che ha avuto per noi. È stata una gioia. È stata una gioia anche per
“Rough & Rowdy Ways”. Ogni volta che sei con lui, succede qualcosa.
Grazie a Benmont per il tempo dedicato a questa chiacchierata!
Qualche anno fa è uscito suo primo album da solista, “You Should Be So
Lucky”, e contiene una cover di "Duquesne Whistle" di Dylan.
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Un’intervista con Colin Allen, batterista
di Bob Dylan nel 1984
di Ray Padgett
(8 luglio 2020)
Fonte:
https://dylanlive.substack.com/p/an-interview-with-bob-dylans-1984
Traduzione di
Silvano Cattaneo
Oggi [8 luglio 2020] ricorre il 36°
anniversario del concerto conclusivo del tour 1984 di Bob Dylan. Non
posso quindi fare a meno di pubblicare questa intervista con Colin
Allen, batterista di quel tour.
Prima di Bob, Colin Allen aveva avuto una brillante carriera come
batterista blues suonando con John Mayall e i suoi Bluesbreakers, Focus
e Andy Summers prima dei Police. Oltre al lavoro con le sue band, ha
scritto canzoni per i Wings di Paul McCartney, Fleetwood Mac e altri. Ha
lavorato molto con Mick Taylor, sia prima che dopo il periodo di Mick
con i Rolling Stones.
Un paio di anni fa ha pubblicato il suo libro di memorie, “From
Bournemouth to Beverly Hills: Tales of a Tub-Thumper”. C’è anche una
bella ed esauriente biografia sul sito Bournemouth Beat Boom.
Ecco la mia conversazione con Colin Allen, condotta via e-mail il mese
scorso.
(La band 1984. Da sinistra: Bob Dylan,
Colin Allen, Greg Sutton, Ian McLagan, Mick Taylor.)
Ray Padgett: Come entrasti nella band
di Dylan? Fu Mick Taylor il collegamento?
Colin Allen: Sì, esattamente. In genere nel mondo della musica conta chi
conosci, non quello che conosci, purché tu sia considerato
sufficientemente bravo da reggere un concerto. Da quando suonammo
insieme con John Mayall nel '68/'69, Mick e io non ci siamo mai persi di
vista e di tanto in tanto mi sono trovato coinvolto in vari progetti con
lui.
Nell'82 vivevo a Los Angeles, il che mi aveva portato quell'anno e
l’anno dopo a suonare di nuovo con Mick e John Mayall in una reunion dei
Bluesbreakers [*nota 1]. Quando programmarono il tour europeo di Dylan,
io ero a Los Angeles e ancora fresco nella memoria di Mick: così lui mi
chiamò per dirmi che Bob stava selezionando i batteristi e se mi
interessava provare. Mi presentai e ottenni il lavoro, soprattutto,
penso, perché avevo Mick dalla mia parte.
RP: Eri un fan di Bob? Quando proponeva brani relativamente oscuri
come "When You Gonna Wake Up", li conoscevi?
CA: Fan è una parola un pò forte, non sono mai stato un fan della musica
legata alla scena folk americana, fatta eccezione per Joni Mitchell e
Tim Hardin. Ma naturalmente conoscevo Bob. Non puoi sfuggire alle sue
canzoni. Era sempre alla radio e sui giornali per un motivo o per un
altro. Il tour doveva promuovere l'album “Infidels” e fortunatamente il
mio coinquilino ne aveva una copia, quindi l'avevo ascoltato. Ovviamente
conoscevo anche i suoi pezzi più famosi e quello che non conoscevo
poteva essere imparato velocemente, le sue canzoni non sono molto
complicate. Per aiutarci, diede a ogni membro della band quattro
cassette piene di suoi brani.
RP: Poco prima, Bob si era esibito al Dave Letterman Show
accompagnato da un trio punk di Los Angeles, The Plugz. [*nota 2]
Immagino che alcune persone si chiedessero se sarebbe andato in tournée
con loro. Conoscevi quella performance? Se ne parlò?
CA: Sì, sapevo di quella cosa al Letterman e dopo la vidi. Solo Bob sa
cosa c’entrasse.
Non se ne parlò, anche se al mio primo giorno di prove con Bob c’era
Tony Marsico a suonare il basso. Non ci scambiammo una parola - immagino
che volesse alla batteria il suo compagno dei Plugz, Charlie Quintana
[*nota 3]. In precedenza [Marsico] aveva provato con il mio amico Ian
Wallace, che era già stato in tournée con Bob [nel tour mondiale 1978].
Il mio secondo giorno a casa di Bob, [il bassista] Greg Sutton era lì e
ci siamo subito piaciuti. Come me, aveva familiarità con l'album
“Infidels”, quindi tutte le canzoni che suonammo di quell'album erano in
qualche modo come il disco. E questa potrebbe essere stata la ragione
per cui dissero a entrambi che il tour era nostro.
RP: Quando hai saputo che il lavoro era tuo? Te lo disse Bob?
CA: Lo scoprii il secondo giorno, quando incontrai Greg [Sutton]. Ad un
certo punto Mick [Taylor] scomparve in un'altra stanza con Bob. Quando
tornarono, Mick si avvicinò a me, si chinò e mi sussurrò: "Hai il
lavoro". Questo è tutto. Anche a Greg fu detto lo stesso giorno, da chi
non ho idea.
RP: Puoi dirmi di più su come andarono le audizioni? Sto cercando di
immaginare com'erano, chi c'era, dove, quanto tempo c’è voluto,
eccetera.
CA: Per incontrare Bob, come prima cosa guidai lungo l'autostrada
costiera del Pacifico, direzione nord, fino alla sua polverosa
abitazione simile a un ranch, a Point Dume, circa due miglia e mezzo
dopo Malibu. Immagino mi ci volle un'ora dal mio appartamento. Mick
Taylor mi salutò appena scesi dalla macchina e mi portò in casa. Salutai
e strinsi la mano a Bob, e iniziai a sistemare la mia batteria con il
resto dell'attrezzatura nell'area della cucina. A Bob non fu detto molto
di più. Salutai il bassista e questo è tutto. Per lo più scambiai
commenti con Mick che non vedevo da un pò.
Tra una canzone e l’altra penso di aver trascorso circa quattro ore in
compagnia del grande uomo. Non ricordo che ci fossero altri lì, anche se
in casa poteva esserci qualcuno. Alla fine mi chiesero di presentarmi il
giorno dopo. Dissi ok e me ne andai.
Le prove a casa di Bob continuarono per altri tre giorni, principalmente
per trovare un tastierista. Vennero Benmont Tench e Nicky Hopkins, ma
per motivi personali non poterono accettare. Alla fine arrivò Ian
McLagan e fu perfetto - un altro vecchio amico nella band!
Una volta entrato Ian, la fase successiva delle prove si spostò al
Beverly Hills Theatre. Era sempre la stessa procedura: Bob iniziava le
canzoni strimpellando e noi lo seguivamo. A volte poteva essere una
canzone dei Rolling Stones, giusto per divertirci. Una volta iniziò a
cantare "Karma Chameleon" di Boy George.
Fondamentalmente, direi che Bob stesse facendo un elenco mentale di
tutte le canzoni che portavano un soddisfacente livello di buone
sensazioni, senza alcun approccio del tipo "Tu suona questa e io suonerò
quella" - non c'è mai stato niente di tutto ciò. Alla fine immagino che
pensasse di avere una scaletta.
A parte un paio di brani abbandonati all'inizio del tour, le cose
rimasero più o meno le stesse, anche se c'era sempre la possibilità che
lui volesse suonare qualcosa che aveva in testa. Verso la fine del tour
suonammo un paio di volte "Knocking on Heaven's Door", e non l’avevamo
mai provata. "Señor" è stata un'altra canzone che entrò in setlist verso
la fine. Suonammo anche “Lay Lady Lay", una sola volta in Spagna,
proprio davanti a migliaia di persone. Durante i bis, poi, poteva
succedere di tutto e spesso accadeva.
RP: Come approcciavi le parti di batteria? In molti casi gli
arrangiamenti erano assai diversi dalle registrazioni in studio.
CA: Non ho dato molti pensieri alle parti di batteria, a meno che non
fossero cose particolari. Per lo più ascoltavo quello che veniva suonato
e mi univo - se suonava bene, allora quella era la parte di batteria,
tranne ravvivarla un pò man mano che mi abituavo alla canzone. C'erano
alcuni brani in cui io battevo il tempo, ma per il resto iniziava Bob
con la sua chitarra. La band si sarebbe poi unita suonando i lick
introduttivi dei rispettivi strumenti, se previsti.
Anche se stavo battendo il tempo sul charleston, aspettavo sempre il
primo verso della canzone, così che il mio controtempo sul rullante
fosse nel posto giusto in relazione alla melodia. Artisti come Bob, che
hanno suonato per molto tempo da soli, a volte possono ritardare
l’entrata e iniziare a cantare senza pensare a dove si trovano nella
battuta; il che significa che il povero vecchio batterista deve
arrangiarsi e provare un ritmo diverso. Ma ero determinato a non farlo
succedere, e così è stato.
RP: Bob ti sembrava a suo agio? Erano anni che non faceva un tour con
una band così piccola.
CA: Nessuno di noi ebbe mai un atteggiamento che non fosse totalmente
positivo.
Persino all’inizio, quando succedeva di tutto, con i giornalisti che
dicevano quanto fossero pessimi gli spettacoli, eccetera eccetera.
Quegli scribacchini non avevano idea che stavamo facendo aggiustamenti
sul palco mentre ci esibivamo, rischiando, in tempo reale. Dopo circa
una settimana le cose andarono a posto, come previsto. Cosa pensasse Bob
è impossibile saperlo; con lui era qualcosa tipo "andiamo, ci vediamo
alla fine".
RP: Com'erano le cose nel backstage e negli spostamenti? Stavate
assieme o ognuno si faceva le proprie cose?
CA: Il backstage era divertente: molte risate, specialmente con il
progredire del tour. Fu fantastico avere Santana in quel tour. Lui e la
sua band erano tipi fantastici. Bello anche avere un nostro aereo, un
vecchio Vickers Viscount, così che viaggiammo tutti insieme, incluso il
promotor Bill Graham. Anche i figli di Bob, Jesse e Jakob, viaggiarono
con noi, oltre al cugino di Bob, Stan Golden, il “dentista delle star”
di Los Angeles, che fungeva da compagno di viaggio del pezzo grosso. In
tour portarono anche un tavolo da ping-pong e siccome da adolescente
avevo giocato ad alti livelli, giocavo spesso un pò con tutti, incluso
Bill Graham e il giovane Jesse Dylan.
RP: Ogni sera Greg Sutton cantava un brano, in genere "I’ve Got to
Use My Imagination". Come mai? Bob aveva bisogno di una pausa?
CA: La cantò in quasi tutti gli show. Uno degli autori era Barry
Goldberg, che credo fosse un amico di Greg [*nota 4]. Sono sicuro che
Bob fosse felice di prendersi una pausa. Come sia successo, non ne ho
idea. Greg era davvero un bravo cantante e ha scritto grandi canzoni. È
uno degli autori di “Stop”, il successo di Sam Brown. Joe Cocker ha
anche registrato suoi brani.
RP: Hai interagito molto con Carlos
Santana?
CA: No. Bob lo invitò a unirsi a noi per i bis e lui lo fece. A parte
questo, chiacchierammo di tanto in tanto, in aereo o nel backstage, era
molto amichevole. In una data in Francia, i suoi tre percussionisti si
unirono alla nostra band per "All Along the Watchtower". Gran
divertimento!
RP: Nel suo libro di memorie, Joan Baez ha scritto che fu frustrata
da quel tour al punto che se ne andò presto. A quanto pare le era stato
detto che si sarebbe esibita un sacco con Bob, ma non successe. Hai
avuto molti contatti con lei mentre era lì?
CA: Nessuna interazione con Miss Baez, a parte uno strano saluto. Per
quanto riguarda la sua partecipazione al tour, questa è una novità per
me. Il suo nome non fu mai menzionato fino alla sua prima apparizione,
credo in Germania. Si è esibita forse in quattro date. Non ricordo che
abbia cantato qualcosa da sola. Di sicuro non provammo niente con lei.
Arrivò sul palco, fece una specie di duo improvvisato con Bob, eseguì
una sorta di danza libera mentre venivano suonati gli assoli e basta.
Tutto un pò superfluo in realtà, ma dico così anche perché non sono mai
stato un suo fan.
RP: C'è qualcosa in particolare che ricordi degli ultimi due
spettacoli, allo stadio di Wembley e allo Slane Castle in Irlanda?
CA: Beh, certo, Wembley fu il colpo grosso. Eric Clapton, Mick Taylor e
Carlos Santana insieme sul palco, oltre a Van Morrison e Chrissie Hynde.
Mi sembra che nel backstage ci fosse anche Mark Knopfler. Parlai
brevemente con l'ex batterista dei Traffic, Jim Capaldi. Anche il
party-boy del tennis Vitas Gerulaitis si fece vedere. Pete Townsend era
seduto accanto a mio cognato nel palco reale. Disse che gli sembrava
suonassimo come gli Stones, il che non era sorprendente, considerando
che nella band c’erano due ex Stones [Mick Taylor e Ian McLagan]. La mia
cara vecchia mamma nel backstage diede un bacio a sorpresa sulla guancia
a Mick Jagger: si è ripreso bene.
Subito dopo lo show partì il volo per Dublino. Allo Slane Castle, il
concerto finale, fummo nuovamente raggiunti da Van the Man e anche da
Bono, che a quanto pare in quel periodo viveva nel castello.
RP: Aspetta un attimo, com’è successo
che tua madre ha baciato Mick Jagger?
CA: Come puoi vedere dalle foto assomigliavo molto a Mick, a parte le
labbra. Nel backstage dello spettacolo di Wembley, trovandomi molto
vicino a Mick, decisi di dirgli che ero seccato per non aver ricevuto il
pagamento di una sessione fatta per l'etichetta degli Stones. All'epoca,
molti anni prima, Mick stava producendo brani per un album di John
Phillips, l'ex cantante dei Mamas & Papas. Mentre parlavo con Jagger,
apparve improvvisamente mia madre e dopo aver esclamato "C'è il sosia di
mio figlio!", afferrò Mick e gli piantò un grosso bacio sulla guancia.
RP: Pensi che l'album “Real Live” abbia reso giustizia al tour?
CA: Non proprio. Alcune tracce andavano bene, ma c'erano altre canzoni
che mi è sempre piaciuto suonare. "Simple Twist of Fate", ad esempio: mi
sembra di ricordare che avessimo un bel ritmo su quella. Anche "Every
Grain of Sand" di solito era molto buona. Nei bis suonavamo "Leopard
Skin Pill Box Hat" che era uno shuffle e avrebbe potuto essere una bella
aggiunta. Furono registrati solo gli ultimi concerti, forse le takes
migliori sono quelle scelte. Immagino che Bob abbia deciso cosa dovesse
andare sull’album. Chissà. Ora non importa tanto, sono passati quasi 40
anni e comunque non sono stato pagato un centesimo per la registrazione.
C'era una clausola nel contratto che stabiliva che qualsiasi
registrazione dal vivo non avrebbe significato alcun compenso extra.
RP: Quando finì il tour, si parlò mai di un seguito? O si sapeva che
finiva così?
CA: Nessun discorso, niente di niente. Non avevamo idea di cosa ci
riservasse il futuro. Una settimana dopo la fine del tour seppi che Bob
era in studio a provare con altri musicisti. Ad ogni modo è stato
divertente viaggiare in giro per l'Europa con un gruppo così grande di
persone. E non è da tutti aver suonato con una leggenda vivente, vero?
*Note:
[1] Quell’edizione dei Bluesbreakers venne in tour anche in Italia, alla
fine del 1982. Con John Mayall, oltre a Mick Taylor e a Colin Allen,
c’era Stephen Thompson al basso.
[2] Mi sia concessa una parentesi personale: nel luglio 1981 vidi i
Plugz in concerto al CBGB’s di New York e non immaginavo proprio che un
giorno avrebbero condiviso il palco con Bob Dylan.
Segnalo inoltre un album apparentemente bizzarro, ma molto interessante
di Daniel Romano che ha rifatto integralmente “Infidels” come se Dylan
si fosse fatto accompagnare dai Plugz anche in sala di incisione.
L’album è uscito nel 2020, si chiama “Daniel Romano’s Outfit Do (What
Could Have Been) Infidels by Bob Dylan & the Plugz”. Vale l’ascolto!
[3] Charlie Quintana entrò poi nella band di Dylan nel 1992,
affiancandosi a Ian Wallace come secondo batterista per 44 concerti.
[4] Scritta da Gerry Goffin e Barry Goldberg, “I’ve Got to Use My
Imagination” è stato un singolo di grande successo di Gladys Knight &
the & the Pips nel 1973
Christopher Parker e
l’inizio del Never Ending Tour di Dylan. “Sono solo un fottuto poeta.”
di Ray Padgett (26 settembre 2021)
Fonte:
https://dylanlive.substack.com/p/drummer-christopher-parker-on-the
Traduzione di Silvano Cattaneo
Christopher Parker è stato il primo batterista del Never Ending Tour di
Bob Dylan. Per tre anni, a partire dal 1988, si è diviso tra il Tour e
il suo lavoro nella house band del Saturday Night Live, insieme al
chitarrista di Dylan G.E. Smith. Parker è stato seduto a pochi passi da
Dylan per tutto il periodo formativo del Never Ending Tour, suonando
centinaia di concerti prima di lasciare alla fine del 1990.
L'ho chiamato di recente per parlare di come è stato coinvolto, della
sua relazione con Dylan, dei fan ossessivi, delle canzoni che hanno
provato ma che non hanno mai suonato, degli scherzi a Bob e molto altro
ancora.
Ray Padgett: Puoi spiegarmi come sei entrato nella band di Dylan? So che
negli anni precedenti eri al Saturday Night Live con G.E. Smith. Fu lui
il tramite?
Christopher Parker: Sì. Come sai, G.E. [Smith] era il leader della band
e mi disse: "Ti interesserebbe questa cosa?" A quel tempo, il bassista
del Saturday Night Live era T-Bone Wolk. Così noi tre andammo al Montana
Rehearsal Studio, che oggi non esiste più, e iniziammo a suonare con
Bob. Credo che in un paio di giorni suonammo un centinaio brani, un
sacco di roba fantastica. Non solo materiale di Bob, anche brani di
altri autori. Fu davvero divertente, e lui sembrò apprezzarlo.
RP: Come hai conosciuto G.E. Smith?
CP: Lo incontrai al Saturday Night Live quando mi chiamarono per essere
nella house band. Era l'86, mi sembra. Il batterista era Steve Ferrone,
ma stava partendo in tour con i Duran Duran, quindi c'era una
possibilità. In quello show avevo già fatto il batterista per artisti
ospiti – Quincy Jones, Leo Sayer, Boz Scaggs, Linda Ronstadt e Aaron
Neville, Elvis Costello, Paul Simon – e altre cose con Joe Cocker e
Belushi, ma si era trattato solo di suonare come ospite, non ero mai
stato nella house band.
RP: Stavo guardando la tua discografia e sei davvero su tanti album,
anche prima del Saturday Night Live e di Bob. Eri soprattutto un
turnista o andavi pure in tour?
CP: Sono stato parecchio in tournée con artisti diversi. Ho iniziato con
Paul Butterfield, poi per un po’ sono andato con Bonnie Raitt. Ho fatto
un tour con Ashford & Simpson quando stavo lavorando ai loro dischi.
Facevo parte di una band chiamata Stuff e per un po' finimmo per fare da
spalla a Joe Cocker nei suoi tour.
RP: Tornando a Bob: ricevi la chiamata e vai in sala prove. A quel
punto, eri un fan o conoscevi solo quei brani che tutti conoscono?
CP: Per essere onesti, non ero un fan, ma c'era stato un interessante
intreccio di vite. Nel 1970 feci il provino per una band a Woodstock.
Risposi a un annuncio su Rolling Stone, "Cercasi batterista". La banda
si chiamava Holy Moses.
Mi presero e iniziai a lavorare lassù. Incontrai una ragazza che poi è
diventata mia moglie. Sua madre era una grande fan di Dylan e finì per
comprare la casa di Bob, su a Byrdcliffe. La prima volta che accompagnai
a casa questa ragazza, fu proprio nella [vecchia] casa di Bob a
Byrdcliffe. Lui non era più lì, ma la sua atmosfera era sicuramente
rimasta.
La gente a Woodstock parlava sempre di Bob. "Beh, l'ho visto... potrebbe
essere nei paraggi... doveva venire qui... dovrebbe..." Tutti lo
citavano sempre in qualche contesto, anche se a quel tempo non credo
vivesse lì.
