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SITO ITALIANO DEDICATO A BOB DYLAN

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HO  SUONATO  CON  BOB

interviste ai musicisti che hann accompagnato Bob in concerto

tutte le traduzioni sono opera di Silvano Cattaneo

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Lo scomparso Gregg Sutton ricorda il “Real Live Tour” del 1984
RIP Gregg Sutton (1949-2023)

di Ray Padgett (25 ottobre 2023)

Traduzione di Silvano Cattaneo

The 1984 band. L-R: Bob Dylan, Colin Allen, Gregg Sutton, Ian McLagan, Mick Taylor

Ray Padgett: Qualche giorno fa ci siamo scritti una e-mail a proposito di "Heart of Mine" che voi suonaste un paio di volte. All’epoca, nel 1984, eri già abbastanza fan da conoscere anche brani del genere, non propriamente grandi successi?

Gregg Sutton: Sì. Bob era il mio idolo. Lo seguivo dal 1963. Al Greenwich Village, all'improvviso, certi ragazzi cominciarono a girare con il berretto tipo quello di Bob Dylan sulla copertina del suo primo disco, e il supporto per l'armonica anche senza l’armonica. Io ero uno di quei ragazzi.
Conoscevo tutte le sue cose. Adesso sono più vecchio, ma se ci fosse da risuonare “Heart of Mine”, probabilmente riuscirei. Ricordo che prima di uno spettacolo eravamo nel camerino della band con i tre inglesi – Mick Taylor, Ian McLagan e Colin Allen. Mick mi chiese: "Gregg, ma tu sei davvero un fan?” Alzai le mano e dissi: “Mi dichiaro colpevole. E voi?” Tutti risposero "Non particolarmente". Non gli piaceva, ma considerato che non erano fan di Bob, se la cavavano piuttosto bene a suonare le sue cose.
Di me, Bob poteva dire che conoscevo e amavo il suo repertorio. Sai, avrebbe potuto avere qualunque bassista avesse voluto. Prese me perché ero legato a lui. Capitava – stiamo parlando di un’epoca in cui non esistevano i testi digitali, dove ti basta un semplice un clic per consultarli – che gli chiedessi "C'è questo punto in 'Visions of Johanna' dove non ho mai capito esattamente cosa dici”. Lo imbeccavo, dandogli il verso prima, e lui semplicemente continuava: "Oh, quella fa [imita la voce di Dylan] ‘Ya can’t look at much, man / As she herself prepares for him’”.
Gli piaceva che chiedessi quel genere di stronzate. Ci siamo trovati bene.

RP: Ho parlato con Benmont Tench qualche tempo fa e anche per lui è la stessa cosa, come uno studioso della musica di Dylan.

GS: Sì, Benmont è molto accademico. Conosco Benmont dai miei tempi con i Lone Justice. Veniva a suonare con noi.

RP: Hai visto lui e Mike Campbell suonare con Dylan all’ultimo Farm Aid, lo scorso fine settimana?

GS: Sì, è stato divertente. Al primo Farm Aid [1985], i Lone Justice si esibirono tra il set di Dylan e il set di Petty.

RP: Accadde appena un anno dopo la tua esperienza nella band di Bob.

GS: Sì, passai da Bob ai Lone Justice.

RP: Riparlasti con Dylan a quel primo Farm Aid?

GS: Ci incrociammo, ma a quel Farm Aid c’era un'atmosfera un po' strana. Lui era con la band di Petty e anche con Elliot Roberts, che un tempo era stato il mio manager. C'erano vibrazioni contrastanti, diciamo così.
Gli parlai un anno o due dopo. Graffiti Man, la band di Jesse Ed Davis e John Trudell, aprirono alcuni concerti dei Lone Justice. Bob amava Graffiti Man, era lì per vederli. E io e lui abbiamo fatto una piccola chiacchierata.

RP: È singolare che tu abbia menzionato questo cosa di Graffiti Man perché proprio ieri hanno pubblicato alcune foto da un libro in uscita del Dylan Center. Una fotografia, che non avevo mai visto prima, è del 1987: ci sono Dylan, Jesse Ed Davis, John Trudell e George Harrison. Loro quattro.

GS: Potrebbe essere al Palace di Hollywood.

RP: Uno degli spettacoli con i Lone Justice?

GS: Sì, sicuramente. Non ricordo di aver visto George Harrison, ma non significa che non fosse lì. Non credo che George Harrison avesse alcun interesse a salutare i Lone Justice, quindi è probabile che sia semplicemente entrato e poi uscito. Chi lo sa! Io potevo essere impegnato in qualsiasi cosa. Mi drogavo anche tanto in quel periodo. Avrei potuto essere in bagno a farmi. [ride] O aspettare che Jesse Ed [Davis] uscisse fatto dal bagno, così potevo entrare e farmi io.

RP: Riavvolgiamo il nastro. Qui stiamo parlando della fine, ma torniamo all'inizio. Come capitasti nella band di Dylan?

GS: Grazie al mio amico Charlie Quintana che era il batterista dei Plugz. Chalo! Era un grande batterista e un bravo ragazzo. Bob usava i Los Plugz da qualche tempo. Chalo mi chiamò e mi disse: "Perché non vieni a casa di Bob a suonare un po’?" Così ho fatto. Ogni bassista della città ci sarebbe andato.
Poi non ho più avuto notizie da nessuno, così ho pensato che non se ne facesse niente. Ma due o tre settimane dopo mi chiamarono e dissero: "Torna qui". Trovai una band completamente nuova, fatta eccezione per Mick Taylor. Chalo se n’era andato. C'erano Colin Allen dei Bluesbreakers e Ian McLagan. Suonai quel giorno, mi confermarono il lavoro la notte stessa.

RP: A quella prima prova in cui c’eravate tu, Charlie e non so chi altro, che successe? Raccontami.

GS: Eravamo io, Charlie, Mick Taylor e Bob. Non c'era ancora il pianista. Fu molto bello. Stava accadendo.
Mick Taylor viveva nella casa in cui stavamo provando, all’interno della proprietà di Bob a Point Dume. Viveva lì da circa un anno. Mick era il capo della band. Era il più famoso, il mio preferito tra tutti i chitarristi inglesi. Mi ritrovai lì a suonare non solo con il mio idolo, ma anche con il mio chitarrista preferito al mondo.

RP
: Suonaste canzoni di Dylan o semplicemente improvvisaste?

GS: Suonammo canzoni di Dylan. Vecchie e nuove canzoni. Alcune cose da "Infidels”, e poi "Highway 61", "Maggie's Farm", un sacco di roba che la gente conosceva. Tutti brani di Dylan, nessuna cover.

RP: Quale fu la tua prima interazione con Bob?

GS: Il primo giorno, quando bussai alla porta della sala prove, fu lui stesso ad aprirmi. Eravamo vestiti in modo identico. Indossavamo entrambi giacche grigie da motociclista, jeans neri, stivali da motociclista e t-shirt. Una specie di versione morbida di James Dean. Ci guardammo dall'alto in basso, come in quel film dei fratelli Marx. Fu divertente. Poi ci stringemmo la mano. Ha la stretta di mano a pesce lesso, lui non ti prende davvero la mano, semplicemente ti permette di prendere la sua e dice: "Ciao, sono Bob".
Devo dirlo, è proprio un tipo normale. Per tutto il tempo in cui ho suonato con lui, non ha mai detto: "Ehi, perché non suoni questo?" Non ha mai detto a nessuno: "Perché non suoni così?" Assumeva i musicisti per il modo in cui loro suonavano le sue canzoni.
Poi, la seconda volta che tornai, come ti ho detto c'era una nuova band con Ian McLagan. Iniziammo a provare seriamente a casa sua per cinque o sei giorni.

RP: Come andò? Vi amalgamaste subito o fu un inizio difficile?

GS: Procedeva abbastanza bene. Era un posto per le prove, ma tutto era okay. A parte il fatto che quasi uccisi Mick Taylor.

RP: Cosa, cosa??

GS: Beh, a quel tempo avevo una forte relazione con la China White [eroina]. Ero all'inizio di una dipendenza dalla droga durata 30 anni. Beh, non proprio all'inizio, però non ero così strafatto da non poter andare in tour o cose del genere. Ero un po' schizzato. Due giorni dopo aver avuto l’ingaggio, tirai fuori un pacchettino. Ne offrii un po' a Mick. Dissi: "Perché non dai una piccola annusatina a questa?" Ovviamente, lui pensava che fosse cocaina. Andò in bagno e – thud! – sentii un tonfo. Mi dissi: “Uh uh! È solo il secondo giorno di ingaggio e ho ucciso Mick Taylor”.
Lui esce e mi fa: "Gregg, questa non è cocaina!” Dico: "Sei Mick Taylor! Sei un tossico famoso. Andiamo!” Alla fine lo trovò divertente. E io mi sentii sollevato per non averlo ucciso, perché quel colpo mi aveva fatto venire un brivido alla schiena.
Comunque, poi provammo al Beverly Theatre di Beverly Hills per due o tre giorni, per essere ancora più sul pezzo. Un teatro da 3.000 posti.

RP: Vuoto? Affittato solo per voi?

GS: Vuoto. L'affittammo, il che mi colpì davvero. Pensai: "Questo è davvero il grande momento". Avevo suonato in posti più grandi, ma quelle erano solo delle cazzo di prove!
A quel punto avevo visto Bob forse sette o otto giorni nella mia vita, quindi ogni volta che lo vedevo per me era sorprendente. Dovevo darmi un pizzicotto e dire: "Ehi, sono con Bob Dylan, in questa stanza e in questo momento".
Su un palco vero abbiamo faticato un po’ di più. I primi due concerti del tour [ndt: Verona, 28 e 29 maggio 1984] non furono affatto belli.

RP: Secondo te, perché faticaste all’inizio?

GC: Ci stavamo ancora abituando al mare. Semplicemente non eravamo uniti. Ascoltando le registrazioni delle prove che mi hai mandato, ho capito perché i primi spettacoli furono terribili. Era come se facessimo il passo a metà. Non lo stavamo facendo seriamente. Mi sembra che nel tuo articolo tu dicessi che, come sempre nelle prove, Bob era un pessimo esecutore. Cantava come se fosse costretto. E poi non condivideva con noi. Così non avevamo la sensazione di come stavano le cose e come potevamo migliorarle.
C'è un frammento di "Jokerman" su quel nastro… Alla fine suonammo una versione fantastica di "Jokerman", ma alcune delle versioni [di prova] che mi hai inviato non erano affatto buone. La versione di "Shelter from the Storm" era semplicemente orribile. Sembrava un'altra canzone. Ma non era tanto colpa della band quanto piuttosto che Bob voleva inserire una certa progressione su "Shelter From the Storm". Penso che poi abbia finito per farla di tanto in tanto nel suo set acustico.

RP: È come un'arma a doppio taglio con lui, giusto? Reinventa sempre le canzoni: a volte è fantastico, ma se provi sempre a fare un arrangiamento diverso, a volte fai cilecca.

GS: È proprio così. Voglio dire, complimenti a lui per non essersi mai appiattito. E diciamocelo, alcune di queste canzoni le ha suonate migliaia di volte. Prova ad ascoltare “Shadow Kingdom”: molte di quelle canzoni festeggiano il loro cinquantesimo compleanno, davvero un lungo tempo per suonarle ancora.
Ecco perché Bob è Bob. È un artista. Ma tutti gli artisti hanno un'idea in testa e qualche volta funziona, qualche volta no. Deve essere lasciato fare durante le prove. Non abbiamo mai visto tutta la robacce che Van Gogh avrà tirato fuori, capisci cosa intendo?
Ma sì, è stato interessante sentire quella merda. Poi ovviamente sono andato su YouTube per ascoltare le versioni dal vivo, giusto per capire. E mi sono detto che eravamo molto meglio di quelle prove.

RP: Spero che avertele inviate non ti abbia creato problemi di fiducia in te stesso.

GS: Ho una certa età perché la mia autostima venga colpita. Quelle prove erano solo l'inizio del processo. Bob è un individuo strano e imprevedibile. Non è uno di quelli che ti facilitano le cose. Fa semplicemente quello che ha in testa in qualsiasi momento.

RP: In quei primi concerti, era chiaro a tutti che non eravate amalgamati?

GS: Sapevamo tutti che il primo show non era stato granché. Eravamo tutte persone con standard elevati. Io ho standard elevati. Ricordo che sull’aereo con noi c'erano due giornalisti olandesi, vecchi amici di Mick [Taylor]. Stavano parlando di quanto fossero rimasti delusi dal primo concerto. Questo tipo olandese disse: "Penso che Bob Dylan sia in una posizione molto sfortunata come essere umano, perché le aspettative della gente sono sempre molto alte".
Non ero proprio d'accordo. Penso che Bob Dylan sia sempre stato in una posizione abbastanza buona, qualunque fossero i suoi problemi personali. È il più grande che sia mai esistito. Ma era un punto di vista interessante. Io ho sempre pensato a Bob in un modo, e quel tipo pensava a lui nell'altro modo.
Ma dal secondo o terzo show c’eravamo davvero. Ricordo che dopo circa cinque o sei concerti, io e Bob stavamo camminando giù per una collina dietro il palco. Gli chiesi: "Bob, era tutto okay il basso?" E lui: "Ooh, non ci ho fatto caso". E pensai che fosse fantastico. Quello era un buon segno!

RP: Se ci avesse fatto caso, poteva significare un problema.

GS: Nessuno va a un concerto di Bob Dylan per ascoltare il bassista. Vuoi solo che la band sia in palla.

RP: Nelle canzoni più vecchie, ad esempio “Maggie's Farm” o “Leopard Skin Pill-box Hat”, provavi a rifare quelle parti di basso oppure cercavi di staccarti dagli originali?

GS: Suonai tutte quelle canzoni in un modo molto naturale. “Maggie's Farm” l'abbiamo suonata come il disco, solo con un po' più di energia. Una sorta di "My Baby Left Me" di Elvis Presley più su di giri. Ascoltala su “Real Live”: c'è solo un'energia un po' più alta e hai Mick Taylor che fa ottimi assolo di slide. Io ho solo provato a scuoterla un po’. Lo stesso per “Highway 61”. L'ho suonata a modo mio, ma è anche il modo in cui l'avevano suonata nel disco perché è fantastico, ed è semplicemente bum-BUM, bum-BUM, bum-BUM. Sembra dirti, togliti di mezzo!
Io non sono concentrato sui colpi della grancassa. Penso che il bassista debba capire tutto quello che sta succedendo. Il basso è uno strumento molto compositivo. Anche nel rock and roll più essenziale, devi sapere quando fermarti e quando suonare. Devi solo essere di supporto, ed essere consapevole dell'intera composizione e di cosa farà il cantante.

RP: Una cosa sorprendente ascoltando quelle prove è che, oltre alle sue canzoni, fece un sacco di cover, e molte non le ha mai eseguite in concerto. Non avrei mai pensato di sentire Bob Dylan cantare "Always on My Mind".

GS: Amo questa cosa. È il bello di Bob: è completamente imprevedibile. E in più aveva tutte le altre sue canzoni. Mi sembra che la prima volta che suonammo "Just Like a Woman" fu proprio in concerto.

RP: Mai provata prima?

GS: Mai provata. Non disse nemmeno cosa stesse suonando. Si aspettava che riconoscessimo l’attacco di armonica, e così è stato. [Nota: in realtà l'avevano provata; probabilmente Gregg sta pensando a un’altra canzone.]
Voglio dire, ha un catalogo così vasto e ogni tanto pesca fuori qualcosa. Sceglie una canzone così. Era molto sciolto. A volte dimenticava la tonalità e chiedeva: "Ehi Gregg, in che tonalità faremo 'Simple Twist of Fate'?"
Una volta iniziò “Maggie's Farm” nella tonalità sbagliata. Mi guarda in modo candido e mi fa: "Ehi Gregg, in che tonalità siamo?" Dissi: "Siamo in SOL, Bob, come hai iniziato tu". E lui: "Bene, possiamo andare nella tonalità giusta adesso?”

RP: Vuoi dire che avete dovuto cambiare la tonalità a metà canzone?

GS: SÌ. Aveva cantato la prima strofa e quando iniziò a suonare l’armonica si rese conto di aver sbagliato tonalità, perché aveva preso l'armonica giusta. Allora dicemmo semplicemente "uno, due, tre, quattro, chiave di LA" e via.

RP: Per abbinarla all'armonica, quindi, anziché cambiare l’armonica.

GS: Esatto. Pensai che fosse divertente che non sapesse in che chiave si trovava, e nemmeno gli importasse. Voglio dire, era così, ma penso che anche Bob avesse la sua personale scorta di “medicine". Mi vengono in mente un paio di volte in cui anch’io non sapevo in che tonalità mi trovavo, ma in quei momenti ero estremamente “medicato". [ride]
Dieci minuti prima che iniziasse il primo concerto della tournée [a Verona], Bob mi fa: "Ehi, ti ho sentito cantare. Io farò sette o otto canzoni, e poi ho bisogno che tu canti mentre mi preparo per il set acustico. Va bene?" "Va bene!”

RP: E così hai finito per cantare in ogni spettacolo.

GS: Sì. Chiesi agli altri: "Allora, che pezzo facciamo?" E Mick Taylor: "Non mi interessa cosa fai, basta che sia in SOL così posso suonare la slide".
Quindi per le prime due o tre sere abbiamo fatto "I Got My Mojo Working" perché era in SOL e l'avevo cantata nei club. Avevo cantato anche "I've Got To Use My Imagination”, ma era in LA; allora pensai: "Beh, potremmo fare 'Imagination' in SOL”. Così siamo passati a quella e ne abbiamo cavato una versione piuttosto interessante.
Sono stato in due band con Barry Goldberg [co-autore di "Imagination", e nella band di Dylan a Newport nel '65]. Una delle band con Barry si chiamava The Coup, registrammo un disco che non fu mai stato pubblicato, ma che conteneva una nuova versione di “Imagination”. Quindi, dopo aver fatto due o tre volte "I Got My Mojo Working", mi dissi che avrei potuto mettermi in mostra un po' di più. E allora perché non fare "Imagination"?
L'altra band in cui avevo suonato con Barry erano i KGB. Il cantante, Ray Kennedy, era uno dei co-autori di "Sail on Sailor"; poi c’erano Michael Bloomfield e Barry [Goldberg]. È così che l’ho conosciuto. Feci l’audizione, mi presero, il primo concerto fu il venerdì sera. La domenica, l'articolo di Robert Hilburn sulla prima pagina della sezione Calendario del LA Times, apriva così: "Michael Bloomfield dice di non comprare questo disco". E il disco era uscito proprio quel giorno! Mi dissi, “è così che i pezzi grossi di Hollywood mettono insieme un super gruppo? Non funziona! Fanculo, torno a San Francisco”.
Adoro Mike Bloomfield. Sai, Bloomfield è stato il mio primo eroe della chitarra. Aveva un vero carisma. Ho visto il primo concerto degli Electric Flag, ho visto la Butterfield Band un milione di volte. E quando avrei potuto suonare con Bloomfield, cazzo, lui ha mollato. Mi chiesi se, per caso, io avessi detto qualcosa di sbagliato…

RP: Tu fai parte di un gruppo molto piccolo, o forse sei il solo, membro della band di Dylan che ottiene un proprio spazio come voce solista. La Rolling Thunder Revue fu una cosa a sé, là un sacco di gente cantava le proprie cose, ma a parte quello, è insolito.

GS: Lo so. È molto insolito. Se avessi avuto una personalità più da venditore di automobili, sul palco avrei detto: "Bene, grazie Bob! Ehi gente, non è fantastico? Bob Dylan, dai, tutti!”
Stavo riascoltando alcune di quelle esibizioni e ho notato che spesso mi faceva un'introduzione divertente. Diceva cose del tipo: "Gregg canterà una canzone che ha scritto venendo qui in limousine". In realtà avrei cantato una vecchia cover. Ricordo che era davvero divertente. C'è stata una volta in cui stavamo scherzando e lui non riusciva a smettere di ridere. Non ricordo che spettacolo fosse. C’eravamo detti qualcosa, probabilmente riguardo a una ragazza che era a lato del palco, e lui comincia: "Gregg Sutton sta per... [ridacchia] Gregg... [ridacchia]”.
Andavamo molto d’accordo, finché non gli chiesi un aumento. Da lì non siamo più andati d'accordo.

RP: È stato a metà del tour?

GS: No, quasi alla fine. Non avrei dovuto farlo. Si incazzò.
La verità è che, ripensandoci, prima cosa non era lui a cui avrei dovuto chiederlo; e seconda, forse io avrei dovuto pagare lui.
Un aumento, in ogni caso, sarebbe finito tutto nel braccio, quindi, che cazzo? Però era duro sapere di essere il membro meno pagato della band e vedere otto borsoni pieni di soldi lasciare lo stadio ogni notte. Ma non importa davvero.
Aveva questi tre scagnozzi, Bob Myers, Gary Shafner e Bob qualcos'altro, che mi fecero la ramanzina. Mi misero a sedere e mi dissero quanto Bob fosse scontento di me. Io penso che lo considerasse un tradimento, ma avrebbe dovuto dirmelo lui stesso. Ma lui non è quel tipo d’uomo, non affronta le persone.
Shafner disse: "Oh, hai davvero rovinato tutto, Gregg, perché Bob ti avrebbe tenuto. Al diavolo i tre inglesi, ma te ti avrebbe tenuto". Il che è una totale bugia perché la band successiva furono gli Heartbreakers. Non avrebbero rotto la band di Tom Petty, sbarazzandosi di Howie [Epstein] per farmi suonare. Stavano solo cercando di essere meschini, ma che cazzo? Vivere e imparare.

RP: Prima che le cose andassero male nei tuoi rapporti con Bob, passavate molto tempo assieme nel backstage?

GS: Lui aveva un camerino separato. Ogni tanto entravo, soprattutto se avevo una bella ragazza da fargli incontrare. Gli piaceva. Gli stavo attorno.
Mi regalò una giacca nera da motociclista, così io gli regalai una mia giacca di pelle bianca, che gli piacque molto. Andavo lì e scambiavo i vestiti con lui. Ogni tanto diceva: "Oh, non andare sull'autobus, vieni con la mia limousine". Lo facevo ridere, ero come il buffone di corte.

RP: Avevate la stessa taglia e vi scambiavate i vestiti?

GS: Sì, assolutamente la stessa taglia e avevamo gusti simili. È sempre stato un uomo molto ben vestito. Certo, può spendere qualsiasi cifra per l’abbigliamento, ma gli piaceva come mi vestivo.

RP: Non c’era solo Dylan. C’era anche Santana nel tour.

GS: Arrivava sempre per una jam nei bis. Chitarrista davvero brillante. Spesso avevamo Mick Taylor, Eric Clapton e Carlos Santana sul palco a suonare "Tombstone Blues" o qualunque cosa fosse. Era un tipo molto simpatico, ma credo che non abbia mai imparato il mio nome. Mi chiamava sempre "Ehi, amico". Era un po' offensivo.

RP: E sì che è stato un tour lungo e voi avete suonato insieme praticamente ogni sera…

GS: Un paio di volte salii persino nella sua stanza. Una volta provai anche a chiedergli: "Come mi chiamo?" Non mi rispose. Fece finta di parlare con Bill Graham, probabilmente chiedendo a Bill come mi chiamavo, perché Bill mi conosceva.
Bill Graham era un gran tipo. Quando ero ragazzo, a New York, avevo un amico che faceva l'usciere al Fillmore, io vivevo in quel quartiere. Un giorno stavo passeggiando lungo il Fillmore e decisi di andare a trovare il mio amico, come avevo fatto un sacco di volte.
Il caso volle che, proprio quel giorno, il batterista di Rahsaan Roland Kirk avesse picchiato un altro usciere che cercava di impedirgli di entrare perché non sapeva chi fosse. Questo tipo era uscito da poco di prigione per una questione di armi o qualcosa del genere, e aveva appena picchiato questo ragazzo. Quindi erano tutti piuttosto tesi, ma io non lo sapevo.
Entrai nel Fillmore. Bill Graham mi vide, mi guardò come la spazzatura del quartiere. Mi prese per la collottola e per il fondo dei pantaloni, mi sollevò da terra e mi scaraventò sulla Seconda Avenue.
Quando lo rividi nel backstage [del tour dell'84], gli dissi: "Tu ed io ci siamo già incontrati". Gli ricordai l’episodio, e ora eccomi lì a suonare per Bobby. Era davvero mortificato di avermi fatto una cosa del genere, e non aver potuto fare abbastanza per me dopo. Ho pensato fosse carino.

RP: Anche Joan Baez è stata in quella tournée, almeno per una parte. Hai avuto rapporti con lei?

GS: Sì. Non quanto mi sarebbe piaciuto avere. Prima del suo primo o secondo spettacolo, entrò nel camerino della band. Probabilmente non era riuscita ad entrare da Bob. Eravamo lì, seduti a ridere e sballarci. Disse: "Ragazzi, voglio che sappiate che considero un mio diritto salire sul palco in qualsiasi momento durante lo spettacolo. Voglio solo che siate pronti per questo.” Nessuno seppe cosa rispondere, perché non c'entrava niente. Stavamo parlando tra di noi e all'improvviso Joan fa questo annuncio folle. Ci fu un silenzio imbarazzato. Allora feci la mia migliore imitazione di Jack Benny e le dissi: "Joan, è ridicolo!” In un certo senso ruppe il ghiaccio. Dopodiché, io e lei diventammo amici.
Ricordo che, dopo uno spettacolo, stavo cercando di restituire qualcosa a Bob, ma non potevo avvicinarmi a lui. Venne da me e mi disse: "Ti frustra tanto quanto frustra me?" E affondò le unghie nel mio palmo.
Io ero molto bello a quel tempo. Avrei potuto concludere con Joan, cosa che avrei dovuto fare. Avrei dovuto concludere quel giorno, ma non l'ho fatto. [ride] Ho adorato la voce di Joan. Per me “Diamonds & Rust” è una canzone grandiosa, grandiosa. Così personale e così reale. Non ci sono altre canzoni simili su Bob Dylan. È così intima.

RP: In uno dei suoi libri, Joan ha scritto che in quel tour tra lei e Bob c'era ogni sorta di vibrazioni negative.

GS: A Bob non piaceva averla intorno. Questo è un altro motivo per cui ho esitato a concludere la storia, perché pensavo che potesse essere una situazione strana. Ripensandoci, mi sarebbe piaciuto passare la notte con lei.

RP: Fu un tour di 27 date. Sono sicuro che la maggior parte furono concerti ben assemblati, ma c'è qualcuno che spicca in modo particolare?

GS: Il primo in Inghilterra, a Newcastle, è stato fantastico. E pensai che anche il concerto di Londra fosse stato davvero grande.

RP: Cosa mi dici di Newcastle?

GS: A quel punto eravamo come una macchina ben oliata. Eravamo una band dal grande suono. Sembravamo Bob Dylan con i Rolling Stones di “Get Yer Ya-Ya's Out!” Fu proprio grande e tempestoso. Aprire con “Highway 61”, con quel ritmo, fu esaltante. La gente impazzì. Era il primo pubblico di lingua inglese che vedevamo dopo molto tempo.
Ho avuto questa sensazione per la prima volta a Parigi il 1 luglio, mio compleanno, e a Newcastle. È stata l'unica volta nella mia vita in cui sono stato davvero orgoglioso di essere americano. In piedi su quel palco, a suonare “Highway 61” con il più grande cantautore americano che sia mai vissuto. Non sono un patriota o cose simili. Ma c’era qualcosa. È stato come un momento karmico.

RP: E tu eri uno dei due americani sul palco.

GS: Ero uno dei due americani sul palco, io e Bob Dylan. Hai mai visto il film “Zelig"?

RP: Non credo.

GS: “Zelig” è un film di Woody Allen dove ritroviamo il personaggio Leonard Zelig, interpretato da Woody, in diverse situazioni storiche. È inserito con trucchi cinematografici e cose del genere; è un film molto intelligente.
Ho avuto una vita alla Zelig. Ero uno dei due americani in quel tour. Ho suonato nell'unica band che abbia mai aperto uno spettacolo per Elvis Presley. Ero il direttore d'orchestra di Andy Kaufman alla Carnegie Hall. Mi sono successe tutte queste cose che erano come momenti Zelig. L'intero tour di Bob è stato così. Suonare con Eric Clapton, Mick Taylor e Carlos Santana: ci sono capitato dentro prima ancora di sapere chi ci sarebbe poi stato.

RP: Non voglio andare fuori argomento, ma vorrei chiederti di quando eri il bandleader di Andy Kaufman alla Carnegie Hall.

GS: Andy Kaufman è stato il mio migliore amico, da quando avevamo 10 anni fino al giorno della sua morte. Ero il suo direttore musicale per tutto ciò che faceva, tranne che se fosse andato al Tonight Show, avrebbe usato la band del Tonight Show. Ho viaggiato con lui, siamo stati insieme alla Carnegie Hall, ho scritto le partiture. Grazie a lui ho finito per lavorare anche con Robin Williams, e per un po' sono stato il leader della band di Rodney Dangerfield perché Rodney Dangerfield amava un personaggio interpretato da Andy.

RP: Quale personaggio?

GS: Tony Clifton. Tony Clifton era il classico artista di Las Vegas, ma anche il classico tipaccio di Las Vegas. Entrava in scena fumando una sigaretta ed era molto vanitoso e meschino. Rodney Dangerfield lo amava. Per un paio di settimane lo volle per aprire i suoi spettacoli. Io ero il bandleader del personaggio Tony, così Rodney finì per nominarmi anche suo bandleader.
Andy [Kaufman] e io c’eravamo conosciuti in quarta elementare. Eravamo gli unici due fan di Elvis [Presley] in quarta elementare. Siamo stati sempre, sempre migliori amici. Oltre a Bob, Andy è la cosa più singolare che io abbia mai fatto. Perché per me era come Bob, un artista unico nel suo genere. L'unico comico che non voleva necessariamente far ridere. Era divertente e la gente rideva, ma non era proprio quello che stava cercando di fare.

RP: Sono più giovane, quindi non ero presente ai suoi tempi, ma sono un fan del Saturday Night Live. Un paio di anni fa, andai a guardare alcune delle prime stagioni e la prima cosa…

GS: Mighty Mouse! Quando fa Mighty Mouse.

RP: Esattamente! Conoscevo il nome, ma non sapevo davvero nulla. Esce e fa il numero di Mighty Mouse. Strabiliante. Non l'avevo mai visto.

GS: Ascolta, su YouTube c'è un sacco di roba di Andy che vale la pena vedere, specialmente quella della Carnegie Hall. Se hai un'ora e mezza, lo spettacolo della Carnegie Hall è assolutamente surreale.
Inoltre, ripensando alle cose migliori di Andy, c’è “Old Macdonald” che è molto, molto divertente. Lo improvvisò durante una registrazione, attirando quattro persone dal pubblico. Era una cosa che faceva fin da adolescente, quando organizzava feste per bambini.

RP: Mentre parlavi, ho cercato queste cose su Google e appena abbiamo finito premerò play. Ma è vero che [Andy Kaufman] è morto proprio prima del tuo tour con Dylan?

GS: Scoprii che era morto mentre ero in tournée con Bob. Proprio prima che iniziasse il tour, Andy mi disse che aveva un cancro ai polmoni. Pensavo stesse recitando qualche parte di un suo pezzo, gli dissi: "Andy, non è divertente". E lui: "No, ce l’ho davvero". Andò da molti dottori, nessuno poteva aiutarlo. Organizzammo una specie di veglia funebre dal vivo per lui all'Improv. Era strano. Andy era lì, era già calvo. Sapevo che sarebbe stata l'ultima volta che l’avrei visto.
Ricordo che eravamo da qualche parte in Italia, in uno di quegli hotel con la rivendita di riviste nella hall. Stavo uscendo per il concerto. Presi una copia di People e lessi: "Andy Kaufman è morto a 34 anni".
Nonostante tutte le cose che stavano succedendo con Bob, la mia mente andò altrove. Non riuscii proprio a controllarmi. Mi sedetti e quando arrivarono gli altri della band stavo piangendo nella hall. Era una brutta scena, ma non potei proprio trattenermi. Il tempismo, in quel caso, fu bizzarro.

RP: Da un lato stavi vivendo questo momento culminante della tua carriera…

GS: Sì, e persi il mio migliore amico. Eravamo cresciuti insieme, insieme fatto trip di acidi e tutta quella merda…

RP: Mi chiedo se Dylan fosse un fan di Andy Kaufman. Io ce lo vedo.

GS: Sì. Gliene parlai quando quel giorno mi chiese: "Perché non vieni con me?" Glielo dissi, rispose che gli piaceva Andy. Gli piacevano gli aspetti bizzarri di Andy. Gli piaceva che fosse di orientamento liberal.

RP: Volevo chiederti del concerto finale del tour allo Slane Castle, perché all’epoca sembrò un avvenimento piuttosto importante.

GS: Fu un concerto incredibile, incredibile.

RP: Come mai?

GS: Beh, prima di tutto, era l'ultimo spettacolo del tour, ed era anche in Irlanda, giusto? L'Irlanda è diversa da qualsiasi altro posto sulla terra. Quando arrivammo lì, c’era appena stata una rivolta perché avevano finito la Guinness. C'erano tutti i rifiuti gettati per strada e tutto il resto, mentre cercavamo di arrivare al concerto. Quei ragazzi si erano ribellati davvero perché avevano finito la birra.
C’era Van Morrison lì con Bob. Sia Bob che Van Morrison sono tipi piuttosto scostanti, ma loro due insieme diventano due chiacchieroni. Riuscivano a parlarsi così velocemente e a raccontarsi così tante storie. Li vidi allontanarsi abbracciandosi, ridendo proprio. Con loro c’era una bella donna, chissà cos’era successo la sera prima.
Ok, quindi, la folla era di nuovo oliata perché sul posto era arrivato una sorta di pronto soccorso Guinness. Era estate, e d'estate lì c’è sole fino alle undici di sera. Andammo in scena verso le otto ed era ancora pieno giorno. Facemmo davvero un grande set, poi uscì Van e fece "It's All Over Now, Baby Blue". Fu semplicemente fantastico. Eric [Clapton] era lì. Chrissie Hynde era lì. C'erano un sacco di star.
Alla fine, Bob attacca "Blowin' in the Wind". Ogni cantante famoso sul palco eseguì una strofa, ovviamente cantando i versi di Bob. Il brano stava crescendo di intensità, diventando un po' più rock.
Bono, che era lì con Lord Slane e indossava un cappello nero, fu l'ultimo a cantare. Cominciò e mi resi conto che stava inventando le parole. Giocava in casa, quindi il pubblico era tutto con lui. Continuò ad andare avanti. Tutti gli altri, dopo la loro strofa, avevano posato il microfono, giusto? Lui, invece, non molla quel cazzo di microfono. Marcia su e giù con il suo cappellino nero, inventando il testo di "Blowin' in the Wind".
Dopo quattro o cinque versi, Bob se ne va. Eric se ne va, Carlos se ne va. E noi ci ritrovammo a supportare Bono che stava ancora marciando su e giù, sembrava una parata nazista.
Alla fine, Mick Taylor, disgustato, alzò la chitarra tenendola in equilibrio sulla paletta e la lasciò cadere a terra. E se ne andò. Il tecnico del suono aveva velocemente disattivato il suo Marshall, ma io riuscii a sentire il botto. Quindi eccoci lì: io, Mac [Lagan], Colin [Allen] e Bono. Non potevamo fermarci perché Bono stava ancora vomitando versi.

RP: Non l’ha fermato nemmeno Mick Taylor che ha lasciato cadere rumorosamente la chitarra?

GS: No, no. Bono non si è fermato. A dire il vero, non credo nemmeno che se ne fosse accorto. Dopo un po' la cosa si esaurì e alla fine ci fermammo. Quello fu l'ultimo pezzo che avrei suonato con Bob Dylan. Se n’era andato, non sarebbe tornato a ringraziare.
Salimmo sull'autobus per uscire da lì e Bob mi fa: "Ehi Gregg, quel Bono mi ha impressionato".

RP: In tono sincero o sarcastico?

GS: Penso entrambi. Penso che fosse sarcastico, ma allo stesso tempo era vero. Bono aveva preso il sopravvento, come una presa di potere nemica. Penso che Bob avesse una visione più ampia. Penso che si sia fatto una risata. Ed era proprio tipico di Bob: "Ehi, quel Bono mi ha impressionato”.
Ricordo che una volta gli diedi la tonalità sbagliata di una canzone. Sceso dal palco, mi disse [imita la voce di Dylan]: "Quella era assolutamente, decisamente la tonalità sbagliata”. Valeva quasi la pena di sbagliare per sentirglielo dire, perché era proprio la sua espressione. Avrebbe potuto essere “Positively 4th Street”.

RP: Pensi che l’album “Real Live” abbia reso giustizia al tour?

GS: Sì e no. All’epoca pensai che avrebbero potuto scegliere altre canzoni. È un disco dal vivo, perché non inserire un paio di dozzine di brani anziché solo dieci?
Molte persone pensano che non suoni bene o qualcosa del genere, ma [il produttore] Glyn Johns sapeva cosa cazzo stava facendo. Pete Townshend a Londra disse che sembrava che Bob suonasse con i Rolling Stones: ecco, pensavo che il disco avrebbe restituito questa cosa.
Forse sapevano fin dall'inizio che avrebbero registrato un disco dal vivo, ma di certo non ce lo dissero finché in tournée non arrivò Glyn Johns per una settimana. Io penso che nelle prime due settimane non fossero sicuri di voler davvero ricavarne un disco, ma man mano che le cose andavano avanti abbiamo iniziato a suonare alla grande.
C'è una versione di "Imagination" in cui Mick Taylor fa quelle cose folli che faceva anche su alcune canzoni di Bob. Otteneva un armonico con la slide e poi il bending di quell'armonico. Cose impossibili per un comune mortale. Suonava davvero fantastico. Mi sembra lo facesse su “All Along the Watchtower”. Non ho sentito nulla di tutto ciò in “Real Live”. Sarebbe stato bello avere uno degli assoli più squisiti di Mick Taylor perché come lui non c’è nessuno.

RP: Hai detto che Pete Townshend assistette a uno degli spettacoli?

GS: A quello di Londra. Londra fu davvero speciale perché il backstage era una parete di star. Credo che Pete fosse nel palco reale, quello che puoi vedere dal palcoscenico.

RP: Ti intimorì?

GS: No, affatto. Andava benissimo. Non c’era ragione per intimorirsi. Lui era lì per vedere cosa stavamo facendo. Era come un'opportunità. Non che io stessi cercando un'audizione per gli Who o qualcosa del genere. Questo è quello che facciamo: serio rock and roll.

RP: Guardavi quando Dylan eseguiva da solo il suo set acustico?

GS: Assolutamente. Sempre. Nessun altro nella band lo faceva, ma io sì. Ogni tanto gli dicevo: "Ehi, Bob, perché non fai 'Desolation Row’ una di queste sere?" E lui: "Oh no, no. Troppi versi, Gregg". Finché un paio di sere dopo l’ha fatta [ndt: nella terza data di Roma, Palaeur, 21 giugno 1984]. Si girò per controllarmi, vide che ero lì in piedi.
Ha poi riscritto "Tangled Up In Blue" e una sera l'ha cantata. Per me è una delle sue canzoni più grandi, e la riscrittura è ancora meglio. È la continuazione della stessa storia.

RP: Sì, non ha cambiato solo uno o due versi qua e là. È la stessa musica, ma liriche totalmente diverse.

GS: Ha aggiunto un terzo personaggio. Ci sono tre personaggi, e lui ha reso il terzo più forte. C'è una nuova azione. È una riscrittura totale.

RP: È qualcosa che hai visto mentre lo faceva sul palco, di fronte a una folla enorme. Ti chiedesti cosa stesse cantando?

GS: Sì. Il capo della sua sicurezza era un dentista di nome Stan Golden. Parlavo con Stan di queste cose, perché mi ascoltava. Il motivo per cui Stan era il capo della sicurezza è perché poteva portare una valigia di medicine attraverso qualsiasi frontiera del mondo. Non sapeva un accidenti di sicurezza.
Ad ogni modo, ci dicemmo entrambi: “Wow. Hai sentito che roba ‘Tangled Up in Blue’? È una fottuta riscrittura totale”. E non è che Bob abbia detto qualcosa. Non ha annunciato: "Ecco 'Tangled Up in Blue'. Prima era così, ma adesso va così." L’ha semplicemente cantata.


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Noel Paul Stookey di Peter, Paul & Mary racconta di Bob Dylan negli anni ‘60

di Ray Padgett
(17 settembre 2022)

Fonte: https://dylanlive.substack.com/p/peter-paul-and-marys-noel-paul-stookey

Traduzione di Silvano Cattaneo

Noel Paul Stookey è meglio conosciuto con il suo secondo nome: Paul. Il "Paul" dell'iconico trio musicale Peter, Paul & Mary. Hanno avuto i primi successi con il boom della folk music negli anni '60 e, lungo la strada, hanno aiutato un giovane cantautore con una voce cui bisognava abituarsi, a raggiungere un pubblico più vasto. La loro "Blowin' in the Wind" è stata la prima registrazione di una canzone di Dylan a raggiungere la vetta della classifica di Billboard (Bob non sarebbe stato in cima a questa classifica con un suo brano fino a "Murder Most Foul", nel 2020).
Sei decenni dopo, Stookey è ancora presente sia sul fronte musicale che su quello dell'attivismo. Per la musica, all'inizio di quest'anno ha pubblicato il suo ultimo album “Fazz”, fondendo folk e jazz (da cui il titolo). E sul fronte dell'attivismo ha co-fondato con sua figlia Elizabeth Stookey Sunde l'organizzazione no profit “Music to Life”. Durante l'estate, Music to Life ha ricevuto una sovvenzione di 500.000 dollari dalla Mellon Foundation per formare musicisti di ogni area geografica, genere ed età impegnati nella giustizia sociale. Per ulteriori informazioni sul programma 2023, i musicisti interessati possono iscriversi alla mailing list di Music to Life.
"Questi artisti sono attivisti sul serio", spiega Paul. “Non si tratta solo di organizzare una cena di beneficenza dove qualcuno si alza, canta una canzone e si donano 100 dollari per portare avanti la causa. Io sono uno di quelli chiamati per concerti di beneficenza, ma questi attivisti che Music to Life sostiene entrano effettivamente nella comunità, dalle prigioni del Maine ai senzatetto di Houston. C'è un elemento di partecipazione pratica che non c'era negli anni '60".
Quando ho chiamato Stookey abbiamo naturalmente parlato soprattutto di Dylan. Dei giorni inebrianti del Greenwich Village negli anni '60, ovvio, ma anche del tempo che ha trascorso con Bob e The Band a Woodstock dopo l'incidente in moto, e anche di incontri successivi negli anni '80.

Ray Padgett: Oggi è un giorno di buon auspicio per parlare, è il giorno dopo il grande ritorno di Joni Mitchell a Newport [24 luglio 2022].

Noel Paul Stookey: Bello! Non ho mai prestato troppa attenzione al lavoro di Joni, ma ho continuato a sentire le versioni dei suoi brani fatte da Judy Collins. Ero più vicino a Judy che a Joni.

RP: Forse c'è un parallelo con Dylan e Peter, Paul & Mary, ossia artisti che contribuiscono a rendere popolare un altro.

NPS: Sì, ma quello che è successo tra Dylan e Peter, Paul & Mary è stata un'evoluzione naturale. Da un lato capisco quando le persone attribuiscono a Peter, Paul & Mary di aver introdotto Bob Dylan. Ma dall’altro lato sento davvero che era inevitabile in virtù della potenza delle sue liriche. La natura dei testi, il fatto che parlassero di qualcosa di così contemporaneo, stava cambiando il volto della musica popolare negli anni '60, verosimilmente fino alla formazione del folk-rock negli anni '70.
Penso che Dylan, indipendentemente dalla voce, sarebbe per forza di cose diventato molto popolare. Nonostante il suo approccio forse un po’ troppo teatrale, quella voce aveva un certo tipo di autenticità che la gente non poteva rifiutare. Con una voce del genere non pensi di andare davanti a un pubblico, a meno che tu non lo faccia apposta. [ride]

RP: Ricordi la prima volta che lo incontrasti, presumo in uno dei club del Village?

NPS: Al The Gaslight io ero il maestro di cerimonie e uno degli artisti. Non ero solo un cantante folk. A dirla tutta indossavo tanti cappelli: ero il maestro di cerimonie, ma capitava anche che servissi ai tavoli. Ed ero l'ideatore del programma. Il Gaslight si stava lentamente evolvendo come punto privilegiato per i cantanti folk. Certo, c'era il Folk City, il locale di Mike Porco, ma il Gaslight era il posto in cui si ritrovavano Len Chandler, Dave Van Ronk e Tom Paxton.
Una sera, dalla porta spuntò Bob Dylan. Dissi: "Sì, abbiamo il nostro microfono a disposizione, possiamo farti salire." La prima volta che si esibì lì, non ricordo l'anno ma erano i primi '60, cantò principalmente derivativi, niente di originale che io possa ricordare. Onestamente, era così così.
Tornò circa un mese dopo, nel frattempo aveva lavorato in un club di scacchi nel New Jersey, e chiese se poteva continuare. Lo riconobbi e dissi “certo”. Sapendo già che tipo di musica avrebbe fatto, lo inserii tra un chitarrista di flamenco e il mio consueto numero di cabaret.
Salì sul palco e iniziò a fare un pezzo folk chiamato "Buffalo Skinners". La canzone racconta la storia di un uomo che si trova a ovest e ottiene un lavoro presso un gruppo di persone che scuoiano pelli di bufalo. A fine stagione va dal contabile e viene pagato in pelli di bufalo. Dice: "Cosa dovrei fare con queste?" E il tipo: "Oh, portale all'emporio e scambiale." Così va all'emporio e le scambia con le provviste necessarie a continuare il suo viaggio, sempre più a ovest.
Bene, Dylan iniziò a cantare questa canzone con gli stessi accordi. Solo che era diventata la storia di un cantante folk che si esibisce in un club di scacchi nel New Jersey. Alla fine, il proprietario lo paga in pezzi degli scacchi. Dylan chiede: "Cosa dovrei fare con questi?" "Portali dal barista. Sono come denaro." Quindi Dylan si siede al bar, ordina una birra, paga con il re e riceve due torri come resto. [ride] Mi fece impazzire. In retrospettiva, è ovvio per me che Dylan aveva idea di cosa fosse la musica folk. Che la sua portata era molto più ampia della storia specifica. Che poteva comunicare concetti prendendo in prestito forme tradizionali collaudate e vere. Poco dopo lo raccomandai ad Albert Grossman, che era il manager di Peter, Paul & Mary e non passò molto tempo che Dylan divenne parte della sua scuderia.
Forse un anno dopo, Albert [Grossman] si presentò al The Gate of Horn di Chicago, dove Peter, Mary ed io eravamo in cartellone con Shel Silverstein, e ci fece ascoltare un acetato di due canzoni, convinto che ci sarebbero piaciute. Una era "Don’t think Twice, It’s All Right" e l'altra era "Blowin' in the Wind". Inutile ricordarlo, entrambe sarebbero diventate punti cardine per Bobby.
Penso che noi fossimo appena reduci da "If I Had A Hammer". Si stava introducendo il concetto di musica con un messaggio in quello che era stato un genere musicale popolare. Allora i disc jockey potevano ancora decidere le canzoni da mandare in onda, che si trattasse di Buck Herring, che trasmise il nostro primo singolo di successo "Lemon Tree", o di uno di quei disc jockey sempre più socialmente orientati come Dave Dixon di Detroit. La musica che parlava a una coscienza sociale iniziò a prendere il sopravvento nelle onde radio.

RP: Cosa mi dici di quelle due canzoni, "Blowin'" e "Don't Think Twice"? Ti sembravano potenziali canzoni per Peter, Paul & Mary? Ovviamente non ve le hanno date armonizzate a tre voci.

NPS: Abbiamo sempre scelto una canzone per il suo valore, non per l'interpretazione dell'artista che l'aveva creata o che ce la portava. Sapevamo di poter fare qualsiasi cosa avremmo voluto perché avevamo tre voci molto particolari. La prima canzone che eseguimmo fu "Mary Had a Little Lamb" perché noi tre facevamo versioni così diverse tra loro di tutte le altre canzoni folk, che quella era l'unica su cui eravamo d'accordo.
C'era un feeling così naturale tra le nostre voci che non importava chi avesse il ruolo principale, gli altri due avrebbero trovato delle parti. Dal punto di vista stilistico, ciò che Peter, Mary ed io siamo stati in grado di fare è stato accentuare il significato delle canzoni. Abbiamo sempre preso le nostre decisioni in base al significato più importante del testo. Se questo implicava che qualcuno dovesse avere una linea solista, allora avevano una linea solista. Se il significato del testo usciva meglio da un duetto, avremmo cantato in duetto.

RP: E questo come si tradusse, ad esempio, con il testo di "Blowin' in the Wind"? Puoi farmi qualche esempio di testi che vi indirizzavano in determinate direzioni?

NPS: "Blowin' in the Wind" è come un accumulo di saggezza, quindi dovevano accumularsi anche le voci. Il primo verso sarebbe stato una voce sola, il secondo verso un duetto e il terzo tutti e tre assieme. Il ritornello sarebbe stato armonizzato. Poi una voce solista diversa avrebbe iniziato la strofa successiva, e qualcun altro si sarebbe aggiunto nel verso dopo. In un certo senso, costruiva. Ha soddisfatto il nostro desiderio di emulare ciò che la canzone stava cercando di dire, cioè che insieme dovremmo prestare attenzione a queste cose. Non so nemmeno se fossimo così calcolatori, ma intuitivamente ci sembrava la giusta direzione da prendere.
Prendemmo sempre decisioni del genere. Ho un nuovo album in uscita chiamato “Fazz”, un termine che ho incorporato dopo aver sentito Paul Desmond provare a descrivere una canzone che Peter, Paul & Mary e il Dave Brubeck Quartet stavano per fare insieme. Una specie di connubio tra musica folk e jazz.
Nel realizzare questo album ho ripensato a molte canzoni che avevo fatto con Peter, Paul & Mary. All’epoca stavo introducendo parecchi accordi jazz alternativi nell'ambiente folk. A un certo punto, Peter mi sorprese a fare un accordo di settima maggiore dietro una melodia di Woody Guthrie. Disse: "Non suonare le settime maggiori per Woody!" Anche se allora mi sembrò un po' arbitrario, sottolinea quello di cui ti parlavo: la decisione finale se qualcosa dovesse essere incorporato in una canzone, che fosse una voce o un accordo di chitarra, era ciò che la canzone stava dicendo. Questa cosa migliora la canzone o sminuisce il messaggio? Attenendoci a quelle decisioni drastiche, la vita è diventata più facile. Magari una cosa può essere musicalmente intelligente, o persino suonare bene, ma se vedi che non suona bene per quel particolare testo, allora non inserirla.

RP: In quei primi giorni incrociavi spesso Dylan in vari caffè e club. Com'era la scena?

NPS: Eravamo tutti consapevoli che c'era molto interesse per la musica che stavamo facendo. Per un certo periodo, se eri a New York, il Greenwich Village era il posto dove stare.
Per circa tre mesi, forse anche sei mesi, durante il periodo delle prove di Peter, Paul & Mary, ricordo di aver sentito Bobby in tutti i caffè. Gli artisti, di regola, passavano da un locale all'altro. Non per lavoro, ma magari solo perché avevano amici nell' altro bar che li avrebbero chiamati sul palco per fare qualcosa insieme.
C'è stata una grande interazione tra Figaro, Bitter End, Gaslight, Rienzi e Gerde's Folk City. Un grande scambio di informazioni. Pensa che qualcuno mi ha detto che una volta Odetta suonò una canzone dando le spalle al pubblico perché non voleva che una persona che sapeva essere lì davanti, un cantante folk competitivo, le rubasse gli accordi.
Tutto questo fu poco prima che Peter, Paul & Mary iniziassero a trasferirsi in club come The Blue Angel, nei quartieri alti, "portando la musica dell'uomo comune all'élite sofisticata" [detto con una punta di sarcasmo], e ad andare in tour. Quello cambiò tutto. Una volta in tour, capitava di fermarci al Gaslight per sentire che stava succedendo, ma quella scena scomparve abbastanza velocemente. Quando tornammo al Village, tutto era diventato elegante. L' esplosione folk finì molto rapidamente.

RP: Tu rimanesti colpito da Dylan come autore, ma com'era come esecutore, come presenza sul palco?

NPS: Probabilmente era nervoso, perché era così introspettivo. Stava molto abbottonato. Non era a suo agio. Direi che le relazioni sociali non erano in cima alla lista delle sue abilità.

RP: Cosa intendi?

NPS: Strette di mano deboli, saluti borbottati, strane introduzioni ai brani. Non sono uno psichiatra, ma sembra che la sua inclinazione naturale sia quella di essere un tipo solitario e tranquillo. Anche se il suo talento lo stava attirando sul palco, non sembrava il posto più confortevole per lui.

RP: Nel 1963, voi e Dylan cantaste entrambi alla Marcia su Washington [28 agosto]. Ho visto i video degli artisti e ho visto i video di Martin Luther King, ma puoi collegare le cose e spiegare quale fu il ruolo dei musicisti quel giorno?

NPS: La musica era una parte molto importante del movimento. Che si trattasse dei Freedom Singers o di semplici persone che cantavano durante le marce a Selma, c’era musica in qualunque occasione si parlasse di diritti civili. Forse perché Pete [Seeger] e "We Shall Overcome" avevano grande importanza in tutto ciò. Forse perché fa parte della vocazione della musica popolare connettere l’arte con la vita umana. Persino alle prove che si svolsero davanti al Washington Monument, con Odetta che cantava, Dylan e Baez che cantavano, noi che cantavamo, la musica era integrata in mezzo ai discorsi. E poi marciammo tutti al Lincoln Memorial.
La musica parlava su più livelli, ma quello che fece fu farci capire l'interconnessione tra tutte le persone. Quando canti insieme sei connesso in un modo che stare in piedi spalla a spalla ad ascoltare qualcuno che parla non fa. Quella fu una parte importante, ed è ancora una parte importante, per capire che siamo tutti coinvolti insieme.

RP: Sempre nell'estate del 1963 ci fu la prima esibizione di Dylan a Newport. Il libro di Elijah Wald [“Dylan Goes Electric!”, edito in Italia da Vallardi con il titolo “Il giorno che Bob Dylan prese la chitarra elettrica”] parla di un aereo privato su cui Albert Grossman mise i suoi artisti e portò voi tre e Dylan a Rhode Island. Ti dice qualcosa?

NPS: A quel tempo, Peter, Paul & Mary stavano frequentando i campus universitari. Comprammo un bimotore Lockheed Lodestar. Peter lo chiamava “l'aragosta caricatutto” [ndt: gioco di parole tra “Lodestar”, il tipo di aereo e “lobster”, aragosta]. Aveva tre pinne come i vecchi aerei TWA. Fu davvero di grande aiuto perché potevamo volare da un campus all'altro, da un piccolo aeroporto all'altro, senza fare trasbordi. Penso che tu ti riferisca a quell’aereo. Se ricordo bene, c’era una delle chitarre di Dylan nell'armadietto posteriore, potrebbe essere stata proprio quella con cui a Newport ha suonato elettrico.
La maggior parte delle persone denigrò il suo passaggio da quella che era considerata una scrittura politica a una scrittura introspettiva. Phil Ochs, in particolare. Ma per quanto mi riguardava, corrispondeva alla mia stessa visione.
Puoi parlare di politica, ma poi tutto ritorna alla responsabilità individuale. E se vuoi essere individualmente responsabile, devi capire chi sei. Pensai che il cambiamento di Dylan fosse molto naturale, e penso che sia parte di un'evoluzione in cui mi sono rispecchiato quando ho abbracciato la spiritualità alla fine degli anni '60. Non credo che lui abbia rinunciato alla sua preoccupazione per la condizione umana, penso che l'abbia semplicemente ampliata, ma le persone non erano pronte per questo.

RP: Ci sono due canzoni su cui ho letto qualcosina di interessante e mi chiedevo se potevi chiarire meglio. La prima è "Talkin' Bear Mountain Picnic Massacre Blues". Fosti tu a dare a Dylan l'articolo che poi l'ha ispirato?

NPS: Accadde uno o due giorni dopo che avevo sentito la sua riscrittura di "Buffalo Skinners". Bobby era ancora in città, veniva al Gaslight per esibirsi. Ero rimasto così colpito da ciò che aveva fatto che, quando vidi l'articolo, pensai che quel ragazzo potesse trasporre qualsiasi cosa in un modo che tutti potessero capire. Se ben ricordo, gli portai il giornale e gli diedi l’articolo ritagliato. Tornò, giuro, la sera dopo o al massimo passò un altro giorno, ma tornò molto rapidamente e fece "Bear Mountain Picnic Massacre Blues".

RP: Quindi glielo desti con l'idea che c'era una canzone in quella storia e lui sarebbe riuscito a scriverla?

NPS: Esattamente, che lì c'era una canzone di Bob Dylan.

RP: Cosa c’era in quella storia che te l’aveva fatto pensare?

NPS: L'assurdità. Pensavo che Dylan ne cogliesse l’assurdità e fosse in grado di commentarla alla grande. Che potesse darle piena efficacia. Nella canzone, alcune persone non finiscono gettate a riva? Non sono sicuro che successe davvero, ma la barca si capovolse. La sua capacità di darle un corpo e una struttura era piuttosto sorprendente. Sapevo che l'avrebbe fatto, mi era bastato il brano "Buffalo Skinners".

RP: E qual è la storia dietro un altro talkin' blues, il tuo "Talkin' Candy Bar Blues". Ho letto che Dylan ha contribuito, ma i suoi versi non sono finiti nel disco. Cosa successe?

NPS: In realtà, non credo che Dylan abbia contribuito… No, aspetta, hai ragione! Wow, la tua documentazione è fantastica. [ride] Ora che me lo dici, avevo scritto "Talkin' Candy Bar Blues" e Albert [Grossman] l'aveva inviata a Bobby perché gli piaceva il concept, ma non era sicuro di dove sarebbe andata parare.

RP: Quindi era un lavoro in corso?

NPS: Non era finita quando Bobby la vide. Bobby tornò con qualcosa di molto duro, il che mi sorprese. O forse non era duro, semplicemente avevo la mia versione. Sono contento di come la canzone si è sviluppata, ma non ho usato nessuna delle cose di Dylan. Mi sembra che lui avesse introdotto dei concetti di comunità più che una storia di quartiere. Erano... non ricordo. Penso che abbia provato due o tre versi che semplicemente non mi calzavano. Mi piacerebbe trovare quel contributo originale di Dylan nei miei archivi. Grazie per avermelo ricordato.

RP: Hai un grande archivio? Sei una persona che colleziona e si aggrappa alle cose?

NPS: Cosa intendi, un accumulatore?

RP: Sì, un accumulatore.

NPS: Beh, onestamente, sì. È come quando mia moglie guarda il mio laboratorio al piano di sotto con gli oggetti di cui ho detto: "Oh, non buttarlo via, lo sistemo io". Ma solo un misero 10% poi ritorna su per le scale. Ecco, sto guardando i miei archivi allo stesso modo.
In una certa misura sono anche responsabile degli archivi di Peter, Paul & Mary perché ho una stanza con umidità controllata qui nel Maine dove tengo un sacco di nastri audio e video, nastri master di tutto il lavoro che abbiamo fatto. Sto per assumere a tempo pieno un archivista che mi aiuti a riordinarli.

RP: Ti senti con l'archivio di Bob Dylan a Tulsa? Ti hanno contattato?

NPS: Sì, ci sono stati alcuni contatti, ma penso che parlino di più con Peter. Abbiamo ricevuto una richiesta dalla Kentucky Music Hall of Fame di allestire un chiosco per Mary [morta nel 2009]. Stiamo raccogliendo foto, alcune lettere, materiale d'archivio, persino alcuni costumi che probabilmente invieremo loro.
Per quanto riguarda Dylan, non so quanto Peter, Paul & Mary verranno incorporati in quell’archivio [di Tulsa].
In termini di contatti effettivi con Dylan, nel corso degli anni le nostre strade si sono poi incrociate solo un paio di volte. Lo abbiamo incontrato nel backstage di quello spettacolo televisivo [un tributo a Martin Luther King, all’Opera House di Washington, 20 gennaio 1986] in cui ha massacrato la chitarra solista in "Blowin' in the Wind", con noi e Stevie Wonder. È stato uno di quei pasticci dove il produttore dice: "Oh mio Dio, possiamo mettere insieme tutti questi nomi sullo schermo, faremo uno show col botto." Così hanno messo insieme Dylan, noi e Stevie per fare “Blowin' in the Wind” e non è stato molto bello.
Nel backstage Dylan mi chiese: "Sei ancora con il Signore?" Risposi: "Oh, sì!"
Successe in seguito a quel viaggio che feci a Woodstock dopo il suo incidente. Lui stesso stava attraversando alcuni cambiamenti, poco prima che pubblicasse “John Wesley Harding” e diversi anni prima dei suoi due album da cristiano rinato.
Mi chiese di recitare una piccola parte in un film che stava girando a Woodstock, nel periodo dell'incidente in moto.

RP: Ricordi qual era la tua piccola parte in quel film?

NPS: Sì, ero vestito con una tunica bianca da monaco. Era da qualche foresta in mezzo a una foresta, ma sono sicuro che quasi tutto è stato scartato.

RP: Cosa facevi in tunica bianca da monaco?

NPS: Penso che stessi pontificando. Ma fu prima delle nostre due esperienze spirituali.

RP: Era una scena solo con te o anche con The Band o con Bob?

NPS: No, da solo. Mi sembra che il cameraman fosse Howard Alk.

RP: Vedesti qualche concerto dei suoi tour post-Newport con The Band?

NPS: Penso che in quel periodo non stessi prestando molta attenzione alle faccende di Bobby, e se capitava era un interesse sporadico.
Peter, Paul & Mary non dovettero combattere i giudizi dei puristi. Eravamo già stati criticati un paio di volte per essere patinati. Continuammo con i nostri strumenti acustici. Sebbene le nostre armonie fossero forse una sfida per coloro che amavano solo la musica degli Appalachi, abbiamo sempre fatto la musica che volevamo fare. Presa in prestito da artisti folk, a volte cambiando le armonie. Abbiamo aggiunto un bridge su "There But for Fortune" di Phil Ochs. Chi è abbastanza audace da farlo? Tutto ciò era parte della nostra comfort zone. Se sentivamo che doveva essere fatto, lo facevamo e sopportavamo le conseguenze negative.
Siamo stati totalmente dentro al nostro mondo fino alla fine del ‘69. Poi ci siamo presi sei anni di pausa, periodo che abbiamo affettuosamente chiamato “di buona condotta”. Non siamo tornati insieme fino al '78.

RP: Se dopo Newport eri ancora immerso nel mondo di Peter, Paul & Mary, come finisti a Woodstock per quel piccolo film?

NPS: Ricerca spirituale. Il sospetto che la realtà non fosse tutto ciò che sembrava essere. La ricerca di qualche direzione per l'anima. E poi l'avvento dei Beatles, perché quello fu piuttosto potente. La loro comparsa fu un cataclisma sulla scena della musica pop, almeno quanto era stato l'arrivo della musica folk. E andava nella direzione della scoperta di sé. Molti brani dei Beatles, dopo che ti sei lasciato alle spalle "I Want to Hold Your Hand", erano sulla scoperta di sé stessi.
Fu la grande domanda che feci a Bobby: "Hai sentito i Beatles? Cosa ti fanno venire voglia di fare come artista?" E Bob mi disse: "Beh, devi ascoltare il mio nuovo album.” Come se “John Wesley Harding” fosse la sua risposta ai Beatles. Pensai che fosse curioso perché, di certo, stilisticamente non lo era.

RP: Dove si svolsero queste conversazioni con Dylan? Eri lì per qualche brano dei “Basement Tapes”?

NPS: Forse cenai con The Band e Albert [Grossman] nel ristorante che lui possedeva a Woodstock. Può essere. Avevo un bassista che si era sposato a Woodstock, Jim Mason, che poi ha prodotto i Firefall.

RP: Come ha fatto "Too Much of Nothing" a farsi strada dai nastri della cantina al vostro repertorio? Immagino che anche qui ci sia stato di mezzo Albert Grossman. [ndt: “Too Much of Nothing” fu originariamente incisa proprio da Peter, Paul & Mary nel novembre 1967]

NPS: Non riesco a ricordare. Probabilmente di nuovo Albert e/o il suo rapporto con Peter. So che ne facemmo una versione molto pop.

RP: Anni dopo, voi eravate di nuovo sullo stesso palco per il Live Aid [13 luglio 1985], giusto?

NPS: Non fu una scelta felice, in particolare per Mary. L'aspettativa era che noi saremmo andati a cantare "Blowin' in the Wind" con Bobby a concludere. Quando chiamai Keith Richards e Ron Wood, fu... non so. Penso che quello abbia tracciato una linea di demarcazione definitiva tra ciò che Dylan pensava di essere e ciò che Mary pensava dovesse essere la comunità folk.
Ricordo solo di essere andato alla roulotte di Dylan, lui era seduto sullo scalino. Si supponeva che più tardi saremmo saliti sul palco con lui, ma non successe. Salimmo per il gran finale e questo è tutto. Non abbiamo mai cantato come trio al Live Aid. Non è stata una bella sensazione.

RP: Fondamentalmente eravate lì solo per cantare con Dylan e lui vi ha snobbato.

NPS: Già. Come ti ho detto, le relazioni sociali non erano in cima alla lista delle abilità di Bobby.

RP: Quel trio con Keith Richards e Ron Wood: penso che oggi la maggior parte dei fan di Dylan la consideri come la peggiore performance della sua carriera.