Frequentando questa ragazza, questa donna che poi è diventata mia
moglie, cominciai a esplorare la proprietà, a esplorare le stanze ed è
stato sorprendente. Fu allora che iniziai ad ascoltare i suoi dischi. Mi
piacquero molto Nashville Skyline e John Wesley Harding. Non ero
completamente consapevole della poesia, non ero ancora un fan. Ma dopo
averlo incontrato e aver provato con lui, aver ascoltato la sua voce e
la sua poesia, divenni un fan istantaneo.
RP: Come fu quel primo incontro? Ti presentasti allo studio e cosa
successe dopo?
CP: Ci presentammo. Poche parole e cominciammo a suonare. G.E. [Smith] e
T-Bone [Wolk] conoscevano molte delle canzoni, io no. Le citavano,
sembravano conoscere qualunque cosa lui volesse suonare. Io mi sono
semplicemente buttato, come ti ha detto anche Colin Allen [batterista di
Dylan nel tour europeo del 1984] nell’intervista che gli hai fatto. Lui
inizia a suonare qualcosa e tu ti butti. Non c'è mai stato nessun
"Uno-due-tre-quattro, e questo è il tempo, e questo è il tipo di feeling
che voglio". Non mi ha mai detto "Va bene" o "Non farlo", ma mi guardava
come per dire “Non saresti qui se non apprezzassi quello che stai
facendo, quindi continua a farlo”. A un certo punto ebbi il coraggio di
chiedergli: "Cosa vuoi che suoni su questa?" E Bob rispose: "Sono solo
un fottuto poeta".
Era tutto molto simile al jazz, come ha detto Jim Keltner [1]. Lo senti
e trovi un ritmo, e non suonare due volte la stessa cosa. Quando
riprendevamo una canzone già provata il giorno prima, era completamente
diversa. Probabilmente facemmo tre o quattro versioni diverse di "Heart
of Mine". Un tipo che si occupa degli archivi a Tulsa, mi ha mandato i
nastri di alcune di quelle prove e puoi ascoltare tutte queste diverse
versioni di "Heart of Mine". È stato divertente riascoltarle.
RP: Wow, mi sembra fantastico.
CP: La qualità audio non è eccezionale, ma lì c’è la genesi della band.
T-Bone [Wolk], che era un musicista fantastico, non suonava solo il
basso, ma anche la chitarra acustica, la fisarmonica e cantava. A volte
lui e G.E. [Smith] facevano i cori. Altre volte T-Bone metteva giù il
basso e suonava la fisarmonica, quindi c'era Bob all'acustica, T-Bone
alla fisarmonica e io suonavo le spazzole o qualcosa di simile.
Abbiamo avuto tanti momenti davvero intensi; non solo i suoi brani, ma
cose come "Barbara Allen", una canzone presente anche nella versione
cinematografica di “A Christmas Carol” di Alistair Sims. Bob adorava
quella canzone, e la suonammo spesso in tour.
C'erano esplorazioni da parte di tutti. Suono la chitarra? Suono con le
spazzole? Suono la fisarmonica? G.E. spesso suonava solo l’acustica o
solo la Telecaster. Bob a volte suonava l'acustica con un'armonica al
collo, nel tradizionale stile Bob, oppure la Stratocaster. La band
avrebbe potuto essere molto, molto elettrica oppure avrebbe potuto
essere molto intima e folk. Anche jazz. I brani potevano fluttuare come
un disco del Bill Evans Trio.
Eravamo nella stanza e diceva: "Sto cercando di scrivere una canzone
qui". Non so che canzone fosse, ma la sta scrivendo su un tovagliolo di
carta sul davanzale della finestra. Era immerso nei suoi pensieri. Mi
chiedo che canzone fosse.
RP: Durante tutte queste prove, tu eri già ingaggiato o fu solo una
lunga audizione?
CP: Ancora un'audizione. Penso che provammo quattro o cinque giorni la
prima settimana e poi altri tre o quattro giorni la settimana dopo.
Eravamo legati al Saturday Night Live. [Dylan] fu molto accomodante,
perché lo spettacolo era piuttosto impegnativo con pre-registrazioni,
artisti ospiti e tutto quello che portava allo show del sabato.
Poi un giorno si presentò Elliot Roberts [il manager di Dylan]. Mi prese
da parte e mi disse: "Ha qualcosa in arrivo. Ti interesserebbe?" È stato
allora che capii di avere un ingaggio, perché stavano parlando di date,
a cominciare da qualche anfiteatro in California. Risposi sì e quello fu
l'inizio. T-Bone [Wolk] non voleva farlo perché era impegnato con Hall &
Oates, ma trovarono Kenny Aaronson, con cui io non avevo mai suonato
prima. Entrò subito.
RP: Vista in retrospettiva, questa è stata la partenza del tour
praticamente infinito di Dylan, almeno fino al Covid. Vi fu presentato
come l'inizio di qualcosa di grande o semplicemente come "Andiamo a fare
due mesi di concerti"?
CP: Fu presentato come una cosa una tantum. "Potresti fare un piccolo
tour estivo? Sei settimane circa.” Non è stato sicuramente presentato
come un tour senza fine. Poi, passavano sei settimane o un mese e loro
dicevano: "Abbiamo un altro gruppo di date. Riesci a farle?" E io
continuavo a dire sì.
RP: Dovesti rinunciare al Saturday Night Live a un certo punto?
CP: No, no, perché G.E. Smith era nella band e voleva continuare a
farlo.
RP: Quindi continuaste con entrambe le cose?
CP: Fortunatamente per noi, non dovemmo mai rinunciare. Bob ed Elliot
Roberts lavorarono tenendo conto dei nostri impegni. Non programmavano
concerti il sabato e nemmeno il giovedì se avevamo pre-registrazioni. Io
e G.E. [Smith] abbiamo accumulato migliaia di miglia volando avanti e
indietro.
RP: Sembra un programma faticoso…
CP: È stato faticoso. È stato faticoso, ma davvero divertente andare
dagli NBC Studio 8H [di New York] a dovunque fosse, New Mexico o Canada.
Suonammo dappertutto. Ieri ho trovato i manifesti della Turchia e
dell'Italia.
È stata una fortuna, fino a quando G.E. [Smith] decise di non volerlo
più fare. Ci fu un lungo processo di audizioni per trovare un altro
chitarrista, il che è stato davvero difficile. A quel punto Kenny
Aaronson se n'era già andato e avevamo Tony Garnier. Dopo i concerti,
nel retro dell'autobus, gli insegnavo i brani o quale avrebbe potuto
essere il feeling per quella canzone. Fu davvero gettato nella mischia e
fece benissimo, come ha continuato a fare per 30 anni da allora.
RP: Ci fu un cambiamento nel suono o nell'atmosfera quando se ne andò
Kenny Aaronson e arrivò Tony Garnier?
CP: Sì, cambiò l'atmosfera e cambiò il suono. Tony entrò suonando il
basso acustico. Suonava anche l'elettrico, ma aveva un approccio
differente. Lui è un musicista diverso, un grande musicista, ma di
sicuro fermò la cosa che avevamo costruito, che era questa flessibilità
di andare in una direzione rock o folk o jazz o reggae. In qualsiasi
direzione [Dylan] volesse andare, noi ci saremmo andati.
Non abbiamo suonato due volte la stessa cosa. Abbiamo suonato qualcosa
di diverso ogni sera o qualcosa che era adatto per quello show.
Succedeva spesso, specialmente su brani familiari come "Rainy Day Women"
o "Times They Are a-Changin'". Quella aveva un certo feeling in 12/8, ma
quando diventava troppo comoda in 12/8, [Dylan] la cambiava in 4/4. La
metteva in rigorosi ottavi piuttosto che a ritmo di shuffle.
RP: Come comunica questi cambiamenti? Sei un batterista e qualcosa tipo
l'indicazione del tempo influenza davvero quello che stai facendo.
CP: Non lo comunicava. Io dovevo guardare. Stava in piedi proprio di
fronte a me e osservavo soprattutto il suo linguaggio del corpo. Quello
era l'unico indizio. Non mi ha mai indicato quattro o sei con le dita,
né ha mai detto "shuffle" o "ottavi diretti", o cose simili. Non disse
mai niente. Era solo la mia interpretazione del suo linguaggio del
corpo. E spesso non voleva le luci, quindi era difficile vederlo.
RP: Non solo. Ci furono alcuni spettacoli in quegli anni in cui suonò
indossando una felpa con il cappuccio alzato, il che probabilmente
rendeva molto più difficile vedere cosa stava facendo.
CP: Oh si. Ci fu un momento molto divertente un Halloween. Dovevamo
suonare a Chicago. Era da un po' che indossava la felpa con cappuccio.
Felpa con cappuccio, scialle da preghiera, Ray-Ban e blue jeans. Così
qualcuno della troupe diede a tutti una felpa con cappuccio, blue jeans,
uno scialle da preghiera e occhiali da sole.
Bob non veniva mai al soundcheck, ma a volte dopo aver cenato veniva a
dare un'occhiata al palco. Quella sera lo fece, e tutti indossavamo una
felpa con cappuccio, uno scialle da preghiera, blue jeans e occhiali da
sole. Quando arrivò, vide tutti vestiti come lui. Ci fu un silenzio di
tomba per quelli che mi sembrarono 10 minuti, ma probabilmente furono 30
secondi. Poi sorrise un po’. Capì lo scherzo. Non disse niente, ma capì
lo scherzo.
Ci fu un altro episodio nel backstage quando suonammo in questo posto
chiamato Memphis Mud Island, che è un isolotto nel mezzo del
Mississippi. Devi prendere una funicolare per arrivarci e cose del
genere. Non ci sono nemmeno camerini, solo una stanza in cui puoi
accordare gli strumenti prima di salire sul palco. In quel periodo
dell'anno c’erano probabilmente più di 40 gradi e zanzare giganti
ovunque, quindi tutti stavamo cercando di ripararci in quella stanza.
Per qualche motivo, un membro degli Eagles era da quelle parti e volle
raggiungerci. [2] Eravamo seduti nella stanza, solo Bob e noi della
band, in silenzio. Nessuno stava dicendo niente. Stavamo solo cercando
di prepararci mentalmente per il concerto, ma nessuno parlava. Ed ecco
che entra questo tipo degli Eagles. Noi sempre silenzio. Finché lui
disse a Bob: "Allora Bob, come sta il tuo cazzo?"
Ci fu un silenzio mortale. Poi, dopo alcuni secondi, Bob dovette
sorridere. Erano rari i momenti in cui lo vedevi sorridere e divertirsi
per qualcosa che succedeva. Perché lui è Bob. Ha visto di tutto, suonato
ovunque, conosce tutti, niente lo turba davvero, ma è stato bello vedere
un momento come quello in cui a sorpresa sorrise.
RP: A proposito di ospiti, nei primi concerti Neil Young si unì alla
band per una mezza dozzina di serate. Come successe?
CP: Suonavamo in California e lui viveva nelle vicinanze. Arrivava con
la sua Cadillac decappottabile, tirava fuori dal bagagliaio il suo
Silvertone Amp e la sua chitarra e li sistemava accanto a me, a sinistra
della batteria, e suonava tutta la notte. Era fottutamente fantastico.
Anche Jerry Garcia si unì. In Inghilterra, George Harrison si unì un
sacco di volte, è stato davvero bello, e pure Ringo [Starr]. Abbiamo
suonato la doppia batteria in diversi concerti in Francia. In tour avevo
abbastanza pezzi di ricambio per mettere insieme un altro kit. Due set
di batteria installati uno accanto all'altro, ed è stato semplicemente
fantastico. Prima degli spettacoli parlammo molto e sentii raccontare
direttamente da lui dei primi tempi con quei ragazzi [i Beatles]. Belle
conversazioni, parlando di batteria, tecnica, attrezzatura e cose del
genere.
Van Morrison si unì ad Atene. Fu in uno stadio di calcio e il pubblico
lanciò
M-80 sul palco. Sai, petardi simili a piccoli candelotti di dinamite che
esplodevano ai piedi di Bob e di Van Morrison. Salii su un montante e
vidi queste esplosioni. Non li turbarono, continuarono a suonare.
C'era una donna, il suo passaporto diceva che si chiamava Sara Dylan.
Immagino avesse cambiato nome. Sarà venuta a un centinaio di concerti,
sempre con un rotolo di monetine. Lanciava monetine sul palco. Se facevi
un giro dopo lo spettacolo – non l'abbiamo mai fatto, ma il mio tecnico
della batteria e diversi ragazzi della troupe raccoglievano queste
monetine. Erano sempre 5 o 10 dollari di nichelini.
RP: È molto bizzarro, su un paio di livelli.
CP: Sì. Totalmente, totalmente, totalmente bizzarro. Si sarebbe poi
presentata a Helsinki e si sarebbe presentata su quest'isola in
Norvegia. Mi chiedevo, come cazzo è arrivata fin qui?
C'era sempre un entourage, un gruppo di persone che voleva vederlo,
voleva parlargli, voleva fargli vedere un quadro, voleva mostrargli
qualcosa che avevano fatto per lui, voleva dargli un manoscritto che
avevano scritto quando erano in Vietnam con l'Agente Orange che
esplodeva sopra le loro teste [3] e come quella tal canzone gli avesse
salvato la vita. Blocchi pieni di cose scritte a mano, fotografie,
sculture, il paraurti di una Mercury del '49. A volte davi una
sbirciatina nel suo camerino e vedevi questa pila di cose imbustate.
Teschi, corna di manzo, non sapevi mai cosa ci sarebbe stato nel suo
camerino. Nessuno buttava via la roba. Tutto è stato catalogato.
Soprattutto a Los Angeles o New York, la gente lo assediava.
RP: Ti è mai capitato di avere personalmente a che fare con queste cose?
CP: Sì, per associazione. Quando iniziai a lavorare con Bob, non ci
volle molto. All'epoca avevo una casa a Kent, nel Connecticut. Già dopo
il primo tour, la gente si fermava sul vialetto e chiedeva: "Puoi
raccontarmi un po' com'è lavorare con Bob?" Persone in pick-up con le
rastrelliere per i fucili a pompa, persone in bicicletta. Si
presentavano a casa e bussavano alla porta. Non è una bella situazione.
Come la gestisci? Nessuno era… stavo per dire che nessuno era pazzo, ma
erano tutti un po' pazzi. Erano ossessionati da Bob.
RP: Inquietante. (Sì, mi rendo conto dell’ironia.)
CP: Qualsiasi informazione avessero ottenuto da me sarebbe stata acqua
per il loro mulino. Alcune persone si presentarono più di una volta.
"Ecco un dipinto che ho fatto. Puoi portarlo a Bob?", o "Ecco una
lettera che ho scritto. Puoi assicurarti che Bob la riceva?" Ero il
tramite per Bob. Dicevo: "Davvero non posso.” Tracciai una linea lì. Non
avrei preso alcunché per poi darlo a Bob dicendogli "Questo è di
qualcuno del Connecticut che è ossessionato da te".
Cercavo di essere gentile e di dissuaderli dal ritornare, perché ero con
la mia famiglia. Fu strano. Ci furono alcuni momenti strani.
RP: Musicalmente, come si sono evoluti lo spettacolo e la band nel corso
dei tre anni? Abbiamo già parlato dell'arrivo di Kenny [Aaronson] e
dell'arrivo di Tony Garnier], ma in termini di suono e di come avete
interagito tra di voi?
CP: Ci siamo sentiti sempre più a nostro agio. Nel corso dei tre anni
molte cose sono cambiate. Suonavamo brani diversi o affrontavamo cose
diverse.
RP: Nel caso di aggiunte all’ultimo momento, cover di canzoni
semisconosciute, quando venivano provate? Si lavorava molto nei
soundcheck o furono provate prima del tour?
CP: Alcune cose le avevamo suonate prima del tour. "Oh, sì, ricordo di
averla suonata", e poi G.E. [Smith] e Kenny [Aaronson] o Tony [Garnier]
che dicevano: "Come vuoi farla?" "Gli piace in Sol, vuoi farla in Sol?"
"Scendiamo di mezzo tono per ogni evenienza". Una specie di ripasso. E
questo succedeva nel backstage o sull'autobus, non quando ero alla
batteria. Io ascoltavo. "Ok, potrei fare qualcosa del genere. Forse
funzionerà." L’avrei suonata per la prima volta in concerto con Bob che
cantava.
Il suo fraseggio è l'altro indizio su come avrei accompagnato, oltre al
suo linguaggio del corpo. Il suo fraseggio è unico, come Frank Sinatra.
Il modo di muovere la melodia, aspettando il cambiamento nella musica
prima di cantare il testo che va su quel cambiamento, oppure anticipando
il testo prima del suo cambiamento musicale in modo che la fine della
frase sia quando senti il cambio musicale. Essere in grado di farlo è
semplicemente geniale. Non ci sono altri cantanti oltre a Frank Sinatra,
o forse Ella Fitzgerald o Ray Charles. Immagino anche Willie Nelson.
Qualcuno che ha una tale padronanza della canzone da poter allungare le
strofe, o stringerle o troncarle, accartocciare le parole o, al
contrario, distenderle in modo che i versi esprimano il loro umore in
quel momento, letteralmente in quel secondo. Ho imparato a godermelo
davvero, sempre di più, mentre suonavo con lui.
RP: Ci fu un po’ di delusione perché all'epoca non usò la sua tour band
per le cose in studio? Per Oh Mercy e Under the Red Sky non ricorse a
G.E. Smith, né a te, né agli altri.
CP: Sì, fu un po' una delusione perché avremmo voluto ascoltare quei
brani ed essere pronti a suonarli. Poi abbiamo visto uscire il disco e
[abbiamo pensato] "Oh, avrei potuto suonarci. Cavolo!" A volte è stato
un peccato perché il feeling che avevano dal vivo era più attuale che su
disco.
Ora che stanno pubblicando tutte queste Bootleg Series, forse a un certo
punto pubblicheranno roba dall'88 al '92. Ci sono state alcune
esibizioni incredibili, con Bob alla chitarra acustica e armonica. Come
ti ha detto Jim Keltner, ti farebbero piangere.
RP: Parlando di acustica, mi sembra che nei set acustici del primo
periodo ci fossero solo lui e G.E. Smith, e successivamente suonasti
anche tu.
CP: Ci si è evoluti nel tempo. Ricordo che una sera stavano facendo
"Knockin' on Heaven's Door", io ero sul lato del palco e mi dissi: "Sai
una cosa, qui si potrebbe davvero usare la batteria". I miei microfoni
erano accesi, mi avvicinai di soppiatto alla batteria e feci questo
riempimento gigantesco entrando nel ritornello. Bob si voltò e sorrise.
Però non lo ripetei la sera dopo e nei concerti successivi in cui
suonarono "Knockin'". Non gli piaceva. Se qualcosa gli sembrava
prevedibile o troppo scontata, la cambiava.
Mi piaceva quando i chitarristi stavano lì e provavano a vedere quali
accordi suonava Bob. Lui girava il manico della chitarra dall’altro lato
del palco. Dovevano usare le loro orecchie, il loro istinto o qualsiasi
altra cosa per adattarsi. Non puoi usare i bigini con Bob Dylan.
RP: In quella sorta di periodo intermedio in cui G.E. Smith annunciò che
se ne sarebbe andato, ci fu una serie di altri chitarristi sul palco,
ogni sera uno o due nuovi. Immagino che alcuni di loro avranno cercato
di guardare le sue mani. Sembra un'esperienza strana per un membro della
band.
CP: È stato molto duro ed è stato anche penoso. Straziante, davvero.
RP: Come mai?
CP: Ci furono alcuni momenti molto, molto imbarazzanti durante le
audizioni di chitarra. C'erano un sacco di musicisti che sarebbero stati
fantastici se avessero avuto la possibilità, ma hanno fatto dei passi
falsi, in mancanza di una parola migliore, chiedendo a Bob un autografo
o se potevano avere qualcosa di speciale. Non so cosa stessero
chiedendo, ma so che per qualche ragione, certamente non musicale, non
hanno avuto la parte. Finché il chitarrista con cui si sentì più a suo
agio fu il tecnico della chitarra, César Diaz, che accordava le chitarre
di Bob e gliele dava. Era sempre a lato del palco. Ma César, Dio lo
benedica, non era un chitarrista. Voglio dire, sapeva suonare la
chitarra, ma non era un membro della band. Questo è stato davvero
penoso. Divenne di fatto il chitarrista. Era così nervoso, non abituato
a stare sotto i riflettori, non abituato a esibirsi. E questo rese
davvero difficile realizzare l’amalgama della band.
Quella fu l'ultima goccia per me. Inoltre, stavo per avere il mio
secondo figlio e avevo già perso molto dell’infanzia del mio
primogenito. Era una cosa che mi spezzava il cuore. Avevo aspettato 19
anni con questa donna, la cui madre aveva comprato Byrdcliffe, avevamo
aspettato 19 anni ad avere figli perché volevamo farlo bene. Non avremmo
fatto un errore che avevamo visto fare ad altre persone, volevamo che il
nostro rapporto fosse solido.