NPS: Sì, persino Dylan potrebbe essere d'accordo. Ne ho visto una clip di recente. O la chitarra di Ron Wood era spenta, o la chitarra di qualcun altro non era accordata, quindi hanno continuato cambiando chitarre. Nessuno cantava davvero, tranne Dylan.
Per cercare di trovare un valore in quella esperienza, penso che forse stava cercando di tendere una mano alle buone intenzioni. Stava cercando di dire: "Ehi, siamo tutti coinvolti in questa cosa, insieme. Anche le persone che non ti aspetti, sono qui insieme". Gli concedo questo beneficio. Non credo che l’abbia fatto per autoglorificarsi, non ne aveva bisogno. E nemmeno perché era amico di quei due. Penso che l'abbia fatto come una dichiarazione più ampia.
Questo è tutto. Non ho più sentito Bobby né parlato con lui, devono essere passati ormai quarant’anni. Se dovessi sintetizzare, direi che abbiamo avuto una relazione affettuosa ma distante. Penso che sia stato davvero fantastico quello che ha scritto sulle note di copertina [dell’album “In the Wind”, 1963] di Peter, Paul & Mary, su di me che facevo l’imitazione di Charlie Chaplin sotto le luci tremolanti del Gaslight. Aveva un senso poetico che di tanto in tanto poteva mettere su carta senza musica.
Paul allora era un chitarrista cantante cabarettista Ma non il tipo buffo ah ah.
La sua buffità poteva essere definita e descritta solo dalla parola "hip" o "hyp", Una combinazione di Charlie Chaplin Jonathan Winters e Peter Lorre. orse fu quella sera che qualcuno agitò un pezzo di cartone davanti a un piccolo riflettore e lui fece rapidi ridicoli
movimenti sul palco e gli occhi di tutti videro di persona un film muto dal vero, iIl cattivo barbuto di una vecchia fotografia.
Non c'è abbastanza spazio sul giornale per parlare di tutti quelli che erano lì e di cosa facevano esattamente.
Ogni sera era davvero un romanzo di alto livello. Comunque fu una di quelle sere che Paul disse "Dovete ora sentire me e Peter e Mary cantare". Allora i capelli di Mary erano lunghi quasi fino alla vita, e la barba di Peter era cresciuta solo per metà, e il palco del Gaslight era più piccolo, e la canzone che cantavano era più giovane.
Ma le pareti tremarono, e tutti sorrisero, e tutti si sentirono bene.

Grazie Noel! Scoprite di più sul suo attuale impegno per la giustizia sociale su Music to Life [https://www.musictolife.org], e sul suo nuovo album “Fazz” sul suo sito web [https://noelpaulstookey.com].
 

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Suonare la batteria per Dylan nei ‘90. Parla Winston Watson.

“Fu solo il più strano di tutti i concerti”

di Ray Padgett  - (4 agosto 2022)

Fonte: https://dylanlive.substack.com/p/winston-watson-talks-drumming-for?utm_source=substack&utm_medium=email

traduzione di Silvano Cattaneo

Winston Watson ha suonato nella band di Bob Dylan per alcune delle migliori prime annate del Never Ending Tour. Si è unito quasi senza preavviso nel settembre 1992, nel bel mezzo di un tour, sedendo al secondo sgabello della batteria al posto di un amico. Salvo poi ritrovarsi altrettanto bruscamente non solo a restare, ma a diventare l'unico batterista di Dylan per quasi quattro anni.
Lungo la strada ha suonato in concerti importanti, come Woodstock '94 e MTV Unplugged e dietro a ospiti all-star, da Sheryl Crow a Van Morrison. Si è anche ritrovato a partecipare con un piccolo contributo a “Time Out of Mind”, un anno dopo aver lasciato la band. Ho parlato recentemente con lui al telefono, dopo le sue date in tour con i ricostituiti MC5: una lunga e piacevole chiacchierata su tutto questo e molto altro ancora.
Questa è la prima parte. Nella seconda parte, che pubblicherò tra poche settimane, parleremo di una dozzina di spettacoli particolarmente importanti del suo periodo con Dylan: Woodstock '94, MTV Unplugged, l’esecuzione di "Restless Farewell" per Frank Sinatra e altro ancora.

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Ray Padgett: Come entrasti nella band di Dylan?

Winston Watson: Facevo parte di una piccola band di tre elementi a Los Angeles e contemporaneamente lavoravo anche in una compagnia di set cinematografici, facendo un po’ di tutto perché avevo una figlia di due anni. All’epoca il mio migliore amico, Charlie Quintana, suonava con Dylan. Charlie aveva già suonato con lui al Letterman Show, quella cosa con i Plugz nel 1984, ma a quei tempi non lo conoscevo ancora. L'avrei incontrato tre o quattro anni dopo: diventammo vicini di casa e migliori amici. Charlie mi aveva invitato al Pantages Theatre di Los Angeles dove si stavano esibendo per sette serate, nel '92 [dal 13 al 21 maggio]. La prima sera andai con mia moglie, ma il telefono continuò a squillare: a quanto pare mia figlia stava facendo un gran casino con la moglie di Charlie, quindi dovemmo lasciare lo spettacolo e tornare a casa.
La serata successiva andai da solo. Non sapevo niente di Dylan. Avevo ascoltato le sue canzoni più famose e scherzato sulla sua voce come chiunque altro. Semplicemente non era proprio il mio genere. Mi piacevano i Soundgarden e Alice In Chains.
Ricordo che a quello spettacolo nessuno sembrava soddisfatto e tutti bevevano. Dopo, Charlie [Quintana] e io mangiammo un boccone assieme, e ricordo di essermi detto: "In quella band non ci suonerei neanche se mi pagassero!" Mi pareva che nessuno si stesse divertendo.
A quel tempo vivevo a Studio City [un quartiere di Los Angeles nella San Fernando Valley], ed ero sempre in contatto con Charlie. Qualche mese dopo mi chiamò e mi chiese: "Ehi, cosa fai la prossima settimana?" Voleva che volassi a Kansas City per suonare con loro. Pensavo mi stesse prendendo in giro. Dissi “Cosa significa? Io e te? Perché mi risulta che in questo momento ci siete tu e Ian Wallace [entrambi alla batteria].” E lui: "No, sarete tu e Ian." "Oh, amico, nemmeno lo conosco. Che cazzo vuoi che faccia?" E lui: "Andrà tutto bene. Alla fine del tour mancano solo poche date e io devo andare a suonare con Izzy Stradlin." Dissi okay.
Volai a Kansas City. Dovetti pagarmi il taxi con gli ultimi soldi che avevo e mi diressi all'hotel. Andai nella mia stanza, ordinai il servizio in camera, feci il bagno. Stavo lì, sdraiato nella vasca, chiedendomi che cazzo ci facessi in quel posto. Ero terrorizzato. Non avevo idea di cosa potesse succedere.
Una delle prime persone che vidi fu il [tour manager] Victor Maymudes: era preoccupato per qualcosa e non era molto interessato a parlare con me. Così andai ai tour bus. [L'autista] Tommy Masters disse a Victor: "Questo è il tipo arrivato per suonare la batteria." Victor si girò con il sorriso più grande stampato in faccia e disse: "Sì, ti stavamo aspettando." Finalmente anche il resto della band salì sul bus e provai a chiedere: "Cosa sta succedendo? Come funziona qui?", per cercare di raccapezzarmi.

RP: Ricevesti almeno qualche istruzione musicale prima del concerto? Tipo "Impara queste canzoni, fai questo o..."

WW: No! Avevano un kit di batteria nel retropalco e mi sedetti lì un minuto a provarlo. Mi chiedevo dove fosse l’altro batterista che avrebbe dovuto essere già lì, ma l’incontrai solo all’ultimo momento. Pensai: “Non so cosa farò. Cercherò solo di non essere d’impiccio."
C’erano 80.000 spettatori [al Liberty Memorial Park di Kansas City]. Era come affacciarsi sul Grand Canyon, ma di persone. Prima di noi suonò Albert King. Quando arrivò il nostro turno avanzai dietro il kit: mi sembrava di entrare in scena legato a un razzo, senza possibilità di tornare indietro. Tony [Garnier] mi disse solo: "Guardami e guardalo. E ti si svelerà da sé."
Fortunatamente ero stato al Pantages Theatre e sapevo cosa stavano per fare. C'erano un sacco di shuffle e cose che pensavo di saper suonare, ma per quanto riguardava gli arrangiamenti era come tirare a indovinare. Niente assomigliava a qualcosa che avessi già sentito prima. Mi resi conto che il pubblico riconosceva le canzoni solo quando iniziava a cantarle, indipendentemente dal fatto che le cantasse nel modo in cui le ricordavano o meno. Quando finalmente uscivano le parole, allora scattavano urla e applausi.

RP: Quando salisti su quel palco a Kansas City [il 6 settembre 1992], avevi mai parlato con Bob?

WW: No. Non avevo mai incontrato l'uomo, non gli avevo detto una parola in vita mia.

RP: Oh mio dio!

WW: Fu solo il più strano di tutti i concerti. Sembrava finita prima ancora di iniziare, anche se poi pensai: "Wow, non è andata poi così male. Non è stato così terrificante come temevo." Avevo Ian [Wallace] vicino ed era la mia guida. Cercavo di duplicare quello che faceva lui, stando un po’ alla larga. Ogni volta che lui voleva fare una fiorettatura, io cercavo di tenermi basso.
La cosa divertente fu che Bob sapeva che c’era un nuovo elemento, ma non sapeva chi fosse. Capisci cosa intendo? Quando si avvicinò al microfono per iniziare a cantare, non si era ancora voltato a guardare la band. A un certo punto, mentre stava cantando, si girò lentamente alla sua sinistra e mi guardò. Io ero lì, con i miei capelli più grandi di quelli di Angela Davis e addosso la mia roba California Hurley. Tra strofe e ritornelli andò avanti per due ore, continuando a guardarmi. Quello fu un po' snervante.

RP: A cosa pensavi quando ti arrivavano quegli sguardi?

WW: Rob Stoner una volta disse qualcosa su di lui che sparava sguardi e io dissi: "Ragazzi, lo so." Ricordo di aver pensato: "Sarà così per l'intero concerto, o è solo una mia impressione?" Come ho detto, aspettava qualcuno, ma non credo si aspettasse me. Avevo appena compiuto 30 anni.
Finimmo il set, lui lasciò di filata il palco e io pensai: "Okay, torno a casa." L'unica cosa cui riuscivo a pensare era come andarmene da lì e dove fossero le mie cose personali. Non avevo portato nessun vestito. Avevo solo una vera tuta da pilota, alcuni mutandoni, pantaloncini e un apple cap come se fossi nei Pearl Jam, che erano la cosa più in voga in quel momento.
Ma Bob venne da me, mi disse che gli era piaciuto il modo in cui avevo suonato e arrivederci a domani. Mi chiesi cosa volesse dire: avrei continuato a suonare con lui, o mi avrebbero lasciato all’aeroporto il giorno dopo?
Quando finalmente ebbi la possibilità di chiamare mia moglie, lei mi chiese: "Allora quando torni a casa?" Risposi: "Non lo so." Continuai a ripeterlo per due settimane o per quanto durò quel tour.
Ogni serata era qualcosa di diverso. Come posso descriverlo? Iniziò a insinuarsi una sorta di pesantezza perché le persone ne scrivevano e io non ero abituato a cose simili, non a quel livello. Ero stato su Circus e Kerrang! e tutte le riviste rock, ma finire su USA Today… Ci vuole un po' per abituarsi! Guardavo al passato e pensavo alla sua storia, e non c’era niente che avesse a che fare con me. Dovevo andare avanti come in un campo minato e non c’erano impronte che potevano guidarmi.
Penso che da me abbia sempre voluto che fossi me stesso. Mi immersi in cose più vecchie, più roots, come Levon Helm o Jim Keltner, che avevo già sentito prima ma che non avevo mai apprezzato finché non iniziai ad andarci in profondità e ad ascoltare bene quelle incisioni. Quando poi mi liberai di tutte le stronzate che avevo sul palco e ridussi il kit a quattro pezzi, le cose migliorarono decisamente, si fecero più divertenti e non così tese.

RP: Perché il kit ridotto di batteria ti aiutò in quella band?

WW: Pensai solo che fosse più figo. Non sembrava così ridicolo, come un grosso kit stile Phil Collins. Ian [Wallace] aveva un kit abbastanza grande e pensai di dover competere con quello, ma non lo feci. Ero più a mio agio con un kit stile John Bonham. Mi piacciono i due timpani, ma Levon [Helm] ne aveva uno. Più studiavo quel genere di cose, più mi ricordavo com'era stato suonare nella band di mia madre, invece di essere in una rumorosa rock band. Quello fu la svolta per me.
Sono cresciuto ascoltando musica country, periodo ’55-’76; poi, quando le cose iniziarono a diventare più pop, la lasciai perdere. La cosa divertente della mia discografia è che non c'è molto hip hop, ma c'è un sacco di roba americana che parte dalla Guerra Civile e arriva ai giorni nostri. Quel legame con la musica country mi ha salvato il culo nella band di Bob.
Sono un musicista rock, punto. Sono cresciuto suonando rock and roll. Questo è quello che sono ed è dove mi muovo meglio, ma mi piace suonare anche molte altre cose. Quando mi chiamano per fare cose da cantautore, cerco di ricordarmi di gente come Jim Keltner, Levon Helm e Richie Hayward dei Little Feat. Quei musicisti hanno una certa cosa che è la quintessenza americana. C’è uno swing non dichiarato. Più ne sapevo di quei tipi e più imparavo quello swing e a non essere così rumoroso. Perché sono piuttosto rumoroso. Ora suono con gli MC5. Siamo piuttosto rumorosi, ed è quasi tutta colpa mia.

RP: Ho ascoltato le registrazioni dei concerti e avevi alcune canzoni su cui scatenarti. Non era tutta roba country. Ogni sera facevate "All Along the Watchtower" dove andavi giù piuttosto pesante.

WW: Sì, perché lui voleva fare rock. Neil [Young] era in giro con i Pearl Jam. In quel periodo il rock era la cosa che andava per la maggiore. Secondo alcuni tipi del management con cui avevo parlato, attirava i più giovani. Il fatto che stessimo suonando rock, che potessimo fare Woodstock '94 e l’MTV Unplugged e tutte quelle cose, ci permetteva di parlare a una generazione che non lo aveva mai sentito, davvero.
Qualunque sia stato il mio contributo, spero sia stato buono. Molti musicisti con cui suono adesso sono più giovani e [il concerto] MTV Unplugged è quando hanno sentito parlare di me per la prima volta. Mi dicono: "Wow, tu sei il tipo con quei capelli alla batteria?"
Ora, vent’anni dopo, tutti hanno la mia pettinatura. Ma all’epoca ero una delle poche persone ad andare in giro così; non un taglio afro come Rob Tyner, ma una sorta di grande riccioluto afro, capisci cosa intendo?

RP: Sì, quella cosa era grande. Non ti faceva caldo mentre suonavi?

WW: No, era come un gigantesco dissipatore di calore. In realtà lo portava via, come i cani che hanno un mantello superiore e uno più interno. Ma ci furono serate in cui suonare era difficoltoso, come in Louisiana o in Alabama dove l’umidità non ti mollava un attimo. Li legavi a coda di cavallo, ti attaccavi al condizionatore, ma nemmeno un secchio d'acqua fredda bastava. Vengo dall'Arizona e so com'è il fottuto caldo, ma l'umidità che hanno nel sud è da stare male. È come indossare un costume da orso mentre suoni.
Mi lamentavo di avere troppo spazio nelle riprese, come se non bastasse che ero sempre inquadrato dietro Bob nei piani fissi frontali. Ho messo a repentaglio la mia privacy. Era già abbastanza brutto che lui dovesse avere la sua security, io non avevo bisogno di quel genere di cose.

RP: Certo, con quei grandi capelli eri una figura riconoscibile. Gli altri sembravano un po’ tipi qualunque.

WW: Sì, e le persone pensano che tu sia in un certo modo e proiettano un’immagine su di te. E quando non corrispondi a quella proiezione, si sentono offese o peggio.

RP: Cosa intendi? Cosa proiettava la gente su di te?

WW: Come se fossi sempre Animal, [il pupazzo batterista] del Muppet Show. Non lo sono. Sono l'esatto opposto. Mi piace rientrare in hotel e guardare la TV o fare altro. Non sono mai stato un gran casinista, e anche quando l’ho fatto avevo sempre i piedi per terra.
Sai, quando le persone vogliono uscire, vogliono trascinarti nella vita notturna. Vai nei locali, ti presentano ragazze, ma tu non sei per niente come si aspettano. A volte capiscono, a volte si offendono. Non sapevo come affrontare queste situazioni su grande scala, perché siamo stati parecchio in tour. Non riuscivo a far capire alle persone che l'interazione che stavo avendo con loro quella sera era un’eccezione fatta per loro, e invece dovevo rifarlo ancora, ancora, ancora… Anche se non ne avevo voglia, o avevo il cuore spezzato, o nostalgia di casa, o un'intossicazione alimentare o altro. Ma non è da me essere scortese o fare il sostenuto. Perché non sono diverso da chiunque venga a vederci. Sono stato solo molto fortunato.
Fu diverso rispetto ad andare in tour con qualcuno tipo Sheryl Crow. Magari ne sapevi di più perché era roba contemporanea, ma, cavolo, la sua è musica che va molto indietro nel tempo. Il primo anno non ho avuto nemmeno una pausa per cercare di assimilare tutta quella roba. E comunque, non avrebbe fatto alcuna differenza perché nessuna delle sue canzoni era più così.

RP: Anche se avessi potuto tornare indietro e ascoltare i suoi dischi, non ti avrebbe aiutato a rifare le canzoni.

WW: Esatto. Come fai a giocare a freccette quando qualcuno continua a spostarti il bersaglio?
Era come Miles Davis. Non credo gli fregasse un cazzo di quello che avevi suonato la sera prima o la sera dopo; lui voleva quella cosa quella sera, qualunque cazzo di cosa fosse. Adesso lo capisco più che mai, principalmente grazie a Bob e a qualcuno come Howe Gelb dei Giant Sand. Avevo suonato con Howe [Gelb] negli anni '80, cosa che mi ha preparato all'imprevedibilità di Dylan negli anni '90. I due si assomigliano. Sono molto prolifici, parecchio stravaganti e sono davvero speciali. Sono il tipo di persone che incontri raramente e hai solo da imparare.
Un sacco di puristi pensavano che non avessi diritto a stare lassù, e posso capire perché. Sto vivendo la stessa cosa con i fan degli MC5. Dico, vi rendete conto che avevo cinque anni quando quella band ha iniziato? E vi rendete conto che avevo tre mesi quando è uscito il primo disco di Dylan? Quindi, che cazzo dovrei sapere? Non sono andato a cercare niente. Mi è stato chiesto di unirmi dal management di Dylan, e mi è stato chiesto personalmente da Wayne Kramer [degli MC5], e ho detto di sì. C’è chi parla e c’è chi fa. Io preferisco stare con quelli che fanno.

RP: Hai detto che l'unica persona di cui ti importava l’opinione era Bob. Come facevi a conoscerla? Perché altri musicisti mi hanno confermato che non è uno che ti dà commenti dettagliati alla fine di ogni spettacolo. È un po' imperscrutabile.

WW: All’epoca mia moglie stava particolarmente attenta a una cosa. Noi la chiamavamo “la cosa alla Charlie Chaplin”. Una mossa che lui faceva, come se entrasse davvero in quel feeling. Quando accadeva, sapevo che stava iniziando il “Bob e Winnie Show”, come lo chiamavano alcuni fans.
Lui ha un senso del ritmo fantastico e innato. Se gli piace qualcosa a 116 BPM, la suonerà sempre dentro quelle battute. Se diceva che qualcosa era troppo veloce, non stavo a discutere. Se diceva che qualcosa era troppo lenta, non stavo discutere.

RP: Tornando ai primi giorni, dopo quel tour di due settimane sapevi che saresti tornato?

WW: No. Lui ed io ci sedemmo in un ristorante vicino a Lafayette [l'ultima tappa del tour], fumammo un paio di sigarette e conversammo. Gli dissi che mi ero davvero divertito. Perché non c’è proprio niente di uguale, nonostante fosse stato terrificante – hai presente quella lama del terrore da palcoscenico? Non ho bisogno di cadere da un aeroplano o scalare l'Everest per provarla.

RP: Quindi cosa accadde dopo? Quando il tour riprese nel 1993 tu eri l'unico batterista. Ian [Wallace] se n'era andato.

WW: Sì. Andammo in Irlanda per le prove, al Factory, la casa degli U2. Fu allora che scoppiò un gran casino.

RP: Racconta.

[ride, sospira, lunga pausa]

RP: Se ti va…

WW: L'attrezzatura di Ian era lì, ma lui no. Non sapevo perché. Ricordo di essere entrato in panico.

RP: Andando a quelle prove non sapevi che non ci sarebbero stati due batteristi come l'ultima volta?

WW: No. La sua attrezzatura era ancora nel corridoio ed ero convinto che fosse lì. Pensai: va bene, dovrò assestarmi con lui e combattere per il mio spazio.
Bob mi aveva detto che non voleva che mi scoraggiassi, che se ero lì c’era una ragione. Perché all'inizio ero intimidito. Poi, quando ho preso confidenza, ha praticamente detto che non me sarei andato. Così arrivai in Irlanda pensando che avrei mantenuto la mia posizione e se Bob voleva un certo feeling, avrei fatto quello che mi veniva chiesto.
Entrai in sala prove e tutti gli strumenti erano sistemati, ma c’era solo una batteria. La mia. Fu allora che feci due più due. Ricordo che mi dissi: "Okay, adesso tocca a me."
Ti trovi in una situazione di lavoro con un gruppo di persone affiatate, che hanno il loro modo di fare le cose e tu non vuoi sconvolgere il branco. Vuoi allinearti, ma non andò così. Invece di introdurmi in quello che stavano facendo, Bob cominciò a suonare il basso per un po', con me che suonavo la batteria. Ricordo di aver pensato: "Accidenti, se lui fa il bassista, cosa farà Tony [Garnier]?"

RP: Mentre suonava il basso cantava?

WW: No, suonava soltanto, cercando di stare alle mie battute e al mio swing.

RP: Queste prove avevano un'atmosfera rilassata da jam session, o Bob dettava certe canzoni o idee?

WW: Si iniziava con una sensazione. Potevamo costruirci sopra o gettarla subito nella spazzatura. Potevamo cambiare strumenti, cenare e iniziare qualcos’altro. Si beveva, si fumavano parecchie sigarette e si ripartiva.
Non ho mai pensato di dover entrare nei panni di qualcun altro. Nessuno mi disse mai suona così e cosà. È un sollievo, ma è anche terrificante perché sta a te essere intuitivo. Ti intimidisce molto di più di quando ti mettono davanti lo spartito. Siccome non sono un grande lettore di spartiti, posso fingere di aver trovato la mia strada in mezzo a quello che è scritto. Ma non puoi fingere di aver trovato la strada in mezzo a un’atmosfera. La gente mi chiedeva come riuscissi a memorizzare tutta quella roba. Io dicevo: "Facile. Non suonarla come se la ricordano tutti. Suonala come lui la vuole oggi."
Ti dirò, qualunque cosa uscita in quei primi anni, è stata elaborata a lungo. Ho affrontato di peggio, ma quello è stato uno stress mentale a cui non ero preparato. Dopo la prima seduta, abbiamo avuto due o tre giorni interi di prove, solo per prepararci al primo spettacolo di Dublino.
Quello show era davvero importante. Chiunque all’epoca fosse famoso, irlandese e vivo era presente in sala. Gli U2 erano lì perché eravamo stati nel loro studio tutta la settimana, c’erano Carole King e Chrissie Hynde e Kris Kristofferson ed Elvis Costello.
Devo ammettere onestamente che l'ultima sera che abbiamo chiuso le prove, lui non era convinto che potessimo fare qualcosa di buono. Non era felice finché non abbiamo iniziato il primo concerto in quel locale dall'altra parte della strada, il Point Depot. Accendemmo la miccia e lo incendiammo. Perché non avevamo niente da perdere. Suonai come un uomo inseguito dai lupi. Dicono che un concerto vale dieci prove, ed è fottutamente vero. Fu sbrindellato ma glorioso. Non c'era niente di perfetto. Non era come una canzone degli Steely Dan, era rock and roll.
Poi suonammo sei sere all'Hammersmith [Apollo di Londra] e lì abbiamo lavorato a un sacco di cose. John [Jackson] non era GE Smith e io non sono Levon [Helm], ma per quanto riguardava il set rock non miravamo certo a quel suono più morbido. Poi c’era la parte centrale dove faceva tre o quattro canzoni acustiche, come "Little Moses” o "Boots of Spanish Leather" o "It's Alright, Ma". Dopodiché mi arrampicavo di nuovo sul mio kit e iniziavo a fare il mio piccolo fracasso con "God Knows" o "Wicked Messenger". Anche i bis erano divertenti. Di solito c’era "Rainy Day Women" e talvolta "Alabama Getaway" dopo che suonammo con i [Grateful] Dead. Quella è sempre stata uno spasso da suonare.
Fece un sacco di cose che mi piacevano. Un sacco di brani da “Oh Mercy”, “Blood on the Tracks” e “Blonde on Blonde”. Non ne sapevo proprio niente, ma la mia ragazza dopo il liceo amava Bob Dylan. Metteva sempre “Desire” mentre io avrei voluto lanciarlo dall'altra parte della stanza. [ride] Lo metteva così tanto, e cantava sempre fuori tono, che alla fine iniziai a metterlo sul giradischi da solo. Divenne lo sfondo della nostra storia d'amore. Credo di averlo persino raccontato a Bob. Gli dissi: "Se non fosse stato per Howie Wyeth [il batterista di ‘Desire’], probabilmente non avrei mai ascoltato la tua musica così tanto." Howie ci ha messo davvero tanta energia in quel disco.

RP: Hai menzionato le sezioni acustiche, più tranquille. Cosa facevi mentre non stavi suonando?

WW: Quando Bob suona la chitarra acustica, penso che sia la cosa più bella che qualcuno possa sentire. A parte Ry Cooder, non credo di aver mai incontrato nessuno che lo sappia fare meglio e cantare allo stesso tempo. Una volta stavamo provando parte del set acustico. Fu la prima volta che ascoltai molto attentamente come eseguivano "Hattie Carroll". Ne fui talmente commosso che non volevo tornare alla batteria per la parte rock. Volevo sentirne altre di quelle cose.
Glielo dissi una sera: "Potrei sedermi lì e ascoltarti tutta la notte senza mai suonare la batteria." E lui: "Pensi che lo farebbero anche tutte quelle persone sedute là fuori?" E io: "Andiamo, amico, non prendermi in giro!" Potevo parlargli in quel modo, il che era fantastico. Ero diventato un fan. So che è meglio non dimostrarlo, ma non potevo farne a meno.
Come chitarrista elettrico è considerato al massimo interessante, ma mi piace anche quel suo lato. Sicuramente è un’impressionista. Penso che suoni quello che vuole suonare e direbbe che è assurdo pensare che sia matematica. È un pianista brillante, ma per quanto riguarda la chitarra, anche dopo tutto questo tempo, ha ancora una sorta di candore. Sa tutto quello che è implicato, ma conserva ancora una punta di innocenza lì. Non lo si fa per interessi commerciali, si fa per motivazioni esclusivamente artistiche e non te ne importa. Non è Eric Clapton, che pure è fantastico. La parte di chitarrista che c’è in me sposa in pieno quel suo lato. Anche se potrebbe non suonare bene in alcuni punti, mi parla comunque. E se insieme finiamo da un’altra parte, sarà comunque qualcosa di diverso.
E poi è uno spasso. Non credo che gli venga riconosciuto, ma per quanto sia seria “Masters of War”, lui è un tipo davvero divertente. Lui e mia figlia sono sempre andati d'accordo perché entrambi sono proprio ridicoli assieme. Conosco donne adulte che ucciderebbero i propri cari solo per stare con lui in una stanza. Quando mia figlia si palesava, diceva: "Oh, ciao Bob!"

RP: Tua figlia è venuta con te in qualche tour o in alcune date?

WW: Sì. Lui scappava sempre con lei da qualche parte e avevano le loro chiacchiere. Lei aveva dai due ai sei anni quando sono stato con Bob, e poi nove anni quando ho suonato per Alice Cooper. È stata su molti palchi e molto dietro le quinte. Per lei era solo un altro giorno al lavoro di papà.
Ti racconterò questa storia divertente su di loro. Eravamo al Warfield Theatre [di San Francisco] nel 1995, ci stavamo preparando per il concerto. Mi stavo vestendo. Vedo mia moglie nella green room e non vedo mia figlia. Chiedo: "Deb, dov'è Marcella?" Lei mi guarda, sbiancando: "Non è con te?" Vado in panico. Incrocio uno dei nostri uomini, gli chiedo se ha visto mia figlia. Dice: "No, amico, ti aiuteremo a cercarla."
Tutti hanno dato una mano. Avevamo guardato ovunque tranne che nel camerino di Bob. Salgo e busso in fretta e furia alla porta. Il suo assistente apre ed eccola lì.
Eravamo già cinque minuti in ritardo per salire sul palco e loro due stavano bloccando lo spettacolo. Dico: "Tesoro, andiamo. Bob deve andare a lavorare adesso." E lei: “Oh, okay!” E lui le fa: “Dopo dobbiamo parlarne ancora un po’, d’accordo?” Lei: “Ok, Bob.” E prende la sua bibita ed esce incontro a mia moglie.
A quel punto raggiungo la band e aspetto Bob. Abbassano le luci del teatro, Bob mi ferma con il braccio e dice: "Dobbiamo fare qualcosa per quella ragazza." E io: "Oh amico, mi dispiace, ti adora e basta. Non volevo che disturbasse il tuo spettacolo." Lui continua: "No, quella ragazza alla lezione di arte. È davvero cattiva. Dobbiamo fare qualcosa."
Avevamo comprato a Marcella un paio di stivali da cowboy e c'era questa ragazzina pestifera nella sua classe di arte che ci aveva spruzzato sopra della vernice. E Bob aveva chiesto a mia figlia come avesse fatto a mettere quella vernice sugli stivali da cowboy. Quindi, mentre cercavamo mia figlia, lei stava raccontando a Bob quella storia, e stavano ritardando lo spettacolo. E lui mi ha fermato per dirmi: "Ehi, dobbiamo fare qualcosa per quella ragazza." [ride]

RP: Di tutti quegli anni nella band, c’è un tuo tour preferito?

WW: Non so quale sia stato il mio preferito, ma direi '94 e '95. Eravamo davvero impressionanti in quegli anni. A quel punto l'innocenza era scomparsa, ormai era tutto business, ma noi avevamo qualcosa.
Ma proprio quando iniziai a crederci, fu allora che lui staccò la spina. Sapevo che sarebbe arrivato quel momento, perché avevamo quella cosa che facevamo tutte le sere e lui da un po’ non la faceva. Mi sentivo come se fossi stato lasciato solo. Mi piaceva comunque, ma c'era meno interazione. Non stavo facendo niente di diverso... forse era quello il problema.

RP: La tua uscita deve essere avvenuta rapidamente visto che passarono solo sei o sette mesi tra quei tour del '95 che ami e la tua partenza nell'estate del '96, dopo i due spettacoli per le Olimpiadi di Atlanta [3 e 4 agosto 1996, alla House Of Blues di Atlanta].

WW: Sì. Durante le Olimpiadi e tutti i concerti nel '96 non era felice. Il suo manager ne aveva parlato con la band. Gli dissi: "Amico, mi sento sull'orlo del divorzio, non è che abbiamo suonato assieme per una vita, posso andarmene in qualunque momento. Non avere difficoltà a dirmelo. Posso salire su un fottuto aereo in questo momento senza mai voltarmi indietro." Ero stato con loro per parecchio tempo, potevo capire.
Così successe che ricevetti una telefonata dal management. Dissi: "Va bene, chi avete preso?" E loro "Cosa?" E io: "Ovviamente, se mi state chiamando è perché volete che torni oppure perché avete qualcun altro. Chi avete preso?"
Dissero che era David Kemper. Risposi: "È un ottimo musicista. Penso sia quello cui sta mirando Bob adesso. Siamo stati rumorosi abbastanza a lungo." È così che sono uscito da quel gioco. Sapevo che era meglio non rimanere in Mississippi un giorno di troppo. [ndt: nel testo originale “not to stay in Mississippi a day too long”, citando un verso della canzone “Mississippi”.]

RP: Nel DVD che hai fatto anni fa [“Bob Dylan Never Ending Tour Diaries – Drummer Winston Watson’s Incredible Journey”, di Joel Gilbert], ricordi la volta in cui Van Morrison disse a Bob che avrebbe dovuto licenziarti. Fu più o meno nello stesso periodo?

WW: Sì. Fu a cena. Van era visibilmente alticcio, ma continuava a blaterare su qualunque cosa. Ad un certo punto sono stato tirato in ballo per tutto quello che non andava. Mi sono alzato e senza tante cerimonie ho posato il tovagliolo sulla sedia e sono uscito.
Quasi non avrei suonato il giorno dopo. Non mi importava cosa pensassero gli altri e non avevo bisogno di qualcuno che aiutasse a minarmi il terreno o a segarmi. Soprattutto non uno così.
Non avevo bisogno che qualcuno mi dicesse che facevo schifo. Volevo sentirlo solo da Bob, e non me l'ha mai detto.

RP: Sei accreditato nel brano "Dirt Road Blues", ma “Time Out of Mind” è uscito ben dopo che avevi lasciato la band. Com’è la storia?