Il mio primo figlio è nato nell'88 e sono stato in giro per i successivi
18 mesi. Poi è nato il mio secondo figlio, e la storia dei chitarristi
stava scivolando verso il basso. È stato straziante, davvero straziante.
Chiesi a Bob di lasciarmi andare a fare quello che dovevo fare con la
mia famiglia.
È stato un viaggio fantastico, tanta musica fantastica. La cosa più
dolorosa è non essere su nessuno dei dischi, non esiste un documento
ufficiale di quel periodo. Alcune interpretazioni furono buone quanto i
dischi classici, o persino migliori, o nuove e diverse.
RP: Hai parlato della versatilità e ascoltando alcuni bootleg si ritrova
sicuramente lì, ma l’altra cosa che salta fuori è che eravate
decisamente rock. È quanto di più vicino al punk Bob abbia mai fatto.
CP: Sì. Ricordo alcune ottime interpretazioni di certi brani. Alla West
Point Academy eseguì "Masters of War" e fu fantastico. Era come se i
Clash facessero Bob Dylan.
RP: Stavo giusto per chiederti di due o tre spettacoli specifici, e uno
è proprio quello di West Point che hai menzionato [4]. Fu piuttosto
controverso all'epoca. Ti ricordi il frastuono mediatico su Bob Dylan
che suonava in un'accademia militare?
CP: Sì, certamente. Fu una serata piena di tensione. Eravamo in tour da,
non so, tre o quattro mesi. Scendemmo dal bus. Affrontare i cadetti, la
struttura di questo luogo e l'atmosfera letteralmente militarista, tutto
fu molto ansiogeno. Nessuno sapeva come sarebbe stato lo spettacolo. I
cadetti ci fischieranno? Ci lanceranno delle cose? Non sapevamo cosa
sarebbe successo.
Chiaramente, c'era un gruppo di cadetti che lo conoscevano a fondo e
conoscevano a fondo la sua musica, e voleva essere lì. Il posto era
tutto esaurito. Fu uno spettacolo incredibile.
RP: Che mi dici di Toad's Place, 1990? Probabilmente la scaletta più
pazza dell'intera carriera di Dylan [5]. Tutte quelle strane cover,
"Dancing in the Dark", le sue canzoni che non aveva mai suonato. Qual è
la storia di quello spettacolo? Una specie di prova con un pubblico?
CP: Una prova con un pubblico, sì. [Il Toad’s Place] non è proprio un
teatro, lì tutti sono allo stesso livello. La batteria è sul pavimento,
le chitarre sono sul pavimento, il basso è sul pavimento. Non c'è
proscenio. Non credo che fino a quel momento avessimo mai suonato a così
stretto contatto con il pubblico. Di solito c'è un palco, la sicurezza,
le recinzioni o altre cose per tenere il pubblico e Bob separati, ma
quella fu davvero la dissoluzione della quarta parete. Le persone erano
proprio lì. Qualcuno mi guardava suonare la batteria a un metro di
distanza. Potevi sentire l'energia. La gente era coinvolta, chiedeva
canzoni. "Suona 'Baby Blue'! Fai 'Highway 61'!"
RP: Quando entrasti, sapevi che sarebbe stato così?
CP: No, pensavo che sarebbe stato vuoto e che avremmo provato e basta.
RP: Non sapevi che ci sarebbe stato un pubblico?
CP: No. Quando sono arrivate le prime persone ho pensato "Oh, devono
essere amici del management o dei proprietari del posto, o qualcosa del
genere”. Ma la gente ha continuato ad arrivare e ben presto è stato un
pubblico in piena regola.
RP: Di tutte le cover di Springsteen, "Dancing in the Dark" fu una
scelta bizzarra e non è che funzioni benissimo. Come è potuta succedere
una cosa così stravagante?
CP: L’ha semplicemente chiamata a gran voce. Iniziava a cantare qualcosa
e G.E. [Smith] diceva: "Okay, dai, sì, facciamola!". E io cercavo di
entrarci senza averla mai suonata prima.
Un paio di cose che fece durante le prove avrei voluto che poi le
avessimo suonate dal vivo. Abbiamo provato "God Only Knows", la canzone
dei Beach Boys, che è davvero una melodia difficile: ha un numero
dispari di battute e una figura orchestrale nell'intermezzo. Abbiamo
provato – come si chiama? – "Father of Time" o qualcosa del genere…
RP: "Father of Night"?
CP: "Father of Night", sì. Provammo canzoni di Willie Nelson e canzoni
di Hank Williams, alcune erano fantastiche. E canzoni di Woody Guthrie.
RP: Ho parlato con vari membri della band, ma tu sei il primo di quel
periodo. Ci sono opinioni piuttosto discordanti se Dylan frequenti o se
parli con la band fuori dal palco. Qual era l'atmosfera durante i tuoi
anni?
CP: L'atmosfera con lui era fantastica, a meno che non fossimo a Los
Angeles o a New York dove, come ho detto prima, le persone proprio lo
assediavano con richieste. "Guarda questo, ecco un dipinto che ho fatto,
ecco una fotografia del tal dei tali, ho pensato che dovresti avere
questo..."
Quando suonammo al Radio City [6], il camerino era pieno di star. George
Harrison, Allen Ginsberg, Peter Gabriel, Joan Baez… Arrivarono tutte
queste persone e cominciarono ad assediarlo. Tu cosa avresti fatto? A
Los Angeles una quantità assurda di persone. Jack Nicholson, Harry Dean
Stanton, Brian Wilson, Joni Mitchell. C'erano 100 persone in fila per
vederlo o dargli qualcosa. Non riesco a immaginare di avere a che fare
con questo tipo di attenzione e questo tipo di bisogno che ti viene
presentato in modo così tangibile.
Se eravamo in Oklahoma o nel New Mexico o in Colorado o posti simili,
era una persona normale. Aveva un lottatore di nome "Mouse" Strauss, un
ex pugile che era andato al tappeto così tante volte che era ancora un
po’ suonato. Veniva ad allenare Bob, facevano boxe insieme. Dopo gli
chiedevamo: "Ehi, com'è andata la tua sessione con Mouse?" Bob diceva:
"Oh, l'ho steso" o "Mi ha fatto ruzzolare". Eravamo semplicemente
persone normali. Non abbiamo avuto conversazioni infinite, ma abbiamo
senz’altro conversato. Dopo che nacque il mio primo figlio, quando
tornai in tour con lui la prima cosa che mi chiese fu: "Ehi Chris, come
sta quel bambino?"
RP: Hai detto che non ti diede mai molte indicazioni in anticipo. Ma dei
feeback dopo? Tipo "Voglio che domani sia più lenta" o "Mi è piaciuta
questa cosa che hai fatto".
CP: Mai.
RP: Non rende difficile sapere se quello che stai facendo è giusto?
CP: No, non è più difficile che suonare jazz con qualcuno. Hai una
sensazione, hai un'atmosfera. Se lui si girava e sorrideva, sapevo di
non aver cannato. Se non era soddisfatto, non lo sapevo, ma forse la
canzone sarebbe stata diversa la sera dopo.
Ho imparato da quel momento durante le prove, quando gli chiesi "Cosa
vuoi che suoni su questa?" "Sono solo un fottuto poeta."
Note:
[1] Vedi intervista a Jim Keltner, già tradotta e pubblicata su Maggie’s
Farm il mese scorso.
[2] L’episodio che sta raccontando si riferisce al concerto di Memphis
del 26 luglio 1988. Il membro degli Eagles era il chitarrista Joe Walsh
che poi si unì alla band nei bis per “Forever Young” e “Maggie’s Farm”.
[3] “Agent Orange” era il nome in codice dato dall’esercito statunitense
al defoliante ampiamente usato durante la Guerra del Vietnam.
[4] Dylan suonò all’Accademia Militare di West Point il 13 ottobre 1990.
Ritornò poi a esibirsi lì il 15 ottobre 1994.
[5] Si riferisce all’esibizione del 12 gennaio 1990 al Toad’s Place di
New Haven, Connecticut. In quella occasione, Dylan e la band suonarono
ben 4 set diversi, per un totale di 50 canzoni e di 4 ore di musica.
[6] Dylan si esibì 4 sere al Radio City Music Hall di New York, dal 16
al 19 ottobre, in chiusura dei tour del 1988.
Intervista
al batterista e bassista Charlie Drayton
Charlie Drayton è un musicista unico e
speciale, molto richiesto, in quanto è ugualmente abile sia come
batterista che bassista, quindi la sua caratteristica musicale è quella
della sezione ritmica in toto. La lunga ed eclettica lista dei credits
di Charlie include nomi come Herbie Hancock, Keith Richards, Johnny
Cash, Chaka Khan, Mariah Carey, Michelle Branch, Seal, Iggy Pop, Neil
Young, Janet Jackson, Courtney Love, tra molti altri, e suonato il ritmo
per l'irresistibile hit del B-52 "Love Shack". In questo estratto dal
mio Studio Musician's Handbook (scritto con Paul ILL), Charlie ci dà uno
sguardo dietro le quinte del suo lavoro di sessione.
“Mi dai un pò di informazioni su come sei entrato nel lavoro di
session?
Mio padre mi ha indirizzato verso lo studio della musica in tenera età
mentre lo guardavo fare sessions di jingle a New York. Occasionalmente
mi faceva cantare in qualche spot che richiedeva una voce giovane, sia
in un coro, in un gruppo, sia in una performance solista.
Prima che una sessione iniziasse, di solito trovavo un posto tra il box
della batteria (erano gli anni '70) e la sedia del basso e
l'amplificatore B-15 (che era l'amplificatore per basso standard in
qualsiasi studio di New York all'epoca). Ci sono volute solo poche
sessions per sapere che essere in studio era come essere nella migliore
scuola in cui saresti mai potuto entrare per imparare musica, e tuo
padre è il principio. Poi un giorno mio padre ha portato la band nella
quale stavo suonando in studio per farci migliorare e crescere
nell'ambiente dello studio. Che sballo viaggio è sentirti riprodotto in
alta qualità audio per la prima volta! Ricordo ancora la prima volta,
vividamente.
Se ricordo bene, la mia prima sessione di registrazione professionale è
stata quando ho suonato la batteria per John Sebastian. Era brillante e
un grande motivatore. Entrare in studio è stato facile, ma quel primo
giorno di registrazione è stato per me un inferno! La parte spaventosa è
stata cercare di non essere sopraffatto dal fatto che il bassista fosse
Anthony Jackson (un turnista di New York molto apprezzato) e il
chitarrista Steve Khan (penso che Stevestesso mi abbia consigliato per
quella sessione). Inutile dire che fui agganciato e lo sono ancora.
Cosa porti con te in un sessione?
Dipende da cosa richiede la musica o il produttore e da quale cappello
indosso durante la sessione, ma elencherò solo alcuni degli elementi a
caso. Entro in studio con senso dell'umorismo, cuore e mente aperti e
molta pazienza.
Porto anche un bollitore per l'acqua calda e del tè alle erbe, una
quantità infinita di caramelle alla menta senza zucchero, un pò di
incenso, bacchette, pepe di Caienna, senape inglese calda, peperoncino
tritato e cardamomo macinato fresco.
Inoltre, non c'è niente di meglio che avere la tua attrezzatura in una
session! Per me potrebbe consistere in batteria, piatti, stracci, nastro
da hockey, microfono a proiettile, Bass pod Line 6, iPod per la
disattivazione della batteria e alcuni dei miei pezzi preferiti di
percussioni manuali. Inoltre bassi, chitarre, pedal steel,
amplificatori, pedali e un cavo davvero buono. Porto anche le mie cuffie
(Sony 7506 o Audio Technica TH-M50) insieme a un cavo di prolunga. A
volte porto anche il mio pechinese nero "Holiday".
Personalizzi ciò che porti in base alla session?
Ci provo, perché sono fortunato ad avere accesso a una vasta selezione
di attrezzi che mi piacerebbe vedere il più spesso possibile.
L'attrezzatura da palco è diversada quella dello studio di
registrazione?
Questo dipende da cosa mi ispirerà a eseguire una performance o da che
cosa ho accesso in quel momento. A volte posso aggiungere qualche pezzo
di attrezzatura che non mi appartiene, quindi praticamente qualsiasi
cosa che mi aiuti ad alimentare la musica.
Cosa ti piace nel tuo mix in cuffia?
La libertà di suonare come voglio. La mia prima preferenza però sono le
cuffie quando è possibile. Mi piace cantare con gli altoparlanti a basso
livello. Se suonerò dal vivo con una band, inserirò l'intero gruppo nel
mix. Se suono su tracce preregistrate, è possibile che io non suoni
insieme a tutti gli elementi nella traccia. Proverò diverse combinazioni
di elementi nel mix finché non mi sentirò bene e mi sentirò più a mio
agio.
Cosa vedi che è comune a tutti i bravi musicisti di session?
Un buon turnista non è necessariamente un musicista migliore di un
musicista senza esperienza di session, ma un buon turnista ha il
vantaggio di avere più strumenti tra cui scegliere ed è abituato a
restringere le opzioni. Affrontare le avversità è fondamentale. Se il
tuo talento è in stallo e stai passando una giornata di merda ma ti sei
impegnato per una session, indovina un pò? Devi presentarti e suonare la
musica! Più lo faccio, meglio ci arrivo.
Cosa sai ora che avresti voluto sapere quando hai iniziato?
Che saremmo arrivati a vivere in un'epoca in cui non c’è bisogno di
avere molto talento per avere successo nel mondo della musica.
L'arte di suonare musica e il successo commerciale sono ora due cose
completamente diverse.
Non so perché alcuni portano i computer nelle sale di registrazione per
alcune delle ragioni sbagliate e rovinano l’arte ed il mestiere di
creare e fare musica. Non sono contro i computer, ma pensavo che la
musica si potesse suonare bene anche senza di essi. I Milli Vanilli non
ti hanno convinto di questo?
(Milli Vanilli sono stati un gruppo di musica pop e dance formato da
Frank Farian in Germania nel 1988, i cui frontmen erano Fab Morvan e Rob
Pilatus. Il gruppo ottenne enorme successo con il primo album,
intitolato All or Nothing in Europa e distribuito in America come Girl
You Know It's True. La loro ascesa fu frenata quando si scoprì che le
voci presenti nei dischi non erano in realtà quelle di Morvan e Pilatus.
Negli anni successivi il duo registrò nuovi lavori, stavolta dichiarando
le voci originali, che riscontrarono scarso consenso commerciale.
I dubbi sulle reali capacità del duo sorsero già durante le loro prime
interviste, dove dimostrarono una scarsa conoscenza della lingua
inglese, che portò i presenti a chiedersi se fossero effettivamente
Morvan e Pilatus a cantare nei dischi. I sospetti trovarono ulteriore
riscontro in seguito ad un incidente tecnico durante una esibizione "dal
vivo" promossa da MTV nel dicembre 1989, in cui la musica e le voci (che
erano inaspettatamente in playback) cominciarono a ripetersi
all'infinito. Anche in seguito alla pressione di Morvan e Pilatus, che
avrebbero voluto cantare nel disco successivo, il 12 novembre 1990
Farian confessò ai giornali che fino a quel momento non erano state
usate le loro vere voci. Quattro giorni dopo venne revocato il Grammy
vinto, e di lì a poco la Arista Records rescisse il proprio contratto
con il gruppo. Vennero fatte partire almeno 26 cause contro Pilatus,
Morvan e la Arista Records, tutte con l'accusa di frode. La loro
attività cessò ufficialmente dopo la morte prematura di Rob Pilatus
avvenuta nel 1998.)
Qualche consiglio per qualcuno che inizia a fare il turnista?
Non perdere la connessione o lo spirito di suonare in un ambiente dal
vivo. Lo spirito è un ingrediente chiave che ti consente di brillare e
prendere le decisioni giuste durante la sessione. Abbraccia la musica
con il tuo cuore, anche se non è la tua tazza di tè. Sii nel momento, e
questo non significa suonare tutto quello che sai.
Hai qualche consiglio da musicista di session?
Sii prima un musicista senza alcun titolo prima della parola musicista.
Mi divertirò di più a sentirti suonare. Non limitarti. Sii nel momento,
perché in studio prendi decisioni musicali che possono durare una vita
su disco.
Quali sono le sessioni più difficili per te?
Quando i sogni del produttore sono irrealizzati. A volte alcuni non
hanno la capacità di suonare il loro strumento, quindi vengono fuori
suggerimenti all'infinito, le peggiori idee musicali possibili per te da
suonare, o come dovresti suonarle.
Che tipo di sessioni sono le più divertenti?
Quando non ti sembra di lavorare e non vuoi che la sessione finisca.
Cosa odi di una session di registrazione?
Quando non si registra!!!”
Puoi leggere di più da The Studio Musician's Handbook e da altri miei
libri nella sezione degli estratti di bobbyowsinski.com.
(Fonte:
https://bobbyowsinskiblog.com/an-interview-with-charlie-drayton/)
Larry
Campbell riflette sui suoi otto anni con Bob Dylan.
di Ray Padgett - (31 marzo 2021)
Fonte:
https://dylanlive.substack.com/p/larry-campbell-goes-deep-on-his-eight
Traduzione di Silvano
Cattaneo
Nel 2013, il sito dei fan
di Bob Dylan Expecting Rain lanciò un sondaggio per votare il miglior
chitarrista tra i tanti che hanno accompagnato Bob nel Never Ending
Tour. Il vincitore? Larry Campbell. Nel 2016 fecero un altro sondaggio.
Il vincitore? Larry Campbell. Nel 2018 un terzo sondaggio. E chi vinse
quella volta? Charlie Sexton... a pari merito con il suo ex compagno di
band e compagno di duelli di chitarra Larry Campbell.
Larry Campbell ha suonato con Dylan dal 1997 al 2004: una bella
testimonianza della sua carriera, anche se oggi non è nemmeno la cosa
per cui è meglio conosciuto. Potrebbe esserlo invece il suo rapporto
decennale con Levon Helm, per cui ha prodotto dischi e suonato nella sua
band insieme alla moglie Teresa Williams. Dopo la morte di Levon, Larry
e Teresa hanno continuato a collaborare con amici come Jackson Browne e
Hot Tuna, e registrato album in coppia.
Un nuovo documentario in dieci parti intitolato “It Was the Music”
ripercorre il percorso delle loro carriere, singolarmente e insieme. Lo
consiglio vivamente anche se conoscete Larry per il suo lavoro con Bob,
o Larry e Victoria per il loro lavoro con Levon Helm. Relix lo ha
definito "un documento profondo e commovente" e Americana UK "uno
sguardo affascinante e dettagliato sulle vite di due musicisti di spalla
che si prendono la scena". [Nota 1]
Oggi [31 marzo 2021] ricorre il 24° anniversario del primo concerto di
Larry Campbell con Dylan, e di recente ho avuto con lui una lunga
conversazione telefonica sui suoi otto anni nella band. È un argomento
su cui è stato riluttante in passato, ma era disponibile ad aprirsi e a
condividere uno sguardo approfondito su cosa è stato suonare tutti
quegli anni accanto a Bob. La nostra conversazione è durata così a lungo
che l'ho divisa in due parti. Ecco la prima.
Ray Padgett: Una cosa su
cui fa luce “It Was the Music”, il documentario che hai realizzato, è
quanto tu fossi immerso nel mondo della musica roots prima di entrare in
contatto con Dylan. Come sei passato da quel mondo a suonare con Dylan?
Larry Campbell: Proverò a essere sintetico, per quanto possibile. Negli
anni '60 c'era così tanta musica fantastica che mi ha realmente parlato:
dai Beatles all'Ed Sullivan Show fino alle radio FM, musica
psichedelica, Bob Dylan, Rolling Stones, tutta quella roba feconda nel
mondo del rock ‘n’ roll e della musica popolare. Ero davvero estasiato
da quella musica. Compravi un disco dei Beatles e c’era una canzone di
Chuck Berry [Roll Over Beethoven]. Chi è Chuck Berry? Allora lo
scoprivi. Da Chuck Berry andavi a BB King, da BB King ad Albert King e
da loro risalivi a Robert Johnson e a tutto il country blues, e
continuavi su quella strada. I Beatles hanno fatto una canzone di Buck
Owens [Act Naturally]. Chi è Buck Owens? Da lui andavi a Hank Williams e
George Jones fino alla Carter Family. Tutto questo si stava
sovrapponendo al boom del folk. Non ne avevo mai abbastanza, ero
insaziabile.
All'inizio degli anni '70 cominciai a essere un po' deluso da quello che
sentivo nelle radio rock. Ero più incline alle radici profonde della
musica. Decisi che in quel momento New York non era il posto per me.
Feci le valigie e mi trasferii in California, forte della mia ambizione.