WW: Era un’idea abbozzata che avevo registrato tempo prima. C'erano due musicisti là dentro, Jim Keltner e Brian Blade, che cercavano di replicare quello che avevo fatto io e non ci riuscivano. Immagino non riuscissero a duplicare quel feeling che c’era nella mia registrazione. Io lo chiamavo “porch stomp”, un sincopato da portico. Come se ti sedessi in veranda e suonassi i cucchiai e battessi il piede. Fu Keltner a dire: "Beh, perché non lo ripetete in loop? C'è Winnie che suona lì. Basta mandarlo in loop e avete la canzone.”

RP: Ma [quando la suonasti] stavate provando proprio "Dirt Road Blues" e quella era la parte che ti era venuta in mente, oppure stavi semplicemente registrando una traccia di batteria casuale che poi è stata usata?

WW: Non lo so. Sinceramente non ricordo.

RP: È interessante che [Dylan] si sia ricordato di un pezzetto di batteria che avevi suonato forse diversi anni prima, o che qualcuno abbia tirato fuori il file.

WW: Se ricordo bene la storia, o Daniel Lanois o lo stesso Keltner disse che stavano lavorando a quell'idea e Bob o qualcuno fece sentire la cosa originale, che era su una cassetta.
Il libro [“Listen Up! Recording Music with Bob Dylan”] di Mark Howard [l’ingegnere del suono di “Time Out of Mind”] lo spiega. Penso di averlo qui, aspetta un secondo. Okay, eccolo.
[Leggendo ad alta voce] “La canzone 'Dirt Road Blues' è stata creata da una cassetta che Dylan aveva da un soundcheck. Mi chiese se potevamo usarla, e così ho fatto un loop delle migliori otto battute e la band ci ha suonato sopra. Ecco perché Winston Watson è accreditato alla batteria nell'album. Siccome era una registrazione di un soundcheck, a Daniel [Lanois] non piaceva, diceva che il suono sembrava la musichetta di Bugs Bunny."
Quindi ecco qua. Una cosa improvvisata. Non c’entro con quel disco. O perlomeno, così mi dice il mio ego modesto.

RP: È pur sempre una registrazione in studio in più di G.E Smith e di molti altri membri delle band del Never Ending Tour.

WW: Giusto. Terrò presente.

RP: Nel tuo periodo con lui, si prese una pausa abbastanza lunga come autore di canzoni, incidendo solo album di cover folk [“Good as I Been to You” e “World Gone Wrong”]. C'era qualche sospetto che si fosse lasciato alle spalle suoi giorni di autore?

WW: No, affatto. Il pozzo si asciuga mai completamente? Non credo che possa accadere a qualcuno con una mente fertile come la sua.
Si fermerà? Forse ad un certo punto dovrà farlo come chiunque altro, e sarà la prima persona a dirtelo.
A guardarlo lavorare c’era molto da imparare. Come quando sei un apprendista e
tutti i lavoratori intorno a te come prima cosa si domandano perché anche tu sei lì. Una frase che mi è piaciuta, con la quale sono in parte d'accordo e in parte no, è che "è interessante, ma non è mai divertente." Perché per me è stato interessante e molte volte pure divertente. Non sempre. È stata sempre una faccenda seria, ma ci si poteva divertire.
Come ho detto, ci furono volte così fragorose dove potevamo scambiarci larghi sorrisi, tutti quanti; serate davvero eccitanti come la band da roadhouse che eravamo. Non c'era niente di veramente sofisticato in tutto quello. Avremmo potuto anche esserlo, ma non con me nella band.

MTV Unplugged, Woodstock ’94 e altri show memorabili. Parla il batterista Winston Watson.

Supper Club Shows – 16-17 Novembre 1993

Winston Watson: Il locale era stato uno speakeasy, una sorta di posto privato per i mafiosi o qualcosa del genere. Era uno show con cena. Il palco era piccolo. Confezionarono dei doppiopetto giallastri apposta per noi, pensavo fossero piuttosto eleganti.
Suonammo canzoni davvero interessanti come "Jack-A-Roe" e cose che non erano proprio rumorose. Subito dopo suonammo al Letterman [Show]. Ricordo di aver pensato che si continuava a migliorare sempre di più.
In una delle due serate vennero a trovarci i Nirvana. Stavano suonando all'Irving Plaza o in un posto del genere. Krist Novoselic e Dave Grohl erano al piano di sopra. Il mio tecnico della batteria aveva dato a Dave un paio di quelle bacchette che poi avrei usato nel nostro MTV Unplugged, quelle con il nastro rosso sopra. Se guardi Unplugged dei Nirvana [registrato il giorno dopo gli spettacoli di Dylan al Supper Club], Dave le sta usando: penso siano quelle che gli ho dato io.

Woodstock ‘94

Winston Watson: Alloggiavamo in un hotel ad Albany, vicino all'aeroporto. Incontrai i Nine Inch Nails, i Cypress Hill e alcune altre band, tutti a far casino al bar dell'aeroporto. I ragazzi dei Nine Inch pensavano che fossi con i Cypress Hill, e i ragazzi dei Cypress Hill pensavano che fossi con i Nine Inch.
Il giorno dopo andammo sul posto. Pioveva e ci volle un'eternità per arrivarci. Ci volle così tanto tempo che ci fecero arrivare il cibo, ormai tutto freddo. Ci chiesero se volevamo prendere l'elicottero, ma tutti dissero di no. Sull'autobus ci cambiammo con i vestiti di scena, scendemmo e salimmo sul palco senza sporcarci di fango. Non ho mai avuto un granello di fango addosso.
A un certo punto chiesi a Bob se voleva una sigaretta. Stavamo fumando, noi due, alla destra del palco e ricordo un milione di fotocamere che scattavano. Pensai: "Wow, chi si sarà appena esibito?". Guardai oltre la spalla di Bob e vidi che erano tutte puntate su di noi. Fu piuttosto scioccante.
Il palco era enorme, non avevo nessuno vicino. Odio questo tipo di concerti. Sono cresciuto suonando nei bar e anche se sono in un'arena mi piace avere i miei ragazzi vicini. So che con le arene si fanno soldi, ma preferisco suonare più serate in un bel teatro. Era troppo grande. Qualcuno sentì qualcosa? Non lo so.
Pete Townshend disse [su Woodstock originale]: "Oh, l'ho odiato. Ha cambiato la mia vita, ma l'ho odiato." Ecco, so esattamente di cosa stai parlando, Pete. Non è il mio concerto preferito, ma sentire tutti quelli che conosci che ti chiamano da casa e ti dicono che ti hanno appena visto in TV, è stato fantastico.

Roseland 1994 e suonare con Bruce, Neil e Little Richard

Winston Watson: Adoro suonare con Bruce. Lui e Neil Young sono due dei chitarristi più fragorosi con cui abbia mai suonato.

Ray Padgett: Neil non mi sorprende, ma non l’avrei detto di Bruce.

WW: Ricordi il leggendario spettacolo al Roseland [Roseland Ballroom, New York City, 20 ottobre 1994] in cui entrambi salirono sul palco con noi?

RP: Già, nel '94. Suonarono solo la chitarra, non credo abbiano cantato.

WW: Fu fragoroso come gli MC5, te lo giuro. Solido come una roccia, amico. Bruce è un grande chitarrista ritmico. Sono stato fortunato a suonare due volte con lui e due volte con Neil Young. Mi sembra che allo Shoreline Neil sia salito con noi, e poi abbiamo fatto una piccola cosa da qualche parte in Germania, credo nel '95. Averlo intorno è sempre stato divertente perché lui e Bob sono davvero buoni amici.
Ma il massimo fu quando suonammo con Little Richard in Finlandia [Pori, 21 luglio 1996]. Davvero fantastico! La persona che io penso sia il creatore assieme alla persona che è il creatore. Non lo vedi spesso. Ci sedemmo tutti sul palco a sinistra e assistemmo allo spettacolo di Richard. Bob e io ci guardammo, come due studenti e ci dicemmo qualcosa tipo "Amico, che band!" La sezione fiati di Jerry Hey era come una banda chiesastica, e conoscevano le mosse giuste. Erano tirati come la pelle di un tamburo e Richard fu davvero eccezionale. Dopo aver visto quei tipi, fu quasi imbarazzante andare in scena quando toccò a noi. Anche Bob si sentiva così.

MTV Unplugged

Winston Watson: C'è lo show che hanno mandato in onda e poi ce n’è un altro che non conteneva hit, niente che qualcuno avrebbe davvero riconosciuto. È un filmato di noi nei nostri abiti quotidiani mentre facciamo le prove e cose del genere, e a Dylan piacque di più degli spettacoli veri e propri. Suonammo tutte cose che non vennero incluse nell’edizione finale.
C'è una versione davvero interessante di "I Want You" che sta circolando adesso su YouTube [ndt: https://www.youtube.com/watch?v=tiZOqEF2HCQ ]. Sono sorpreso che non l'abbiano editata. Siamo nei nostri abiti normali e ancora una volta è una prova.
Poi ci furono le due serate. Dopo aver registrato la prima, tutti i dirigenti [di MTV] si lamentarono che non ci fossero hit. Niente "Once upon a time you dressed so fine", niente “Everybody must get stoned”, non c'era niente di tutto ciò. Loro erano sottomessi a queste cose. A un certo punto Bob disse okay. Il prodotto finale è quello che è successo. Penso che sia un misto delle due serate, ma credo soprattutto della seconda serata.

Ray Padgett: Quindi è stato assillato da un sacco di pressioni. Sono sorpreso che abbia capitolato.

WW: Alla fine forse è stata una buona idea, ma ero convinto che la parte più interessante fosse quella dove non suonavamo quelle cose. Io ero ansioso di vedere cosa Dylan sarebbe stato capace di tirar fuori da quei concerti. Non credo che al pubblico in generale fregasse un cazzo di quello che stava facendo, a parte i successi di cui potevano parlare ai figli o su cui fare la loro dissertazione o quant’altro. Purtroppo le persone non vogliono davvero ricordarti per come sei, vogliono ricordarti per come eri. Di te hanno il loro ricordo imbalsamato.

RP: Mi sembra che Bob abbia dovuto combattere contro tutto ciò fin dalla metà degli anni '60.

WW: Dal primo giorno. Anche Wayne Kramer [degli MC5] ti direbbe la stessa cosa. Gli ho detto il termine che uso, "imbalsamatori della memoria". Ha pensato che fosse fantastico.

Praga 1995

Ray Padgett: Abbiamo parlato [nella prima parte] del modo in cui Bob suonava la chitarra. Volevo chiederti di quando non ha suonato la chitarra. Quei concerti diventati famosi perché lui ha cantato al centro della scena senza strumento, a Praga nel 1995 [11, 12 e 13 marzo]. Immagino fosse malato.

Winston Watson: Entrambi lo eravamo. Malati per davvero. La battuta era che io avevo fatto ammalare Bob, ma fu il viaggio in aereo. So solo che c'era qualcosa, che c'erano persone malate su quell'aereo. Accadde prima che cominciassero a pulire a fondo le cabine. Eravamo nel '95, nessuno immaginava quanto fossero sporchi gli esseri umani sugli aeroplani. Sono stato scherzosamente accusato di tutto questo.
Mi sembra di aver chiamato il [tour manager] Victor Maymudes all’una e mezza o nel pomeriggio. Gli dissi: "Amico, devi venire nella mia stanza. Non credo di riuscire a fare lo spettacolo." Poi entrai nella doccia e non lo sentii quando arrivò alla mia porta. Fece aprire la camera al portiere e mi trovò svenuto sotto la doccia, con l'acqua che scorreva. Avevo la febbre, avevo vomitato l’anima. Ero emaciato, disidratato e tutto sottosopra.
Ancora non sapevo che avevano rinviato lo show. La cosa mi risollevò perché, anche se non riuscivo a stare in piedi, ero determinato ad andare a suonare quello spettacolo. Ma non c'era proprio verso che sarei stato in grado suonare. Quando scoprii che avevamo cancellato il concerto e che avevamo un giorno libero, potetti davvero rilassarmi. Il giorno dopo, quando abbiamo fatto il concerto, stavo molto meglio, ma avevo la gola secca e le mie costole sembravano essere state prese a calci.
Dylan non suonava la chitarra, il che mi lasciò interdetto. Ricordi quello che ti dicevo sul suo senso del ritmo? Guardavi la sua mano destra e la paletta della chitarra, appena oscillava in una certa direzione sapevi cosa fare. Quindi ho dovuto cercare altri riferimenti, ma non c’è voluto molto per abituarsi.

RP: E mentre cercavi di capirlo, come se non bastasse eri ancora malato.

WW: Ero rauco, riuscivo a malapena a parlare e avevo ancora un po' di febbre, ma niente mi ha mai curato più velocemente di una sudata a un concerto rock and roll. Nei giorni successivi ci volle un po’ a rimettermi in forma, ma migliorai parecchio. Non ci furono altri giorni di riposo dopo.

RP: Quei concerti furono un po’ turbolenti per voi, ma divennero leggendari tra i fan.

WW: La gente si accodò immediatamente, divennero parte delle storie che si raccontano. Ne parlarono i giornali. Bob aveva le sue mosse [sul palco] e pensavo che erano fantastiche. Qualunque cosa faccia, che sia animata o fuori dall'ordinario, vorrai vederla. Soprattutto quando parla. Ogni volta che dice qualcosa sul palco, fa notizia. Non è bizzarro?

1995 – I concerti con i Grateful Dead

Winston Watson: Secondo la crew di Jerry [Garcia], ero una delle poche persone a parlargli in quel periodo. Me lo disse Ram Rod [roadie di lunga data dei Grateful Dead]. Pensavo mi stesse prendendo in giro
Il nostro primo concerto con loro fu a Highgate [Vermont, 15 giugno 1995]. Abbatterono le recinzioni ed entrarono, come a Woodstock. Figo! Ero famoso per rompere le bacchette. Dovetti prenderle di un’altra marca perché non si rompessero mentre suonavamo. Se avessi suonato più leggero, Bob l'avrebbe notato. Voleva che suonassi nel mio stile. Durante il primo concerto [del tour] con i Dead, spaccai legna come un castoro. Bob pensava che fosse divertente, perché cadevano pezzi ovunque.
Il giorno dopo, eravamo al soundcheck, Ram Rod mi disse: "Alcuni di noi della crew vorrebbero scambiare due parole con te quando hai un minuto.” Pensai: "Oh cazzo, cosa ho fatto adesso?"
Terminato il nostro soundcheck gli dissi: "Amico, se si tratta delle bacchette o se ho rotto qualcosa, senti il nostro contabile, ti farò un assegno o altro. A volte mi lascio trasportare quando le butto." Perché avevo visto che un paio di volte le bacchette rotte erano volate dalle loro parti e pensavo di aver messo qualcosa fuori uso o rovinato una delle preziose statuine di Jerry, o chissà che altro.
Si guardarono e iniziarono a ridere. Dissero: "No, fanculo le bacchette. Vogliamo sapere di cosa gli hai parlato." Chiesi: "A chi?" E loro: “Jerry." Ram Rod disse: "Sono stato con quel tipo [Jerry Garcia] più a lungo di quanto tu sia in vita. In 13 anni non gli ho detto una parola. Voglio sapere di cosa cazzo stavate parlando."
Pensai che fosse la cosa più divertente. Non avevamo parlato proprio di niente! [Jerry] voleva sapere dove ero cresciuto. Ricordo che mi disse che sembravo tanto giovane. Avevo appena compiuto 30 anni, ma sembrava che ne avessi ancora 18. Parlavamo solo delle nostre vite e delle cose ogni giorno.
A un certo punto, eravamo con loro al RFK Stadium [Washington] e mi sentii sfinito. Caddi per davvero e dovettero somministrarmi ossigeno. Quando mi ripresi, il mio amico era lì con me. Vidi la sua barba e gli occhiali. Stava guardando il medico, serio come un caso di infarto. "Abbi cura del mio uomo qui. Abbiamo bisogno di lui domani."
Dissi [imita il respiro affannoso]: "Non preoccuparti, Jerry... starò bene..." Pensai che fosse bello che gli importasse davvero.
Parlammo molto. Semplicemente adorava che mi piacesse fare quello che stavo facendo. Nello specifico, per lui era una cosa davvero affascinante vedere me e Bob suonare insieme. Perché aveva visto Bob un milione di volte. Gli dissi: "Sai, ultimamente abbiamo suonato alcune delle tue canzoni. Non avrei mai pensato di avere la possibilità di farlo." Pensava che fosse bello. Guardai la loro scaletta e gli dissi: "Non so quale di queste adesso dovrai eliminare dal tuo set. O forse puoi farle lo stesso e nessuno se ne accorgerà." [ride]

Ray Padgett: Credo che l'ultima volta che Jerry Garcia ha suonato con Dylan sia stata uno di quegli spettacoli al RFK Stadium. Cosa ricordi?

WW: Che Bob non lo lasciava suonare!

RP: Cosa intendi?

WW: Io volevo sentire quello che stavo aspettando di sentire. Non è mai arrivato.

RP: Volevi sentire Jerry essere Jerry, che ti trasportasse nello spazio.

WW: Esatto! Non c’era bisogno di fare Johnny Winter e Floyd Radford [ndt: Floyd Radford è stato il secondo chitarrista della band di Johnny Winter negli anni ‘70]. Mentre stavamo suonando, ricordo solo di aver pensato: "Ho sentito la tua parte, Bob. Adesso lascerai entrare Jerry?" Ma ovviamente era una cosa come tra fratelli, capisci cosa intendo? È come se Bob stesse dicendo: "Ah, sì? Bene, senti un po’ questo.”

1995 [Montpellier, 27 luglio] – Concerto con i Rolling Stones

Winston Watson: C'è una storia divertente successa mentre stavamo arrivando lì. Bob era sul nostro bus, tutti insieme. Stavamo accostando e lui fa: “Sembra che ci sia una specie di grosso serpente lassù. Cosa credi che sia?"
Stava indicando quella cosa degli Stones, come la testa di un cobra o qualcosa del genere. Te lo ricordi il “Voodoo Lounge Tour”? Era come un grosso cobra di metallo, che sputava fuoco o altro.
Dissi: "Non ne ho idea, amico. È grande, qualunque cosa sia." E lui: "Sì... forse noi dovremmo prenderne due di quelli." [ride]
Uno era fottutamente ridicolo, talmente sopra le righe, ma due sarebbero stati proprio assurdi e divertenti. Sono sicuro che cose così non funzionino sempre, come tutti gli oggetti di scena. Solo a pensarne di averne due, mi fa già ridere. Come la scena di Stonehenge in “Spinal Tap”. [ndt: “This Is Spinal Tap” è il divertente film d’esordio di Rob Reiner, un documentario musicale su una fittizio gruppo hard rock degli anni ’70. Mai distribuito in Italia, si può ora vedere in streaming. Un vero cult movie, soprattutto per gli appassionati di musica.]

Mud Island, Memphis – 19 ottobre 1995

Winston Watson: Quando ci esibimmo a Mud Island, Taylor Hawkins suonava nella band di Sass Jordan e Percy Sledge aprì la serata per noi. C’erano Sass Jordan, Jeff Beck, Percy Sledge e poi noi. Parlai con [Jeff] Beck anni dopo e ricordava che la sicurezza fu davvero dura con lui e il suo entourage, perché non poterono venire a salutarci.
Poi Taylor [Hawkins] è diventata il Taylor che tutti conosciamo e che ci manca. Lo ricordo come fosse ieri. Il sole era già tramontato. Eravamo gli headliner, guardai alla mia destra e lì c’era Taylor, seduto sulla soglia del palco a seguire il nostro set. Non era ancora stato nella band di Alanis [Morissette]. Era nuovo sulla scena. Lo ricorderò sempre perché quando i Foo Fighters sono diventati quello che sono, ho pensato: "Wow, non posso credere che sia lo stesso ragazzo che mi ha visto suonare la batteria tanto tempo fa." Buffo come va questa vita, e ora se n'è andato.

1995 – Tour con Patti Smith

Winston Watson: Quello fu uno dei miei tour preferiti. Amavo il batterista di Patti, Jay Dee Daugherty. Era uno dei miei eroi. Con Paul Collins’ Beat, con i Church… Jay Dee ha suonato con tutti. Guardavo il loro set tutte le sere e guardavo il mio eroe Jay Dee al lavoro.
Quelle date che infilammo al Beacon Theatre [di New York] furono uno spasso. Ne aggiungemmo una quando Michael Jackson diede di matto e cancellò [i suoi concerti]. Occupava l'intero sesto piano del Four Seasons e anche noi alloggiavamo lì in quel momento, il che era piuttosto buffo. Quella serata in più è stata roba da leggenda. Probabilmente una delle più divertenti che abbia mai avuto.
In seguito sarei andato a suonare con Oliver Ray, compagno di Patti e suo chitarrista per circa dieci anni. Era un ragazzo allora. Ci rivedemmo vent’anni dopo. Si era trasferito a Tucson, era lì da un anno e ci incontrammo casualmente. Stavo suonando con un gruppo chiamato Greyhound Soul, c'era una specie di notte degli artisti. Lui e sua moglie erano annoiati a morte e stavano per andarsene. Poi mi vide e aspettò che tutto finisse per ripresentarsi dopo vent’anni.
Adesso io e Oliver siamo in questa band, Saint Maybe. Con loro abbiamo suonato a Città del Messico, al Diego Rivera Museum e Patti non aveva mai suonato a Città del Messico. È stato incredibile. C'erano 6.000 persone lì, anche se non eravamo nessuno: ci amavano, perché ricordavano che Oliver prima era stato nella band di Patti.

“Restless Farewell” per Frank Sinatra [19 novembre 1995]

Winston Watson: Avevamo provato un altro paio di canzoni. "This Was My Love", ad esempio. Adoravo suonare le canzoni di Sinatra, ma penso che a Frank piacesse molto “Restless Farewell”. Mi immaginavo sentirgli dire "Quando arriva quel ragazzo di Dylan?" Quando guardi il video, puoi vedere l'affetto genuino che entrambi avevano l'uno per l'altro. Frank lo sta guardando e Bob sta guardando Frank come aveva guardato Little Richard.
Dovetti indossare il mio completo stile Marvin Gaye. Ero in piedi accanto a Tom Selleck che è enorme. Io sarò 1 metro e 78, 62 chili bagnato fradicio, lui è grande e grosso e molto alto. Stava guardando il mio vestito. Era verde lime, indossavo un dolcevita, scarpe slip on stile Billy Fury. Avrei potuto essere uno dei Panther, l'unica cosa che mancava era il berretto. Con quella sua voce mi fa: "Cavolo, quello sì che è un vestito!”
Il cibo che c'era dietro le quinte era come guardare una scena di “Caligola” con animali morti sparsi su un enorme tavolo lungo lungo e qualsiasi cosa. Dire che era una festa sontuosa sarebbe sottovalutarla.
Chiunque tu possa immaginare era lì. C’erano Don Rickles, tutto il Rat Pack, tutto il cast dei Sopranos e chissà chi altro, tutti lì. Il nostro tavolo è stato davvero divertente. Mi sedetti a fianco di Bob. C'erano Frank [Sinatra] e Barbara Marx, sua moglie. Clayton Cameron, [batterista] che suonava con Tony Bennett, era l’altro seduto accanto a me. Quindi, noi eravamo seduti a lato di Bob, e dall'altra lato c'erano Danny Aiello e Don Rickles. Poi al tavolo vicino al nostro c'erano Patrick Swayze e Roseanne Barr e Johnny Depp e Kate Moss. Era come se fossimo in uno di quei disegni di Al Hirschfeld che vedi sul New Yorker, caricature di persone che decorano una stanza in un evento di Hollywood.
Suonando quella canzone, in realtà, non dovetti fare molto, solo non fare tanto rumore. Hai visto, nelle inquadrature sui presenti, come ci guardavano mentre eseguivamo la canzone? C’era riverenza. Tutti ne furono commossi. A un certo punto, quando staccano sul pubblico, vedi che nessuno dice una parola, nessuno parla. Sono tutti davvero solenni. Erano persone che avevo visto per tutta la mia vita in tv o al cinema, e ci stavano guardando; e io lì, nel mio completo stile Marvin Gaye, che mi stavo solo divertendo un po'. Puoi percepire la solennità mentre fanno la panoramica.
Significa che musicalmente avevamo fatto il nostro lavoro, cosa che ho sempre sentito di aver fatto in quella band, al meglio delle nostre capacità. Anche se alcune sere non ci siamo riusciti, penso che nessuno possa mai dire che non ci abbiamo provato o che io non abbia dato il 110%.

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In tour con Bob Dylan negli anni ‘80. Parla Stan Lynch, batterista degli Heartbreakers.

di Ray Padgett - (9 giugno 2022)

traduzione di Silvano Cattaneo

Fonte: https://dylanlive.substack.com/p/heartbreakers-drummer-stan-lynch?s=r

Per l'anniversario della prima data del primo tour di Bob Dylan con Tom Petty & the Heartbreakers [Wellington, Nuova Zelanda, 5 febbraio 1986], lo scorso febbraio avevo pubblicato un'intervista con Benmont Tench, tastierista degli Heartbreakers. Oggi, nell'anniversario della prima data del loro secondo tour [San Diego, California, 9 giugno 1986], sono lieto di presentare una lunga chiacchierata con il batterista della band, Stan Lynch.
Dylan si fece accompagnare da Tom Petty & the Heartbreakers nel 1986 e, dopo alcune date estive con i Grateful Dead, anche nel 1987. In “Chronicles” avrebbe poi scritto: "Tom stava dando il meglio di sé e io il peggio". Ma Stan Lynch non è d'accordo con la seconda metà di questa affermazione, e pure io. Gli spettacoli dell'86, in particolare, furono un gioioso mix di successi, gemme meno conosciute, cover di classici rock and roll dei vecchi tempi, il tutto supportato da una band incandescente e dalle voci delle Queens of Rhythm. Come ho già detto, è la mia epoca preferita ed ero entusiasta di parlare con qualcun altro presente su quel palco.
Per evitare troppe sovrapposizioni, ho cercato di chiedere a Stan [Lynch] cose diverse da quelle chieste a Benmont [Tench]. E lui, come ha sottolineato, ha portato una prospettiva piuttosto diversa rispetto al suo compagno di band. A un certo punto mi ha detto: “Un giorno mi piacerebbe essere intervistato con tutti lì nella stanza perché allora otterresti la verità. Ci vorrebbero tutti lì per darti la verità. Io non conosco la verità, so solo cosa penso di aver visto.”

Quindi, se non l'avete già fatto, per avere un altro punto di vista leggetevi anche la mia lunga conversazione con Benmont Tench [ndt: tradotta su Maggie’s Farm: http://www.maggiesfarm.eu/hosuonatoconbob.html ].
E per un terzo parere, la mia intervista con Richard Fernandez, ex road manager di Petty e Dylan

https://dylanlive.substack.com/p/tour-manager-richard-fernandez-talks?s=r

Ma adesso, ecco Stan Lynch.

Ray Padgett: Quando ti ho inviato la prima mail, mi hai risposto che la tua esperienza è stata completamente diversa da quella di Benmont [Tench]. In che senso?

Stan Lynch: Ho colto molta sofferenza nell'intervista a Ben. È la dimostrazione di come cinque ragazzi possono essere davvero buoni amici, ma non conoscersi a fondo. Ben era molto riservato, non mi rendevo conto che fosse in difficoltà né di quanto dolore personale stesse attraversando. Io non stavo vivendo niente di tutto ciò. Per me era solo gioia. Ho volato per tutto quel tempo. La mia vita era fantastica, il mio corpo non era mai stato così forte, nessuno mi diceva mai cosa fare o cosa non fare. Non c’era mai un copione. Io battevo quattro e Bob iniziava a suonare e, nel giro di un minuto, sapevamo di che canzone si trattava. È stato magnifico. Ho trovato il tutto simile al jazz. Il frontman era John Coltrane e io mi sentivo come Philly Joe Jones in quelle tre ore. Tutti eravamo maestri di improvvisazione. Tu suoni?

RP: Un po' la chitarra.

SL: Hai presente quando stai facendo la miglior jam session della tua vita? Una di quelle in cui dici "Mio Dio, non so dove stiamo andando, ma è davvero fantastico". Ecco, era come entrare in una jam, ma lo scheletro della jam era "Like a Rolling Stone"! Finché stavi attaccato alle intenzioni di quella canzone e alla passione del testo, non c'era niente che potevi sbagliare dal seggiolino del batterista. Ascoltavo Bob e facevo quello che faceva. Era come rispondere alla battuta di servizio, un pugno e contro pugno. Era aggressivo ed eccitante quando ce n’era bisogno, splendido quando doveva esserlo.
Una sola volta ho saputo di essere uscito dalle righe: in “Hard to Handle” c'è una scena fantastica in cui pensavo di dover entrare e quindi suono un grande attacco di batteria che avrebbe dato il via alla band. E Bob semplicemente alza la mano dietro la schiena, senza fermarsi con l'armonica, e mi mostra il palmo; il che significava: "Non ora, ragazzino. Indietreggia. Risparmia il tuo morso di serpente a sonagli per dopo". Magari l'avevamo fatta un milione di volta in quel modo, ma mi piaceva il fatto che tu non potevi chiudere gli occhi e fare qualcosa a memoria, mai. L'ho trovato esaltante. Non ho mai dormito meglio in vita mia, perché poi eri sempre all’erta, fisicamente ed emotivamente. Suonare con Bob era un sovraccarico sensoriale.

RP: Eri preparato a tutto ciò, grazie al tuo lavoro con gli Heartbreakers o con altri?

SL: “Caos” è il mio secondo nome. Sono nato per l'anarchia, e per quella Bob aveva un talento naturale!
Una sera stavamo facendo un gran concerto. Mancavano forse tre canzoni, Bob si gira verso di me e mi fa: "Ehi, Stan, cosa vuoi suonare stasera?" Mentre ci penso, lui insiste: "Uh, domanda impegnativa?" Ma sto al gioco e rispondo: "Beh, che ne dici di 'Lay Lady Lay'?" Perché non l’avevamo mai fatta. Volevo suonare quel bellissimo accompagnamento che c'è nel disco, quell’andamento swing, provare proprio quel ritmo dal vivo. E questo succede quando sei senza paura. Non mi venne nemmeno in mente che scegliere una canzone mai provata prima forse non era una buona idea. Lui mi fa: "In che tonalità?" Ma non si chiede mai la tonalità a un batterista! Vedo Mike [Campbell] nell'angolo che mi dice: "La! La! La!" E io: "Che ne dici di La?" Tutti tirano un grande sospiro di sollievo. Quindi Bob si avvicina al microfono e comincia una canzone che nemmeno riconobbi. Non avevo idea se fosse "Lay Lady Lay", ma fu davvero divertente. Come se i Ramones suonassero "Lay Lady Lay". Forse la band era un po' inorridita, ma io rimasi sbalordito solo per un secondo. Pensai: "Hey, stiamo davvero facendo questo!" Furono quattro minuti di "Lay Lady Lay" come una canzone punk, arricchita dalle Queens of Rhythm che cercavano di trovare la loro strada. Fu fantastico, ma era l'anarchia assoluta.

RP: Ovviamente a quel punto avevate già raggiunto un certo livello di familiarità, ma torniamo indietro al Farm Aid 1985. La prima volta in una stanza insieme a provare, com’è?

SL: Fantastico. Bella storia! Credo sia successo proprio alla prima prova: dovevamo iniziare alle due, ma Bob si presentò forse alle cinque. Io avevo i biglietti per lo spettacolo di Frank Sinatra e Sammy Davis al Greek Theatre di Los Angeles. Sono un loro grande fan. Verso le sei ricordo che dissi: "Io devo andare." E pensai, fanculo! Bob si avvicinò e mi chiese "Dove stai andando?" Ma il tono era, che cazzo c'è che non va? Dissi: "Devo andare a vedere Frank e Sammy." L'intera band indietreggiò da me come se avessi polvere radioattiva che mi usciva dal culo. A Bob venne un colpo e, com’è vero Dio, disse: "Frank Sinatra? Sammy Davis? Adoro quei ragazzi!" E così presi appuntamento con Bob per andare a vedere Frank e Sammy.

RP: Come andò l’appuntamento?

SL: Ero spaventato a morte. Tipo: è nella mia macchina. Accendo la radio? E se trasmettono Bob Dylan? Penso che rimanemmo semplicemente in silenzio e andammo al Greek Theatre. Bob indossava una felpa con cappuccio. Nessuno sapeva che lui era lì. Io feci una via di mezzo tra l’amico e la guardia del corpo, e guardammo lo spettacolo.
Sammy uscì per primo e fu divertente da morire. Forse ero un po’ fumato e mi godetti davvero lo show. Quando Sammy finì, tutti si alzarono. Bob fece per andarsene, pensava che lo spettacolo fosse finito. L’afferrai per il retro della felpa e dissi: "No, il prossimo è Frank!", "Oh, giusto".
Ricordo che durante l'intervallo pensai tra me e me: "Accidenti, immagino che dovremmo parlare. È quello che fa la gente." E così parlammo. Pensai: "Beh, ai ragazzi piace parlare di moto e ragazze". E parlammo di quello.
Poi si esibì Frank Sinatra. Guardavo Frank e guardavo Bob che guardava Frank, e pensavo: "Wow, questo è il mio momento felliniano!" Finisce lo spettacolo e qualcuno nel backstage si accorge di Bob. Arriva e fa: "Frank dice di passare in camerino a salutarlo". Penso: "Cazzo, sì, sarà fantastico!" Sono stato innamorato del Rat Pack per tutta la vita, è stata una cosa importante per me. Così andiamo nei camerini e dico: "Bob, Frank è qui. Entriamo e salutiamolo." Ma lui: "Nah! Andiamo".

RP: Proprio quando eri a un passo.

SL: In perfetto stile Bob. Tipo "Nah, fanculo, fuori di qui!" [ride]

RP: Mi piace.

SL: Ogni volta che era nella stanza c'era una forte energia. Se c’è uno che non sa leggere le situazioni sono io, ma quello che coglievo era che Bob era pronto a divertirsi, a suonare un po' di musica, a non stressarsi, a non assumere atteggiamenti. Possiamo ringraziare il Signore? Ogni volta che si girava ballava con me. Se stavo prendendo un ritmo, Bob faceva tutte le cose che vuoi che faccia il tuo frontman. I fianchi ondeggiavano, le spalle si muovevano, ti guardava e ti puntava. Amavo ogni istante di tutto ciò.

RP: È stato così dal primo giorno, lui e la band erano così amalgamati?

SL: Sì. Da lui ho percepito energia e una libertà che non avrei mai immaginato. L'unica mia paura era di deludere Bob Dylan. Non volevo suonare qualcosa che potesse offenderlo. Ma ero convinto che me l’avrebbe detto. Era proprio quel tipo di persona. Si avvicinava e ti diceva: "Bella merda!" Per fortuna non l'ho mai sentito. In realtà, ho avuto da lui dei bei "bravo ragazzo!", che a dire il vero non ricevevo spesso.

RP: Hai qualche esempio?

SL: Ricordo che un giorno arrivò diretto al montante del tamburo. Pensai: "Oh, merda, adesso ci siamo. Questo è il momento in cui vengo licenziato." Ma quello che disse fu: "Amico, stai suonando alla grande in questo momento. Lo adoro". Una parte di me si chiedeva: "È uno scherzo? Forse è il suo modo per dirmi che faccio così schifo da non crederci?” Ho pensato che il giorno dopo avrei ricevuto una chiamata da Elliot [Roberts, manager] e lui mi avrebbe detto: "Ehi, Bob pensa che tu faccia schifo." Ma non ho mai ricevuto quella chiamata.
Ho adorato quello che ha fatto alla chimica della nostra band. Ha proprio cambiato la dinamica. Immagina di aggiungere un sesto membro a un gruppo, e quello in più è Bob. È una cosa del tipo: "Beh, c’è della dinamite nella carrozzina, muoviti con attenzione." Eravamo tutti molto riverenti. L'ho visto subito anche negli altri ragazzi. Era come, "Oh, merda, siamo in presenza di qualcuno che può davvero fare tutto!" Pensavamo di essere veterani esperti e ci rendemmo conto che questo tipo era stato cotto e servito molto prima di noi. Ed è rimasto grande per molto, molto, molto tempo.

RP: Cosa ricordi di quel primo concerto al Farm Aid, qualche mese prima del tour?

SL: Non ricordo molto, tranne che suonammo "Maggie's Farm". Fu divertente un casino perché nessuno di noi sapeva davvero cosa sarebbe successo.

RP: Mi sembra ci fosse anche Willie Nelson sul palco per quel brano.

SL: Probabilmente me la stavo facendo sotto. Probabilmente mi stavo dicendo: "Wow, questo è il mio momento Wayne's World. Sto suonando con Bob Dylan e Willie Nelson e Tom Petty & the Heartbreakers! Datemi un pizzicotto! Questo è il tipo di sogni che faccio e sta succedendo davvero." Sono stato praticamente in quella modalità per tutta la mia carriera rock. Non ho mai potuto crederci. Stavo sempre dicendo "Santa merda!"
Scoprii che Dylan era davvero adorabile. Spero che in questa intervista tu possa trasmettere il grande sorriso sul mio viso quando penso a Bob Dylan. Ecco perché ho detto che io e Ben [Tench] abbiamo ricordi molto diversi. Io stavo sperimentando zero dolore: fisicamente, emotivamente, spiritualmente. Stavo solo provando gioia. Avevo l'opportunità di suonare canzoni fantastiche, con musicisti fantastici, in posti fantastici in tutto il mondo. Non era tipo "Sì, va bene, suoniamo a Spank, Idaho, poi andiamo in Nuova Zelanda, in Australia, suoneremo a Berlino Est e in tutt’Italia.” Era invece "Oh, cazzo!!!" Lui è universale. Bob parla il linguaggio universale della genialità.

RP: Hai citato l'Australia. Una delle cose che avete fatto lì fu registrare la prima canzone di Dylan con gli Heartbreakers, "Band of the Hand". Ricordi qualcosa in proposito?

SL: Fu una cosa veloce. Penso che l'abbiamo imparata in studio. Puoi sentirmi andare giù un po’ troppo duro perché ero ancora in modalità live. Tipo: "Non sto registrando un disco, sto facendo un documento dal vivo della nostra favolosa aggressività." Probabilmente sono entrato, ho pestato a sangue la mia batteria per un paio d'ore e poi mi hanno detto: "Vattene da qui." [ride]

RP: Avevate anche i cori delle Queens of Rhythm. Dylan aveva fatto cose del genere negli anni gospel, ma per te e gli Heartbreakers era una novità.

SL: Non avevo mai provato niente di quel calibro. Erano favolose. Suonavamo anche tamburelli e shaker. Stavano portando la chiesa dentro il nostro casino. Che spettacolo per me, avevo il posto migliore di tutti! Guardavo alla mia sinistra e c’erano quelle donne meravigliose coinvolte proprio fisicamente nella musica. Guardavo alla mia destra e c’erano Benmont [Tench] e Mike Campbell. Guardavo davanti e c’erano Bob Dylan e Tom Petty. Ovunque guardassi era fantastico!

RP: Com'era quando non eravate sul palco? Le persone uscivano insieme durante le ore di riposo o stavano per i fatti loro?

SL: I rapporti erano abbastanza consolidati. C'erano notti al bar dove incontravi di tutto. Non sapevi mai chi avrebbe potuto esserci. Le persone che Bob attirava, persone che venivano da me con storie tipo: “Sai, ero la massaggiatrice di Bob. Devi dire a Bob che Joe ha detto...” Me ne arrivavano cinque all’ora così.
Ci fu uno show che mi stese definitivamente. Diciamolo, all'epoca non brillavo per intelligenza, ero un po’ un fessacchiotto. Ero molto egocentrico, come molti giovani musicisti. Poi una sera, eravamo in Italia, ricordo di aver sentito Bob Dylan per davvero. L'ho proprio “sentito”. Di solito quando faceva le sue cose da solista, mi dicevo "Beh, se non sono coinvolto, me ne vado." Ma quella sera rimasi seduto alla batteria, dietro il kit, accesi una sigaretta e guardai quell'uomo. Era lì, lui solo con la sola chitarra, e stava cantando "Blowin' in the Wind". Mi sciolsi e piansi. Iniziai a piangere davvero perché in quel momento finalmente mi colpì. Pensai “Questo ragazzo ha scritto tutta questa roba e adesso la sta suonando qui. Gli esce come il sudore. Sembra facile, ma mi sta uccidendo.” Ogni strofa mi ridusse a brandelli. Suonò una canzone, parlava di un giovane che si offre volontario per andare in guerra e torna a casa con le medaglie. Mette la medaglia nelle mani della madre.

RP: “John Brown”.

SL: Quella. Solo a pensarci adesso può soffocarmi. Da quel momento non sono più stato lo stesso per il resto del tour. Mai più lo stesso. Alla fine di quel concerto ricordo di essere andato da Bob, mentre eravamo ancora tutti sudati. Gli misi le mani sulle spalle e gli dissi qualcosa del tipo: "Stasera mi hai davvero fottuto." Mi guardò con quello sguardo da un milione di dollari e disse, con quella voce: "Stan... stai bene?" Come se non capisse cosa gli stessi dicendo. Avrei dovuto starmene zitto, ma, ovviamente aggiunsi qualcosa. E quello che disse lui fu: "No, no, non tu!"
Era una situazione strana. Non sto dicendo che abbiamo avuto una relazione profonda, ma non vedevo l'ora di incontrare Bob. Adoravo parlare con lui. Qualunque cosa gli dicessi, quello che rispondeva non era ciò che ti aspettavi. Una volta gli dissi una banalità tipo: "Wow, adoro quel vestito!" E mentre ti saresti aspettato un “Grazie amico" o qualsiasi altra cosa, lui rispose: "Sì, cosa ti piace?"
Bob era fantastico nel tenerti sempre sul piede sbagliato. Ma non l'ho trovato scomodo, l'ho trovato stimolante per la crescita, insolito, attraente. Impegnativo in senso buono. Tipo "Prova a dare il massimo!"

RP: Avevi delle canzoni preferite tra quelle che facevate ogni sera o che suonaste solo un paio di volte?

SL: "Positively 4th Street" mi lasciava senza parole. "Like a Rolling Stone" mi lasciava senza parole. "Knockin’ on Heaven’s Door" mi lasciava senza parole. Dovrei dare un'occhiata all'elenco delle canzoni perché probabilmente a ogni titolo direi "Cosa??" Per me è stato difficile non essere sempre entusiasta di essere lì. Che meraviglia sapere di dover suonare tre ore di canzoni scolpite nell’anima. Quando Roger McGuinn cantò “Mr. Tambourine” a Berlino Est, davanti a centinaia di migliaia di persone, il posto sembrava un mare sul punto di esondare. In quel momento pensai “Questo è il massimo, lo zenit. Da qui in poi, non potrà che calare."
Mi manca. Se mai ci fosse una parte della mia vita da poter rivivere, è quella. Per il resto, sto bene. Sono contento di quanto ho realizzato. Ma quella è la cosa che mi piacerebbe fare di nuovo.

RP: Vi esibiste con i Grateful Dead per alcuni concerti, grandi show negli stadi degli Stati Uniti. Ricordi qualcosa del tour con loro?

SL: Anche qui ho avuto un'esperienza completamente diversa da Benmont [Tench]. Non ero un fan e quindi non mi interessava. L’uomo con cui stai parlando ora sa che è una cosa stupida da dire. L'uomo con cui stai parlando ora, più di 30 anni dopo, sa quanto idiota era quel ragazzo.
Non mi conoscevi all’epoca, ma ero più di un edonista. Pensavo, "Sono in una rock and roll band, con tutto quello che implica. Non si fanno prigionieri. Voglio tutto!" Quello ero io. Non ero certo il tipo da session o che voleva essere preso alla leggera o non essere notato. Avevo una bocca grande e rullavo alla grande sui tamburi e probabilmente emettevo troppo rumore sia dalla mia bocca che dalla batteria. Fortunatamente tutti erano tolleranti.

RP: Per me, quello che c’è di così speciale in quei tour - e penso di averlo detto a Benmont - è il puro divertimento che puoi cogliere. Anche nei migliori show di Dylan, “divertimento” non è proprio la parola chiave. E gran parte di questo lo portavi avanti tu, potente, forte e coinvolgente. Penso che si colga anche solo ascoltando un bootleg.

SL: Suonai quei concerti ferocemente, come ero capace. La maggior parte dei batteristi ti dirà: "Non andare mai a 10." Se vai a 10, sprechi solo energie. Ma io l'ho fatto. Sono andato fino in fondo. Anche Benmont mi ha seguito. Tutti lo hanno fatto. Tutti erano pienamente disposti a dare il massimo. Quando arrivava il momento di andare, si schiacciava a tavoletta.

RP: Hai citato Roger McGuinn. Stavo guardando le scalette, ci furono così tanti ospiti. Stevie Nicks, Mark Knopfler, John Lee Hooker, Ron Wood, George Harrison. Qualche bella storia su qualcun altro?

SL: Quale fu con John Lee Hooker? Il concerto di San Francisco, con anche Al Kooper lì?

RP: Sì

SL: Ecco una storia, ma non è una bella storia. Meglio che la tenga per me. Quella fu una brutta serata per me e Tom [Petty]. Davvero molto, molto brutta. Litigammo terribilmente. John Lee Hooker e Al Kooper uscirono e ci salvarono dal diventare ancora più stronzi. E questo è quanto posso dirti.

RP: La presenza di estranei vi riportò a un comportamento migliore?

SL: In realtà, probabilmente fu un punto di svolta per me e Tom. Non ci siamo mai ripresi da quello, ma la serata fu salvata dalla presenza della grandezza. Amo Al Kooper. È fondamentale. È stato davvero fondamentale per tante carriere, inclusa la mia. È una calamita e nemmeno se ne rende conto.

RP: È singolare che anche tu lo citi. Benmont [Tench] mi ha detto che conosceva le parti di Al Kooper in cose come "Like A Rolling Stone" e le suonava pari pari. Tu avevi un equivalente? Pensavi alla parti di batteria di "Positively 4th Street", o a Sam Lay o...

SL: No. È patetico a dirsi, ma questo ti dimostra l'assoluta arroganza e la profonda stupidità mia di allora. È stato solo dopo i tour che ho iniziato a sentire come erano veramente i dischi. Non credo ci sia una cosa che io abbia fatto con Bob Dylan che sia stata presa dal disco originale, tranne forse... fammi pensare... No, le ho rovinate tutte! [ride]
Non avevo idea di cosa avesse fatto qualcun altro prima. Mai studiato un disco in vita mia. Probabilmente ero convinto che fosse così che suonava il disco. Non sono sicuro se idiota sia la parola giusta. Ignorante. Era straordinario che quel ragazzo venisse tollerato.

RP: Ovviamente conoscevi almeno i grandi successi. Conoscevi anche i brani meno famosi?

SL: No. Possedevo alcuni dischi di Bob Dylan. Li amavo, ma non li avevo mai studiati. Tutto quello che sapevo era che amavo il modo in cui suonavano. Quando tutti mi dicevano cose tipo "Bob Dylan non sa cantare", io rispondevo "No, è grande." Amavo il suo aspetto, amavo quello che indossava, amavo le copertine dei suoi dischi. Per me era una figura di culto che non avrei mai potuto conoscere, e perciò non mi sono mai interessato alla sua vita o ad approfondire le sue cose. Ero giovane e stupido, amico. Un fan del rock and roll. Amavo quello che amavo e Dylan ne faceva parte. Amavo anche gli Steppenwolf. Ero più un tipo da "Chissà che genere di ragazze piace a Bob o cosa guida."

RP: Vorrei chiederti di un paio di concerti in particolare. Ad esempio, l'apertura dell’ultimo tour, in Israele. All'epoca suonare lì era un grosso problema. Cosa ricordi?

SL: Ricordo la sicurezza. Portavano letteralmente le scimitarre alla cintura. Chiesi: "Perché portate quelle invece di una pistola?" Mi risposero: "Una pistola va bene da lontano, ma da vicino non serve. Con questa, se ti avvicini a me, sei mio." Pensai: "Questi tipi fanno sul serio. Potrebbero strapparmi le viscere."
Ricordo che andai a una festa ebraica, mi sembra organizzata dal Primo Ministro, c'era anche Bob. Ricordo di aver parlato con delle ragazze sulla spiaggia e, pensando di far colpo, dissi: "Sono qui con Bob Dylan! Voi che fate?" Risposero: "Siamo nell'esercito. Tutte quattro tiratori scelti, lavoreremo stasera." Ah, ok, ecco la realtà. Sul palco ero piuttosto turbato, è stato il momento più cupo della mia vita musicale.
All'Hotel David di Tel Aviv ricordo che uscii sul balcone della mia stanza. Sentivo odore di fumo, quindi telefonai. Appena riattaccato, si presentarono due militari armati di pistole calibro 9. Questa è roba seria! Mi spingono da parte, letteralmente, e vanno al balcone. Escono, odorano, guardano. Si girano e dicono: "Non è niente, solo un incendio di spazzatura. Grazie per aver chiamato."

RP: Presero sul serio la chiamata.

SL: Accidenti, sì! Ecco cos'altro ricordo. Una sera andammo in una discoteca a fare un po’ di festa e tornammo a casa tardi. La hall dell'hotel era buia. Sembrava tutto bloccato, non vedevi nulla. Gli altri ragazzi si lamentavano: "Ehi, che cavolo, chi ha spento quelle dannate luci?” Appena i miei occhi si abituarono al buio, vidi sei fottuti militari con le mitragliette in tutti e quattro gli angoli dell'atrio, che ci guardavano.

RP: Quello fu l'inizio del tour dell'87. Poi in chiusura del tour, gran finale a Wembley con un sacco di ospiti speciali. Cosa ricordi?

SL: Dovevo incontrare Ringo [Starr]. Un grande momento per un batterista. Oh Dio, me la facevo sotto cercando di inventare qualcosa di divertente da dire, ma rovinai anche quello. Ho cercato di ringraziarlo per tutto, ma quello che uscì dalla mia bocca fu qualcosa tipo: "Voglio ringraziarti per il mio taglio di capelli, la mia macchina e il mio..." Non so cosa. Ero completamente rapito. Mi diede un grande abbraccio e disse: "Capisco, capisco!" Perché ogni batterista si caga sotto quando incontra Ringo, caspita! Cosa sarei senza quel primo spettacolo [dei Beatles] all’Ed Sullivan Show? Un idraulico?
Oggi indosserei volentieri una maglietta del True Confessions Tour. Ho cercato di rincontrare Bob. Sono andato a diversi concerti, ma non sono mai stato invitato a salutarlo. Tutto quello che vorrei dire sarebbe: "Ti amo. Grazie. Spero che tu serbi qualche momento mio che ha contribuito alla tua vita. Se te lo ricordi." Per me è stato indimenticabile. Indimenticabile come la prima ragazza.

RP: Hai raccontato prima la storia di Sinatra. Ne ricordi altre con Dylan?

SL: Ho ore e ore di filmati, 8mm, devo ancora sedermi e riguardarli. Ricordo di essere andato al porto di Sydney con Bob. Qualcuno aveva una barca a vela. Uscimmo e ancorammo al largo di una piccola isola. Pensai di farmi una nuotata e mi tuffai. Si tuffò anche Bob e cominciammo a nuotare, fino all’isola. C'era una corda che pendeva da un albero. Gli dissi: "Vuoi arrampicarti con la corda?" Rispose: "Se lo fai tu, lo faccio anch’io." Così mi arrampicai e Bob fece lo stesso. Dalla barca ci urlarono: "Volete che veniamo a prendervi?" Chiesi: "Bob, vuoi tornare a nuoto?" "Se lo fai tu, lo faccio anch’io." Così ritornammo a nuoto.
Questo è quello che mi sono portato a casa. Tutti pensano di conoscere Bob Dylan. Io conosco la mia versione. Era molto semplice. "Se lo fai tu, lo faccio anch’io" ti dice tutto. È la stessa esperienza che ho avuto con lui sul palco. Io glielo dicevo musicalmente, ogni volta che potevo. “Facciamo questo?” "Se lo fai tu, lo faccio anch’io."

RP: Un altro concerto di cui volevo chiederti – non legato a questi tour – è quello per il suo 30° Anniversario, nel 1992. Tu suonasti sul palco con Jim Keltner. Come successe?

SL: Quella fu una botta di fortuna. Credo che qualcuno gli avesse chiesto: "Va bene se suona anche Stan?", e Jimmy: "Sì, certo." Col senno di poi, mi chiedo se non avessi potuto trarre qualche vantaggio da quella situazione. Mi sedetti col pepe al culo e non ascoltai abbastanza. Jimmy Lee Keltner! La chiesa madre del rock and roll che ti suona la batteria proprio lì davanti.

RP: Lui è il migliore. Gli ho parlato lo scorso autunno. [ndt: vedi nostra traduzione dell’intervista: http://www.maggiesfarm.eu/hosuonatoconbob.html ]

SL: Non c'è un tipo più stupendo. Non ce n’è uno più figo. Uno così pieno di sentimento. Se mi adottasse, mi trasferirei da lui. Non c'è niente in Jim Keltner che tu non voglia emulare. Suonai forse una canzone, agitavo il tamburino su “Mr. Tambourine Man”. Ricordo di aver pensato: "Sono io il mister Tambourine!" [ride]

RP: Ci sono delle belle foto con te appollaiato lassù, durante il gran finale con tutti.

SL: Cosa sto facendo, suono il tamburino?

RP: Può darsi, dovrei guardare.

SL: Non è molto. Ricordo di aver pensato: "Il mondo non ha bisogno di un altro batterista in questo momento." Ci regalarono una bella valigetta con la scritta "Bob Dylan 30th Anniversary". Ce l’ho ancora nel mio armadietto.
Sono uscito dagli Heartbreakers nel 1994, perciò la conservo anche solo per dire: "Sì, ho suonato con Tom Petty & the Heartbreakers, e siamo andati in tour con Bob Dylan.” E tutto ciò è fantastico! Mi sono successe così tante cose da allora, nella musica e nella vita. Da allora ho avuto altre due carriere. Ma quello è stato davvero bello.

RP: Non sono molte le persone che possono dirlo.

SL: Ho ricordi divertenti. Una volta ero in camerino con Ronnie Wood e Garth Hudson. Ricordo che Ronnie entrò e mi chiese: "Stan, vuoi fumare?" Aveva due pacchetti di Marlboro. Risposi: "Non fumo più." Me ne lanciò uno in testa: "Allora ricomincia." Poi mi fa: "Stan, cosa stai bevendo?" "Acqua." "Acqua? Com'è?"
Questi ragazzi non mi hanno mai deluso, mai deluso. Un tipo come Ronnie Wood, lo idolatravo dai tempi dei dischi di Jeff Beck. Pensavo: "Wow! Mi chiedo se mi faranno stare con loro."
Stessa cosa per Roger McGuinn. Non so quante volte avevo guardato la copertina di ogni album dei Byrds e ascoltato i loro dischi in cuffia. Ed era lì in piedi, proprio di fronte a me e mi aveva ammesso. Siamo andati in tour insieme e ho fatto un disco con lui. Mi sono sempre sentito come il figliastro dai capelli rossi con molto da dimostrare. Se mi faranno entrare nel club, cercherò di dimostrare che sono degno di essere lì musicalmente e, cosa più importante, di essere una buona compagnia. Non sarò una seccatura.
Come ti ho detto, è per questo che sono rimasto colpito quando ho letto la tua intervista a Ben [Tench]. Per me non c'era nessun altro posto dove avrei voluto essere. Ma Ben voleva essere a casa. Per me la strada non è mai stata un posto da temere. Sentivo gli altri ragazzi che dicevano: "Oh, cazzo, quante settimane staremo via?" Io dicevo: "Sì! Preparo la valigia per i prossimi 10 anni, non mi interessa!" È un'avventura. Letteralmente. La prima volta che andammo a Londra negli anni '70, non tornai a casa. La band mi disse: "Abbiamo sei settimane di ferie. Torniamo a casa." Io avevo conosciuto una ragazza e mi trasferii lì. Vissi a Londra fin quando fui costretto a ripartire.
Il rock and roll è una cartina tornasole. È uno specchio. Se gli sorridi, ti sorride. Se gli sputi, ti risputa indietro. Se sei arrabbiato con lui, allora lui è arrabbiato con te. Ecco come mi sentivo riguardo al pubblico. Sei di fronte a 15.000 persone e se fai lo stronzo, allora meriti di essere fischiato. Fin dai vecchi tempi è stato così. Perché portare un cattivo atteggiamento alle persone che hanno appena sborsato un sacco di soldi per venire a sentirti? Non ha mai avuto alcun senso per me. Se sei di cattivo umore, allora cerca di ritrovare il buon umore. "Ehi, amico, tutti sanno che la strada fa schifo." D’accordo, ma lo fa davvero o fai schifo tu?

RP: Gli Heartbreakers cambiarono dopo quei tour? Dopo l’87, rimosso Bob dal gruppo, suonavate in modo diverso?

SL: Pensavo che la band avrebbe continuato ad essere così grande e suonare così per il resto della mia vita. Non successe. Quando si concluse il tour probabilmente pensavo che tutti si sentissero come me, che per tutti era stato così fottutamente bello e che sarebbe stato sempre così. Mi sbagliavo. Da quel momento tutto cambiò per me, credo sia iniziato tutto lì.

RP: Eri su un binario diverso?

SL: Completamente. Conosci la storiella dei cinque ragazzi che toccano un elefante?

RP: Non credo.

SL: Ok, cinque ciechi scoprono un elefante. Tutti lo toccano e lo descrivono, ma ognuno descrive qualcosa di completamente diverso dagli altri. Perché uno tocca la proboscide e dice: "Probabilmente è un serpente." Un altro tocca l'orecchio, un altro tocca la coda, un altro il piede… E sono cinque persone che descrivono lo stesso elefante.
È così che descriverei la fine di quel tour. Me ne andai pensando che fosse la cosa più bella che avessi mai visto in vita mia. Invece gli altri se ne andarono probabilmente dicendo: "Grazie a Dio è finita." Un giorno mi piacerebbe essere intervistato con tutti lì nella stanza perché allora avresti la verità. Ci vorrebbero tutti lì per darti la verità. Io non conosco la verità, so solo cosa penso di aver visto.
Ho amato tutti nella band. Erano i miei fratelli. Tutti davano il meglio di sé. Si rideva. Non potevi prenderla seriamente. [Il bassista] Howie Epstein e io nove volte su dieci non riuscivamo a mantenere la faccia seria, perché eravamo così innamorati dell’idea che stesse succedendo. Non potevi fare il figo. Non potevi assumere atteggiamenti e pensare che qualcuno ci avrebbe creduto. Non potevi giocare a fare la rockstar quando suoni con Bob Dylan. Sali sul palco e basta, cazzo!, e parti con la musica.
Questo è quello che pensavo stessero facendo tutti nella band. Benmont Tench, togli i casini da tutto ciò! Lui è il tipo che basta dargli il via e sarà comunque magia, sa tirare fuori grandi cose anche dalla fuffa. Mike Campbell: se guardi le sue mani, non puoi nemmeno dire quale accordo stia suonando perché ne conosce talmente tanti. Non hai idea di cosa stia facendo, ma Gesù, è così bravo! Lui li possiede i 21 tasti [della chitarra elettrica]. Li possiede come se fossero la sua puttana. E poi ascolta Benmont, e lui lo sta mandando in un'altra direzione, e loro due insieme da un semplice Sol-La-Re tirano fuori musica che in vita tua non hai mai sentito prima.
Se avessi avuto bisogno di divertirmi musicalmente, bastava prestare orecchio a loro. E se avessi voluto divertirmi biologicamente, avrei guardato Tom [Petty], le Queens of Rhythm e Howie [Epstein]. Questa cosa è fondamentale: il rock and roll deve divertirti dal collo in su e dalla vita in giù, capisci cosa intendo? Il lato destro del palco mi stava divertendo alla grande, il lato sinistro aveva le mie palle in una fionda e tutto questo mi mandava in orbita. E poi, tra l’altro, c’era Bob Dylan! Come se ci fosse una corona sopra l'intera fottuta cosa. Quindi, me la sono goduta? Penso proprio di sì.

RP: Pensi abbia influenzato Il fatto che non fosse un tour degli Heartbreakers? Non dovendo fare le vostre canzoni per tutta la serata, c’era meno pressione?

SL: Nessuno vuole pensare a se stesso come membro di una band di semplice supporto. Anche quando eravamo negli Heartbreakers con Tom, non abbiamo mai pensato a noi stessi in quel modo. Non devi mai avere la libertà di considerarti solo una parte della band di supporto. Potresti rovinare una serata. E con Bob Dylan, accompagnato da Tom Petty & the Heartbreakers, non potevi rovinare la serata. Ascolta, Bob Dylan non ha certo bisogno di te. Lo dimostrava ogni sera uscendo e suonando quattro o cinque canzoni da solo che dicevi "Oh mio Dio!" Quindi la pressione non era mai concentrata sulla band. Hai ragione, forse la situazione era un po’ più sgonfia. Non erano miei quei brani. Quelli di Petty e gli Heartbreakers sì. Se suonavamo "Refugee", doveva suonare come la fottuta "Refugee". Se facevamo "Listen to Her Heart", dovevo cantarla in quel modo. Ma con Bob, non erano cose mie. Nemmeno conoscevo i pezzi, cazzo, ero così stupido e presuntuoso! Purché continuassi a metterci ardore, non avevo davvero alcuna pressione.
Ogni uomo e ogni donna su quel palco furono straordinari. Fu una convergenza molto fortunata che fossimo lì tutti assieme, sono cose che non puoi pianificare. C’erano tutti gli elementi di una grande recita, tutti lì per uno scopo. Tom cantava insieme a Bob nello stesso microfono, anche se non l’avevano mai fatto prima. Quando Tom doveva cantare "How does it feel?", lo urlava con lui nello stesso microfono. Se uno dei due aveva l'alitosi, l’altro lo sapeva. Si annusavano il rispettivo tabacco. Tutti eravamo così. Era così intimo e così reale.
Ricordo una volta di aver attaccato una canzone con un ritmo stupido. Bob aveva iniziato a suonare qualcosa di simile al reggae e così decisi “Beh stasera andrò con quello” – e mi inserii con quattro battute. È stata l'unica volta in cui me l'ha fatto: mi guardò e mi diede il "No" internazionale.

RP: Che sarebbe?

SL: Gettò la sigaretta sul pavimento e fece il gesto sotto il collo per dirmi "no".

RP: Tipo, taglia?

SL: Esatto. Tipo, “così non decolla, non costringermi a farla così per quattro minuti, idiota.” Sono stato un po' insultato per circa mezzo secondo e mi sono detto “Va bene! Ho un brutto conto da provare a saldare nei prossimi quattro minuti." Perché una volta che il batterista ci mette il piede, si va da quella parte. E a volte ero fuori, forse anche lontano un miglio. Di solito la band mi seguiva. Dicevano: "Okay, Lynch ha parlato. Andiamo."
Da qualche parte ho letto che Bob pensava di non essere così bravo in quel periodo. Questo mi ha spezzato il cuore. Mi ha letteralmente ridotto ad amare le macerie emotive, perché ero convinto che quel figlio di puttana avesse portato grandi cose. Non avevo mai visto niente del genere. Non so se lui vorrà mai parlarne, ma se avessi la possibilità, gli direi: "Hey, ho letto da qualche parte che pensavi di non stare dando niente. Amico, non hai idea di quanto tu sia stato di ispirazione per me. Non mi hai mai deluso.”

Grazie a Stan Lynch! Un paio di mesi dopo il nostro colloquio, Stan si è riunito con il suo vecchio compagno degli Heartbreakers Mike Campbell, per la prima volta dopo decenni. Potete leggere il resoconto del loro tour su Rolling Stone: https://www.rollingstone.com/music/music-features/tom-petty-hearbreakers-mike-campbell-stan-lynch-interview-1354013/ 

 

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I racconti dei ragazzi del suono del primo Never Ending Tour.

di Ray Padgett - (20 febbraio 2022)
Fonte: https://dylanlive.substack.com/p/stories-from-bob-dylans-first-never?s=r

traduzione di Silvano Cattaneo

Lo scorso autunno ho intervistato alcune persone che furono in tournée con Bob Dylan nei primi concerti del Never Ending Tour, nel 1988: il batterista Christopher Parker, il tour manager Richard Fernandez e il direttore di scena Mark Spring. Quella quasi-serie continua ora con un tre-per-uno. Ho parlato con i ragazzi del suono di Dylan: David Robb, responsabile dell’audio che il pubblico ascoltava in sala; Keith Dircks, responsabile dell’audio che la band ascoltava sul palco; Robert “Fuzzy” Frazer, che spostava l’impianto da un posto all’altro e aiutava ai microfoni.

Diciamolo subito: il loro lavoro non richiedeva un’interazione molto stretta con il nostro uomo. Raccontano sì un paio di aneddoti, ma per me sono più interessanti le loro storie, quasi una finestra su com’era la vita quotidiana per uno della troupe in tour con Bob. È probabile che non sia cambiato molto da allora.

Se a un concerto vi siete chiesti cosa stessero facendo le persone che si affaccendavano sul palco prima dell’arrivo di Bob, o cosa stessero combinando le persone in piedi dietro quei grandi banchi, David, Keith e Fuzzy aiutano a scoprirlo.

David Robb, mixer di sala

David Robb: Ho iniziato a lavorare con Al Santos nel 1980, quando lui era direttore di produzione di Frank Zappa, e con lui ho lavorato in tour per quasi tutti gli anni '80. Insieme abbiamo fatto tre anni con Zappa, poi siamo stati con Tom Petty, gli Yes e quindi con Bob Dylan. È interessante notare che Al [Santos] è ancora il direttore di produzione di Dylan, trenta e passa anni dopo.
Feci un breve tour con Bob nell'estate ’86, quando suonò un mesetto di date con i Grateful Dead e Tom Petty. All’epoca io ero con i Dead e non avevo mai visto Bob dal vivo prima di allora.
Poi venne il vero e proprio Never Ending Tour, a partire dal maggio dell'88. Assistetti a due o tre giorni di prove, a New York. La band di tre elementi che iniziò a provare non aveva Kenny Aaronson al basso, stavano provando con Marshall Crenshaw. A quel tempo, Marshall [Crenshaw] e il batterista Chris Parker vivevano entrambi a Woodstock come me, e io portai la loro attrezzatura alle prove. Penso sia stato dopo il primo giorno o nel bel mezzo del secondo giorno, che Bob disse che non era quello che voleva. Così [il chitarrista] G.E. Smith convinse Kenny Aaronson a partecipare, e Kenny restò con lui per quel tour e il successivo.
Ero molto fiducioso di riuscire a ottenere un buon suono da quel gruppo, così stavo solo a guardare per capire come lavorava Bob, come lavorava con la band, capire gli aspetti politici e tutto il resto.