Per farla breve, finii per andare in tour con una band e per stabilirmi
un paio d’anni a Jackson, Mississippi, dove assorbii a fondo la cultura
della musica che più mi parlava.
Alla fine degli anni '70 tornai a New York, giusto in tempo per quel
boom da “urban cowboy”, quando la musica country era di moda. Si rivelò
una situazione davvero redditizia per me perché trovavo lavoro negli
studi e suonavo nei club ogni settimana: il Lone Star Cafe, il City
Limits e tutti quei posti dove suonavano questo tipo di musica country,
la musica delle radici che attirava pubblico.
Rividi Tony Garnier, uno dei ragazzi che avevo incontrato in California.
A New York diventammo amici, era nel mio stesso giro. Quando l'avevo
conosciuto in California era il bassista degli Asleep at the Wheel. Si
era trasferito a New York più o meno nello stesso periodo in cui ero
tornato anch’io. Insieme suonavamo un sacco di concerti, lavoravamo in
studio e tutto il resto. Io cercavo solo di continuare a essere un
musicista di New York. Suonavo nei club e andavo in tour con gente come
Doug Sahm, Rosanne Cash, k.d. lang, Cyndi Lauper… è una lunga lista.
Arriviamo alla fine del 1996, quando decisi che non sarei andato più in
tournée. Avevo appena finito un tour con k.d. lang, ma volevo essere
solo un musicista di studio e dedicarmi di più alla produzione di
dischi. Pochi mesi dopo ricevetti una telefonata da Jeff Kramer, il
manager di Dylan. Mi disse che Bob era interessato a sentirmi, se potevo
raggiungerli e passare un po’ di tempo a suonare insieme. Se Bob mi
conosceva era grazie a Tony Garnier.
Inizialmente rifiutai. Avevo preso la decisione che non sarei più andato
in tour. Ma quando mi risvegliai il giorno dopo, mi ricordai quale era
stato il mio primo impulso per diventare musicista. Furono i Beatles, i
Rolling Stones e Bob Dylan. Pensai: "Aspetta un attimo, avrò mica
intenzione di rifiutare l’opportunità di lavorare con questo tipo?"
Richiamai Kramer, la risolvemmo, li raggiunsi, suonammo per circa tre
giorni e poi per otto anni sono stato in tour con Bob.
RP: Sei passato dal non voler andare più in tour a qualcuno che sta
girando più di qualsiasi essere umano in vita.
LC: Esatto, sì. [ride] È stato un conflitto per tutti gli otto anni in
cui l'ho fatto. E in effetti, è per questo che alla fine me ne sono
andato. Volevo produrre dischi. Mi arrivavano opportunità, ma il più
delle volte non potevo approfittarne perché magari programmavo un giorno
per farlo e poi venivamo chiamati per partire.
Suonare con Bob è fantastico. Stai suonando grande musica con questo
tipo completamente originario americano. Probabilmente il nostro meglio.
Ma avevo il mio bisogno di esprimermi e quando sei nella band con Bob
puoi farlo solo in misura limitata. Ci sono dei paletti intorno alla tua
espressione personale. È assolutamente comprensibile, deve essere così
perché è la sua musica. Ma quel bisogno stava emergendo e se volevo
farlo dovevo darmi una mossa. Questo, unito al desiderio di stare di più
con Teresa, di voler essere più un musicista di studio e la mia
personale creatività, sono le cose che alla fine mi hanno fatto smettere
di girare con lui.
RP: In uno degli episodi [del documentario “It Was the Music”], c'è un
momento in cui Teresa mostra una foto del vostro decimo anniversario
alle Hawaii e dice: "Beh, eravamo lì perché lui era lì con Bob". Mi ha
fatto pensare alla tua vita personale. Se sei in viaggio otto, nove mesi
l'anno ogni anno, che vita personale hai?
LC: Hai completamente ragione. Questa è la verità. È il prezzo che devi
pagare per fare una cosa del genere. Ma finché ho resistito, ne ero
attratto.
RP: Tornando all'inizio del tuo rapporto con Bob: Tony Garnier ti
introduce e tu arrivi. Ci furono delle audizioni? Come passasti da lì al
tuo primo concerto?
LC: Beh, non la chiamavano proprio “audizione”, anche se chiaramente era
così. Mi presentai allo studio, incontrai Bob e iniziammo a suonare.
Passammo tre giorni a suonare insieme. Per lo più suonavamo vecchi brani
rock and roll e country. Anche alcune delle sue canzoni, ma per lo più
si trattava di pezzi tipo Hank Williams e Buddy Holly. Fu molto
divertente. Immagino che Bob stesse assorbendo quello che tiravo fuori.
Dopo il terzo giorno Kramer mi chiamò e disse: "Okay, andremo in tour la
prossima settimana. Vieni?" Risposi: "Beh, sì, immagino di sì".
Il tour iniziò in Nuova Scozia, Canada. Noi volammo lì, ma
l’imbarcazione con l'attrezzatura rimase bloccata nel ghiaccio durante
l’attraversamento di uno di quegli stretti. Restammo in Nuova Scozia con
tutte le date ritardate perché non c'era l'attrezzatura. Fu un po'
snervante perché ero pronto a cominciare, ma tutto poi ha funzionato.
Quel primo tour è stato fantastico. Avevamo provato - beh, non proprio
“provato”, avevamo solo suonato un po' di musica insieme - e poi ecco
che sono sul palco a suonare tutte queste canzoni di Bob Dylan, la
maggior parte delle quali non avevo mai suonato prima e alcune non le
avevo nemmeno mai sentite. Devi solo buttarti e fare quello che sai
fare.
RP: Come le imparasti? Qualcuno ti diede una cassetta dicendoti "Ecco
cosa ha suonato nell'ultimo tour. Vai e imparale".
LC: No. Avevo una scatola piena di cassette di tutti i suoi dischi. Una
volta arrivati in Nuova Scozia, cercai di ascoltare le sue cose il più
possibile. Durante il soundcheck del primo concerto eseguimmo alcuni
brani che avremmo fatto quella sera, e così fu per il resto del tour. La
maggior parte delle prove per gli spettacoli erano al soundcheck. Alcuni
brani li avremmo fatti, altri no, e poi ci sarebbero state canzoni mai
eseguite al soundcheck e che avremmo iniziato a fare. Era interessante!
[ride]
RP: Ti sei sentito intimidito a essere il nuovo arrivato e nel calarti
nei panni di un gruppo di chitarristi iconici che avevano suonato con
Bob prima di te?
LC: Non so se intimidito sia la parola giusta. Ero decisamente sulle
spine, come lo sarei stato in qualsiasi situazione musicale. Ma una
volta che sei sul palco, se l'hai fatto abbastanza a lungo, ti dici
semplicemente "Ok, questo è il mio concerto. Devo fare il lavoro
migliore che so fare. Devo solo prestare orecchio a tutto quello che
succede e reagire". Sono sicuro che se ci ho pensato, e probabilmente
l'ho fatto a un certo punto, mi sarò detto che ero in una situazione
davvero inebriante. Quel tipo l’avevo sempre rispettato come uno dei
nostri più grandi artisti, ed eccomi lì, a due metri da lui, a suonare
le cose che me lo hanno fatto ammirare. Non volevo rovinare tutto,
questo è sicuro. In qualche modo ti cali in una modalità professionale:
ti metti quel cappello che ti impedisce di andare fuori di testa,
qualsiasi concerto fai.
RP: A proposito di andare fuori di testa, sembrava che le cose stessero
andando alla grande quando all'improvviso Bob fu ricoverato di corsa in
ospedale e il tour successivo venne cancellato. Quale fu la tua
reazione?
LC: Avevamo suonato da qualche parte nel Midwest e ci fu una tempesta di
polvere davvero densa. Stavo camminando per la strada e incrociai Bob
sulla sua moto che guidava in questa tempesta di polvere. Sembra che la
polvere sollevata arrivasse dal fiume e contenesse escrementi d'oca
essiccati. E noi la inalammo. Anch'io mi ammalai un po', ma lui finì con
l'istoplasmosi che è una cosa davvero seria. Lo scoprii mentre ci
stavamo preparando per il tour successivo, che venne cancellato. Quando
sentii quanto fosse grave speravo solo che migliorasse. Mi dissero che
soffriva molto, e tutto il mio affetto era con lui. Ero preoccupato
perché nessuno poteva darmi una risposta definitiva su eventuali danni
duraturi o permanenti. Ero preparato alla possibilità che quella potesse
essere stata la mia prima e ultima esperienza con Bob.
Mi chiamò Tracy Chapman perché seppe che il nostro tour era stato
cancellato. Feci alcune date con lei, aspettando novità da Bob. Per
fortuna andò tutto bene e ritornò come nuovo.
RP: Ricordi la sensazione o l'emozione del primo concerto al suo
ritorno?
LC: Oh, fu fantastico. Era di buon umore e anche noi eravamo tutti
carichi. Penso che stesse progettando un nuovo disco e iniziò a parlarne
all'inizio di quel tour. Ero eccitato all'idea di fare un album con lui.
In quel secondo tour iniziai a sentirmi più a mio agio. Bob stava
iniziando ad avventurarsi in musica più roots, cover, bluegrass, vecchie
canzoni folk e pensavo che fosse grandioso perché molte di quelle cose
erano proprio nelle mie corde. Sembrava che con quella particolare band
stessimo cercando di colorare tutto con un tocco di radici - il che è
stato una grande soddisfazione per me, te lo posso garantire!
RP: Sono un grande fan di quelle registrazioni, c’erano quei brani
gospel che cantavate tutti insieme. Come arrivarono nella band? Fu Bob
che durante i soundcheck suggeriva: "Ecco una vecchia canzone degli
Stanley Brothers, lavoriamoci su"?
LC: Sì, più o meno. Oppure ci dava una cassetta con tre o quattro brani.
"Ehi, amico, proviamo questa canzone." Tornavamo in hotel, ascoltavamo e
poi il giorno dopo al soundcheck iniziavamo a lavorarci. Distribuiva
cassette, oppure sceglieva un pezzo al soundcheck e vedevamo se ne
veniva fuori qualcosa. O si arrivava da qualche parte o lo lasciavamo
perdere perché non lo sentiva. È stato molto divertente suonare quei
vecchi pezzi della Carter Family, di Ralph Stanley e le canzoni folk che
aveva suonato nei suoi esordi.
RP: Volevo chiederti dell'arrangiamento delle canzoni. Persino i suoi
stessi brani possono suonare in modo piuttosto diverso. Verso la fine
del tuo periodo, io stavo imparando la chitarra e trovai su un sito la
tablatura di una bella cosa di fingerpicking che facevi su "Girl from
the North Country" - e, tra l'altro, mi ci sono voluti quasi due anni
per impararla. Per cose del genere, eri tu che inventavi qualcosa e lo
suggerivi alla band? O era lui che dava istruzioni tipo: "Voglio che la
chitarra suoni come X, trova qualcosa"?
LC: Un po’ tutto questo. Bob poteva suggerire un riff per alcune
canzoni. Suonava un riff di tre note che prendevo io, o Bucky [Baxter],
o Charlie [Sexton] quando è entrato nella band, e poi lo abbellivo
oppure no. Ricordo che con alcune canzoni diceva: "Suoniamo sempre
questo stesso riff dopo ogni strofa". E suonavamo quel riff nota per
nota.
Nel caso di canzoni come "Girl from the North Country", si limitava a
suonare la chitarra e io lo accompagnavo una volta che avevo capito dove
andavano a parare le strofe, in uno stile che sentivo avrebbe migliorato
quello che stava facendo. Poi [il batterista] David Kemper o George
Receli iniziava con un groove. Bob poteva chiedergli di cambiarlo, o di
provare una cosa diversa, o mantenerlo ma modificato. Ognuno si lanciava
con le proprie idee, ma rispettavamo anche quello che lui era in grado
di spiegare. Spesso non sapeva nemmeno cosa stesse cercando di tirar
fuori. Voleva solo che atterrasse in un posto che gli piaceva.
Lavoravamo ai fianchi ognuna di queste canzoni finché non ci sembrava
giusta. Molte volte all’inizio non c’era nulla di strutturato. Era solo
un continuare a suonarla finché tutti trovavamo qualcosa che funzionasse
bene.
RP: Queste sessioni si svolgevano principalmente durante i soundcheck o
c’erano prove più strutturate?
LC: Potevano essere a un soundcheck o a una prova prima di un tour.
Normalmente provavamo per quattro o cinque giorni prima di partire in
tour. Quello era il momento per provare il nuovo arrangiamento di una
canzone, che però poi avrebbe continuato a evolversi nel corso del tour.
Facevamo soundcheck di due ore e molto spesso iniziavamo a lavorare sul
nuovo materiale in quel momento.
RP: Poco fa hai citato Bucky Baxter [chitarrista steel di Dylan dal 1992
al 1999], mi è dispiaciuto quando è morto l'anno scorso. Che ricordi hai
di quando hai suonato con lui?
LC: Bucky era un grande musicista, amico. Un suonatore di steel e di
altri strumenti davvero talentuoso. Era grande alla chitarra e aveva
cominciato anche con il violino. Gli stavo giusto insegnando qualcosa al
violino prima che lasciasse la band. Mi è anche piaciuto molto cantare
con lui. Quando lui, Bob e io cantavamo insieme eravamo una combinazione
fantastica.
Teresa [Williams] veniva in tour con noi, stava sul nostro bus più o
meno per una settimana. Dopo i concerti ci sedevamo nel salottino sul
retro e suonavamo vecchi brani bluegrass, io, Teresa e Bucky. Mark
Rutledge, che era il road manager, tirava fuori il suo dobro. Avevamo
questa piccola band semi-bluegrass che si esibiva nel retro del bus.
RP: La partenza di Bucky cambiò il tuo ruolo? Tu ti facesti carico anche
degli strumenti che suonava lui, quando vi ho visti nel 2004 suonavi
diverse cose.
LC: Si, esattamente. Inizialmente io ero il chitarrista e Bucky suonava
la steel. Quando se ne andò, arrivò Charlie [Sexton]. Charlie divenne il
chitarrista e io saltavo dalla chitarra al violino, alla steel, al
mandolino, al banjo. La presenza di Charlie nella band mi permise di
fare tutte le altre cose che so fare e Bob cercava di capitalizzare
questo, il che è stato bello anche se ero un po’ sulle spine. C’erano
alcune canzoni in cui mi ero sentito proprio a mio agio con la parte di
chitarra, e ora dovevo improvvisamente passare a una parte di steel o a
una parte di violino. Ma è il mio lavoro, ed ero in grado di farlo.
RP: Forse non sarà una novità per te, ma quando tra i fan si tratta di
scegliere la migliore band del Never Ending Tour, quella con te e
Charlie credo sia indicata più di ogni altra.
LC: Wow, grande! Quando la nostra band dava il massimo era piuttosto
difficile da battere. Devo dire che c'era una buona chimica lì.
RP: C’è qualche canzone in particolare che ti è piaciuto suonare sul
palco?
LC: Mmh, è dura. Adoravo fare “Summer Days”, ma è davvero difficile
stilare una classifica. Nella nostra serie di documentari ho citato "Mr
Tambourine Man". Suonare quella, suonare "Blowin' in the Wind", suonare
i brani iconici di Dylan con lui lì che si lasciava andare. Brani che
avevano significato così tanto per me quando stavo imparando chi ero.
Quei momenti sono stati davvero speciali.
I pezzi più blues sono stati molto divertenti da suonare con lui. "Crash
on the Levee", "Maggie's Farm", "Serve Somebody", roba divertente da
suonare.
RP: A proposito, che mi dici delle cose blues che saltavano fuori?
LC: Bob non è un vecchio nero, ma ha questa autenticità in quel genere
che non so da dove venga. Il blues nasce dalla sofferenza. Viene fuori
dall’esperienza che gli afroamericani hanno vissuto negli Stati Uniti, e
tu senti che è davvero autentico solo se interpretato da qualcuno a cui
quell’esperienza è stata tramandata attraverso le generazioni.
Quando Bob cantava un brano blues, suo o di qualcun altro, trovava
sempre una strada. Anche se da lui non può uscire l'esperienza nera, c’è
comunque qualcosa nella sua capacità di fare blues. Ho avuto la stessa
impressione anche con David Bromberg. Bromberg è un ragazzone ebreo di
Brooklyn, ma può interpretare una canzone blues con una sua personale
autenticità che gli dà la licenza per farlo, ed è lo stesso per Bob. Non
so bene come definirla o spiegarla, ma è una cosa istintiva che cogli.
Quando suonavamo dal vivo i brani blues che avevamo inciso per “Love &
Theft”, in una serata in cui lui si lasciava andare davvero avevi
proprio questa sensazione profonda.
RP: Com'era una tipica giornata on the road con Bob?
LC: Si entrava in hotel alle 3 del mattino o qualunque ora fosse, perché
ci spostavamo di notte. Sveglia, sperabilmente dopo qualche buona ora di
sonno. Mangiavi qualcosa. Magari, se eri in grado, passavi prima in
palestra. Ti vestivi e andavi al soundcheck. La band si scaldava un po'
per circa mezz'ora. Arrivava Bob ed erano altre due ore a ripassare le
cose. Magari due ore sulla stessa canzone, magari un paio di canzoni,
magari qualche canzone che non avremmo mai più suonato. Fatto così il
soundcheck è sempre stato interessante. Poi ci fermavamo e andavamo a
cena. I ristoratori viaggiavano con noi, era una società di catering di
Knoxville. Il cibo in quei tour era incredibile, era il meglio di quel
genere. Credimi, era qualcosa per cui non vedevi l'ora.
RP: Di solito non sento persone impazzire per il cibo del backstage.
LC: Lo so, ma tutti in quei tour, tutta la troupe e la band, hanno fatto
bene. Mangiavamo, ci rilassavamo per mezz'ora e poi facevamo il
concerto. Questa era la routine. Poi, dopo l'ultima canzone, subito
fuori dal palco e sul bus verso la città successiva. Nessun cazzeggio.
Se eri fortunato erano due ore di viaggio, arrivavi in hotel a un'ora
ragionevole e dormivi un po', ma molto spesso ci volevano dalle cinque
alle otto ore. Sì, amico, la strada non è per i deboli di cuore. È
piuttosto estenuante.
RP: Dopo uno spettacolo c’era una sorta di commento post-partita, un
momento in cui la band o Bob o chiunque altro dicesse: "Questo ha
funzionato, questo non ha funzionato, proviamoci domani"?
LC: C’era una piccola area dietro il palco che veniva allestita ogni
sera. Scesi dal palco, ci si ritrovava tutti lì. Bob commentava,
qualunque cosa volesse commentare. "Sì, è stato grande." "No, non ha
funzionato." "Dobbiamo cambiare questo." Era un appuntamento abbastanza
regolare. Qualcun altro diceva la sua. E poi avremmo affrontato la cosa
il giorno dopo al soundcheck, ma anche no.
RP: Era sufficiente per andare avanti? Alcuni musicisti con cui ho
parlato lo trovano frustrante. La gente pensa che sia difficile leggere
la sua mente.
LC: Sì, Bob può essere volubile, di sicuro. Magari pensi che gli stai
dando quello che ha manifestato di volere, e poi il giorno dopo è la
cosa più distante da quello che ha in testa in quel momento. Succede, ma
basta abituarsi. Potrebbe essere frustrante, ma penso che in una certa
misura tutti possiamo diventare così quando cerchiamo di essere artisti
creativi. Non è raro. Penso che con la nostra band, la mia e di Teresa
[Williams], anch’io potrei essere stato colpevole della stessa cosa
alcune volte. Sai, fa parte del gioco.
RP: C'è un periodo in particolare a cui ripensi con affetto?
LC: C'è stato un tour in cui stavamo suonando alcuni brani di Warren
Zevon e alcuni dei Rolling Stones, quando tutto è entrato in sintonia in
molti modi. Non ricordo che anno fosse. Quel tour sembrava una macchina
dove tutto filava liscio. Non so come spiegarlo né il perché, ma il
materiale che stavamo facendo, l'apparente soddisfazione di Bob per ogni
cosa, sembrava che tutti fossimo in sintonia. [2]
RP: Quale lezione hai portato dalla tua esperienza con Dylan nei tuoi
lavori successivi? Mi riferisco sia alle cose con Teresa Williams e sia
alla tua collaborazione con Levon Helm, con Phil Lesh e tutti gli altri.
LC: La cosa grande per me è questa - e l’ha espressa molto bene Teresa
guardando uno spettacolo di Dylan: se lo senti e lo capisci, non devi
limitarti a nessun genere di musica. Teresa ed io siamo attratti dagli
stessi stili di musica. Lei è una grande cantante country, una grande
cantante di ballate, una grande cantante folk, una grande cantante rock
and roll, e può anche essere una grande cantante blues. Lei può fare
tutte queste cose, ma ha sempre pensato di dover scegliere e
concentrarsi su una cosa sola, e in una certa misura l'ho fatto anch'io.