Ray Padgett: Cosa intendi per “politici”?

David Robb: Voglio dire, come si relazionavano i membri della band con Bob? E lui come si relazionava con loro? Come costruivano le canzoni? Stavano imparando esattamente le cose da lui oppure lui gli dava solo le battute iniziali? Bob è probabilmente uno dei musicisti meno strutturati con cui abbia mai lavorato.
Il primo vero concerto fu al Concord Pavilion in California [il 7 giugno 1988]. La posizione del mixer a Concorde non era l' ideale e non potemmo configurare l'intero sistema che avevo portato con me. Non fui completamente soddisfatto di come realizzai quel primo show, ma da lì in poi le cose migliorarono.
Sapevo che i testi dei suoi brani erano molto, molto importanti per il suo pubblico. A essere sincero, non presto molta attenzione ai testi degli artisti per cui lavoro. Quando la band suona non seguo i testi, ma ascolto la voce per essere sicuro che sia ben posizionata tra gli strumenti e sia perfettamente comprensibile. Alcuni artisti dicono addirittura: "Abbassa un po' la voce. Voglio sentire la chitarra o la tastiera altrettanto forte". Ma per Bob ero convinto che, per avere le liriche intelligibili, la sua voce dovesse stare sopra qualsiasi altra cosa nel mix.
Il mio stile di mixaggio era un po' insolito. La maggior parte delle persone che mixano frontalmente al palco hanno una pedana alta circa un metro in modo che possano sedersi lassù, vedere sopra le teste del pubblico e guardare il palco mentre lo spettacolo è in corso. Io, invece, penso che la persona che gestisce l'attrezzatura debba avere la stessa esperienza del pubblico e per questo motivo non ho mai usato alzate. Mettevo la mia console direttamente sul pavimento. Se il pubblico era seduto, io stavo seduto. Se il pubblico era in piedi, io stavo in piedi. Questa fu un'ottima notizia per gli organizzatori dei concerti di Dylan, perché quando hai parecchia attrezzatura tutta su una pedana, ci sono posti a sedere dietro inutilizzabili. Quando vedevano che io ero allo stesso livello di tutti gli altri, dicevano: "Fantastico, si sono liberati un sacco di posti che posso vendere!"

RP: Com’era il programma tipico del giorno del concerto?

DR: Uno dei tanti compiti che ho svolto durante i tour è stato il ground rigging [ndt: assemblaggio e posizionamento di tutte le strumentazioni e della scenografia]. Sapere dove è disposto il palco e dove si troverà esattamente il pubblico determina dove installerò il sistema audio. Come prima cosa bisogna montare e sistemare in alto le luci, perché altrimenti si continuerebbe ad inciampare. Poi si pensa alla parte audio. Si porta dentro tutta l’attrezzatura, si montano gli amplificatori, si sollevano e si direzionano nel modo giusto.
Dopo pranzo arrivano sul palco gli strumenti della band e si sistemano. Quindi microfoniamo e controlliamo tutti i collegamenti. Dopo che l’impianto è completamente attivo, faccio alcuni rapidi controlli sulla copertura dell’ambiente, faccio un po' di equalizzazione, riproduco un po' di musica e un po' di rumore rosa, testo le capacità del sistema e come funziona.

RP: Cos’è il rumore rosa?

DR: Il rumore rosa è un segnale elettrico con una forma d'onda media particolare. Consiste in tutte le frequenze che l'orecchio può sentire, suonate contemporaneamente. Se lo ascolti non percepisci le note reali, suona come i disturbi elettrici tra un stazione e l’altra di una radio. Viene utilizzato per testare gli impianti audio, perché puoi monitorare come viene influenzata la forma d'onda mentre passa attraverso l’impianto. In un locale, i tuoi altoparlanti sono puntati tutti in direzioni diverse. Supponiamo che tu sia in un palasport o in un ambiente simile: avrai molto riverbero, suono riflesso dalle pareti e dal soffitto. Se prendi un segnale audio, lo riproduci attraverso l’impianto e poi usi un microfono per catturare quello che sta uscendo, ti aiuta a capire come l’ambiente sta influenzando il suono.
Verso le quattro o cinque del pomeriggio la band di solito si presentava per un soundcheck, andavano sul palco e improvvisavano un po'. A volte, specialmente all'inizio di un tour, hai bisogno di averli sul palco uno alla volta. La batteria, in particolare, potrebbe avere anche dozzine di microfoni, quindi ci vuole un po’ per ascoltarli tutti. Ma dopo alcuni spettacoli di solito puoi lasciare che la band suoni quello che vuole al soundcheck.
Dylan era unico perché raramente faceva un soundcheck. Non aveva bisogno di provare le canzoni. Le ha scritte, le conosce. Probabilmente le avrebbe suonate in modo diverso da come le aveva suonate prima. Ho parlato con G.E. Smith a questo proposito: potresti conoscere l'intero repertorio di Dylan, potresti aver ascoltato ogni singola cosa che ha registrato, ma non sarà quello che suonerai stasera.
A volte Bob si presentava a controllare la sua chitarra elettrica. Raramente controllava la chitarra acustica, così chiedevo a G.E. [Smith] di suonare l’acustica di Bob dopo che Bob se n’era andato. Non c'era molto da imparare o canzoni da provare. Al termine del soundcheck, Al Santos faceva scendere la band dal palco. Quindi preparavamo rapidamente il palco per il gruppo di supporto e facevamo un breve soundcheck con loro, prima che aprissero le porte del locale.
Bob e G.E. stilavano la scaletta e Al Santos faceva copie per tutti. Una per ciascuno dei musicisti, una per me, una per il tipo delle luci, una per quello al monitor... Erano una guida interessante, ma di certo non ci avresti scommesso che Bob si sarebbe attenuto a quella lista.
G.E. [Smith] era quasi sempre nella stessa posizione, alla destra di Bob. Avresti detto che come musicista di accompagnamento sarebbe rimasto più defilato, ma non poteva davvero farlo. Per l'intero concerto doveva guardare le mani di Bob per capire quando avrebbe cambiato l'accordo e quale accordo sarebbe stato. G.E. avrebbe preso spunto da quello. A volte gridava qualcosa a Kenny [Aaronson], in modo che Kenny sapesse in quale tonalità stavano suonando.
Avrei anche potuto indovinare quale canzone avrebbe fatto dopo, ma non c’era molta differenza per me. Ho usato pochissimi effetti sulla voce di Bob o sui suoi strumenti. Prima del tour con Bob ho mixato gli Yes e lì avevo davvero bisogno di sapere quale sarebbe stata la canzone successiva perché c’erano parecchie cose che avrei cambiato nel mix. Ma per Bob, era una band di quattro elementi, non avrebbero cambiato molto, tranne quando G.E. e Bob passavano dall'elettrico all'acustico, ma questo è abbastanza ovvio.
Mi vanto di guardare, oltre ad ascoltare. Questa è una delle cose che dico alle persone quando mi chiedono "qual è il trucco per mixare?" Cerchi di farlo suonare nel miglior modo possibile, ma poi ti fermi per un minuto e fissi il palco, guardi ogni singola cosa presente sul palco che emette un qualche tipo di suono e fai in modo di poterla sentire nel posto giusto nel mix.
Il mix non cambiava molto, gli effetti non cambiavano, non c’erano veri stacchi. Non c'erano nemmeno le battute iniziali delle canzoni. Avresti detto che Bob stesse accordando la sua chitarra e poi all'improvviso suonava un paio di accordi, a quel punto iniziava a suonare G.E. e, okay, la canzone era partita. Era più un problema per il tecnico delle luci.

Con Bob ho avuto praticamente zero interazioni. Sta sulle sue. Non so come sia con la band quando sono soli, ma ogni volta che si trovava lì c’era pochissima comunicazione. Ovvio, probabilmente io ero nella posizione peggiore perché stavo dietro alla console di sala. Magari aveva qualche commento per il tecnico dei monitor che era a pochi metri da lui, ma non veniva mai a parlarmi.
E questo mi fa ricordare l'unica vera interazione avuta con lui, che è stata affascinante. Eravamo al Fiddler's Green, un anfiteatro all'aperto vicino a Denver. Nel primo pomeriggio Al Santos mi disse che avremmo potuto avere brutto tempo, con relativi problemi. Poco prima del soundcheck alzai lo sguardo sulle montagne, si vedeva un tornado che iniziava a formarsi. Una cosa stranissima, sembrava che qualcuno sopra le nuvole avesse un enorme cono gelato nero e lo stesse infilando tra le nuvole per poi tirarlo di nuovo su. Giù e su, giù e su. Poi all'improvviso questo cono nero scese fino in fondo, colpì il suolo e si fermò. Il punto in cui colpì il suolo era a miglia di distanza da dove ci trovavamo, ma potevamo vederlo molto chiaramente.
Dopo il soundcheck, andai al catering. Ero seduto a cena e successe un fatto inaudito: entra Dylan, si avvicina e si siede al tavolo con me. Discutemmo per venti minuti su come il tornado influisse sulla pressione dell'aria e su come la pressione dell'aria avrebbe potuto influenzare il suono. Non credo fosse preoccupato per il suono, penso che probabilmente fosse più curioso dal punto di vista scientifico: cosa fa una cosa del genere al suono?
Rimasi sbalordito che fosse interessato a questa cosa e che stesse rompendo la sua routine di sedersi sul bus da solo e non parlare con nessuno. È stata l'interazione più lunga che abbia mai avuto con lui.

A uno show successivo – eravamo al Garden State Arts Center, nel New Jersey – nel bel mezzo del set di Bob, sentii qualcuno che mi stava dando dei colpetti sulla spalla. Ero pronto a schiaffeggiare via quella mano, ma mi girai ed era il manager di Bob [Elliot Roberts]. Mi disse: "Ho un’artista che sta per firmare e voglio che si sieda qui e ascolti Bob per un paio di canzoni.” Risposi: "Va bene, basta che non mi disturbi." Quando finì la canzone, mi voltai e dietro c’era Tracy Chapman. Come previsto, divenne una sua cliente e io, dopo Bob, finii per mixare per Tracy.

Altro concerto memorabile fu l'ultimo di quel tour. Terminammo con quattro serate al Radio City Music Hall. Era l'ultima data [18 novembre 1988], mi sentivo tranquillo, eravamo stati quattro giorni nello stesso teatro, quindi sapevo cosa aspettarmi.
D’un tratto mi sporsi in avanti a dare un’occhiata alle attrezzature al mio fianco. Sull’altro lato del rack c’erano alcuni posti a sedere bloccati per farci stare la console dell’artista di supporto [Tony Childs]. Riuscii solo a vedere queste scarpe da ginnastica dipinte a mano che picchiettavano sul pavimento. Mi dissi: "Oh, fantastico, un tizio è saltato dai posti economici a questi vuoti al mio fianco". Ero preoccupato che qualcuno fosse seduto lì a cazzeggiare in mezzo a 100.000 dollari di elettronica. Mi alzai, guardai oltre il rack pronto a far buttare fuori questa persona... Era George Harrison.
Dopo quello spettacolo, Al Santos mi disse che Bob voleva vederci. Solo Santos e io. Gli chiesi: "Dici sul serio?" Camminammo per pochi isolati fino al Russian Tea Room, il famoso ristorante. La guardia del corpo di Bob, in piedi sul marciapiede, ci fece cenno di avvicinarci. Aprì una porta privata e salimmo in una saletta. Penso ci fossero solo sette o otto persone sedute in quella stanza, incluso Bob. Noi due entrammo e il suo manager ci disse: "Bob vi voleva qui per ringraziarvi per il tour".
Molti manager si limitano a prenotare i concerti e poi tornano nel loro ufficio a fare altre cose, ma il manager di Bob era sempre con lui. Era il suo portavoce. A quel punto, le altre persone nella stanza si alzarono e fecero un piccolo applauso per il lavoro che avevamo fatto. Se non ricordo male, il gruppetto comprendeva Peter Gabriel, Rosanna Arquette e George Harrison. Credo che sotto sotto stessi pensando: "Oh, adesso ci daranno anche un sacco di soldi qui", ma non è mai successo. Nessun grande bonus. Però è stato bello essere ringraziati.

Keith Dircks, band monitor

Keith Dircks: Ero il responsabile dei monitor, quindi lavoravo a 6 o 7 metri da lui. Nel primo anno, mi avrà detto forse 40 parole. Davvero. Lo incontrai per la prima volta ai Montana Studios di New York, gli studi delle prove. Dave [Robb] era in un'altra stanza con la console frontale, e io rimasi nella sala prove con la console dei monitor. La band era arrivata per prima, come il giorno precedente. Quando entrò Bob, gli chiesi: "Qual è la tua filosofia sui monitor?" La sua risposta fu: "Tutt’intorno." E questa fu l’indicazione con cui dovetti lavorare.

All'inizio fu tutto un "Abbassa quello, non voglio questo, non voglio quello." Poi andammo a fare il primo spettacolo. La mattina dopo il manager mi chiamò nella sua suite. Stavo per essere licenziato perché Bob odiava i monitor. Intervenne Dave [Robb] che chiese: "Allora, cosa non ti piace?" E lui: "Beh, non erano abbastanza alti di volume." E Dave: "Davvero? Li vuoi alti?"
Al secondo spettacolo avevo [il manager di Dylan] Elliot Roberts accanto a me, perché ormai ero sul filo del rasoio. Dopo la terza canzone mi fa: "Abbassa quella merda!" E da allora non fu mai più detto nulla su come facevo i monitor.

Sai, Bob è davvero un tipo di poche parole. Tra le 40 parole che mi rivolse il primo anno ricordo una cosa in particolare. Eravamo ai Montana Studios, solo io e lui nella stanza. Ero in fondo a trafficare, lui si avvicinò e disse: "Alla fin fine, due sono le cose che ti restano." E poi ci fu una lunga, significativa pausa. Hai presente le pause di Bob. Finché aggiunse: "I ragazzi e il cibo.” Mise in bocca un jalapeño, si girò e se ne andò.
L'anno successivo, nell'89, nacque la mia prima figlia. E dopo tutti questi anni, maledizione, aveva ragione! Ti restano i ragazzi e il cibo. L'aveva esattamente inquadrata. Allora non potei apprezzarlo, pensai “Beh, okay, è un Bob-ismo”. Ma dopo tanti anni credo che avesse un significato.

Nel tour americano tutta la crew aveva delle mountain bike che portavamo con noi. Ogni volta che si aveva un'ora libera, andavamo a fare un giro. Quando arrivammo in Europa nessuno aveva la bici, tranne Bob e il suo entourage. Ma ogni volta che andavano in giro, lasciavano le bici sbloccate e venivano rubate. Così nel Paese successivo dovevano comprare un altro set di biciclette.

Non c'erano molte groupie. Negli altri tour del rock, quando vai al bus ti trovi le groupie fuori. Un giorno vidi una ragazza in piedi vicino al bus. Chiesi: "Posso aiutarti?" E lei: "Posso fare una domanda?" "Sicuro." "Avete bisogno di altri poeti in tournée?" Dissi: "Oh, cavolo, hai perso la barca per un giorno. Abbiamo assunto il nostro ultimo poeta ieri." Si allontanò sconsolata.

Non so se Bob sapesse chi fossi io, anche se ho lavorato a pochi metri da lui ogni notte per due anni. Nell'89 mia moglie era incinta della nostra prima figlia. Ogni sera la chiamavo e le chiedevo: "Ci siamo?" A Poughkeepsie, rientrato in hotel trovai un messaggio che mi diceva di tornare a casa. Quindi lasciai il tour per una decina di giorni. Mi sostituì Dave Taylor, un ragazzo che stava già in tour con noi. Il mio soprannome durante il tour era Mel. Quando tornai, gli chiesi: "Allora com'è andata?" E Dave: "Non credo che gli sei mancato." "Perché?" E Dave: "Mi è passato davanti e mi ha chiesto: 'Ehi Mel, come va?'"

[Dylan] parlava con G.E.[Smith] e G.E. poi parlava con me. La mattina dopo, G.E. magari mi diceva: "Riguardo alla scorsa notte, vorrebbe che tu rendessi un po' più profonda la chitarra." In qualche modo abbiamo capito cosa fosse meglio per Bob, per integrarlo con il resto della band. Se piazzavo due monitor di fronte a lui, sarebbero stati completamente separati l'uno dall'altro: uno aveva solo la sua chitarra, l'altro la sua voce. E i monitor laterali avrebbero avuto più in evidenza la band.

Dio, la musica era semplicemente incredibile! Sarei andato a sedermi in sala solo per sentir suonare G.E. [Smith], Chris Parker e Kenny Aaronson. G.E. ha un catalogo infinito di canzoni nella testa. La mia parte preferita dello spettacolo erano le quattro o cinque canzoni acustiche in cui c'erano solo Bob e G.E. Il più delle volte G.E. usava una 12 corde e Bob la sua Takamine. Sai, io che lavoro sull’audio apprezzo di più la qualità complessiva del suono piuttosto che i singoli elementi. E dalla qualità di quello che stavano suonando e dall’atmosfera che filtrava tra le note, potevi capire tutto.

Alla fine ho lasciato il lavoro nelle tournée perché mi stavo completamente perdendo i miei figli. Il vicino di casa ha insegnato loro come andare in bicicletta, cose di questo genere. È stato il prezzo da pagare per vivere in un tour bus. Tutti quelli con cui parli dicono: "Deve essere stato fantastico! Sei stato in giro per il mondo!" E in quel momento è come se tu rivedessi la porta del bus che si chiude e poi la porta del palco mentre entri. Se il catering o le docce ti sembrano familiari, capisci di essere già stato lì. A parte questo, è sempre lo stesso giorno.

Robert “Fuzzy” Frazer, impianto e microfoni:

Ray Padgett: Quando ti sei unito ai tour di Dylan?

Fuzzy Frazer: Ho iniziato con i Rush alla fine degli anni '70, con loro sono stato sei anni. Poi cambiarono compagnia e io fui assunto da Ultrasound. Poco dopo arrivò anche Dave [Robb] e lavorammo con i Grateful Dead. Sono stato con loro dall'83 al '97, più o meno. Se avessi dovuto mixare ancora Mickey Hart, mi sarei tagliato le vene. Persone davvero simpatiche, non fraintendermi, ma dovevi pagarmi per ascoltare quella musica. Dio mio, il Beam! [Ndt: il “Beam” è un complicato strumento a percussione formato da una trave di alluminio su cui sono posizionate corde di pianoforte; spesso usato per creare effetti nelle colonne sonore dei film di fantascienza, faceva parte della strumentazione di Mickey Hart.]

RP: Non li paragoneresti un po’ a Dylan? A suo modo, anche lui improvvisa. Non è certo i Rush.

FF: Sì. César Díaz, il suo tecnico delle chitarre, rideva del suo modo di suonare. Diceva che faceva la "scansione degli accordi", scorrendo le dita su e giù per il manico cercando di trovare un accordo.
Lui è Bob. Non c'è nessun altro come lui. Non suona mai la stessa canzone due volte nello stesso modo. In effetti, dovevo ascoltare il testo per capire che canzone fosse, perché magari era diventata un reggae o aveva un tempo nuovo. È stata una sfida.
Grande merito a G.E. Smith: era un vero maestro sul palco. Gestiva quella band. Conosceva 600 brani di Dylan. Ci ha impressionato ogni notte. Ho assolutamente il massimo rispetto per G.E.

RP: Qual era il tuo ruolo specifico negli spettacoli?

FF: Ero addetto all’attrezzatura, montavo l’impianto e aiutavo a sistemare i microfoni. Piccole cose del genere. A volte facevo i monitor, ma per quelli ero in basso nella scala gerarchica.

RP: Dici che ascoltavi per capire che canzone fosse. Ma cosa facevi durante gli show?

FF: Guardavo per assicurarmi che le cose andassero bene sul palco, che gli amplificatori fossero a posto, che non fosse caduto un microfono, che non ci fossero problemi. Bob era piuttosto criptico. Non ha mai comunicato veramente con Keith [Dircks]. Sarebbe stato difficile per me mixare Bob e sapere se andava bene e se era felice del risultato. Non parlava mai con nessuno. Uno dei ragazzi, Matthew, che anni dopo è diventato il suo addetto ai monitor, mi ha detto che ci sono voluti due anni prima che Bob gli dicesse qualcosa. Con nonchalance gli disse qualcosa tipo: "Bella giornata oggi, eh?" E bastò questo per stendere Matt: "Hey, Bob mi ha parlato oggi!"

RP: Quindi tu eri il tipo che corre sul palco se qualcosa va storto, per sistemare un cavo o cose del genere?

FF: Si, esattamente. Principalmente cose dell’impianto. Niente a che vedere con gli strumenti, per quello c’era Red. César [Díaz] fece un ottimo lavoro con le chitarre di Bob. Dal suo lavoro, capii perché era stato assunto.

RP: Divenne persino il chitarrista di Bob per un po' [Ndt: oltre settanta date, a cavallo tra il 1990 e il ‘91]. Non sono molti i tecnici della chitarra che diventano veri chitarristi sul palco.

FF: Si, esattamente. César era davvero talentuoso. Mi è dispiaciuto proprio quando è morto [nel 2002]. Era un personaggio divertente. A proposito, hai mai visto il video che Stephen Bickford girò in quel tour?

RP: Non mi dice niente.

FF: Stephen Bickford era il lightning designer e in quel periodo era uno dei migliori al mondo. Aveva un elenco enorme di clienti. Un vero, vero talento. Fu difficile fare le luci per Bob: voleva un palcoscenico buio, lo voleva notturno, non voleva luci nei suoi occhi. Una sfida per Bickford riuscire a fare un buon lavoro.
Bickford aveva con sé una videocamera di fascia alta e fece alcune riprese durante il tour, non materiale sul palco, ma la troupe e le persone nel backstage, i pasti e cose del genere. Una delle cose che filmò fu G.E. Smith che aveva scritto una poesia dedicata alla troupe e che lesse davanti alla videocamera. Fu una cosa davvero bella. Te lo giuro, Bickford era pieno di talento e una persona così semplice, onesta, schietta e buona. Raramente, quando sei in tour, porti qualcuno a incontrare la tua famiglia, ma lui era quel qualcuno che vorresti che la tua famiglia incontrasse.

Non ricordo interazioni avute con Bob. Mi sono tenuto a debita distanza. Alla gente piace la propria privacy e io non ero lì per essere il loro amico, o per fare il simpatico o chiacchierare con loro. Hanno già abbastanza persone che provano a stargli addosso ogni giorno.
Per un periodo ho lavorato con i Kiss. Loro avevano il sistema giusto: si truccavano [in scena] così poi potevano camminare per strada senza essere riconosciuti. Quando mi sono unito ai Rush facevano club e teatri, ma poi sono passati ad arene da 10.000 posti e il livello di interesse dei fan è diventato prepotente. Andavamo fuori a cena tutti assieme e non ne potevamo più: i fan ci assalivano anche al ristorante.

RP: Ti ricordi per quanto tempo sei stato con Dylan?

FF: Se non ricordo male, ho fatto i tour di Dylan con i Dead, con Tom Petty, e poi con G.E. Smith. Da allora ho visto tutte le incarnazioni della sua band. Al Santos è davvero gentile, si ricorda di me, mi invita agli spettacoli e facciamo sempre una bella chiacchierata. Personalmente penso che il periodo con G.E. [Smith] sia stato di gran lunga la cosa migliore, persino meglio dei tour con Petty. G.E. guidava davvero la band. Seguiva gli accordi di Bob, si girava e faceva un cenno ai ragazzi: quale canzone, in quale chiave.
Ho un poster appeso alla parete con le date del Radio City Music Hall, l'ho fatto firmare a tutta la band tranne Bob perché non volevo disturbarlo. Però, quasi al termine del periodo con lui, comprai un libro dei suoi testi e lo tenevo sempre con me. Un giorno, parlando con Suzie [l'addetta al guardaroba di Bob], le chiesi: "Che probabilità ci sono che riesca a farmelo firmare?" E lei: "Oh, non lo so. Dammelo e vediamo." Non avevo grandi speranze. Come ti ho detto, ero abbastanza in basso nella scala gerarchica. Ma che io sia dannato se non l'ha firmato! Ho quello firmato da lui, e quello che ho fatto firmare a Lou Reed quando ho mixato per Lou.

RP: In generale, com’è paragonabile un tour con Bob rispetto ad altri musicisti con cui hai lavorato?

FF: I Grateful Dead erano il top perché si prendevano davvero cura della loro squadra. Avevamo quattro chef che viaggiavano con noi, portandosi appresso tutta la loro cucina. Le chiamavamo le nostre ragazzotte cuciniere, anche se erano tutti ragazzi. Ogni mattina uscivano, prendevano prodotti freschi e cucinavano pasti speciali. C’era un menu diverso ogni giorno. Il cibo era buono, i soldi erano buoni, i bonus erano buoni,
Dylan appena sotto di loro. Dylan attira il meglio. Il suo contabile si fermava ogni volta a contare i posti in sala per confrontarli con i biglietti strappati. Perché diciamolo, i promotori ci marciano, vendono biglietti extra e posti in corridoio. Lui stava in cima al meglio. [ride]

RP: Cosa ricordi dei concerti di Dylan con i Grateful Dead, prima degli anni con G.E. Smith?

FF: Mi piaceva di più Bob con Tom Petty rispetto a Bob con i Dead. Anche se ho lavorato con loro per 15 anni, non ero un grande fan della loro musica. Ti sedevi dietro di loro, ascoltavi i due tipi alla batteria e non avresti mai detto che stavano suonando la stessa canzone. Billy [Kreutzmann] era un buon batterista, ma Mickey [Hart] era... Ha questa reputazione di "planet drum", il tamburo del pianeta, come se fosse un batterista di livello mondiale. Oh mio Dio, non potrebbe esserci niente di più lontano dalla verità. Se andavi alla console vedevi i fader di Billy tutti in alto nel mix e quelli di Mickey in basso. La gente non voleva sentirlo.

RP: Sì, anch’io sono un grande fan di Dylan con Petty, più che di Dylan con i Dead.

FF: Lo stesso per me. Talenti musicali molto migliori. Mi sarebbe piaciuto vedere la loro collaborazione andare avanti più a lungo, però poi forse non ci sarebbe stato G.E. [Smith]. G.E. e Kenny Aaronson al basso, che mostro! Il basso e la chitarra insieme erano proprio... Dio, erano proprio da godere. Molte volte si tratta di clienti, non devono per forza piacerti. È un lavoro e tu fai del tuo meglio. Ma se ti piace la musica, è un bonus in più!

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Andare in tour e registrare con Bob Dylan. Parla l’Heartbreaker Benmont Tench.

di Ray Padgett - (5 febbraio 2022)

Fonte: https://dylanlive.substack.com/p/the-heartbreakers-benmont-tench-talks

Traduzione di Silvano Cattaneo

Come ho già scritto altre volte, pochi tour di Bob Dylan amo tanto quanto il cosiddetto “True Confessions Tour” del 1986. Quella è stata la prima volta che Dylan si è fatto accompagnare da una band già famosa: Tom Petty & The Heartbreakers. Lo scorso autunno Richard Fernandez, tour manager di lunga data di Tom Petty, mi ha raccontato alcuni episodi dietro le quinte. Oggi, nell'anniversario del primo show di Dylan con gli Heartbreakers [Wellington, Nuova Zelanda, 5 febbraio 1986], sentiamo qualcuno che fu sul palco ogni notte: Benmont Tench, il leggendario tastierista degli Heartbreakers.
I due tour di Dylan con gli Heartbreakers non sono stati l'unica occasione in cui Benmont ha suonato con Bob. All'inizio degli anni '80 aveva già registrato per “Shot of Love” e “Empire Burlesque”, e decenni dopo è riapparso nel mondo di Bob: prima nel brano colonna sonora "Cross the Green Mountain" (2003) e poi in due tracce di “Rough and Rowdy Ways” (2020). Ovviamente abbiamo parlato anche di questo.

Ecco la mia chiacchierata con Benmont.

Ray Padgett: Vorrei parlare soprattutto dei tour con gli Heartbreakers, ma tu ti sei incrociato altre volte con Dylan. La prima volta furono le sessioni di “Shot of Love”? So che partecipasti con Mike [Campbell, chitarrista degli Heartbreakers].

Benmont Tench: Sì. C’era anche Mike, ma non finì sul disco. Registrarono con Mike una versione diversa di "Heart of Mine", ma alla fine non la usarono. Mike è su “Empire Burlesque”, un paio di dischi dopo.
Tutto iniziò perché mi chiamò Jimmy Iovine. Stava facendo delle prove con Bob per vedere se potevano lavorare insieme. Jimmy mi coinvolse perché non conosceva nessun altro di quelle sessioni e voleva il mio suono lì dentro.
Ma Lui e Bob non andavano d'accordo. A mia insaputa, Jimmy se ne andò nel mezzo delle sessioni e mi lasciò in quello studio dove non conoscevo nessuno, nemmeno Bob. Alla fine della giornata, Bob mi chiese: "Puoi tornare domani?" E io: "Non posso". C'era una riunione della band o qualcosa del genere, non potevo saltarla. Nemmeno per Bob.
Ma poi mi richiamò un paio di mesi dopo per registrare “Shot of Love”. Forse proprio perché gli avevo detto di no.
Quella fu la mia prima esperienza di lavoro con lui, e fu meravigliosa. Gli Heartbreakers come band hanno lavorato con lui quattro o cinque anni dopo. Ma nel frattempo la maggior parte di noi – credo tutti noi tranne Tom [Petty] – avevamo suonato su alcune tracce di “Empire Burlesque”. Quindi ci conosceva un pò prima che Elliot Roberts [manager sia di Dylan che degli Heartbreakers] ci proponesse di essere la sua band per un tour.

RP: Ho letto una voce secondo cui sei stato coinvolto nelle prove per il tour del 1984, ma non potesti farlo. È vero?

BT: Il tour da cui Glyn Johns ha tratto il disco “Real Live”?

RP: Quello. Con Mick Taylor, in Europa.

BT: Sì. Qualcuno mi chiamò e mi chiese: "Puoi venire a questo indirizzo a provare?" Risposi: "Non posso andare in tour, perché sto lavorando con Tom". E quello: "Vuole solo capire come suonerebbe con un tastierista".
Così andai. C’era Colin Allen dei Bluesbreakers di John Mayall alla batteria e al basso credo ci fosse Gregg Sutton. E loro, indicando il tipo alla chitarra, mi dissero: "Quello è Mick". Dissi: "Fantastico”.
Iniziammo la jam. [Bob] voleva improvvisare, provare alcune canzoni e altre cose. Dopo un pò mi resi conto che quel "Mick" era Mick Taylor. Appena iniziò a suonare dissi: "Hey, aspetta un minuto! Aspetta un minuto! Wow!" Ma sarebbe stato impossibile per me fare quel tour. Finirono per prendere Ian McLagan, una scelta molto brillante. Mac [Lagan] era uno dei miei eroi.

RP: Parliamo del Farm Aid, prima del tour. [La prima esibizione di Dylan accompagnato da Tom Petty & the Heartbreakers fu in occasione della prima edizione del Farm Aid, a Champaign, Illinois, il 22 settembre 1985.] Poco fa hai accennato che fu Elliott Roberts il vostro anello di collegamento. Come successe che gli Heartbreakers e Dylan si unissero?

BT: Ci sono un paio di cose che ho capito. Quando registrammo “Shot of Love”, l'assistente di Bob era Debbie Gold. Aveva un bel caratterino, ma era intelligente. Io e lei andavamo d’accordo. Poi arrivò Mike [Campbell], e questa fu un'idea di Chuck Plotkin [il produttore]. Debbie mi rivelò che disse a Bob: "Beh, se ti piacciono Benmont e Mike, dovresti provare a suonare anche con qualcuno degli altri Heartbreakers". Forse gli suggerì Howie [Epstein, bassista] e forse Stan [Lynch, batterista], così quando fu l’ora di “Empire Burlesque”, tutti noi quattro eravamo su brani di quel disco. Quindi lui ci conosceva già. Non so se andò esattamente così, ma questo è ciò che mi ha raccontato Debbie.
Comunque, per Farm Aid, Elliot [Roberts] ci rappresentava insieme a Tony Dimitriades. Penso sia stato Elliot che alla fine ha collegato tutti i punti. Tom [Petty] probabilmente aveva già incontrato Bob, ma non credo avesse registrato con lui. Non era su “Empire Burlesque” come noi altri. Quindi Elliot o qualcun altro gli avrà detto: "Perché non fai questa una tantum con Bob?"
La cosa mi rese davvero felice perché le esperienze in studio mi erano piaciute molto. Non solo era un autore e un interprete leggendario, ma era diventato un autore e un interprete leggendario perché è dannatamente bravo. In “Shot of Love” avevo avuto modo di suonare questa musica fantastica con il suo creatore. E la band… semplicemente assurda! Jim Keltner, Tim Drummond, Fred Tackett, Steve Ripley, Danny Kortchmar, le Queens of Rhythm ai cori… Hai parlato con Keltner, vero?

RP: Sì, un paio di mesi fa.

BT: Okay. Jim Keltner è uno dei miei migliori amici. Ci siamo visti proprio ieri. Due anni fa mi sono trasferito in una nuova casa, scoprendo che, in cinque minuti a piedi giù per la collina, arrivavo a casa di Jim. Durante tutta questa pandemia, la nostra clausura è stata con Jim, [sua moglie] Cynthia e la tata. Una clausura piuttosto buona.

RP: In un certo senso, Jim [Keltner] sembra un pò come te: una di quelle persone che Dylan si porta dietro negli anni. Magari passano decenni, ma poi te li ritrovi sul palco o in studio.

BT: Credo che lui e Jim abbiano una relazione più stretta della nostra. Poi Jim è una meraviglia. Molte delle persone più speciali sanno che Jim è davvero speciale. E Bob Dylan, oh sì, quello è unico! Il nostro lavoro è un pò prendere ciò che abbiamo imparato da Bob e dire agli altri: "Ehi, che ne dici di questo?"
Al Farm Aid suonammo forse cinque canzoni. Puoi trovarne brutte copie su YouTube. Pensavo fosse stato eccezionale, elettrizzante. E non per il nome di Bob Dylan, ma perché era stato grande rock and roll. Poco dopo ci dissero: "Ragazzi, volete fare un tour?" Naturalmente rispondemmo di sì, o forse fu Tom [Petty] a rispondere di sì perché sapeva che tutti noi l'avremmo fatto. È così che abbiamo iniziato un viaggio di due anni a suonare con Bob.

RP: Quindi, quando vi esibiste insieme al Farm Aid pensavate che sarebbe stata una tantum che finiva lì?

BT: Non ricordo, è probabile. Averlo fatto forse convinse Bob che eravamo adatti. Forse Bob si divertì davvero. Forse capì che eravamo veramente bravi. Forse l’ingaggio era a buon mercato. [Ride] Non lo so.
Finimmo per accompagnarlo per alcuni tour. Fece di noi una band molto migliore perché ci insegnò. Avevamo già un ottimo swing. Prestammo molta più attenzione ai dischi di Howlin' Wolf, Little Richard, Earl Palmer, a certi dischi country che suonavano davvero bene perché avevano delle ottime sezioni ritmiche. Bob è un uomo che ha contribuito a creare il vero swing del rock and roll. L'ha ereditato in qualche modo attraverso lo spirito, attraverso il vento, attraverso qualcosa nella sua linea di sangue, cercando semplicemente di essere il migliore. Ha ereditato lo swing di Charley Patton, Robert Johnson, Tom Johnson, Memphis Minnie, Howlin' Wolf, Elvis Presley, Buddy Holly, Earl Palmer, Little Richard. Lo conosceva. Lui era quello. Suonare con lui alla chitarra ritmica era come dire: "Bene, questo è ciò che abbiamo sempre cercato di fare". Eravamo lì, però non sapevamo che ci fosse un altro posto dove andare. Lui ci ha portato in quell' altro posto. Quella consapevolezza non mi ha più lasciato, perché ne ero assetato. Non sapevo dove fosse l'oasi nel deserto, ed eccola lì, acqua da bere. Acqua fresca e limpida, ciò di cui avevo bisogno per la mia anima.
Gli Heartbreakers sono sempre stati in grado di suonare a braccio. Se Tom [Petty] diceva suoniamo "I Fought the Law", noi la facevamo, non avevamo bisogno di provarla, l'avevamo sentita un milione di volte alla radio. Uscivamo e suonavamo. Penso che probabilmente a Bob sia piaciuto questo di noi. Non è stato molto difficile insegnarci una canzone – e a volte non ce l’insegnava nemmeno. Iniziava a suonarla.
Non importava se c'erano 20 o 60 o 70mila persone a guardare. In un certo senso, se conosci a fondo la canzone ma non l'hai mai suonata, sei nella condizione migliore per farla. Non avevo mai fatto una cover di "Desolation Row" con una band. Non l'avevo mai suonata in vita mia, ma l'avevo ascoltata un milione di volte. A un festival iniziò proprio a suonarne gli accordi. Nel giro di quattro battute, pensai: "Buon Dio, stiamo suonando ‘Desolation Row’!" Ed eravamo sul palco ed è stato bellissimo.
Una sera a Filadelfia disse: "Possiamo suonare "I Dreamed I Saw St. Augustine'?" Sono sicuro che non l'avessimo mai provata, al massimo potremmo averla accennata in camerino. Quella è una delle canzoni che mi hanno portato in profondità nella sua musica. Quando uscì “John Wesley Harding” sentii qualcuno che lo suonava dalla finestra di un dormitorio, andai direttamente al negozio e mi persi in quel disco. Così suonammo “I Dreamed I Saw St. Augustine”. Più avanti, stessa cosa con "Lonesome Death of Hattie Carroll" e con "Tomorrow Is a Long Time". Lui ed io stavamo camminando uno accanto all'altro mentre la band saliva sul palco. Per chiacchierare, gli chiesi: "Cosa vuoi fare come canzone lenta?" E lui: "Conosci "Tomorrow Is a Long Time’?” Risposi di sì e lui disse: "Facciamola, solo io e te e forse Mike". Quando arrivò il momento, iniziò a suonare "Tomorrow Is a Long Time" solo con me e Mike [Campbell, chitarrista]. Fu a Göteborg, in Svezia, c’erano 20.000 persone. Non l’avevamo mai suonata con lui prima, né tra di noi. Fu trascendente, fu trascendente.

RP: Qual era il ruolo di Tom [Petty]? Erano co-bandleader? Oppure Bob era il leader e Tom solo un altro membro della band di accompagnamento? Come funzionava la dinamica tra loro due?

BT: Beh, per me gli Heartbreakers non si sono mai sentiti solo un gruppo di accompagnamento. Con Tom abbiamo lavorato come una band in cui lui era il nostro chitarrista e cantante. [Dopo che i Mudcrutch, la sua prima band, si sciolsero] stava lavorando a un disco da solista con gente come Jim Keltner, Al Kooper e Jim Gordon. Leggende. Ma decise di lasciar perdere quel disco per tornare al formato band con il gruppo di Gainesville, cioè noi.
La mia opinione sul suo ruolo era che lui era ancora il leader degli Heartbreakers, ma era anche una specie di collegamento. Bob diceva: "Voglio suonare questa canzone", "Voglio usare questo finale", "Così è sbagliato, gli accordi sono questi". E noi ci rimettevamo a lui, ma non avremmo mai detto "Accidenti, è fantastico" se non avessimo pensato che lo era davvero. E lui non ci avrebbe mai detto "Accidenti, è fantastico" se non l’avesse realmente pensato. Poteva essere severo quando voleva, ma alla fine ce l'abbiamo fatta.
Non per fare confronti o discutere la qualità, ma The Band erano già Levon & the Hawks. Erano un gruppo quando Bob iniziò a suonare con loro. Fu la stessa cosa. Prendere una band già pronta, essenzialmente fratelli di sangue. È stato semplicemente meraviglioso. Avevamo tutti fatto qualcosa per “Empire Burlesque”, ma per essere davvero così ci voleva l'intera band, incluso Tom, tutti insieme, a suonare quelle canzoni. Amico, è stato stupendo!
Gli Heartbreakers hanno sempre avuto grandi canzoni perché avevamo Tom, ma mettici Bob e hai un altro livello. È stato bellissimo. Il ruolo di Tom era chitarra ritmica e armonie voci. Penso che fosse davvero felice. Felice di essere il ragazzo che suona la chitarra ritmica, quindi senza più bisogno di discutere ogni cosa. Tom non doveva contare su di noi, non doveva darci indicazioni. Guardavamo tutti Bob come falchi, come avevamo sempre guardato Tom, ed eravamo giusto in contatto con lui. È stato magnifico, sì magnifico.

RP: Cosa ricordi dei primi giorni del tour in Australia e Nuova Zelanda? Ricordi qualcosa dei primi due spettacoli?

BT: Credo che il primo concerto sia stato a un festival in Nuova Zelanda. Arrivammo lì circa una settimana prima per fare un pò di prove, acclimatarci al tempo, e ci fermammo a Wellington. In Nuova Zelanda, se ben ricordo, non andò bene. Almeno per noi sul palco. Molte cose erano un mezzo disastro. Situazioni tipo “Ah, non sapevo fosse in questa chiave...” Allora partivamo con la nuova chiave e Bob si rendeva conto che non voleva essere in quella chiave, quindi tornava alla chiave originale. Era piuttosto traballante. Non so cosa ne pensasse il pubblico.
Dopo un paio di date in Nuova Zelanda, volammo in Australia. Lì siamo stati davvero bene. Da quel momento in poi, penso che quel tour in Australia e Giappone sia stato in gran parte veramente buono. Era davvero uno spettacolo rock and roll, quindi ci furono momenti incerti, ma, buon Dio, chi vuole la perfezione? È molto più divertente volare senza rete, quando fai un errore e dici "Uh, come farò a tirarmi fuori da tutto questo?" Poi ne vieni fuori, atterri in piedi e potresti persino aver migliorato le cose.
Quando [l’esecuzione] veniva un pò grezza, non era una cosa tipo “così non va proprio bene”. Era grezza come il rock and roll dovrebbe essere. Non stonata, non sbagliata, ma viva, qualcosa che respira, cambia e vive.

RP: Una cosa che colpisce guardando i video e ascoltando le registrazioni è che sembra che tutti, incluso Bob, si stiano divertendo. Dylan, anche quando si diverte, di solito non sorride da orecchio a orecchio come sembrava fare quando suonava con voi.

BT: Mi sembra che ci stessimo tutti divertendo davvero. Io ero estasiato. Se vedi il film realizzato da Gillian Armstrong [“Hard to Handle”], ti rendi conto che non sto nella pelle. Ballo dietro l'organo, salto su e giù perché sono davvero elettrizzato.
Alla fine, non credo che Bob fosse molto felice. Non credo sia stata colpa nostra, ma penso solo che non fosse molto felice. In “Chronicles” puoi leggere la sua opinione su tutto questo. Ma l'inizio fu meraviglioso e per tutto il tempo ci furono parti semplicemente fantastiche. C'erano sempre concerti o parti di concerti eccezionali. Sempre.
In Australia, la prima notte effettuammo il check-in in hotel e chi stava facendo il check-in alla stessa ora? Lauren Bacall. Così più tardi scendemmo tutti al bar, o alla caffetteria, o qualunque cosa fosse. Lei era laggiù. Bob ci aveva fatto imparare alcuni standard. Diceva “Impariamo ‘Lucky Old Sun’, impariamo questo, impariamo quello…” Ci aveva fatto imparare un vecchio standard, "All My Tomorrows". Non capivo quel tipo di accordi, ma ci arrivammo. Lui ed io sedemmo al pianoforte e la suonammo per Lauren Bacall. E lui la cantò. Che bel momento! Lauren Bacall e Bob Dylan. Semplicemente bellissimo, un ricordo ancora vivo di quel tour. Accaddero cose del genere.
Sfortunatamente ero al culmine, o quasi, del mio uso di cocaina, quindi ero in uno stato mentale alterato. Ma penso di aver suonato bene. So che la band suonò bene e non credo fossi l'unica persona che assumeva cocaina in quel tour. Bob non l’ho mai visto fare nient'altro che bere un bicchierino di whisky e fumare una sigaretta. Io ero decisamente trasgressivo, non molto responsabile di me, ma non credo abbia influito sui concerti.
Fu una bellissima performance quella di Sydney ripresa nel film. Ma c'è molto, molto di più. Credo che Bob abbia messo mano al montaggio e sono sempre stato curioso di conoscere il montaggio originale della regista, e se Bob lo pubblicherà mai in qualche modo.
A quel punto non stava ancora decostruendo le canzoni, erano versioni molto simili ai dischi. Canzoni che avevamo ascoltato per tutta la vita e che ci piacevano com'erano. Diceva “questa canzone” e iniziavamo a suonarla, oppure lui iniziava a suonare e noi lo seguivamo. Conoscevamo i lick di apertura di "Just Like a Woman" e di tutte queste cose, quindi ci veniva naturale.
In seguito, ha trovato la sua strada nel cambiare le melodie o nel cambiare completamente la struttura degli accordi. Nel film “Masked and Anonymous” c’è una scena in cui stanno pensando di convincere Jack Frost, il personaggio interpretato da Bob, a partecipare a una sorta di Telethon e uno dei presidenti del board dice: "Jack Frost! Nessuno più è in grado di dire quale canzone stia cantando." Garantisco che quella battuta l’ha scritta Bob. Ma quello è venuto dopo.
Noi le suonammo nel modo in cui le sentivamo e nel modo in cui le avevamo sempre sentite. Ma non eravamo una cover band. Era tutto tranne che una cover band. Non era karaoke. Come ho detto, era qualcosa di vivo, era bello.

RP: Nel film [“Hard to Handle”] ti si vede suonare la parte d'organo di Al Kooper in "Like a Rolling Stone". Mi chiedo se sia stato eccitante eseguire una parte così iconica. Tu hai un sacco di canzoni iconiche con Tom Petty, ma hai contribuito a crearle; forse è diverso con una canzone che ti ha preceduto.

BT: È diverso, sì. È una canzone che sento da quando avevo 12 o 13 anni. Il nostro primo tour è stato come opening per Al Kooper. Al era stato a lungo un mio eroe.

RP: Veramente? Il primo tour degli Heartbreakers?

BT: Sì. Nel disco solista che Tom aveva abbandonato c’era Al Kooper. Al in realtà era il musicista leader delle sessioni. Conoscevo Al, perciò è stato doppiamente dolce interpretare la sua parte d'organo. Penso che mi si veda saltare felice in quel brano.

RP: Ti è piaciuto suonare i vecchi standard? Le canzoni rock 'n roll dei primi anni '50? Gli spettacoli si aprivano con "Justine" e ci sei tu all'organo che fai questo divertente riff. Ci sono un sacco di canzoni del genere nei set.

BT: "Justine"? Penso di essere al piano e che sia Bob all'organo. Aveva una tastiera DX7 con sound program. Uscivamo noi e trascinavano davanti al palco la tastiera che Bob suonava e facevamo "Justine". Non la conoscevo, come non conoscevo "Red Cadillac and a Black Moustache” e canzoni del genere. Non so se le trasmettevano alla radio di Gainesville e comunque al culmine del primo rock 'n roll io avevo tre o quattro anni. Non conoscevo quelle canzoni. Quale modo migliore per impararle se non da Bob?

RP: Hai qualche ricordo del periodo in cui siete stati in tour con i Grateful Dead nell'86? Penso che abbiate fatto solo alcuni spettacoli, Dylan con gli Heartbreakers e i Dead.

BT: Dividevamo il cartellone. A volte aprivamo noi, a volte loro. Suonammo negli stadi. Non era come uscire dai camerini, fare un paio di gradini ed essere ai lati del palco, perciò non era così facile uscire ad ascoltarli. Ero un grande fan dei Grateful Dead, quindi ero un pò in soggezione. Salutai e parlai con Bob Weir perché avevamo un amico in comune, ma non credo di aver parlato con nessun altro.
Quegli spettacoli erano troppo grandi per me. Troppo grandi per capirli o concentrarmi. Era tutto un pò strano.
C'è un filmato su di noi mentre suoniamo in uno di quei concerti, l’hanno inserito in una trasmissione del Farm Aid. Sembra che siamo in uno stadio vuoto o qualcosa del genere. Ma non era affatto vuoto. È solo il modo in cui è stato girato, sembra che stiamo suonando in un limbo.


Ray Padgett: Hai citato “Chronicles”. Una delle cose che Bob ha scritto lì è che tu gli chiedevi specificamente di fare canzoni meno conosciute. Mi sembra che dica che inventava deboli scuse per non farle, almeno all'inizio. Furono le tue insistenze ad accendergli la lampadina?

Benmont Tench: Beh, sono sempre fastidioso. Dicevo le stesse cose anche a Tom [Petty]: "C'è questa bellissima canzone nel secondo disco, è fantastica Tommy, facciamola". Di solito Tom non la faceva, perché voleva che le persone ascoltassero le canzoni per cui secondo lui erano venute al concerto. Con Bob probabilmente stavo diventando irritante, ma da quello che ha scritto in “Chronicles”, in retrospettiva avrà pensato che allora avessi ragione. Ciò non significa che non lui pensi anche che io sia stato irritante.
Suonava cose misconosciute, brani da “Saved” e qualcosa da “Shot of Love”. Poi nel suo set da solista tornava al passato con cose tipo "To Ramona" e grandi canzoni acustiche come "Masters of War" o, buon Dio!, "Gates of Eden". Fece interpretazioni mozzafiato di "Girl from the North Country".
Per quanto riguarda l'approfondimento del suo repertorio, non so se nel tour australiano lo abbia fatto, ma nel nostro ultimo tour, il tour europeo [del 1987], è stato quando ha detto facciamo "Tomorrow Is a Long Time", facciamo “Hattie Carroll”. Quel genere di cose.

RP: Certo, l'ultimo tour, quello dell'87. Mi sembra abbia scritto di essere stato un po' più aperto ai tuoi suggerimenti.

BT: Sai, cercavo di non stargli troppo addosso, credevo di non essere all’altezza della situazione, di non essere in grado di capire e apprezzare quello che succedeva attorno. Non che lo evitassi, ma nemmeno andavo continuamene a chiedergli: "Ehi Bob, come stai? Hai dormito bene?" Fondamentalmente lo consideravo come il tipo che guidava l'intera faccenda e le cui canzoni stavamo suonando.
Con me è sempre stato fantastico. Non ho conosciuto nessun lato di Bob che non fosse quello gentile, a meno che non fosse frustrato nel cercare di ottenere un certo suono che io non capivo. In studio capitava che mi cacciasse dal piano, lo suonava lui e mi diceva di tornare all'organo. Nessuno suona il piano come lui! Io di sicuro non riesco.

RP: Ora è diventato il suo strumento principale, specialmente dal vivo. Da vent’anni ormai.

BT: Ha iniziato come pianista.

RP: Vero.

BT: Una volta, in studio per “Empire Burlesque”, stavamo imparando "I'll Remember You". Me la stava mostrando al piano, ma non riuscivo a cogliere le parti cantate e il feeling di quello che stava facendo esattamente. Non è mai stato il mio forte. Alla fine dissi: "Bob, perché su questa non suoni tu il piano?" Per un minuto insistette: "No, puoi farcela", poi si rese conto che avrebbe dovuto suonarla lui. Dovrebbe sempre suonare il piano se la canzone la scrive al piano, perché è un pianista molto interessante.

RP: Un'altra domanda su “Chronicles”. Sono sicuro che ti ricordi la parte riguardante il concerto di Locarno del 1987: racconta che si avvicinò al microfono e le parole non gli uscivano, finché trovò un altro modo di cantare. Ne parla come di un momento cruciale, che lo fece uscire da un vicolo cieco. Fu qualcosa di evidente in quel momento?

BT: La prima volta che ne ho sentito parlare è stato quando lui lo ha scritto. Locarno, per me, non fu un'esperienza felice. Era all'aperto, piovigginava. C'era stata una specie di scaramuccia o di litigio tra la band. Cioè, non arrivammo alle mani, ma ci fu una sensazione di malessere tra noi prima che iniziassimo. Mi era pure venuta l'orticaria sulle mani. Fu un concerto infelice per me. Le circostanze, la pioggia, le mani che mi prudevano continuamente mentre cercavo di suonare il piano, il fatto che nel backstage c'era stato con la band quello screzio, o qualunque cosa fosse. Non sapevo che dire.
Fin dalle prove per quel tour europeo, [Dylan] non sembrava felice. Ad esempio, diceva: "Impareremo "Frankie Lee & Judas Priest". E io pensavo: "Fantastico!" Ma il modo in cui l’abbiamo imparata è stato con lui seduto a suonare la chitarra ritmica, senza cantarla. Suonò il giro di accordi, che è sempre lo stesso per tutto il brano, molto più a lungo di quanto duri la canzone.
Mi colpì che non fosse felice. Mi colpì che non sarebbe stato un buon tour. Chiesi persino al nostro manager: "Puoi farmi uscire?" Mi disse: "Non essere ridicolo, Ben. Si inizia tra un paio di giorni". A quel punto ero anche parecchio incasinato con droghe e alcol, e questo ha influenzato.
Quel tour sembrò iniziare alla grande. Come ho detto, ero io un disastro. Gli Heartbreakers avevano un impegno di pubbliche relazioni al Cairo per MTV Europe. Bob c'era, ma non suonò. Poi suonammo a Tel Aviv, a Gerusalemme, in Svizzera. Attraversammo l'Italia, dove gli Heartbreakers non avevano mai suonato e io non ero mai stato, e ci furono dei grandi concerti. Concerti davvero fantastici, ma non furono la maggioranza. In retrospettiva la ricordo così. Penso alla Svezia e rivedo lui che mi dice: "Suoniamo "Tomorrow Is a Long Time", "Lonesome Death of Hattie Carroll", solo tu, io e Mike".
In tour con noi c’era Roger McGuinn. Apriva gli spettacoli con un set da solista, poi entravamo noi Heartbreakers e ci univamo a lui per un paio di canzoni. McGuinn era fantastico, un ragazzo davvero meraviglioso con cui viaggiare. Avevamo iniziato la nostra carriera facendo da spalla per lui. Per Al Kooper e per Roger McGuinn. Loro furono i primi due artisti per cui abbiamo aperto, e rimangono entrambi nostri eroi. Ora, avevamo pure McGuinn in tour, e McGuinn ha fatto la storia con Bob, e noi avevamo un amore smisurato per McGuinn e i Byrds: quindi non posso guardare indietro e dire "Che tour orribile!”
In “Chronicles” [Dylan] ha scritto che non riusciva a capire, ma che alla fine del tour, a Locarno, ha decifrato il codice. Il che è meraviglioso. Ho letto commenti di persone che hanno visto alcuni di quei concerti e hanno pensato che fossimo terribili, e altri commenti di persone che invece hanno pensato che fossimo meravigliosi. Un po' come i commenti che si sentono da chi va ai concerti di Bob adesso. Io penso che lui stia suonando alla grande.

RP: Il clamoroso finale dell’intera vicenda fu a Wembley. Quattro sere con George Harrison, Ron Wood e ospiti vari. Si parlò di un seguito? Oppure si sapeva che quello era il gran finale?

BT: In quel momento non pensavo che fosse un gran finale. Non mi fu detto "Non lo faremo mai più". Ho sempre vissuto qualsiasi cosa giorno per giorno. Sarebbe come dire, "gli Heartbreakers torneranno in tour o si scioglieranno?” o “Bob ci chiamerà di nuovo per un tour?” Accidenti, lo spero, ma spero che sia un tour più felice.
Wembley è dove… non sto cercando di farne una questione personale, ma ti dico la mia prospettiva. In quel tour mi stavo drogando poco e bevevo poco. Prendevo i miei sonniferi solo di notte, anche se ne prendevo dose doppia, e penso di aver assunto un po’ di cocaina tre volte in tutto nel corso delle sette settimane. Poi negli ultimi tre spettacoli sono ricaduto nell'abuso di droghe. Ho ricominciato a bere dopo che avevo smesso per sette settimane, e ho bevuto molto, tanto da avere un collasso nervoso a Londra. Quando arrivò quell'uragano che sradicò un albero gigante vicino all'hotel in cui ci trovavamo, e i Wilburys si stavano formando e stavano succedendo tutte quelle cose, io avevo un collasso nervoso.
Furono comunque bei concerti. Voglio dire, non stavo collassando sul palco. Arrivarono George Harrison e Jeff Lynne. George aveva parlato di qualcosa, pensavo avesse detto che voleva formare una band chiamata The Trembling Wheelbarrows [Le Carriole Traballanti]. Invece aveva detto Traveling Wilburys. Era un'idea che aveva in testa, non credo l'avesse lanciata prima. C'è una fotografia con una torta, penso fosse il compleanno di Tom [Petty]: Tom, Bob, Jeff, George, McGuinn, Campbell ed io. Folle, vero?

RP: Sì, quattro su cinque dei futuri Wilburys già lì insieme.

BT: In definitiva, mi sono piaciuti quegli spettacoli. Appena sceso dal palco, ero un relitto. Tornai a casa, toccai il fondo e mi ripulii.
Avrei voluto continuare a lavorare con Bob. Dopo che si erano conclusi i tour con i Dead e gli Heartbreakers, Elliot Roberts mi chiamò e mi chiese di fare un nuovo tour con lui. Ero appena tornato sobrio. Ero sobrio da 90 giorni e non mi fidavo di me stesso, non abbastanza per andare in tour e stare da solo in una stanza d'albergo. E così rinunciai.

RP: Quel tour sarebbe stato il primo Never Ending Tour, del 1988 e '89?

BT: Esattamente. Avrei dovuto suonare con lui in quei tour. Bob Dylan ha un dono straordinario per la narrazione, per la scrittura di canzoni, per non fermarsi mai artisticamente. Non ripete lo stesso suono, non ripete lo stesso stile. Se ascolti con attenzione l'ultimo disco, Bob è la “cosa vera”. È la “cosa vera” in assoluto. "Goodbye Jimmy Reed" è a tutti gli effetti Jimmy Reed! Per non parlare di "Murder Most Foul" o "Key West" o "Crossing the Rubicon".

RP: Hai suonato su "Goodbye Jimmy Reed"? Non saprei dire se c’è un organo su quel brano.

BT: No, non su "Jimmy Reed". Ho suonato in "Key West (Philosopher Pirate)" e "Murder Most Foul", l'organo su entrambi i brani.

RP: Sono anche canzoni molto lunghe.

BT: Sì, due bellissime canzoni. È stato meraviglioso vedere Bob. Meraviglioso vedere i ragazzi della band. Li conoscevo tutti. Non c’era più George Receli alla batteria, ma conoscevo anche Matt Chamberlain. Conosco Charlie Sexton da anni, Tony Garnier, Bob [Britt] e tutti gli altri da molto tempo. Anche Blake Mills stava lavorando con lui, e Blake è davvero un mio caro amico, un musicista brillante.
Quando sono arrivato per la prima volta, mi sono seduto fuori dalla sala di controllo e ho mangiato un boccone perché stavano registrando e lì dentro non volevano nessuno che non stesse lavorando. Quando sono entrato mi hanno fatto ascoltare alcune cose registrate, potrebbe essere stata "Crossing the Rubicon". Mi sembra che Bob abbia detto: "Fate sentire a Benmont quell'altra canzone. Non fategliela sentire tutta perché è davvero lunga". Era "Murder Most Foul". È stato stupendo, davvero stupendo, e me l’hanno fatta ascoltare per intero.
Quel giorno ho suonato su "Key West" e basta. Cercavo una sorta di effetto ambiente, ma non avevo la mia attrezzatura. Così ho chiesto a Chris [Shaw], l'ingegnere del suono, di provare a simularlo. Pensi che sia il riverbero dell’ambiente, ma in realtà è l'Hammond.
Poche settimane o un mese dopo, ho ricevuto un'altra chiamata per tornare là. Io avevo ascoltato una versione da urlo di "Murder Most Foul"; successivamente avevano inserito Fiona Apple al piano. [Dylan] voleva ora che Alan Pasqua aggiungesse qualcos’altro al piano e io suonassi l’organo.
Quindi tornai là a fare quella canzone: non una sovraincisione di tastiere, ma Bob, io, Blake [Mills] e Alan [Pasqua]. In qualche modo abbiamo suonato sul take precedente della canzone. Fu una specie di alchimia. Suonavamo e osservavamo come falchi Bob per sapere come muoverci.

RP: Intendi dire che la registrazione precedente stava suonando assieme a voi? Oppure eravate solo tu, Alan, Blake e Bob?

BT: No, non abbiamo fatto un semplice take di solo noi tre e Bob. Era un’alchimia, perché stavamo suonando insieme a qualcos’altro. Blake non avrebbe potuto emettere tutto quel suono sull'armonium. E quello che sta sul risultato finale sono la band di Bob, Fiona e noi. Fu stupendo. Che bella cosa lavorare di nuovo con lui, essere così rilassato e avere la possibilità di dire dopo tanto tempo: "Okay, farò del mio meglio su una canzone per Bob".
Puoi leggere della vita di Bob o prestare attenzione a ciò che dice, e impari comunque qualcosa. Ma quando suoni musica con qualcuno di quel calibro, impari qualcosa di completamente diverso. Qualcosa che può essere trasmesso solo da quella persona. E quelli di noi che hanno avuto l'opportunità di suonare con lui, possono trasmettere ciò che si sono portati via, anche se è solo una piccola parte di quella esperienza. Che possa vivere a lungo, perché lui è qualcosa di diverso.

RP: Una domanda prima di lasciarti andare. Anche tu eri nella canzone "Cross the Green Mountain"?

BT: Sì, ero in quella sessione, certamente. 2002 o 2004 o giù di lì. Non la sento da così tanto tempo. Dove l’hai trovata? Nella colonna sonora? Su YouTube?

RP: Era nella colonna sonora del film “Gods and Generals”. Non l'ha mai pubblicata su un album.

BT: Quello fu uno di momenti dove è stato fondamentale che ce la spiegasse al piano. Iniziai a suonare, poi penso di aver detto: "Perché non suoni tu il piano?" ci volle un po’ di tempo per arrivarci, ma ci arrivammo. Ho bisogno di ascoltarla di nuovo perché ricordo che allora pensai che fosse una gran canzone. Bob sa molto di quella guerra [la Guerra civile americana]. Sa molto di molto.
Ricordo che durante le prove per il “Temple in Flames Tour” dell'87, quella volta che ripetette all’infinito gli accordi di "Frankie Lee and Judas Priest", suonò anche una cosa molto bella, da solo in un angolo. Mi chiesi: "E questa cos’è?" Era come una delle “Child Ballads” o qualcosa del 18° o 19° secolo.
Possiedo l'”Anthology of American Music”, o come diavolo si intitola, di Harry Smith. Ma quello che stava suonando, lì non c’è. Tutti quelli della sua generazione e della sua stessa scena avevano quel disco e impararono le canzoni da lì, ma lui non le ha fatte così. È andato da qualche altra parte. Nei suoi due dischi “Good As I Been to You” e “World Gone Wrong” ci sono canzoni che arrivano da quella raccolta, ma non sono nel modo in cui le fa Bob. Lui le davvero ha portate da qualche altra parte. Quel ragazzo, oh mio Dio! So che sto divagando, ma potrei divagare all’infinito su di lui.

RP: Quasi mi uccide il pensiero che non abbiano pubblicato un vero e proprio disco dal vivo, specialmente di quel tour dell'86. Ha pubblicato un album dal tour dell'84 e poi uno dal tour con i Grateful Dead che non piace a nessuno. Probabilmente sono solo logiche di mercato, ma è un peccato che non ci sia un disco ufficiale.

BT: È stato registrato, per il film “Hard to Handle”. Ed è stato davvero ben registrato. Furono buone esecuzioni, come puoi vedere dal film. Non lo so, forse non l'ha mai pubblicato perché gli arrangiamenti suonavano troppo familiari. Forse pensa: "Non voglio suonare come uno show nostalgico. Non voglio suonare come se stessi facendo una cover della mia stessa canzone". Noi non eravamo pedissequi, ma se suono "Like a Rolling Stone", suonerò sempre quel riff di organo! Non so perché non sia mai uscito, ma forse un giorno lo pubblicherà.
Ho passato gran bei momenti, ho imparato molto. Bob ha suonato con tante persone e suppongo che per tutti loro abbia avuto lo stesso significato che ha avuto per noi. È stata una gioia. È stata una gioia anche per “Rough & Rowdy Ways”. Ogni volta che sei con lui, succede qualcosa.

Grazie a Benmont per il tempo dedicato a questa chiacchierata! Qualche anno fa è uscito suo primo album da solista, “You Should Be So Lucky”, e contiene una cover di "Duquesne Whistle" di Dylan.

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Un’intervista con Colin Allen, batterista di Bob Dylan nel 1984

di Ray Padgett
(8 luglio 2020)

Fonte: https://dylanlive.substack.com/p/an-interview-with-bob-dylans-1984

Traduzione di Silvano Cattaneo

Oggi [8 luglio 2020] ricorre il 36° anniversario del concerto conclusivo del tour 1984 di Bob Dylan. Non posso quindi fare a meno di pubblicare questa intervista con Colin Allen, batterista di quel tour.
Prima di Bob, Colin Allen aveva avuto una brillante carriera come batterista blues suonando con John Mayall e i suoi Bluesbreakers, Focus e Andy Summers prima dei Police. Oltre al lavoro con le sue band, ha scritto canzoni per i Wings di Paul McCartney, Fleetwood Mac e altri. Ha lavorato molto con Mick Taylor, sia prima che dopo il periodo di Mick con i Rolling Stones.
Un paio di anni fa ha pubblicato il suo libro di memorie, “From Bournemouth to Beverly Hills: Tales of a Tub-Thumper”. C’è anche una bella ed esauriente biografia sul sito Bournemouth Beat Boom.
Ecco la mia conversazione con Colin Allen, condotta via e-mail il mese scorso.