Dopo gli anni con Bob, entrambi abbiamo sentito di poter esplorare come
interpreti qualsiasi genere volessimo, a condizione di avere affinità e
rispetto per quel genere.
Questa cosa l’abbiamo portata con noi quando abbiamo iniziato a lavorare
con Levon Helm. Levon poteva muoversi in uno qualsiasi di questi generi
con assoluta autorità. Qualsiasi genere collegato alle radici della
musica americana, o quella che adesso è raccolta sotto la definizione
ombrello di “Americana”, qualsiasi genere c’entri con quello. E,
naturalmente, anche con Phil Lesh. I Grateful Dead volevano prendere
questi generi delle radici ed estenderli ovunque potessero andare.
Teresa ed io suonavamo con Levon Helm e con Phil Lesh allo stesso tempo.
Ci fu persino un tour con Phil e Levon e noi suonavamo in entrambe le
band. Con Levon questo mix di generi era più di un modo per fare la
struttura di una canzone, mentre con Phil la struttura della canzone
veniva buttata fuori dalla finestra. Bastava salire sul palco, iniziare
a suonare, entrare nella canzone e vedere dove ti portava. Avere queste
esperienze con loro due è stato incredibilmente appagante. Poi Teresa ed
io abbiamo suonato con gli Hot Tuna, che avevano il “loro” modo di
mescolare tutti questi generi. E poi con i Little Feat, che avevano il
“loro” modo di mescolare tutti questi generi. È una cosa bellissima.
Ma tornando alla tua domanda iniziale, questo è ciò che ho imparato
suonando con Bob. Questo concetto di sentirti a tuo agio in qualsiasi
genere da cui ti senti attratto e avere la libertà di mettere tutte
queste cose insieme nello stesso spettacolo. È qualcosa che si è
consolidato in me a cominciare dagli anni passati con Bob.
Note
[1] La serie “It Was the Music” è sulla piattaforma Prime Video, ma
purtroppo non ancora disponibile in Italia. Speriamo arrivi presto!
[2] Si riferisce allo US Tour dell’autunno 2002. Fu il primo in cui
Dylan si divise tra chitarra e piano. Nelle scalette trovarono posto
diverse cover: tutte le sere “Brown Sugar” dei Rolling Stones e almeno
un paio di brani di Warren Zevon (la scelta era tra “Accidentally Like a
Martyr”, “Boom Boom Mancini”, “Mutineer” e “Lawyers, Guns and Money”).
In quel tour eseguirono spesso anche “Old Man” di Neil Young, “The End
of the Innocence” di Don Henley, “Carrying a Torch” di Van Morrison e
“Not Fade Away” di Buddy Holly.
Dal Papa a Soy Bomb: Larry Campbell
ricorda undici insoliti show con Bob Dylan.
di Ray Padgett - (9 aprile 2021)
Fonte:
https://dylanlive.substack.com/p/from-the-pope-to-soy-bomb-larry-campbell
Traduzione di Silvano
Cattaneo
Qualche giorno fa ho pubblicato una lunga
conversazione con il grande chitarrista (e non solo) Larry Campbell sui
suoi otto anni trascorsi nella band di Bob Dylan. Abbiamo parlato degli
alti e bassi del suo periodo con Dylan, di come si è unito al gruppo e
del perchè se n'è andato.
Come piccolo e divertente poscritto, alla fine della nostra
conversazione ho citato a Larry alcune esibizioni che pensavo ricordasse
particolarmente. Per la maggior parte non erano concerti normali, ma
serate di award, registrazioni di film, all-stars tour e pezzi unici
vari. Li ricordava tutti, abbastanza sicuro e aveva alcuni aneddoti
dietro le quinte da condividere.
Quindi, andando cronologicamente dai suoi primi concerti con Dylan nel
1997 fino al suo ultimo spettacolo nel 2004, ecco Larry Campbell su
undici delle esibizioni più strane o insolite che ha dato con Dylan.
27 SETTEMBRE 1997 – CONCERTO PER IL PAPA
Larry Campbell: Lo ricordo molto bene.
C’erano 400.000 persone là fuori. Il Papa era rimasto lì tutto il giorno
con queste esibizioni internazionali, acrobati, maghi. Poi toccò a noi
suonare alcune canzoni. Eravamo di fronte al pubblico e a sinistra sul
palco c'era il trono del Papa. Era seduto con il mento appoggiato alla
mano, doveva essere esausto.
Suonammo un paio di brani. Io ero alla destra del palco e Bob stava
facendo - ho dimenticato quale canzone fosse, forse "Knockin' on
Heaven's Door". Il regista televisivo, con le sue cuffie, mi si avvicina
mentre sto suonando e dice: "Deve incontrare il Papa! Deve incontrare il
Papa!" Mi guarda come se io dovessi fare qualcosa al riguardo. Tipico
stile italiano. Scuote la testa, guarda l'orologio.
"Deve-incontrare-il-Papa!" E io stavo cercando di suonare.
La canzone finisce, mi avvicino a Bob e gli dico: "Ehi, Bob, questo tipo
mi sta dicendo che devi andare a incontrare il Papa". Bob si guarda
intorno come per dire "Cosa?" Poi il regista gli indica con la mano il
Papa. Allora Bob lascia la sua chitarra a qualcuno, si avvicina al Papa
e gli stringe la mano. Il Papa gli regala un rosario o qualcosa del
genere, Bob torna, suoniamo un altro pezzo e poi è finita. Fu
un'esperienza che non mi sarei mai aspettato di fare. Semplicemente
surreale.
25 FEBBRAIO 1998 – "LOVE SICK" AI GRAMMY AWARDS
Larry Campbell: Bob ebbe l’idea
fantastica di far sembrare la nostra esibizione come una vecchia
performance di Shindig! [Nota 1], dove un gruppo di ragazzi bazzicava
dietro le band, si muoveva e si divertiva. Assunsero delle comparse e le
piazzarono appena dietro di noi, in cerchio.
Al soundcheck andò tutto bene. Poi arrivò l’esibizione. Cominciammo la
canzone e, prima che me ne accorgessi, una di queste comparse arrivò di
corsa, iniziò a ballare e si tolse la maglietta. Sul suo petto aveva
scritto "Soy Bomb" ed era in piedi a ballare accanto a Bob. Bob si gira
verso di me e dice: "Chi diavolo è questo tizio?"
Rispondo: "Non lo so, amico, non lo so." Finché due della sicurezza
uscirono di corsa, afferrarono il ragazzo e lo portarono via. Furono i
suoi 60 secondi di celebrità, o qualunque cosa fosse, proprio lì. Bob
mantenne la calma e continuò. Non ne fu affatto scosso, credo. Per un
attimo pensai che fosse pianificato o qualcosa del genere, ma quando Bob
si è girato a chiedermi "Chi diavolo è questo tizio?" ho capito che non
lo era. Dopo ci abbiamo riso sopra.
MAGGIO 1998 – ALL-STAR TOUR CON VAN MORRISON E JONI MITCHELL
Larry Campbell: Fu fantastico stare con
loro. Dopo ogni spettacolo ci fermavamo nella lounge dell'hotel a
parlare di musica e cose del genere. Van raccontava le sue esperienze in
tour e altre cose. E poi ascoltare Joni ogni notte… Gesù, amico, wow!
Fu davvero un grande tour. Bob voleva migliorare l’esibizione ogni sera.
Avvertivo una sorta di competitività, ma in senso positivo. Non nasceva
da un senso di frustrazione, cosa che potrebbe accadere con Bob. Nasceva
da "Siamo tutti coinvolti insieme. Usciamo e facciamo qualcosa di
forte". E l'abbiamo fatto. Il peso artistico di quelle tre personalità
fu per noi un buon trampolino di lancio per dare il nostro meglio ogni
sera.
Ray Padgett: Cosa intendi quando dici che la competitività a volte
veniva da un senso di frustrazione? Era qualcosa già successo?
LC: Sì, a volte ho avuto questa sensazione. Se c’era stata un’esibizione
particolarmente buona dell’artista di supporto, Bob diventava
competitivo e apparentemente insicuro. Apparentemente. Non lo so per
certo, ma questa è la mia analisi psichiatrica amatoriale. Siamo tutti
insicuri e a volte questo sembrava venir fuori anche da lui.
RP: E questo come influenzava te e la band? Notavi qualcosa sul palco,
oppure si lavorava più sodo al soundcheck del giorno dopo?
LC: Entrambi. Lo vedi a disagio sul palco, ma tu non puoi farci niente.
Tu suoni al meglio che puoi e vai avanti. Ma non voglio che sembri che
succeda solo a Bob, perché capita a tutti. È una cosa normale quando
stai cercando di essere al meglio delle tue possibilità artistiche. Una
sorta di insicurezza, di frustrazione, di sentire che per qualche motivo
non stai dando quello che vorresti dare.
18 APRILE 1999 – "TRAIN OF LOVE" AL JOHNNY CASH TRIBUTE SHOW [Nota 2]
Larry Campbell: In sala prove a New York
eseguimmo la canzone in un sacco di modi diversi. Il modo Johnny Cash,
il modo blues più sporco, il modo più uptempo, ma nessuno ci colpiva.
Poi, mentre eravamo in pausa, successe che David [Kemper, batteria],
Tony [Garnier, basso] e io iniziammo una sorta di jam, una specie di
blues. Non aveva niente a che fare con la canzone. Stavamo solo
improvvisando su una progressione di accordi, o qualcosa del genere.
Allora Bob prese la sua chitarra e disse: "Proviamo qualcosa che abbia
un feeling come questo". Ecco come siamo finiti a fare quella versione.
L’adoro. Sto provando a convincere Teresa [Williams] a fare quella
canzone nello stesso modo. Lei ne tirerebbe fuori il massimo.
GIUGNO - LUGLIO 1999 – TOUR CON PAUL SIMON
Larry Campbell: Ogni sera si alternavano
per chi avrebbe dovuto esibirsi per primo. Se aprivamo noi lo
spettacolo, Paul usciva a fare una canzone con noi alla fine, poi
toccava a lui e alla sua band. Quando invece apriva Paul, Bob usciva e
cantava una canzone con lui e la sua band prima che arrivassimo noi. Era
fantastico, davvero fantastico.
In quel tour ho conosciuto abbastanza bene Paul Simon e ho finito per
lavorare con lui al suo album [“You're the One”] e a un paio di altre
cose. Penso che lui e McCartney siano i due più grandi musicisti della
melodia del 20° secolo.
In più Paul aveva un gran bel lancio. Una delle mie cose preferite in
questi tour estivi, prima o dopo il soundcheck, è uscire sul campo e
lanciare la palla.
Ray Padgett: Adesso mi fai innervosire retroattivamente, al pensiero di
te e Paul Simon che giocate a baseball. Fate tutt’e due un fingerpicking
complicato, sono contento che nessuno si sia rotto il mignolo o qualcosa
del genere.
LC: Sì, buona osservazione! [ride] Paul all'inizio del tour fece una
considerazione, disse: "Io e Bob veniamo dallo stesso punto, ma finiamo
a due estremità diverse. Quello che fa Bob è sempre stato molto più
vicino all'anarchia musicale, io ho cercato di essere il più sofisticato
e controllato possibile.” È davvero interessante, perché
fondamentalmente attingono acqua dallo stesso pozzo, ma la servono in
due modi diversi.
25 MARZO 2001 – "THINGS HAVE CHANGED" AGLI ACADEMY AWARDS
Larry Campbell: Eravamo in Australia e
dovemmo andare in uno studio laggiù. Il regista televisivo aveva
pianificato tutta la faccenda. A Bob non piaceva: l'illuminazione, la
panoramica e tutto il resto. Disse: "Amico, no, no, no. Sbarazzati di
quelle luci, sbarazzati di quelle luci, sbarazzati di quelle luci!”
Finimmo con solo le luci dello studio, cosa che diede un'atmosfera
oscura a lui e alla band sul palco. Ebbi la sensazione che stesse
prendendo in giro il regista, ma funzionò alla grande. Qualche mese fa
ho visto il filmato su YouTube. L'illuminazione sembrava proprio più
naturale di quella che il regista stava cercando. Il regista voleva
qualcosa più sparato e appariscente, Bob solo questa semplice
illuminazione. Suonammo la canzone, era fatta, punto e basta.
In questo tipo di esibizioni per premiazioni, cerimonie e cose del
genere, Bob cercava sempre di dimenticare la parte spettacolare.
Dimentica il fumo, le luci, i lustrini e tutta quella roba. Basta
suonare, filmare lui, filmare la band, in modo che nulla distragga dalla
canzone.
27 FEBBRAIO 2002 – "CRY A WHILE" AI GRAMMY AWARDS
Larry Campbell: Stessa cosa. Avevano un
enorme palco che stavano cercando di vendere a Bob. Lui disse "No,
amico". Gli fece costruire una tenda sul lato del palco. Disse:
“Restringiamo l'ambiente. Metteteci in questo palchetto e lasciate che
la band suoni e faccia la band. Dimenticate tutto il resto”. Ancora una
volta si discusse dell'illuminazione. Non voleva che ci fosse un light
show, voleva solo una luce oppure un'illuminazione uniforme, come se
stessimo suonando in un club da qualche parte.
Anche nell’episodio di Soy Bomb in cui avevamo le comparse intorno, lui
voleva solo suonare la canzone. Che fossero tutti gli altri a fare il
grande spettacolo con i ballerini, i fumogeni e tutta quella roba.
MAGGIO 2002 – PERFORMANCE PER "MASKED & ANONYMOUS"
Larry Campbell: Quello che vedi nel film
è esattamente ciò che stavamo suonando. Indossammo tutti microfoni a
bavero e microfonarono gli strumenti. La performance che vedi è genuina,
niente trucchi, niente manipolazioni. Hanno fatto bene, era importante
per me. In genere nei film, quello che vedi non è quello che sta
suonando la band. Larry Charles, il regista di “Masked & Anonymous”, fu
davvero fantastico nell'usare le performance reali. Penso che quella
parte sia venuta benissimo.
Ray Padgett: Molte delle canzoni che suonaste in quel film non erano
quelle dei vostri show. Erano canzoni diverse, arrangiamenti diversi. Ci
furono prove ad hoc?
LC: Sì, ricordo che passammo parecchio tempo a riarrangiare alcune
canzoni. Ad esempio, "Cold Irons Bound" ebbe il suo arrangiamento
specifico. O "Diamond Joe", suonata solo per il film. Le altre non le
ricordo adesso, ma le canzoni che suonammo le arrangiammo appositamente
per il film.
3 AGOSTO 2002 – DYLAN TORNA A NEWPORT
Larry Campbell: Per ma la cosa più
notevole fu quando salimmo sul palco ed ecco che arriva Bob con
parrucca, barba e baffi finti e un cappello. Non aveva detto niente a
nessuno, non c'era stata nessuna avvisaglia. Lo stavamo scoprendo sul
palco nello stesso momento in cui lo stava scoprendo tutto il pubblico.
Ne fui divertito. Quale fosse lo scopo, non lo sapevo allora e non lo so
ancora adesso, ma va bene. Non cercherò di analizzarlo.
Ricordo che fu una grande esibizione. Ricordo anche di aver capito la
monumentale importanza di quel concerto. L’esibizione di Dylan a Newport
nel 1965 fu un momento iconico, e ora io potevo partecipare con lui alla
successiva e forse unica altra esibizione lì. Quello fu fantastico.
21 FEBBRAIO 2003 – BOB CANTA "HAPPY BIRTHDAY" A LARRY IN NUOVA
ZELANDA
R P: Tempo fa ho provato a
cercare tutte le volte che Bob ha cantato a qualcuno “Happy Birthday”
sul palco e non sono state molte. Erano solo cinque o sei e una è stata
per te. Te la ricordi?
Larry Campbell: Sì, disse “Che ne dici? Lo faccio? Sì, lo faccio!” Fui
molto commosso e toccato. [ride]
RP: Dopo lo hai ringraziato o sei passato al concerto successivo
mantenendo un profilo basso?
LC: Andammo avanti, come se nulla fosse. Non penso che bisognasse farne
un caso.
21 NOVEMBRE 2004 – ULTIMO CONCERTO DI LARRY CAMPBELL CON BOB DYLAN
RP: Sapevi che sarebbe stato il
tuo ultimo concerto? L’avevi già comunicato o prendesti la decisione
dopo?
Larry Campbell: No, non lo sapevo. Iniziai a rimuginarci sopra in quel
tour. Durante quell'ultimo tour ci furono progetti che avrei voluto fare
e non riuscii. Non li ricordo tutti. Uno di questi era suonare su un
disco con Paul McCartney e non potei proprio farlo. Non fu questo il
motivo scatenante, ma queste cose si stavano sommando.
RP: Decisione dura, però. È uno dei tuoi eroi.
LC: Si, esatto. Volevo anche stare con Teresa [Williams]. Quando finii
l’ultimo tour con Bob, Teresa era impegnata in uno spettacolo dedicato
alla Carter Family. Passammo il Natale assieme, poi lei riprese questa
cosa sulla Carter Family. A casa guardai la programmazione dei tour con
Bob per l’anno a venire e le cose iniziarono a sommarsi.
Fu in quel tempo libero che decisi che dovevo fare qualcosa. Chiamai [il
manager di Dylan] Jeff Kramer. Il tour successivo sarebbe stato con
Merle Haggard. Volevo farlo, gli dissi: "Non posso più continuare. Ti do
tutto il preavviso di cui hai bisogno". Gli spiegai e lui capì. Pensava
che avrei potuto fare il tour con Merle Haggard, ma dopo averne discusso
con Bob dissero: "Okay, via libera, troveremo qualcun altro per il
prossimo tour". [Nota 3]
Ero spaventato. Stavo abbandonando una grande nave. Sapevo solo che
dovevo farlo e che qualcosa di interessante sarebbe successo. Due
settimane dopo ricevetti una chiamata da Levon [Helm] che mi disse:
"Ehi, ho sentito che hai lasciato Bob, vieni qui e cominciamo a fare un
pò di musica".
Quello fu l'inizio del più grande capitolo nella mia vita di musicista.
Non che Bob non lo fosse stato, ma in quei quasi dieci anni con Levon ci
fu tutto ciò di cui avevo bisogno come artista e come essere umano. Lui
volle subito che Teresa si unisse a noi. Facevamo musica con lui e
avevamo completa libertà di farla nel modo in cui volevamo. Divenni il
suo produttore, realizzando quel mio desiderio. Levon incoraggiò tutti i
componenti della band a farsi avanti e fare le loro cose, in un contesto
davvero confortevole.
In più potevamo suonare tutte quelle canzoni fantastiche con una figura
che, come ho detto prima, aveva assoluta autorevolezza su qualsiasi
genere riconducibile alla musica americana delle radici. Era il
paradiso. Teresa dice che era musica fatta di onore ed è esattamente
così. È da lì che lei ed io siamo stati in grado di sviluppare quello
che facciamo adesso. Suonare la musica che ami, con la persona con cui
vuoi stare, cos'altro puoi chiedere di più? Era la situazione perfetta.
E all'interno di questa situazione, avere pure la libertà di lavorare
anche con altre persone. Davvero realizzai tutto quello che mi era
mancato negli anni con Bob.
Note:
[1] Show televisivo della rete ABC andato in onda da settembre 1964 a
gennaio 1966, presentato dal dee-jay Jimmy O’Neil. Tantissimi gli
artisti che si esibirono nel programma: Beatles, Rolling Stones,
Animals, Yardbirds, Who, James Brown, Sam Cooke, Aretha Franklin, Bo
Diddley, Roy Orbison, Beach Boys… e persino la nostra Rita Pavone.
[2] Trasmesso in tv il 18 aprile 1999, il concerto tributo a Johnny Cash
si svolse in realtà il 6 aprile all’Hammerstein Ballroom di New York.
Parteciparono diversi artisti, tra cui Bruce Springsteen, Willie Nelson,
Lyle Lovett, Mavericks, U2, Kris Kristofferson, Emmylou Harris, Chris
Isaak e lo stesso Johnny Cash. L’esibizione di Dylan fu invece
pre-registrata durante le prove per il tour europeo di quell’anno, che
iniziò a Lisbona il 7 aprile.
[3] Larry Campbell fu sostituito da Denny Freeman che rimase con Dylan
dal 2005 al 2009. Freeman è purtroppo scomparso quest’anno all’età di 76
anni.
Regina McCrary parla del cantare i
Gospel con Bob Dylan
1979-11-01, Warfield Theatre, San Francisco, CA
Ray Padgett, Nov 1
Traduzione di
Anonimo
Nei tre anni dal 1979 al 1981, quando Bob
Dylan suonava la musica cristiana, ha registrato e fatto tournée con una
varietà di coriste. Ma solo una cantante è rimasta al suo fianco per
ogni singolo spettacolo di ogni singolo tour: Regina McCrary.
McCrary ha la musica gospel nel suo DNA, essendo cresciuta cantando
insieme a suo padre, il reverendo Sam McCrary, il leader dei pionieri
del gospel “The Fairfield Four”. Tutti questi anni dopo, continua a
esibirsi con la sua famiglia, cantando con le sue tre sorelle Ann,
Deborah e Alfreda nelle “McCrary Sisters”, così giustamente chiamate.
Esattamente 42 anni fa, il primo di novembre del 1979, Bob Dylan si
esibì nel suo primo spettacolo dell' era gospel, al Warfield Theatre di
San Francisco. Così ho chiamato Regina McCrary per farmi raccontare dei
tour e delle registrazioni con Bob Dylan durante i suoi anni gospel.
Come sei stata coinvolta per la prima
volta con quella band e con Dylan?
Ho ricevuto una telefonata da una delle mie amiche (Carolyn Dennis) che
stava cantando con lui. Stavano cercando un’altra corista. Lei mi ha
chiesto se ero interessata? Ho detto di sì. Sono andata all'hotel dove
alloggiavano a Nashville e ho fatto il provino.
Conoscevo certe canzoni: "Lay Lady Lay", "Blowin' In The Wind", cose del
genere. Non sapevo chi fosse Bob Dylan e non l’avrei riconosciuto se
fosse stato in piedi accanto a me alla fermata dell' autobus. A parte
alcune canzoni, non ho mai saputo chi fosse.
Ho cantato tre canzoni. La prima canzone, non credo lo abbia commosso.
La seconda canzone sembrava essergli piaciuta,alla terza canzone saltò in
piedi e disse: "Questo è quello che voglio".
Ricordi quali erano le canzoni?
Sì, la prima canzone era "Everything Must Change ", la seconda canzone
era "Precious Lord Take My Hand" e la terza canzone era
" Amazing Grace".
Quello che è successo dopo? Sei partita quel giorno sapendo che avevi
acquisito un lavoro?
Bene, dopo che ho finito di cantare "Amazing Grace " , è balzato in
piedi e ha detto: "Sì, è quello che mi piacerebbe!" L’ amica che mi ha
chiamato per l'audizione, Carolyn Dennis, ha iniziato ad armonizzare con
me in "Amazing Grace". Lui saltò in piedi, disse: "Sì, questo è il suono
che voglio. Questo è quello che voglio". L'abbiamo cantata di nuovo e
lui l'ha registrata sul suo stereo. Poi ha detto: "Hai avuto il tuo
lavoro" e io ho detto: "Okay".
Ha detto che voleva che mi intrecciassi i capelli. Ho detto: "Va bene,
paghi tu il parrucchiere, lui ha riso e detto di sì, poi ha detto:
"Voglio che tu veda il mio spettacolo".
Voleva che andassi allo spettacolo del 3 dicembre, che era il compleanno
di mia madre. Ho detto bene. Disse: "Bene, quanti biglietti ti servono?"
Gli ho detto 17. Lui fa "Cosa?" Ho detto: "Sì. Ho quattro fratelli, tre
sorelle, un marito. mio figlio, io stessa..." Ha detto: "Fermati, avrai
17 biglietti a tuo nome ."
Io e la mia famiglia abbiamo visto il suo spettacolo. Quando lo
spettacolo è finito, siamo tornati tutti nel backstage e Bob ha incontrato
tutta la mia famiglia. Poi tutti se ne sono andati tranne me e mio
padre. Mio padre guardò Bob Dylan e disse: "Porti la mia bambina in
tour?" Bob Dylan ha detto: "Sì". Mio padre ha messo la sua mano nella
mano di Bob e ha lo ha tirato verso di lui con molta delicatezza e gli
ha detto: "Non farla piangere". Bob ha detto: "Te lo prometto".
Circa due mesi dopo ho ricevuto una telefonata per registrare un disco [
Slow Train Coming ]. Ho preso un aereo e sono andata ai Muscle Shoals,
in Alabama. Quando sono arrivata, abbiamo alloggiato in una grande
vecchia casa. Bob Dylan andava con la band in studio e registrava, e poi
tornavano nella casa in cui stavamo noi. Lasciavano che noi coriste
ascoltassimo la musica. Creavamo le parti di sottofondo per la canzone,
e poi andavamo in studio e registravamo le parti di sottofondo.
Da sinistra: Mona Lisa Young, Regina McCrary, Bob, Clydie King.
Quando hai scoperto che era diventato un cristiano rinato? Nel dicembre
del 1978, quando hai visto quello spettacolo, di certo la cosa allora
non era di dominio pubblico.
Sapevi quando sei andata a Muscle Shoals che quelle sarebbero state
canzoni influenzate dal gospel?
Sapevo qualcosa, perché poco prima di entrare in studio per registrare,
è uscito un grande articolo a Nashville, nel Tennessee, che diceva "Bob
Dylan ha confessato di essere un cristiano rinato". La cosa non
m’importò in quel momento. Essendo una cantante professionista, ero lì
per fare il mio lavoro.
Ho letto che anche tuo figlio ha avuto un ruolo in quel disco. Puoi
raccontarmi quella storia?
Beh, eravamo seduti in casa e Bob è tornato. Lui e i produttori Jerry
Wexler e Barry Beckett avevano ovviamente avuto un grande dibattito su
una particolare canzone che non sapevano se sarebbe dovuta andare nel
disco. Il dibattito è andato avanti così tanto tra loro che hanno
riportato la canzone a casa per farcela ascoltare.
Mentre lo ascoltavamo, la canzone iniziò a parlare di "Penso che lo
chiamerò maiale, penso che lo chiamerò orso". All'epoca mio figlio aveva
circa due, tre anni, e quando diceva: "Penso che lo chiamerò maiale",
Tony si chinava e rideva davvero forte. "Mamma! Mamma! Ha detto un
maiale! Ha detto, penso che lo chiamerò maiale, mamma." Poi hanno detto:
"Penso che lo chiamerò orso", e Tony sarebbe caduto e avrebbe riso.
"Mamma, ha detto, penso che lo chiamerò orso!" Bob inizia a guardare
Tony. Ha appena iniziato a guardarlo. Ogni volta che Bob chiamava il
nome di un animale, Tony scoppiava a ridere. Bob ha detto , "Ok,
metteremo la canzone nel disco".
Cosa succede dopo quelle sessioni? Lo sapevi che stava arrivando la
partenza del tour?
Quando abbiamo finito di registrare il disco, sono tornata a casa. Ci è
stato detto dal management di Bob che si sarebbero messi in contatto con
noi. Poi siamo andati a Santa Monica. Abbiamo provato per alcune
settimane, poi siamo andati a New York per partecipare al “Saturday
Night Live”.
Com'era?
È stato fantastico e sorprendente. Ho adorato il Saturday Night Live.
Ho adorato guardare Gilda Radner, John Belushi e Dan Aykroyd e tutti
loro. Andare a fare Saturday Night Live e incontrare tutti questi
ragazzi che vedevo in TV ogni sabato è stato molto eccitante.
Dopo il Sarurday, sono tornata a casa per alcune settimane, poi a Santa
Monica abbiamo fatto le prove per quasi tre mesi di fila prima di andare
in tournée.
Wow, è un sacco di prove.
Bene sì. Ha detto al mondo che è un cristiano rinato. Ha detto al mondo:
"Quest'uomo ebreo crede in Gesù Cristo e crede nella Parola di Dio" e
tutto il resto. Uscirà per la strada e farà qualcosa che, in tutti
questi anni, non aveva fatto prima...! Perché se ascolti i testi di
molte delle sue canzoni, stava parlando le parole positive di Dio, amore,
giustizia, solidarietà e uguaglianza. Stava parlando di tutto questo in
tutte le altre sue canzoni. Ora ha detto con coraggio al mondo che crede
in Gesù Cristo.
Quindi ecco le prove, stiamo lavorando a questo spettacolo, lavorando
su questo show in modo che quando sarà nei teatri la gente non pensi che
sia solo un espediente. Devono capire che è sincero e veritiero reale
riguardo a quello che sta cantando.
Musicalmente, in tutte quelle prove, la band e tutti i cantanti si sono
uniti velocemente?
È andata bene, ma vedi, sono una ragazza della vecchia scuola. Entro,
faccio quello che devo fare e poi esco. C'era solo una persona con cui
avevo un rapporto stretto, e questo perché la conosco da quando avevo
sette anni, Carolyn Dennis. Quando le prove sono finite, vado a
prendermi qualcosa da mangiare, torno indietro, ascolto la musica, provo
le canzoni, e poi mi rilasso e mi sveglio il giorno dopo per andare di
nuovo alle prove.
Cosa ricordi di quei primi spettacoli?
Mi sentivo benissimo, e il motivo per cui mi sentivo benissimo era
perché ero nella mia confort zone. Possiamo andare là fuori e cantare la
Parola di Dio e sperare che le persone che hanno pagato i loro soldi per
venire ad ascoltare ricevano il messaggio. Quando arrivo nel backstage
per salire sul palco, ascolto e guardo le persone.... e mi sintonizzo
spiritualmente su quello che sto per fare.
Diversi articoli dicevano che c'erano alcune persone incazzate,
arrabbiate che fischiavano. Beh, indovina un po' Ray? Non ne ho mai
sentito parlare. Immagino che Dio abbia bloccato il mio udito in modo
che non lo sentissi. Perché io sono salita su quel palco da sola,
raccontando la storia di una donna anziana che sale su un treno, se
avessi sentito alcune di quelle persone che fischiavano, come dicevano
alcuni articoli di giornale, la cosa mi avrebbe devastato. Questo
avrebbe incasinato la mia mente e il mio cuore. Devo davvero dire che
Dio mi ha portato via tutto questo. Tutto quello che so è che sono
andata fuori sul palco concentrata su quello che stavo per dire e quello
che stavo per fare. Questo è quello che ho fatto.
Com'è successo che hai aperto lo spettacolo con quella storia del treno?(Regina ha iniziato i primi spettacoli gospel di Dylan in piedi da sola
sul palco, raccontando una storia spirituale su una donna che cercava di
salire su un treno)
Eravamo a teatro, avevamo fatto il soundcheck e tutto il resto. Ho visto
Bob grattarsi la testa e ho pensato, okay, qualcosa non va. Sta pensando
intensamente. Così mi sono avvicinato a lui e gli ho detto: "Cosa c'è
che non va?" Disse: "Manca qualcosa". Ho detto: "Cosa vuoi dire?" Ha
detto: "Questo è un grande spettacolo, ma manca qualcosa e non so cosa
sia".
Sono una burlona, settima figliao di otto fratelli. Vengo da una famiglia che ama
giocare, scherzare e fare le sciocchezze. L'ho guardato e ho detto: "Ok,
so cos'è". Ha detto: "Cosa?" Dissi: "Sto per salire sul palco e
racconterò questa storia su questa vecchia che piangeva..."... Dopodiché, le altre ragazze saliranno sul palco e la prima canzone
che canteremo è ‘If I’ve got my ticket lord, can I ride?’”
Mi ha guardato come se avessi perso la testa. Uscì dalla stanza e io
iniziai a ridere. È tornato con i membri della band Jim Keltner, Tim
Drummond, Fred Tackett e gli altri. Disse: "Dì loro quello che hai
appena detto a me". Ho detto: "Stavo giocando!" Disse: "Okay, beh,
fallo
di nuovo e dì loro quello che hai appena detto a me".
Ho raccontato l'intera storia di nuovo, tranne che ora siamo nel
camerino e tutte le ragazze, tutte le coriste, il ragazzo delle luci,
eravamo tutti lì dentro. Ho raccontato di nuovo la storia e, quando ho
raccontato la storia, nessuno ha detto niente.
Poi, sono passati circa 15, 20 minuti prima che arrivasse il momento di
salire sul palco. Noi ragazze ci stavamo mettendo i vestiti, il trucco e
tutto il resto. Bob è entrato nel camerino e ha detto: "Ecco come
apriremo il mio spettacolo". Ho detto: "No, no, no. Stavo giocando,
stavo solo giocando!" Ha detto: "Va bene. Canta. Vai là fuori. È così
che apriremo il mio spettacolo".
Ho detto a una persona: "Oh amico. Hai un quarto di dollaro?" Disse: "Un
quarto? Perché vuoi un quarto?" Dissi: "Devo usare un telefono pubblico
e chiamare mio padre". Ha detto: "Cosa?" Dissi: "Quella storia che ti ho
raccontato era la storia che mio padre raccontava spesso in chiesa". Mio
padre, essendo un pastore, raccontava storie, e questa era una delle
storie che ricordo che raccontava.
Mi ha dato i soldi. Sono andato al telefono pubblico. Ho chiamato mio
padre e gli ho detto: "Papà, ti ricordi quando mi dicevi che il mio
parlare mi avrebbe benedetto o mi avrebbe maledetto?" Ha detto: "Sì". Ho
detto: "Beh..." e gli ho detto cosa era successo. Ha iniziato a ridere.
Mi ha detto: "Questa è una benedizione". Ho detto: "Papà, non posso
farlo!" Ha detto: "Sì, puoi. Ti dirò cosa fare. Quando uscirai su quel
palco, quel grande riflettore luminoso che sarà su di te, guarda in quel
riflettore". Ho detto: "Perché?" Disse: "Perché Dio sarà lì, e io sarò
lì. Saremo proprio lì, quindi ogni volta che ti innervosisci, guarda in
quella luce e sappi che siamo proprio lì". Ho detto: "Va bene".
La moglie di Fred Tackett, il chitarrista, era in tour con noi in quel
momento e, essendo un'attrice, mi ha tirato da parte e mi ha dato alcune
indicazioni. Disse: " Quando stai raccontando la storia, bisogna che tu
sia il narratore e racconti la storia come un narratore. Quando il
narratore inizia a parlare del conduttore, devi cambiare la tua voce e
diventare il conduttore. Quando la vecchia donna inizia a parlare, devi
cambiare la tua voce ed essere la vecchia. Quando stai leggendo la
lettera del figlio che è ferito in ospedale, cambia la tua voce e sii il
figlio". Ero tipo "Oh mio Dio".
Stava succedendo tutto questo prima di salire sul palco per farlo per la
prima volta?
Esatto, assolutamente.
Sono entrata nella stanza, ho pregato e poi è arrivato il momento di
iniziare lo spettacolo. Sono salita sul palco, da sola, e ho raccontato
la storia. Quando sono arrivata alla parte in cui si dice: "Il
conducente ha rimesso la vecchia sul treno e, quando la vecchia è salita
sul treno, il treno inizia lentamente a muoversi", in quel momento, il
pianista inizia a emettere suoni per imitare le ruote del treno in
movimento. Mentre il tastierista faceva ciò, le altre coriste uscirono,
perché la luce in quel momento era solo accesa su di me. Quando il
tastierista suonò era il segnale, e le coriste si sono messe in
posizione.
Avevo ancora il microfono in mano e la prima canzone è stata "If I Got
My Ticket, Lord". Ero la prima voce di quella canzone. Quindi sono
passato da [imita il suono del pianoforte] a “If I got my ticket Lord…”
e siamo andate avanti.
Abbiamo fatto 25 minuti di gospel. Alla fine di quelle canzoni, la luce
si è abbassata. Quando la luce si è riaccesa, Bob Dylan era in piedi sul
palco e stavamo facendo "Gotta Serve Somebody".
È un modo potente per aprire lo spettacolo ogni sera.
Sì, molto potente.
C'è un duetto che hai fatto con lui, "Mary From The Wild Moor", in cui
suonavi l'autoharp. Era anche l'unica canzone su cui hai suonato uno
strumento?
Altro che tamburello, sì. Mi ha insegnato l'autoharp. Mi ha insegnato
gli accordi.
Oh veramente? Immaginavo fosse uno strumento che già suonavi.
Oh no. Non ne sapevo niente.
Sta facendo un'altra di quelle serie pirata che include alcune delle
cose successive che avete fatto insieme. Nella tracklist c'è "Mary From
The Wild Moor". Dice che viene da una prova, quindi spero che sia uno
dei duetti. [Springtime in New York è uscito dopo che abbiamo parlato, e
"Mary" è davvero in uno dei loro duetti.]
Oh, spero che lo sia, perché te lo dico, mi è piaciuto farlo. L'avevo
sentito fare quella canzone da solo e poi ha deciso: "Regina, voglio che
tu impari questa canzone". Ero tipo "Okay". La sfida era imparare i
testi e voltarsi dopo aver imparato i testi per imparare a suonare l' autoharp.
“Mary The Wild Moor” ha così tanti versi, non è divertente.
Questo è davvero essere gettato nel profondo. Non solo imparando la
canzone, ma poi devi imparare uno strumento nuovo di zecca da suonare
davanti a migliaia di persone.
Oh, sì, uno strumento che non avevo mai suonato prima.
C'erano molte cose che venivano aggiunte durante il tour e che non avevi
provato, o cose cambiate che dovevi imparare al volo?
Beh, Bob non ha mai cantato sempre la stessa canzone allo stesso modo.
Ci sono state volte in cui è salito sul palco e si poteva dire che si
sentiva e pensava in modo diverso. Ho imparato a guardare la sua bocca e
a guardare i suoi piedi. Questo mi ha aiutato a capire se cambiava il fraseggio
di una canzone, o voleva che il ritmo cambiasse, o che rallentasse o
accelerasse, o dargli un'altra sensazione. Lo guardi e puoi
semplicemente entrare in azione.
Hai delle canzoni preferite in particolare che ti piaceva cantare ogni
sera?
Mi è piaciuta “Man Gave Names to All the Animals” perché Carolyn Dennis
è la madrina di mio figlio. Quando siamo andati in studio per
registrarla, eravamo solo io e Carolyn a fare da sottofondo a quella
particolare canzone. Jim Keltner mi ha insegnato a tenere il tempo con
le bacchette. Quando senti quel donk, de-donk, de-donk , sono io che
suono i bastoncini.
Ovviamente, era uno spettacolo molto religioso. Era così anche nel
backstage? Stavate pregando insieme? C'era una sorta di lettura della
Bibbia, qualcosa del genere accadeva?
Oh si. Abbiamo pregato. Abbiamo pregato prima ancora di salire sul
palco. Ci siamo tutti alternati quando abbiamo girato intorno prima che
fosse il momento dell'inizio dello spettacolo. È stato fantastico poter
sapere che tutti si tenevano per mano e che tutti pregavano. Forse
c’erano uno o due che non erano nel cerchio, ma andava bene anche
questo, abbiamo pregato per loro.
Una cosa che non hanno incluso nel cofanetto [Trouble No More] sono i
lunghi sermoni che Bob ha tenuto dal palco. Chissà se erano simili a
quelli della tua infanzia, anche se Dylan è diverso ovviamente non è un
predicatore tradizionale.
Questo è come lo vedo. Puoi andare a scuola tutto il giorno e uscire e
dire alla gente che sei stato addestrato, ma sei chiamato? Posso solo
dire questo: so che essendo in viaggio con Bob Dylan, Bob è stato
chiamato. Dio lo ha chiamato. Aprendo la bocca e parlando del mondo,
delle bugie e di Dio, e citare le scritture era naturale per lui perché
gli era stato detto da Dio di fare ciò che aveva fatto. Per me, è stato
perfetto, come ascoltarlo citare le scritture e parlare con le persone e
assistere le persone come guardare un bambino che nasce. Molto naturale.
Come ti sei sentita più tardi quando ha iniziato a suonare canzoni più
vecchie? Ti è piaciuto suonare isuoi più grandi successi o hai preferito
fare tutte le nuove canzoni, tutte le canzoni cristiane?
Lascia che te lo dica: posso alzarmi tutto il giorno e cantare canzoni
su Dio. Amo il Signore, e questo è il mio cuore, e questa è la mia
passione, e questo è ciò che sono. È il mio DNA quando si tratta di
musica. Voglio sempre cantare canzoni e presentare alle persone Gesù
Cristo. Voglio farlo sempre. Voglio avere sempre una preghiera nel mio
cuore, sulle mie labbra, per aiutare qualcuno ed essere quel faro di
luce di cui qualcuno potrebbe aver bisogno e che potrebbe essere perso.
Ma allo stesso tempo, Dio mi ha dato un lavoro per salire sul palco ed
esibirmi con Bob Dylan. Sono contenta che Bob stesse cantando la sua
musica gospel, e quando ha iniziato ad aggiungere un po' della sua altra
musica, anche a me andava bene.
Abbiamo parlato molto di Slow Train Coming, ma hai fatto anche Saved e
Shot of Love. Ti salta fuori qualcosa riguardo alle sessioni di quei due
dischi, che sono anche fantastici?
Amo, amo, amo Saved. " Saved" è una di quelle canzoni che mettono quella
cosa dello Spirito Santo nel tuo feed e vuoi solo cantare e ballare.
Adoravo suonare il tamburello e in "Saved" ho avuto modo di suonare quel
tamburello. È stato meraviglioso.
Registrare l'album Saved è stato simile a Slow Train Coming ?
Sì. Anche andare in studio per registrare Saved è stato davvero
fantastico e potente. In Slow Train Coming, non sapevamo con certezza
quali fossero le canzoni finché non le riportava a casa dove stavamo
tutti, ma con Saved lo sapevamo tutti. Stavamo per entrare e divertirci
con lo Spirito Santo.
La band e il team di produzione "Saved" (Regina in rosso)
Hai scritto un paio di canzoni con lui, tra cui "Don't Make Her Cry",
ispirata a ciò che gli ha detto tuo padre, e "Give Him My All " , che
alla fine hai registrato tu stesso. Come è avvenuta la scrittura con
lui?
Ho sempre ricordato a Bob quello che ha detto mio padre. Ho detto: "Alla
fine dovremo scrivere questa canzone". Lui ha iniziato a ridere e ha
detto: "Quale canzone?" Dissi: "Le parole che ha detto mio padre: non
farla piangere". Ha detto bene.
"Give Him My All" è stato scritta mentre ero in viaggio con lui, ed
eravamo sull'autobus in viaggio verso un'altra città. Avevo carta e
penna in mano e lui disse: "Cosa stai facendo?" Dissi: "Sto scrivendo
una canzone e sono bloccata. Non so cosa fare ora". Disse: "Posso
vederla?" Gliela ho fatta vedere e lui l'ha guardata. Ha preso la penna,
ha girato la pagina e iniziò a scrivere. Gli ho chiesto: "Cosa stai
scrivendo?" Ha detto: "Sto scrivendo il ponte della canzone". Ha scritto
il ponte per "Give Him My All".
Come mai hai deciso di registrarlo con le tue sorelle così tanti anni
dopo?
Quando abbiamo registrato il nostro primo disco, abbiamo inserito
"Blowin' in the Wind" sul nostro disco, e volevo anche mettere quella
canzone dato che era una canzone di cui parlava di dare tutto di te
stesso a Dio. È quello che facciamo io e le mie sorelle ogni volta che
ci alziamo e cantiamo. Cantiamo come se non ci fosse un domani. Questo è
quello che facciamo.
Hai mai registrato “Don't Make Her Cry”?
Non ancora. Non lo registrerò. Sto cercando di trovare un artista
maschio che la voglia registrare. Sto cercando di convincere Buddy
Miller a registrarla. Quello è mio fratello ma di un'altra madre.
Come hai agganciato Buddy?
Ha sentito me e le mie sorelle cantare su un disco con il bassista dei
Fairfield Four. Isaac Freeman ha registrato il suo primo disco da
solista e non voleva che nessuno cantasse in sottofondo se non le figlie
di Sam McCrary. Buddy Miller l'ha sentito e ha detto: "Chi sono quelle
ragazze? Le voglio nel mio prossimo disco".
Hai girato molto per tre anni. Cosa succede alla fine del 1981? Si parla
di altro?
Beh, sono rimasta con Bob e ho fatto altre cose con lui. Poi sono
rimasta sul suo libro paga ancora per qualche altro anno, e poi ho
iniziato a cantare e fare altre cose.
Che tipo di lavoro hai fatto per quei due anni dopo i grandi tour?
Sono uscita on the road e ho fatto spettacoli teatrali con Tyler Perry.
Ho cantato con un uomo di nome Dr. Bobby Jones che aveva uno show
televisivo su BET. Quindi ho fatto ancora il lavoro di sessione. Sono
spesso in viaggio con le mie sorelle. Prima di fondare le McCrary
Sisters, avevamo un gruppo chiamato CBS Singers, che stava per cugini,
fratelli e sorelle. Era uno dei nostri fratelli e tre dei nostri cugini
e tutte e quattro le ragazze. Abbiamo viaggiato e cantato e abbiamo
registrato un disco.
Hai fatto qualcos'altro con Dylan mentre eri sul suo libro paga in
quegli anni?
Ogni tanto mi chiamava. Esco e canto questo, canto quello, faccio un po'
questo, faccio un po' quello e questo, era tutto.
Ho visto te e le tue sorelle un paio di volte di recente [nel 2012 e nel
2013] fare " Blowin' in the Wind" con Bob. Come è successo?
È venuto in città, mi ha chiamato e mi ha detto che sarebbe venuto a
vederci. Ho detto: "Finisci ancora il tuo spettacolo con 'Blowin' in
the Wind'?" Ha detto: "Sì". Dissi: "Beh, io e le mie sorelle saremo sul
palco e la canteremo con te". Rise e disse: "Va bene, dai".
Avete dovuto provarlo con lui tutti questi anni dopo o siete
semplicemente saliti sul palco e l'avete fatto?
Come ho detto, quando l'ho incontrato per la prima volta, quella era una
delle canzoni che ricordavo da molto tempo. Le mie sorelle e tutti noi
lo sapevamo già. Ci siamo appena presentati sul palco e lui credeva che
sapessimo cosa stavamo facendo.
È bello che voi due siate rimasti in contatto.
Terrò sempre il contatto con Bob. Sarò sempre preoccupata e starò sempre
in contatto con lui perché è un brav'uomo. È davvero un gran brav' uomo.
Grazie a Regina McCrary per aver trovato il tempo di parlare! Seguite le
McCrary Sisters tramite il loro sito web o Facebook . E date un'occhiata
al loro ultimo singolo "Amazing Grace".
1979-11-01, Warfield Theatre, San Francisco, CA
Jim Keltner racconta trent’anni alla batteria per Bob Dylan
di Ray Padgett (22 luglio 2021)
(Source:
https://dylanlive.substack.com/p/jim-keltner-talks-thirty-years-of)
(Source:
https://dylanlive.substack.com/p/jim-keltner-im-there-because-bob)
Traduzione di Silvano Cattaneo
Jim Keltner ha suonato la batteria per quel genere di artisti che
per ricordarli basta semplicemente il nome. Neil, Joni, Mick, Elton,
Willie, Tom, John, George e Ringo. E, naturalmente, Bob.
In effetti, pochi musicisti hanno lavorato con Bob Dylan per un
periodo di tempo più lungo di Jim Keltner. Si incontrarono la prima
volta in una session del 1971: la sezione ritmica di Keltner,
guidata da Leon Russell, accompagnò Bob in "Watching the River Flow"
e "When I Paint My Masterpiece". Trent’anni dopo, Keltner andò in
tour con Dylan sostituendo senza alcun preavviso il batterista
George Receli che si era infortunato al tunnel carpale.
Nel mezzo sono successe parecchie cose. Keltner è stato il
batterista dei tre "anni gospel" di Dylan. Ha suonato in diversi
album – Pat Garrett & Billy the Kid, Saved, Shot of Love, Empire
Burlesque, Time Out of Mind – e vari brani. È diventato il
batterista di riferimento di Bob per gli eventi unici, dallo
speciale per il decimo anniversario del Letterman Show al Japan's
Great Music Experience in cui Bob ha suonato accompagnato da una
grande orchestra; fino, ovviamente, al “Bobfest”, il concerto dove
le più grandi star hanno celebrato i trent’anni di attività di
Dylan.
E vogliamo forse dimenticare che Keltner era il sesto Travelling
Wilbury? George Harrison gli chiese persino di diventare un membro
ufficiale della band, ma Jim disse no (però ha ancora il suo
soprannome di Wilbury: Buster Sidebury).
Quando ci siamo sentiti al telefono un mese fa, c'erano perciò molte
cose da discutere. Non siamo riusciti a parlare di tutto, ma nel
corso di una conversazione lunga, argomentata e affascinante, ho
cercato di affrontare il più possibile le sue collaborazioni con
Dylan.
La prima volta che incontrasti Bob Dylan fu la session del 1971 con
Leon Russell?
Sì. Ero in Inghilterra con la mia famiglia e ricevetti una
telefonata da Leon per incontrarmi a New York con Carl [Radle,
bassista] e Jesse [Ed Davis, chitarrista].
All'epoca non mi rendevo conto di quanto fossero importanti quei
ragazzi nella mia vita. Leon, Jesse e Carl. Eravamo una sezione
ritmica. In realtà, io non avevo ancora combinato granché, ma stavo
facendo delle session e ne sarebbero arrivate molte altre. Ho sempre
amato il fatto che venissimo tutti e quattro dall'Oklahoma, c’era
anche quel piccolo legame.
I miei ricordi di quella session sono come un sogno, davvero. Ero
seduto alla batteria, Leon stava suonando e noi ci siamo accodati.
Ho dato un’occhiata in giro e ho visto Bob in piedi di fronte al
muro. Potevo vedere le sue labbra muoversi. Stava scrivendo su un
blocchetto. Pensai: "Wow, scrive i testi mentre suoniamo." Forse
aggiustò qualche verso, sistemando qualcosa per adattarlo al ritmo.
Mi fece impazzire.
Il suo fraseggio è unico. Ho appena fatto un'intervista su Willie
Nelson e stavo parlando del suo fraseggio completamente originale,
molto simile a quello di un jazzista. Mentre parlavo di Willie, mi
sembrava di parlare di Bob. C’è questa somiglianza tra loro:
entrambi sono unici nel loro cantato, nel modo in cui si esprimono e
come le loro voci suonano. Li ho messi tutti e due nella categoria
jazz. Non cantano come il tipico cantante rock.
Ascoltare quello che allora registrammo fu semplicemente
straordinario, come un’esperienza extracorporea per me. Quella
piccola canzone era Watching the River Flow e ancora oggi mi
emoziona quando la sento. Mi riporta indietro. Nel corso degli anni
mi sono sempre chiesto cosa sarebbe successo se fossimo diventati la
sezione ritmica di Bob per altre cose. Ma non è andata così.
Ne hai parlato come di un cantante jazz, o quasi. So che tu hai
iniziato suonando jazz. Pensi che sia stata quella la strada
attraverso cui ti sei collegato alla sua musica?
È una forte possibilità, anche se non è stata una cosa cosciente.
Per me, suonare con Bob è sempre stata una delle cose più naturali
che potessi fare. Ma forse ci hai visto giusto. Potrebbe essere
quella sensazione di libertà che provi quando suoni jazz, come se
avessi solo bisogno di conoscere la canzone, conoscerne la forma e
poi provarci, senza paura.
La cosa che amo di Bob è il suo coraggio. Da parte di alcuni artisti
c'è un coraggio che si trasmette ai musicisti che li accompagnano. E
quando accade ottieni il meglio dai musicisti perché non sono
preoccupati se sono perfettamente in tempo, se stanno correndo
troppo o se stanno andando troppo lentamente.
Non si tratta di trovare il tempo esatto o l’atmosfera giusta, ma
trovare quella cosa che fa sì che la canzone prenda vita. Io adoro
essere in grado di trovare il tempo giusto, ma amo anche la fase
esplorativa, quando lasci che la canzone ti viene addosso anziché
essere tu a saltare su di lei.
L'altro giorno, ad esempio, stavo parlando con il mio grande amico
Matt Chamberlain che attualmente suona la batteria con Bob. Conosco
Matt da molto tempo, fin da quando aveva appena iniziato. Mi
raccontava che una volta Bob gli ha detto, prima che iniziassero a
registrare: "Suona e basta. Non cercare di trovare una cosa per
accontentarti di quella". Magari non ricordo esattamente le sue
parole, ma il senso era quello, proprio come ti dicevo io prima.
Lascia che la musica accada. Non sforzarti di trovare "una parte"
per la canzone. Questo è abbastanza simile al jazz. E questo è il
Bob Dylan che ho sempre conosciuto.
Un paio di anni dopo incidesti Knocking on Heaven's Door e la
colonna sonora di Pat Garrett e Billy the Kid. In che modo fare una
session per una colonna sonora fu diverso dalla prima session?
A quei tempi registrare la canzone per un film significava suonare
mentre guardavi le immagini. Oggi non credo si faccia più così, ora
il compositore riceve tutto già ben definito prima.
Knockin' on Heaven's Door doveva colpire profondamente le corde del
cuore perché era una scena di morte. La sequenza indugiava su Katy
Jurado, questa grande attrice messicana, sui suoi grandi occhi
marroni pieni di sentimento. Piange perché suo marito sta morendo in
riva al fiume. Guardare la scena mentre ascoltavo la voce di Bob fu
davvero... Piansi. Fu la prima volta che piansi mentre suonavo.
Pensai: "Gesù, devo stare attento o farò diventare questo take uno
schifo.”
Credo che essere commosso fino alle lacrime mentre suoni il tuo
strumento sia un regalo. Anni dopo, al contrario, feci una session
con Randy Newman dove il testo della canzone mi colpì così tanto che
non potei fare a meno di ridere. Non potevo ridere ad alta voce, ma
dentro di me ridevo così forte che mi spaventai di nuovo allo stesso
modo. E ripensai: "Oh no, sto per far diventare questo take uno
schifo.”
Facciamo un salto in avanti di qualche anno, ai gospel tour, il tuo
periodo più lungo con Dylan: tre anni. Ho letto che prima avevi
declinato alcuni inviti ad andare in tour con lui. Perché allora
decidesti di partecipare a quei tour?
Bob mi chiese di unirmi alla sua band un paio di volte, ma per vari
motivi ebbi sempre qualche timore. Inoltre, a quei tempi lavoravo
così tanto in studio che non volevo perdermi niente. Pensavo che se
non fossi andato in tournée con lui era lo stesso okay, perché prima
o poi l’avrei incontrato in studio.
Una sua chiamata per un tour cominciava con un invito a suonare. Era
quasi come un'audizione, ma sapevo già che se mi fossi presentato
avrei avuto la parte.
Quella volta, invece, fu un pò diverso. Le istruzioni ricevute erano
che avrei dovuto scendere [nello studio], sedermi nella stanza da
solo e ascoltare il suo nuovo disco [Slow Train Coming]. Poi, finito
di sentirlo, tornare su e incontrare Bob. Pensai: okay, è
interessante.
Arrivai nel suo studio, a Santa Monica in Main Street. Mi sedetti lì
e un’assistente fece partire la musica. Una canzone dopo l'altra
cominciò a prendermi a pugni in testa, a colpirmi il cuore. Hanno
iniziato a succedermi tutte le cose più sdolcinate che puoi
immaginare. Ecco di nuovo Dylan che mi fa piangere, ed è stato un
pianto incontrollabile! [ride] Quando il disco finì, avevo consumato
mezza scatola di Kleenex.
Andai di sopra, aprii la porta e lui era seduto lì, davanti alla sua
macchina da scrivere. Dissi: "Bob, non so cosa farai, ma qualunque
cosa sia, voglio venire a farla con te." E così fu.
Poi iniziarono le prove. Provammo tanto. Ricordo che mi sembrava
tutto molto naturale. Aveva dei musicisti davvero fantastici. Aveva
Tim Drummond al basso e Tim era un grande musicista innato. Non
c'era logica nel suo modo di suonare. Era esattamente il tipo di
musicista che Bob amava, nel senso che non cercava di capire ma ci
si attaccava. Suonava proprio accordandosi a quello che stava
succedendo in quel momento. Poi c’era Fred Tackett alla chitarra.
Conoscevo Fred dai Little Feat. Avevamo già suonato insieme in
alcune session ed era sempre molto facile e divertente suonare con
lui. Fred e Tim erano incredibili. Poi c’era Spooner [Oldham]
all’organo e Spooner era l'eroe di tutti. L'uomo che aveva suonato
il Farfisa in When a Man Loves a Woman.
Quel tipo è una leggenda!
La leggenda dei Muscle Shoals [Studios]. Ma forse è anche la persona
più dolce del mondo intero. Quella era la sezione ritmica
principale. E poi Terry Young, il pianista, aveva delle doti
incredibili.
Mi sentivo circondato dal soul. Era una band davvero piena di
sentimento, persone piene di sentimento. Il coro gospel alle sue
spalle era assolutamente irreale. Mi sentivo proprio nel posto
giusto. Poi, in virtù della natura della musica, iniziai ad avere
una specie di vita di preghiera. E sai com’è, più preghi e più
acquisti fiducia in te stesso, fa parte della preghiera. E aumenti
la tua fede. Pensai: "Wow, è proprio sorprendente."
Partimmo in tour iniziando da San Francisco, al Warfield [Theatre],
la casa di Bill Graham. È un ottimo posto per suonare. Il palco è
molto vicino al pubblico. Il modo in cui è costruito è che sale
ripidamente, così che quando sei sul palco stai quasi guardando un
muro di persone piuttosto che un mare di persone.
Ero seduto lì, a suonare dietro a Bob, e guardavo le facce. Non
dimenticherò mai quel ragazzo con una bandana rossa intorno alla
testa. Penso che stesse fumando perché aveva qualcosa in mano, e
probabilmente non era una sigaretta. [ride] Si alzò e disse:
"Fottiti Dylan! Rock and roll!" Poi proprio accanto a lui – amico,
lo ricordo chiaro come il sole – proprio accanto a lui era seduto un
ragazzo con addosso una giacchetta sportiva, assieme a sua moglie, o
la sua ragazza, e un bambino piccolo. Si alzò in piedi dopo il "Rock
and roll!" e disse: "Ti amiamo, Bob! Adoriamo la tua musica!"
Fu così fino alla fine del tour. Come una rissa tra il pubblico. Non
una lotta nel senso letterale, ma un sovrapporsi di urla e di inviti
ad andare avanti. Ho avuto proprio l'impressione che a Bob piacesse
perché sapeva che stava colpendo un nervo scoperto.
Come quando passò all’elettrico e suscitò più o meno le stesse
reazioni.
Esattamente. Non che lo volesse. Non ho mai avuto l'impressione che
facesse quelle cose solo per attirare l'attenzione o qualcosa del
genere. Stava facendo ciò che intendeva fare, e il suo pubblico lo
avrebbe amato o lo avrebbe odiato.
Man mano che il tour proseguì, penso che la gente si rese conto che
la musica parlava da sola. Non stava solo parlando di Gesù. Penso
che le persone – i non credenti, dovrei dire – abbiano iniziato a
rendersi conto di quanto fosse splendida la musica. Perché era
davvero musica splendida. Per quanto mi riguarda, quelle canzoni
gospel sono tra le più belle mai scritte. Puoi immaginare quanto sia
stato eccitante far parte di tutto quel progetto. È stato il periodo
più lungo in cui sono stato con qualcuno in una band.
Ci fu una notte a Seattle che non dimenticherò mai. Era un bel
concerto, tutto stava andando bene, tutto girava al massimo. Finché
arrivammo a Solid Rock, brano che adoravo suonare perché era veloce
e aveva la ferocia dentro. Bob andava a mille quella notte e le
parole colpivano forte. Alla fine della canzone ci furono gli
applausi che ci si aspettava, ma andarono avanti per almeno cinque
minuti. Posso dimostrarlo: ho una copia del nastro registrato dal
mixer. Dovetti insistere parecchio per averne una copia, ma quello
fu un evento straordinario per uno che suona in una band. Non riesco
a immaginare cosa sia stato per Bob. Cinque minuti di standing
ovation per una canzone che non era nemmeno in chiusura di concerto.
Ci furono momenti così.
Ne era passata di strada dal ragazzo con la bandana rossa che urla
"Fottiti"!
Penso che dovrei definirlo un momento clou della mia carriera di
musicista. È una di quelle cose che non dimentichi mai. Ci furono
altri momenti simili durante quel periodo.
Avesti la percezione che il tour era cambiato durante quei tre anni?
So che alcune persone andavano e venivano, specialmente tra le
coriste, ma era cambiata anche l’atmosfera?
Sì. Una delle cose che cambiò e che rese le cose più facili per il
pubblico, fu che gli furono date alcune delle canzoni più vecchie.
Nel primo tour suonammo solo le canzoni di Slow Train Coming. Ad
ogni tour successivo sembrava che aggiungessimo sempre più i suoi
classici. Ricordo la sera in cui suonammo per la prima volta Like a
Rolling Stone. Ricordo di aver avuto i brividi perché il pubblico
impazzì.
Dopo i gospel tour, il tuo lavoro successivo con Dylan è stato
Empire Burlesque. A quel punto avevi alle spalle già un certo numero
di album e parecchi tour. Qual è la differenza tra suonare con lui
in studio o in concerto?
Con la maggior parte degli altri artisti, suonare dal vivo e suonare
in studio sono due cose piuttosto diverse. Quando suono per un
disco, di solito cerco di portare in studio cose differenti
dall'ultima volta che ho suonato. Per me è sempre stato così.
Suonare in studio è una specie di divertente avventura, mentre
andare in tour significa provare e imparare le canzoni.
Con Bob suonare dal vivo non era poi così diverso dall'essere in uno
studio perché la parte avventurosa rimaneva intatta. È quello che ti
ho detto prima: lui non vuole dover ascoltare sempre e sempre la
stessa cosa, proprio come io non voglio dover suonare sempre e
sempre la stessa cosa.
Ci sono situazioni in cui ogni volta devi suonare un arrangiamento
esattamente nel modo in cui è stato provato e perfezionato. L'ho
fatto durante il tour “Old Friends” di Simon & Garfunkel. In questi
casi, se la musica è davvero buona non è proprio un lavoro, è anche
divertimento. Però è un divertimento disciplinato.
Come sei stato coinvolto nei Traveling Wilburys? È stato grazie a
Dylan? So che avevi lavorato anche con George Harrison.
Fu tutto merito di George. George divenne come un fratello. Gli
piaceva avermi intorno per qualunque cosa. Quando stava lavorando a
un progetto, io c’ero. Mi sembra ci fosse stato l'album Cloud 9 [di
George Harrison] prima dei Wilburys, corretto?
Cloud 9 è del 1987. Quindi sì, penso che abbia preceduto i Wilburys
di poco.
Ero nel suo studio. Lo chiamavamo HOT Studio, da Henley-on-Thames, e
ci stavamo divertendo un mondo. Ci siamo sempre divertiti a suonare,
specialmente in quello studio perché era in casa sua. La casa era un
enorme parco dei frati del monastero. Era come un sogno.
Jeff Lynne stava lavorando con lui a quell’album, Cloud 9. Jeff e
George avevano lo stesso senso dell'umorismo. Quel genere di folle
umorismo inglese alla Monty Python. Più birre bevevano, più stupidi
diventavano. Eravamo seduti lì una notte, penso avessimo appena
inciso This Is Love, la mia canzone preferita del disco. Si stavano
divertendo e cominciarono a inventare nomi per una band.
Continuarono ad andare avanti finché si focalizzarono su Traveling
Wilbury. Pensavano che fosse semplicemente esilarante.
Poi, finito quel lavoro, sentii da George che erano andati a casa di
Bob e avevano inciso una canzone [Handle with Care]. La cosa
successiva che mi disse fu proprio: “Ehi, stiamo per formare una
band. Saremo i Traveling Wilburys. Faremo un disco." E così
iniziammo a registrare.
A proposito di nomi divertenti, chi ti diede il soprannome di Buster
Sidebury?
Sempre George. Si aspettavano che diventassi un Wilbury. Ma io
allora pensavo: hai Roy [Orbison], hai Bob [Dylan], hai Tom [Petty],
hai Jeff [Lynne] e hai George [Harrison]. Sono cinque ragazzi, uno
al centro, due ai lati. Se ci metti un altro Wilbury, si sbilancia.
Da che parte dovrei stare? So che è uno strano modo di ragionare, ma
pensavo così.
Inoltre erano cinque icone. Io potrei essere considerato un'icona
nel mondo della batteria, ma non è di questo che stiamo parlando.
[ride] Per me fu naturale dire di no. Poi mi venne in mente: io sono
un Sidebury. George rise. Lo adorava, ma dovevo ancora convincerlo.
Così aggiunsi: "Sono un cugino Sidebury, il tuo primo cugino."
Sai, ero molto legato a Tom [Petty]. A lui piaceva che avessi
partecipato, ne ha sempre parlato nelle interviste. È così che sono
diventato Buster Sidebury.
Gli altri fumavano tutti, io avevo smesso. Prova a pensare di essere
in uno di quei camper che tengono nel parcheggio degli studi per
girare i video: quattro tipi tutti che fumavano, era troppo per me.
Durante uno dei video saltai giù dal camper e andai da Roy
[Orbison]. Roy era da solo perché sua moglie Barbara gli aveva
detto: "Farai meglio a non puzzare di fumo quando vengo sul set!"
Gli aveva lanciato il guanto di sfida.
Andai al suo bus, bussai, entrai e iniziammo a parlare. Mi disse:
"Jim, questa cosa è davvero divertente, no?" Risposi: "Amico, è
incredibile. Sai Roy, i ragazzi sono tutti qui solo per te, davvero.
Tutti vogliono sentirti cantare." E lui: "Beh, io sono il solo
autentico cantante della band. Gli altri quattro sono raffinati
autori." Dovetti trattenere la risata. Era la verità, un dato di
fatto, ma lo disse in modo così divertente! La prima cosa che feci
fu raccontarlo a George, che scoppiò a ridere. Poi lo dissi anche
agli altri. "Io sono il solo autentico cantante della band. Gli
altri quattro sono raffinati autori." Era assolutamente vero.
Mi piace. Si è mai parlato di suonare dal vivo?
Sì, certo. C'erano piani, grandi progetti per andare in tour.
Stavamo per fare un tour in treno che doveva attraversare tutti gli
Stati Uniti. La cosa divertente è che tutti pensavano che sarebbe
stato Bob a bocciarlo, ma Bob era assolutamente d'accordo. Si è
scoperto che fu George. Non mi interessa speculare sul motivo per
cui non volle farlo, ma non volle farlo.
Peccato.
Sì, davvero. Mi sembra che Roy fosse già morto. E forse c'entrò
anche questo.
L'energia sembrava diversa nel secondo album senza il "cantante",
come [Roy] si definiva?
Fu diverso perché il primo album lo realizzammo nel modo classico,
mettendo giù le tracce e poi sovraincidendo singolarmente. Il
secondo album, invece, l’abbiamo fatto dal vivo, suonando tutti
seduti nella stessa stanza.
Più come un album di Dylan.
Esattamente. Non ho più ripensato a cosa sarebbe stato un tour dei
Wilbury. Per me è come se la morte di George avesse steso un’ombra
su tutto quel progetto. Con George che se n’era andato, svanì ogni
interesse. George era più giovane di me, dovrebbe essere il mio
fratellino che vedo sempre. Lui non era fatto per andare in giro.
Amava Los Angeles e amava il suo Friar Park [lo studio casalingo in
Inghilterra]. Avremmo dovuto continuare ad andare avanti e indietro
come abbiamo fatto in tutti quegli anni.
Bob è ancora qui, e ti dirò una cosa: George Harrison era il più
grande fan al mondo di Bob Dylan. Non c'è nessuno che io abbia
conosciuto che fosse un così grande fan di Bob Dylan. Conosceva il
testo di ogni sua canzone, vecchia e nuova.
Hai mai sentito il nastro del 1970 dove loro due suonano insieme,
passando il tempo in studio a divertirsi? Io l'ho ascoltato proprio
l'altro giorno.
Potrei averlo sentito. Questa è un'altra cosa da andare a riprendere
appena posso.
Fanno una cover di Da Doo Ron Ron, la canzone di quel gruppo
femminile [le Crystals]. Non ricordano una parola del testo tranne
"da doo ron ron", ma si divertono così tanto a cantarlo e ricantarlo
che è assolutamente contagioso.
Fantastico!
Proseguendo col tuo lavoro seguente con Dylan, come sei stato
coinvolto nel “BobFest”, il concerto per il 30º anniversario della
sua carriera?
Potrebbe essere stato Bob a chiedermi di farlo. O Bob o George. O
forse entrambi. Vediamo. [Jim sfoglia un'agenda.] Il 7 [ottobre]
abbiamo fatto le prove con Tom Petty. Il 12 abbiamo provato con
Sophie B., gli O'Jays, e Johnny Winter. Il 13 abbiamo provato con
Clapton, Stevie Wonder, Sinéad O’Connor, Bob e la house band. Il 14
con Rosanne Cash, Shawn Colvin, George Harrison e Lou Reed. Poi il
15 abbiamo provato con Neil Young.
Una bella settimana!
Sì. Poi il 16 ci fu il concerto. E il giorno dopo iniziai un album
con Willie [Nelson] ai Power Station [Studios].
Ti ricordi di qualcuno in particolare di quei nomi?
Ricordo le prove con Neil e poi la gioia di provare con Stevie
Wonder. Stevie era come se fosse di un altro pianeta. E Clapton. Ho
sempre amato Eric.
Cosa c’era in quei tre?
Immagina come ti sentiresti. Sei a questo evento importante per
onorare Bob Dylan e poi improvvisamente ti ritrovi tutti i più
grandi artisti del momento. Stai suonando la musica di Bob con loro.
Vederli tutti insieme per Bob, è questo che mi ha steso.
Quello fu l'inizio della nostra collaborazione con Neil Young. Io,
Steve Cropper e Duck Dunn [entrambi nella house band del BobFest].
L’anno dopo andammo in tour con Neil e metà della band erano gli
M.G.’s. Cropper e Duck. Fu incredibile suonare dal vivo con loro.
Neil è un altro artista molto simile a Bob. Ce ne sono pochi e Neil
è sicuramente uno di quelli. Neil vuole che tu interpreti la sua
musica, che tu lo ascolti e lo segui. Ed è quello che abbiamo fatto.
Suonare con Duck Dunn al basso è stato come un sogno. E anche la
ritmica di Cropper era irreale. A volte c'era un pò di tensione,
nella musica intendo, perché Cropper è così potente con il suo
groove e a Neil piace davvero nuotarci dentro. Ero in paradiso.
Potevo esprimermi come volevo, volteggiare dentro e fuori questa
cosa incredibilmente ritmata e immergermi con Neil nelle acque più
profonde. Fu un grande tour. Ed è successo grazie al BobFest.
Dobbiamo parlare di un'altra session, Time Out of Mind, uno dei
grandi album di Dylan dei tempi più recenti. Sia Bob che Daniel
Lanois hanno parlato della tensione che c’era tra loro. Tu eri una
delle persone chiamate da Bob per aiutarlo?
Sì, mi chiamò Bob, o qualcuno dei suoi collaboratori. Ero
sicuramente lì per Bob. Bob e Lanois non la vedevano sempre allo
stesso modo. C'era tensione. Devo dire che Bob non è il solo ad
essere così. Penso ci siano alcune persone che si nutrono di
tensione e, in un certo senso, anch’io sono una di quelle. Quando
c'è tensione, c'è una ragione in più per cui le cose cambiano. Non
ho avuto alcun problema con Lanois. In realtà, per me è stato più
divertente, ma in un modo quasi insano.
Quello che ho sempre amato di quel disco è che la voce è così
grande. C'erano molti musicisti che suonavano contemporaneamente, ma
come è stato mixato – in modo che la musica sia tutta dietro, quasi
sfocata, mentre la voce è ben in primo piano – mi ha sempre
meravigliato.
Ricordo che una sera, mentre eravamo tutti lì intorno, Bob fece una
domanda. Chiese: "Cosa ti piace? Ti piacciono i pezzi o ti piace
l'insieme?" Quello a cui si riferiva parlando di “pezzi” erano le
tante singole parti presenti nella musica, piccole cose musicalmente
davvero fantastiche. Risposi: "Mi piacciono i pezzi." Quando è
uscito il disco, ho poi capito cos’era successo. Ha tenuto i pezzi
di cui parlavamo, e quei piccoli pezzi di musica tutti assieme sono
diventati come una parete, uno sfondo per uno voce immensa, in modo
che i testi risaltassero magnificamente e la voce suonasse
incredibile.
Non molto tempo fa stavo suonando con Eric Clapton e lui mi ha detto
che Tryin' to Get to Heaven è una delle sue canzoni preferite in
assoluto.
Anche David Bowie ne ha fatto una cover.
Oh, sì. Time Out of Mind è un disco molto, molto amato da tanti
artisti perché è semplicemente fantastico. Voglio dire, la musica è
killer. Il modo in cui è stato mixato, la sua voce così grande, è
incredibile. È una delle mie cose preferite.
Il modo in cui il disco suonava! Quando è uscito e l'ho sentito per
la prima volta, ho pensato: "Wow, Bob ha ottenuto quello che stava
cercando." Solo che ci è arrivato dopo. Nel mix l'hanno fatto
funzionare!
L'ultimo tuo tour con Bob è capitato quasi per caso. Nel 2002,
George Receli, il suo batterista, si infortunò e tu hai suonato
nella band per qualche settimana.
Esatto, [George Receli] ebbe un grave problema al tunnel carpale.
Così mi chiamarono e fu un cosa tipo: "Mi stai dicendo che vuoi che
venga subito senza aver provato?" Bob voleva proprio che fossi a
Milano l’indomani. "Wow, non so se posso farlo. Non credo di poter
arrivare così presto." Arrivai due giorni dopo. Il mio primo
concerto con loro fu il 21 aprile a Zurigo. George, un grande
batterista e davvero un buon amico, rimase in modo che io potessi…
fammici pensare, forse suonò nel sound-check.
Mi sembra che per quel primo concerto, lui suonò metà dello show e
tu l’altra metà. Poi, per le date rimanenti, suonasti tu.
Giusto, ecco com’è andata. George suonò la prima parte del concerto
[di Zurigo] in modo che potessi farmi un'idea di quello che stavano
facendo in termini di volume, e cogliere l'atmosfera dell'intera
cosa. Poi ho finito io. Proprio così.
Ma lui non suonò le canzoni che avresti dovuto suonare tu dopo. Sei
stato gettato sul palco a suonare altre cose.
Si, esattamente. Anche in quel caso fu la fiducia che Bob aveva in
me. La fiducia che potevo fare le cose che lui amava davvero, ovvero
suonare semplicemente la musica. Basta adattarsi alla musica in
qualche modo. Non cercare di trovare una parte da recitare e tutto
quel genere di cose. Non preoccuparti se non sei perfettamente
preciso in tutto. Non importa. Bob è un vero campione di questo tipo
di pensiero e perciò fu facile per me.
Avevi mai dovuto fare una cosa simile con qualcun altro prima,
letteralmente senza nessuna prova?
Assolutamente no. Come ti ho detto, quello è Dylan. È stato
incredibile, amico, ora che ci penso. Mi piacerebbe ricordare ogni
particolare. Tenemmo due concerti a Parigi, mi rivedo seduto alla
batteria, dietro Bob. Ricordo che furono piuttosto buoni. Mentre
suonavano, Tony [Garnier] e i membri della band tutti... C'era
Charlie Sexton, giusto?
Sì, c’era.
Okay, i membri della band tutti si prendevano cura di me. Mi
lanciavano segnali.
E tu, in qualche modo, rispondevi?
Oh, sì. Mi stavano davvero dando una mano.
Nel tipico stile di Bob, non suoni mai lo stesso show. Ogni sera ci
sono nuove canzoni in cui vieni catapultato. Non è come riuscire a
superare il primo concerto e poi navigare senza problemi.
Proprio così. Con Bob molte volte non sapevi nulla. È così che
dovrebbe essere, se ci pensi. Non c'è niente di sbagliato nell'avere
uno show veramente buono e ben provato, ma penso che la vera arte
sia un pò più di questo. Penso che aggiungere alla situazione un
piccolo elemento di pericolo o di tensione, o come vuoi chiamarlo,
in certi casi sia una buona cosa. Di nuovo, torniamo alla paura. Se
non sei senza paura, avrai paura. Io e molti musicisti che conosco
possiamo sentire l'odore della paura. So che sembra strano, ma
deriva dall'essere in uno studio con altri artisti e fare dischi in
cui tutto è in gioco. Lì il tempo è denaro, le carriere delle
persone vengono create o modellate, c'è molta responsabilità. Se
senti che qualcuno ha paura o è riluttante in qualche modo, allora
devi cambiare atteggiamento. Quelli eccitanti, quelli davvero
davvero eccitanti come Bob, Willie [Nelson], Neil [Young], Clapton,
sono del genere senza paura. E questo rende la cosa eccitante anche
per i musicisti.
Adoro riascoltare quello che registriamo, è la cosa che più mi
piace. E poi commentare: "L’abbiamo fatta bene? Okay, ma riproviamo
di nuovo", oppure "Fantastico, non saremo più in grado di farla
così".
Funziona così una tipica session di Dylan? Fate uno o due take e poi
andate assieme nella sala di controllo a riascoltare?
Sì. Sono tutti un pò diversi. Bob è un pò più convenzionale, il più
anticonformista è Neil Young. Con Neil c'è una sorta di prova
sommaria della canzone e poi il primo take. Prima di quella prova
sommaria, si sta solo cazzeggiando. Ho suonato con Neil in dischi
dove il cazzeggio è diventato il take, senza nemmeno arrivare alla
prova. Può essere un pò scioccante.
Ad oggi, le tue più recenti collaborazioni con Dylan chiudono il
cerchio perché abbiamo parlato molto di Willie Nelson. E l'ultima
cosa segnata sulla mia lista è che hai suonato con Bob Dylan e
Willie Nelson contemporaneamente. L’hai fatto un paio di volte: hai
registrato con loro Heartland negli anni '90 e un decennio dopo
(maggio 2004) c'è stato lo speciale televisivo in cui Bob e Nelson
hanno cantato You Win Again.
Che grande accoppiata! In quella intervista [su Willie Nelson],
l'intervistatore mi aveva chiesto – e si tratta di un video
ufficiale e io sono davanti alla telecamera e tutto il resto – il
tipo mi aveva chiesto: "Hai suonato in Heartland?" E io avevo
risposto: "Non ne sono sicuro. Non so se c’è della batteria su quel
brano." Tornato a casa l’ho riascoltato e sicuro che c'è la
batteria! Mi sono detto: "Oh no! Sono un fottuto idiota." Se per 50
anni hai suonato e inciso dischi, ci sono cose che non riesci a
ricordare. Ora è troppo tardi per dirlo in quella intervista su
Willie, ma posso certamente dirlo in questa: in Heartland Willie
Nelson e Bob Dylan sono due delle voci più distintive nel mondo
della musica. Sei d’accordo?
Assolutamente.
Capisci subito quando cantano e sentirli cantare insieme è
bellissimo. Adoro come si combinano in Heartland. Vorrei che lo
facessero di nuovo. Sono entrambi qui, amico! Entrambi su questo
pianeta e continuano a ricevere tutta l'attenzione che meritano. Ne
abbiamo bisogno. Lo dirò a Jeff Kramer [manager di Dylan]. Lo
chiamerò non appena avremo finito.
Fai parte di un ristretto gruppo di musicisti che Bob ha chiamato e
richiamato per decenni. Perché pensi che continui a farlo?
Penso sia per i nostri precedenti insieme. La prima volta lo
incontrai suonando in Watching The River Flow. Non fu un successo
gigantesco, ma sicuramente è una delle sue canzoni memorabili. Poi
Knockin' on Heaven's Door, brano iconico. Poi gli anni del Vangelo.
Penso che con questi precedenti penserà sempre a me.
Uno dei miei momenti preferiti con Bob è stato durante i Traveling
Wilbury. Era così divertente. Vorrei che le persone come te e tutti
i suoi grandi fan potessero conoscere o vedere quel lato di Bob,
anche se non puoi averlo senza momenti speciali come quello. Mi
faceva scoppiare dal ridere. Una volta gli dissi: "Amico, sei come
Lenny Bruce tornato dal passato." È davvero molto più simpatico di
quello che la gente immagina.
Chissà se glielo dicesti prima o dopo aver inciso con lui la canzone
su Lenny Bruce…
Io e mia moglie andavamo a vedere Lenny Bruce nei club di Los
Angeles i primi tempi che stavamo insieme, prima di sposarci. Le
persone della nostra generazione erano grandi fan di Lenny Bruce.
Lo sai che stava eseguendo quella canzone nel suo ultimo tour? L'ha
ripresa di nuovo.
Davvero? Ha suonato Lenny Bruce?
Sì, nell'ultimo tour con Matt Chamberlain. Un arrangiamento lento,
davvero cool.
Oh, fantastico. È un peccato che abbiano dovuto fermarsi perché
questa band sarà davvero una buona band.
Sì, e c’è Bob Britt, che ha lavorato anche con te in Time Out of
Mind.
Pure lui? Grande!
Lui e Matt si sono uniti negli ultimi tre mesi del tour, poi hanno
dovuto fermarsi per il Covid.
Ci starà pensando tutto il tempo.
Bob Britt è un altro che compare e ricompare. Prima Time Out of Mind
e venticinque anni dopo nella band live. Ho parlato con Duke
Robillard un paio di settimane fa, anche a lui è successo lo stesso:
ha fatto un paio di session con Bob e decenni dopo l’ha seguito in
tour.
Da quello che avevo capito, Duke [Robillard] aveva partecipato a
Time Out of Mind per Bob. So per certo che quelli che furono
chiamati da Bob e non avevano nulla a che fare con [Daniel] Lanois
eravamo io, Jim Dickinson e Duke Robillard, oltre alla sua band.
Per quanto mi riguarda, pensavo: finché sono qui, sono qui per Dylan
e basta. So perché sono qui e cosa devo fare, cioè intuire quello
che Bob vuole da me. Posso capirlo riascoltando le registrazioni o
da qualunque cosa lui dica. Ma sono qui perché Bob Dylan vuole che
io sia qui.
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