(La band 1984. Da sinistra: Bob Dylan, Colin Allen, Greg Sutton, Ian McLagan, Mick Taylor.)
 

Ray Padgett: Come entrasti nella band di Dylan? Fu Mick Taylor il collegamento?

Colin Allen: Sì, esattamente. In genere nel mondo della musica conta chi conosci, non quello che conosci, purché tu sia considerato sufficientemente bravo da reggere un concerto. Da quando suonammo insieme con John Mayall nel '68/'69, Mick e io non ci siamo mai persi di vista e di tanto in tanto mi sono trovato coinvolto in vari progetti con lui.
Nell'82 vivevo a Los Angeles, il che mi aveva portato quell'anno e l’anno dopo a suonare di nuovo con Mick e John Mayall in una reunion dei Bluesbreakers [*nota 1]. Quando programmarono il tour europeo di Dylan, io ero a Los Angeles e ancora fresco nella memoria di Mick: così lui mi chiamò per dirmi che Bob stava selezionando i batteristi e se mi interessava provare. Mi presentai e ottenni il lavoro, soprattutto, penso, perché avevo Mick dalla mia parte.

RP: Eri un fan di Bob? Quando proponeva brani relativamente oscuri come "When You Gonna Wake Up", li conoscevi?

CA: Fan è una parola un pò forte, non sono mai stato un fan della musica legata alla scena folk americana, fatta eccezione per Joni Mitchell e Tim Hardin. Ma naturalmente conoscevo Bob. Non puoi sfuggire alle sue canzoni. Era sempre alla radio e sui giornali per un motivo o per un altro. Il tour doveva promuovere l'album “Infidels” e fortunatamente il mio coinquilino ne aveva una copia, quindi l'avevo ascoltato. Ovviamente conoscevo anche i suoi pezzi più famosi e quello che non conoscevo poteva essere imparato velocemente, le sue canzoni non sono molto complicate. Per aiutarci, diede a ogni membro della band quattro cassette piene di suoi brani.

RP: Poco prima, Bob si era esibito al Dave Letterman Show accompagnato da un trio punk di Los Angeles, The Plugz. [*nota 2] Immagino che alcune persone si chiedessero se sarebbe andato in tournée con loro. Conoscevi quella performance? Se ne parlò?

CA: Sì, sapevo di quella cosa al Letterman e dopo la vidi. Solo Bob sa cosa c’entrasse.
Non se ne parlò, anche se al mio primo giorno di prove con Bob c’era Tony Marsico a suonare il basso. Non ci scambiammo una parola - immagino che volesse alla batteria il suo compagno dei Plugz, Charlie Quintana [*nota 3]. In precedenza [Marsico] aveva provato con il mio amico Ian Wallace, che era già stato in tournée con Bob [nel tour mondiale 1978]. Il mio secondo giorno a casa di Bob, [il bassista] Greg Sutton era lì e ci siamo subito piaciuti. Come me, aveva familiarità con l'album “Infidels”, quindi tutte le canzoni che suonammo di quell'album erano in qualche modo come il disco. E questa potrebbe essere stata la ragione per cui dissero a entrambi che il tour era nostro.

RP: Quando hai saputo che il lavoro era tuo? Te lo disse Bob?

CA: Lo scoprii il secondo giorno, quando incontrai Greg [Sutton]. Ad un certo punto Mick [Taylor] scomparve in un'altra stanza con Bob. Quando tornarono, Mick si avvicinò a me, si chinò e mi sussurrò: "Hai il lavoro". Questo è tutto. Anche a Greg fu detto lo stesso giorno, da chi non ho idea.

RP: Puoi dirmi di più su come andarono le audizioni? Sto cercando di immaginare com'erano, chi c'era, dove, quanto tempo c’è voluto, eccetera.

CA: Per incontrare Bob, come prima cosa guidai lungo l'autostrada costiera del Pacifico, direzione nord, fino alla sua polverosa abitazione simile a un ranch, a Point Dume, circa due miglia e mezzo dopo Malibu. Immagino mi ci volle un'ora dal mio appartamento. Mick Taylor mi salutò appena scesi dalla macchina e mi portò in casa. Salutai e strinsi la mano a Bob, e iniziai a sistemare la mia batteria con il resto dell'attrezzatura nell'area della cucina. A Bob non fu detto molto di più. Salutai il bassista e questo è tutto. Per lo più scambiai commenti con Mick che non vedevo da un pò.
Tra una canzone e l’altra penso di aver trascorso circa quattro ore in compagnia del grande uomo. Non ricordo che ci fossero altri lì, anche se in casa poteva esserci qualcuno. Alla fine mi chiesero di presentarmi il giorno dopo. Dissi ok e me ne andai.
Le prove a casa di Bob continuarono per altri tre giorni, principalmente per trovare un tastierista. Vennero Benmont Tench e Nicky Hopkins, ma per motivi personali non poterono accettare. Alla fine arrivò Ian McLagan e fu perfetto - un altro vecchio amico nella band!
Una volta entrato Ian, la fase successiva delle prove si spostò al Beverly Hills Theatre. Era sempre la stessa procedura: Bob iniziava le canzoni strimpellando e noi lo seguivamo. A volte poteva essere una canzone dei Rolling Stones, giusto per divertirci. Una volta iniziò a cantare "Karma Chameleon" di Boy George.
Fondamentalmente, direi che Bob stesse facendo un elenco mentale di tutte le canzoni che portavano un soddisfacente livello di buone sensazioni, senza alcun approccio del tipo "Tu suona questa e io suonerò quella" - non c'è mai stato niente di tutto ciò. Alla fine immagino che pensasse di avere una scaletta.
A parte un paio di brani abbandonati all'inizio del tour, le cose rimasero più o meno le stesse, anche se c'era sempre la possibilità che lui volesse suonare qualcosa che aveva in testa. Verso la fine del tour suonammo un paio di volte "Knocking on Heaven's Door", e non l’avevamo mai provata. "Señor" è stata un'altra canzone che entrò in setlist verso la fine. Suonammo anche “Lay Lady Lay", una sola volta in Spagna, proprio davanti a migliaia di persone. Durante i bis, poi, poteva succedere di tutto e spesso accadeva.

RP: Come approcciavi le parti di batteria? In molti casi gli arrangiamenti erano assai diversi dalle registrazioni in studio.

CA: Non ho dato molti pensieri alle parti di batteria, a meno che non fossero cose particolari. Per lo più ascoltavo quello che veniva suonato e mi univo - se suonava bene, allora quella era la parte di batteria, tranne ravvivarla un pò man mano che mi abituavo alla canzone. C'erano alcuni brani in cui io battevo il tempo, ma per il resto iniziava Bob con la sua chitarra. La band si sarebbe poi unita suonando i lick introduttivi dei rispettivi strumenti, se previsti.
Anche se stavo battendo il tempo sul charleston, aspettavo sempre il primo verso della canzone, così che il mio controtempo sul rullante fosse nel posto giusto in relazione alla melodia. Artisti come Bob, che hanno suonato per molto tempo da soli, a volte possono ritardare l’entrata e iniziare a cantare senza pensare a dove si trovano nella battuta; il che significa che il povero vecchio batterista deve arrangiarsi e provare un ritmo diverso. Ma ero determinato a non farlo succedere, e così è stato.

RP: Bob ti sembrava a suo agio? Erano anni che non faceva un tour con una band così piccola.

CA: Nessuno di noi ebbe mai un atteggiamento che non fosse totalmente positivo.
Persino all’inizio, quando succedeva di tutto, con i giornalisti che dicevano quanto fossero pessimi gli spettacoli, eccetera eccetera. Quegli scribacchini non avevano idea che stavamo facendo aggiustamenti sul palco mentre ci esibivamo, rischiando, in tempo reale. Dopo circa una settimana le cose andarono a posto, come previsto. Cosa pensasse Bob è impossibile saperlo; con lui era qualcosa tipo "andiamo, ci vediamo alla fine".

RP: Com'erano le cose nel backstage e negli spostamenti? Stavate assieme o ognuno si faceva le proprie cose?

CA: Il backstage era divertente: molte risate, specialmente con il progredire del tour. Fu fantastico avere Santana in quel tour. Lui e la sua band erano tipi fantastici. Bello anche avere un nostro aereo, un vecchio Vickers Viscount, così che viaggiammo tutti insieme, incluso il promotor Bill Graham. Anche i figli di Bob, Jesse e Jakob, viaggiarono con noi, oltre al cugino di Bob, Stan Golden, il “dentista delle star” di Los Angeles, che fungeva da compagno di viaggio del pezzo grosso. In tour portarono anche un tavolo da ping-pong e siccome da adolescente avevo giocato ad alti livelli, giocavo spesso un pò con tutti, incluso Bill Graham e il giovane Jesse Dylan.

RP: Ogni sera Greg Sutton cantava un brano, in genere "I’ve Got to Use My Imagination". Come mai? Bob aveva bisogno di una pausa?

CA: La cantò in quasi tutti gli show. Uno degli autori era Barry Goldberg, che credo fosse un amico di Greg [*nota 4]. Sono sicuro che Bob fosse felice di prendersi una pausa. Come sia successo, non ne ho idea. Greg era davvero un bravo cantante e ha scritto grandi canzoni. È uno degli autori di “Stop”, il successo di Sam Brown. Joe Cocker ha anche registrato suoi brani.

RP: Hai interagito molto con Carlos Santana?

CA: No. Bob lo invitò a unirsi a noi per i bis e lui lo fece. A parte questo, chiacchierammo di tanto in tanto, in aereo o nel backstage, era molto amichevole. In una data in Francia, i suoi tre percussionisti si unirono alla nostra band per "All Along the Watchtower". Gran divertimento!

RP: Nel suo libro di memorie, Joan Baez ha scritto che fu frustrata da quel tour al punto che se ne andò presto. A quanto pare le era stato detto che si sarebbe esibita un sacco con Bob, ma non successe. Hai avuto molti contatti con lei mentre era lì?

CA: Nessuna interazione con Miss Baez, a parte uno strano saluto. Per quanto riguarda la sua partecipazione al tour, questa è una novità per me. Il suo nome non fu mai menzionato fino alla sua prima apparizione, credo in Germania. Si è esibita forse in quattro date. Non ricordo che abbia cantato qualcosa da sola. Di sicuro non provammo niente con lei. Arrivò sul palco, fece una specie di duo improvvisato con Bob, eseguì una sorta di danza libera mentre venivano suonati gli assoli e basta. Tutto un pò superfluo in realtà, ma dico così anche perché non sono mai stato un suo fan.

RP: C'è qualcosa in particolare che ricordi degli ultimi due spettacoli, allo stadio di Wembley e allo Slane Castle in Irlanda?

CA: Beh, certo, Wembley fu il colpo grosso. Eric Clapton, Mick Taylor e Carlos Santana insieme sul palco, oltre a Van Morrison e Chrissie Hynde. Mi sembra che nel backstage ci fosse anche Mark Knopfler. Parlai brevemente con l'ex batterista dei Traffic, Jim Capaldi. Anche il party-boy del tennis Vitas Gerulaitis si fece vedere. Pete Townsend era seduto accanto a mio cognato nel palco reale. Disse che gli sembrava suonassimo come gli Stones, il che non era sorprendente, considerando che nella band c’erano due ex Stones [Mick Taylor e Ian McLagan]. La mia cara vecchia mamma nel backstage diede un bacio a sorpresa sulla guancia a Mick Jagger: si è ripreso bene.
Subito dopo lo show partì il volo per Dublino. Allo Slane Castle, il concerto finale, fummo nuovamente raggiunti da Van the Man e anche da Bono, che a quanto pare in quel periodo viveva nel castello.

RP: Aspetta un attimo, com’è successo che tua madre ha baciato Mick Jagger?

CA: Come puoi vedere dalle foto assomigliavo molto a Mick, a parte le labbra. Nel backstage dello spettacolo di Wembley, trovandomi molto vicino a Mick, decisi di dirgli che ero seccato per non aver ricevuto il pagamento di una sessione fatta per l'etichetta degli Stones. All'epoca, molti anni prima, Mick stava producendo brani per un album di John Phillips, l'ex cantante dei Mamas & Papas. Mentre parlavo con Jagger, apparve improvvisamente mia madre e dopo aver esclamato "C'è il sosia di mio figlio!", afferrò Mick e gli piantò un grosso bacio sulla guancia.

RP: Pensi che l'album “Real Live” abbia reso giustizia al tour?

CA: Non proprio. Alcune tracce andavano bene, ma c'erano altre canzoni che mi è sempre piaciuto suonare. "Simple Twist of Fate", ad esempio: mi sembra di ricordare che avessimo un bel ritmo su quella. Anche "Every Grain of Sand" di solito era molto buona. Nei bis suonavamo "Leopard Skin Pill Box Hat" che era uno shuffle e avrebbe potuto essere una bella aggiunta. Furono registrati solo gli ultimi concerti, forse le takes migliori sono quelle scelte. Immagino che Bob abbia deciso cosa dovesse andare sull’album. Chissà. Ora non importa tanto, sono passati quasi 40 anni e comunque non sono stato pagato un centesimo per la registrazione. C'era una clausola nel contratto che stabiliva che qualsiasi registrazione dal vivo non avrebbe significato alcun compenso extra.

RP: Quando finì il tour, si parlò mai di un seguito? O si sapeva che finiva così?

CA: Nessun discorso, niente di niente. Non avevamo idea di cosa ci riservasse il futuro. Una settimana dopo la fine del tour seppi che Bob era in studio a provare con altri musicisti. Ad ogni modo è stato divertente viaggiare in giro per l'Europa con un gruppo così grande di persone. E non è da tutti aver suonato con una leggenda vivente, vero?

*Note:

[1] Quell’edizione dei Bluesbreakers venne in tour anche in Italia, alla fine del 1982. Con John Mayall, oltre a Mick Taylor e a Colin Allen, c’era Stephen Thompson al basso.

[2] Mi sia concessa una parentesi personale: nel luglio 1981 vidi i Plugz in concerto al CBGB’s di New York e non immaginavo proprio che un giorno avrebbero condiviso il palco con Bob Dylan.
Segnalo inoltre un album apparentemente bizzarro, ma molto interessante di Daniel Romano che ha rifatto integralmente “Infidels” come se Dylan si fosse fatto accompagnare dai Plugz anche in sala di incisione. L’album è uscito nel 2020, si chiama “Daniel Romano’s Outfit Do (What Could Have Been) Infidels by Bob Dylan & the Plugz”. Vale l’ascolto!

[3] Charlie Quintana entrò poi nella band di Dylan nel 1992, affiancandosi a Ian Wallace come secondo batterista per 44 concerti.

[4] Scritta da Gerry Goffin e Barry Goldberg, “I’ve Got to Use My Imagination” è stato un singolo di grande successo di Gladys Knight & the & the Pips nel 1973
 

Christopher Parker e l’inizio del Never Ending Tour di Dylan. “Sono solo un fottuto poeta.”

di Ray Padgett (26 settembre 2021)

Fonte: https://dylanlive.substack.com/p/drummer-christopher-parker-on-the

Traduzione di Silvano Cattaneo

Christopher Parker è stato il primo batterista del Never Ending Tour di Bob Dylan. Per tre anni, a partire dal 1988, si è diviso tra il Tour e il suo lavoro nella house band del Saturday Night Live, insieme al chitarrista di Dylan G.E. Smith. Parker è stato seduto a pochi passi da Dylan per tutto il periodo formativo del Never Ending Tour, suonando centinaia di concerti prima di lasciare alla fine del 1990.
L'ho chiamato di recente per parlare di come è stato coinvolto, della sua relazione con Dylan, dei fan ossessivi, delle canzoni che hanno provato ma che non hanno mai suonato, degli scherzi a Bob e molto altro ancora.

Ray Padgett: Puoi spiegarmi come sei entrato nella band di Dylan? So che negli anni precedenti eri al Saturday Night Live con G.E. Smith. Fu lui il tramite?

Christopher Parker: Sì. Come sai, G.E. [Smith] era il leader della band e mi disse: "Ti interesserebbe questa cosa?" A quel tempo, il bassista del Saturday Night Live era T-Bone Wolk. Così noi tre andammo al Montana Rehearsal Studio, che oggi non esiste più, e iniziammo a suonare con Bob. Credo che in un paio di giorni suonammo un centinaio brani, un sacco di roba fantastica. Non solo materiale di Bob, anche brani di altri autori. Fu davvero divertente, e lui sembrò apprezzarlo.

RP: Come hai conosciuto G.E. Smith?

CP: Lo incontrai al Saturday Night Live quando mi chiamarono per essere nella house band. Era l'86, mi sembra. Il batterista era Steve Ferrone, ma stava partendo in tour con i Duran Duran, quindi c'era una possibilità. In quello show avevo già fatto il batterista per artisti ospiti – Quincy Jones, Leo Sayer, Boz Scaggs, Linda Ronstadt e Aaron Neville, Elvis Costello, Paul Simon – e altre cose con Joe Cocker e Belushi, ma si era trattato solo di suonare come ospite, non ero mai stato nella house band.

RP: Stavo guardando la tua discografia e sei davvero su tanti album, anche prima del Saturday Night Live e di Bob. Eri soprattutto un turnista o andavi pure in tour?

CP: Sono stato parecchio in tournée con artisti diversi. Ho iniziato con Paul Butterfield, poi per un po’ sono andato con Bonnie Raitt. Ho fatto un tour con Ashford & Simpson quando stavo lavorando ai loro dischi. Facevo parte di una band chiamata Stuff e per un po' finimmo per fare da spalla a Joe Cocker nei suoi tour.

RP: Tornando a Bob: ricevi la chiamata e vai in sala prove. A quel punto, eri un fan o conoscevi solo quei brani che tutti conoscono?

CP: Per essere onesti, non ero un fan, ma c'era stato un interessante intreccio di vite. Nel 1970 feci il provino per una band a Woodstock. Risposi a un annuncio su Rolling Stone, "Cercasi batterista". La banda si chiamava Holy Moses.
Mi presero e iniziai a lavorare lassù. Incontrai una ragazza che poi è diventata mia moglie. Sua madre era una grande fan di Dylan e finì per comprare la casa di Bob, su a Byrdcliffe. La prima volta che accompagnai a casa questa ragazza, fu proprio nella [vecchia] casa di Bob a Byrdcliffe. Lui non era più lì, ma la sua atmosfera era sicuramente rimasta.
La gente a Woodstock parlava sempre di Bob. "Beh, l'ho visto... potrebbe essere nei paraggi... doveva venire qui... dovrebbe..." Tutti lo citavano sempre in qualche contesto, anche se a quel tempo non credo vivesse lì.
Frequentando questa ragazza, questa donna che poi è diventata mia moglie, cominciai a esplorare la proprietà, a esplorare le stanze ed è stato sorprendente. Fu allora che iniziai ad ascoltare i suoi dischi. Mi piacquero molto Nashville Skyline e John Wesley Harding. Non ero completamente consapevole della poesia, non ero ancora un fan. Ma dopo averlo incontrato e aver provato con lui, aver ascoltato la sua voce e la sua poesia, divenni un fan istantaneo.

RP: Come fu quel primo incontro? Ti presentasti allo studio e cosa successe dopo?

CP: Ci presentammo. Poche parole e cominciammo a suonare. G.E. [Smith] e T-Bone [Wolk] conoscevano molte delle canzoni, io no. Le citavano, sembravano conoscere qualunque cosa lui volesse suonare. Io mi sono semplicemente buttato, come ti ha detto anche Colin Allen [batterista di Dylan nel tour europeo del 1984] nell’intervista che gli hai fatto. Lui inizia a suonare qualcosa e tu ti butti. Non c'è mai stato nessun "Uno-due-tre-quattro, e questo è il tempo, e questo è il tipo di feeling che voglio". Non mi ha mai detto "Va bene" o "Non farlo", ma mi guardava come per dire “Non saresti qui se non apprezzassi quello che stai facendo, quindi continua a farlo”. A un certo punto ebbi il coraggio di chiedergli: "Cosa vuoi che suoni su questa?" E Bob rispose: "Sono solo un fottuto poeta".
 

Era tutto molto simile al jazz, come ha detto Jim Keltner [1]. Lo senti e trovi un ritmo, e non suonare due volte la stessa cosa. Quando riprendevamo una canzone già provata il giorno prima, era completamente diversa. Probabilmente facemmo tre o quattro versioni diverse di "Heart of Mine". Un tipo che si occupa degli archivi a Tulsa, mi ha mandato i nastri di alcune di quelle prove e puoi ascoltare tutte queste diverse versioni di "Heart of Mine". È stato divertente riascoltarle.

RP: Wow, mi sembra fantastico.

CP: La qualità audio non è eccezionale, ma lì c’è la genesi della band. T-Bone [Wolk], che era un musicista fantastico, non suonava solo il basso, ma anche la chitarra acustica, la fisarmonica e cantava. A volte lui e G.E. [Smith] facevano i cori. Altre volte T-Bone metteva giù il basso e suonava la fisarmonica, quindi c'era Bob all'acustica, T-Bone alla fisarmonica e io suonavo le spazzole o qualcosa di simile.
Abbiamo avuto tanti momenti davvero intensi; non solo i suoi brani, ma cose come "Barbara Allen", una canzone presente anche nella versione cinematografica di “A Christmas Carol” di Alistair Sims. Bob adorava quella canzone, e la suonammo spesso in tour.
C'erano esplorazioni da parte di tutti. Suono la chitarra? Suono con le spazzole? Suono la fisarmonica? G.E. spesso suonava solo l’acustica o solo la Telecaster. Bob a volte suonava l'acustica con un'armonica al collo, nel tradizionale stile Bob, oppure la Stratocaster. La band avrebbe potuto essere molto, molto elettrica oppure avrebbe potuto essere molto intima e folk. Anche jazz. I brani potevano fluttuare come un disco del Bill Evans Trio.
Eravamo nella stanza e diceva: "Sto cercando di scrivere una canzone qui". Non so che canzone fosse, ma la sta scrivendo su un tovagliolo di carta sul davanzale della finestra. Era immerso nei suoi pensieri. Mi chiedo che canzone fosse.

RP: Durante tutte queste prove, tu eri già ingaggiato o fu solo una lunga audizione?

CP: Ancora un'audizione. Penso che provammo quattro o cinque giorni la prima settimana e poi altri tre o quattro giorni la settimana dopo. Eravamo legati al Saturday Night Live. [Dylan] fu molto accomodante, perché lo spettacolo era piuttosto impegnativo con pre-registrazioni, artisti ospiti e tutto quello che portava allo show del sabato.
Poi un giorno si presentò Elliot Roberts [il manager di Dylan]. Mi prese da parte e mi disse: "Ha qualcosa in arrivo. Ti interesserebbe?" È stato allora che capii di avere un ingaggio, perché stavano parlando di date, a cominciare da qualche anfiteatro in California. Risposi sì e quello fu l'inizio. T-Bone [Wolk] non voleva farlo perché era impegnato con Hall & Oates, ma trovarono Kenny Aaronson, con cui io non avevo mai suonato prima. Entrò subito.

RP: Vista in retrospettiva, questa è stata la partenza del tour praticamente infinito di Dylan, almeno fino al Covid. Vi fu presentato come l'inizio di qualcosa di grande o semplicemente come "Andiamo a fare due mesi di concerti"?

CP: Fu presentato come una cosa una tantum. "Potresti fare un piccolo tour estivo? Sei settimane circa.” Non è stato sicuramente presentato come un tour senza fine. Poi, passavano sei settimane o un mese e loro dicevano: "Abbiamo un altro gruppo di date. Riesci a farle?" E io continuavo a dire sì.

RP: Dovesti rinunciare al Saturday Night Live a un certo punto?

CP: No, no, perché G.E. Smith era nella band e voleva continuare a farlo.

RP: Quindi continuaste con entrambe le cose?

CP: Fortunatamente per noi, non dovemmo mai rinunciare. Bob ed Elliot Roberts lavorarono tenendo conto dei nostri impegni. Non programmavano concerti il sabato e nemmeno il giovedì se avevamo pre-registrazioni. Io e G.E. [Smith] abbiamo accumulato migliaia di miglia volando avanti e indietro.

RP: Sembra un programma faticoso…

CP: È stato faticoso. È stato faticoso, ma davvero divertente andare dagli NBC Studio 8H [di New York] a dovunque fosse, New Mexico o Canada. Suonammo dappertutto. Ieri ho trovato i manifesti della Turchia e dell'Italia.
È stata una fortuna, fino a quando G.E. [Smith] decise di non volerlo più fare. Ci fu un lungo processo di audizioni per trovare un altro chitarrista, il che è stato davvero difficile. A quel punto Kenny Aaronson se n'era già andato e avevamo Tony Garnier. Dopo i concerti, nel retro dell'autobus, gli insegnavo i brani o quale avrebbe potuto essere il feeling per quella canzone. Fu davvero gettato nella mischia e fece benissimo, come ha continuato a fare per 30 anni da allora.

RP: Ci fu un cambiamento nel suono o nell'atmosfera quando se ne andò Kenny Aaronson e arrivò Tony Garnier?

CP: Sì, cambiò l'atmosfera e cambiò il suono. Tony entrò suonando il basso acustico. Suonava anche l'elettrico, ma aveva un approccio differente. Lui è un musicista diverso, un grande musicista, ma di sicuro fermò la cosa che avevamo costruito, che era questa flessibilità di andare in una direzione rock o folk o jazz o reggae. In qualsiasi direzione [Dylan] volesse andare, noi ci saremmo andati.
Non abbiamo suonato due volte la stessa cosa. Abbiamo suonato qualcosa di diverso ogni sera o qualcosa che era adatto per quello show. Succedeva spesso, specialmente su brani familiari come "Rainy Day Women" o "Times They Are a-Changin'". Quella aveva un certo feeling in 12/8, ma quando diventava troppo comoda in 12/8, [Dylan] la cambiava in 4/4. La metteva in rigorosi ottavi piuttosto che a ritmo di shuffle.

RP: Come comunica questi cambiamenti? Sei un batterista e qualcosa tipo l'indicazione del tempo influenza davvero quello che stai facendo.

CP: Non lo comunicava. Io dovevo guardare. Stava in piedi proprio di fronte a me e osservavo soprattutto il suo linguaggio del corpo. Quello era l'unico indizio. Non mi ha mai indicato quattro o sei con le dita, né ha mai detto "shuffle" o "ottavi diretti", o cose simili. Non disse mai niente. Era solo la mia interpretazione del suo linguaggio del corpo. E spesso non voleva le luci, quindi era difficile vederlo.

RP: Non solo. Ci furono alcuni spettacoli in quegli anni in cui suonò indossando una felpa con il cappuccio alzato, il che probabilmente rendeva molto più difficile vedere cosa stava facendo.

CP: Oh si. Ci fu un momento molto divertente un Halloween. Dovevamo suonare a Chicago. Era da un po' che indossava la felpa con cappuccio. Felpa con cappuccio, scialle da preghiera, Ray-Ban e blue jeans. Così qualcuno della troupe diede a tutti una felpa con cappuccio, blue jeans, uno scialle da preghiera e occhiali da sole.
Bob non veniva mai al soundcheck, ma a volte dopo aver cenato veniva a dare un'occhiata al palco. Quella sera lo fece, e tutti indossavamo una felpa con cappuccio, uno scialle da preghiera, blue jeans e occhiali da sole. Quando arrivò, vide tutti vestiti come lui. Ci fu un silenzio di tomba per quelli che mi sembrarono 10 minuti, ma probabilmente furono 30 secondi. Poi sorrise un po’. Capì lo scherzo. Non disse niente, ma capì lo scherzo.
Ci fu un altro episodio nel backstage quando suonammo in questo posto chiamato Memphis Mud Island, che è un isolotto nel mezzo del Mississippi. Devi prendere una funicolare per arrivarci e cose del genere. Non ci sono nemmeno camerini, solo una stanza in cui puoi accordare gli strumenti prima di salire sul palco. In quel periodo dell'anno c’erano probabilmente più di 40 gradi e zanzare giganti ovunque, quindi tutti stavamo cercando di ripararci in quella stanza.
Per qualche motivo, un membro degli Eagles era da quelle parti e volle raggiungerci. [2] Eravamo seduti nella stanza, solo Bob e noi della band, in silenzio. Nessuno stava dicendo niente. Stavamo solo cercando di prepararci mentalmente per il concerto, ma nessuno parlava. Ed ecco che entra questo tipo degli Eagles. Noi sempre silenzio. Finché lui disse a Bob: "Allora Bob, come sta il tuo cazzo?"
Ci fu un silenzio mortale. Poi, dopo alcuni secondi, Bob dovette sorridere. Erano rari i momenti in cui lo vedevi sorridere e divertirsi per qualcosa che succedeva. Perché lui è Bob. Ha visto di tutto, suonato ovunque, conosce tutti, niente lo turba davvero, ma è stato bello vedere un momento come quello in cui a sorpresa sorrise.

RP: A proposito di ospiti, nei primi concerti Neil Young si unì alla band per una mezza dozzina di serate. Come successe?

CP: Suonavamo in California e lui viveva nelle vicinanze. Arrivava con la sua Cadillac decappottabile, tirava fuori dal bagagliaio il suo Silvertone Amp e la sua chitarra e li sistemava accanto a me, a sinistra della batteria, e suonava tutta la notte. Era fottutamente fantastico.
Anche Jerry Garcia si unì. In Inghilterra, George Harrison si unì un sacco di volte, è stato davvero bello, e pure Ringo [Starr]. Abbiamo suonato la doppia batteria in diversi concerti in Francia. In tour avevo abbastanza pezzi di ricambio per mettere insieme un altro kit. Due set di batteria installati uno accanto all'altro, ed è stato semplicemente fantastico. Prima degli spettacoli parlammo molto e sentii raccontare direttamente da lui dei primi tempi con quei ragazzi [i Beatles]. Belle conversazioni, parlando di batteria, tecnica, attrezzatura e cose del genere.
Van Morrison si unì ad Atene. Fu in uno stadio di calcio e il pubblico lanciò
M-80 sul palco. Sai, petardi simili a piccoli candelotti di dinamite che esplodevano ai piedi di Bob e di Van Morrison. Salii su un montante e vidi queste esplosioni. Non li turbarono, continuarono a suonare.
C'era una donna, il suo passaporto diceva che si chiamava Sara Dylan. Immagino avesse cambiato nome. Sarà venuta a un centinaio di concerti, sempre con un rotolo di monetine. Lanciava monetine sul palco. Se facevi un giro dopo lo spettacolo – non l'abbiamo mai fatto, ma il mio tecnico della batteria e diversi ragazzi della troupe raccoglievano queste monetine. Erano sempre 5 o 10 dollari di nichelini.

RP: È molto bizzarro, su un paio di livelli.

CP: Sì. Totalmente, totalmente, totalmente bizzarro. Si sarebbe poi presentata a Helsinki e si sarebbe presentata su quest'isola in Norvegia. Mi chiedevo, come cazzo è arrivata fin qui?
C'era sempre un entourage, un gruppo di persone che voleva vederlo, voleva parlargli, voleva fargli vedere un quadro, voleva mostrargli qualcosa che avevano fatto per lui, voleva dargli un manoscritto che avevano scritto quando erano in Vietnam con l'Agente Orange che esplodeva sopra le loro teste [3] e come quella tal canzone gli avesse salvato la vita. Blocchi pieni di cose scritte a mano, fotografie, sculture, il paraurti di una Mercury del '49. A volte davi una sbirciatina nel suo camerino e vedevi questa pila di cose imbustate. Teschi, corna di manzo, non sapevi mai cosa ci sarebbe stato nel suo camerino. Nessuno buttava via la roba. Tutto è stato catalogato. Soprattutto a Los Angeles o New York, la gente lo assediava.

RP: Ti è mai capitato di avere personalmente a che fare con queste cose?

CP: Sì, per associazione. Quando iniziai a lavorare con Bob, non ci volle molto. All'epoca avevo una casa a Kent, nel Connecticut. Già dopo il primo tour, la gente si fermava sul vialetto e chiedeva: "Puoi raccontarmi un po' com'è lavorare con Bob?" Persone in pick-up con le rastrelliere per i fucili a pompa, persone in bicicletta. Si presentavano a casa e bussavano alla porta. Non è una bella situazione. Come la gestisci? Nessuno era… stavo per dire che nessuno era pazzo, ma erano tutti un po' pazzi. Erano ossessionati da Bob.

RP: Inquietante. (Sì, mi rendo conto dell’ironia.)

CP: Qualsiasi informazione avessero ottenuto da me sarebbe stata acqua per il loro mulino. Alcune persone si presentarono più di una volta. "Ecco un dipinto che ho fatto. Puoi portarlo a Bob?", o "Ecco una lettera che ho scritto. Puoi assicurarti che Bob la riceva?" Ero il tramite per Bob. Dicevo: "Davvero non posso.” Tracciai una linea lì. Non avrei preso alcunché per poi darlo a Bob dicendogli "Questo è di qualcuno del Connecticut che è ossessionato da te".
Cercavo di essere gentile e di dissuaderli dal ritornare, perché ero con la mia famiglia. Fu strano. Ci furono alcuni momenti strani.

RP: Musicalmente, come si sono evoluti lo spettacolo e la band nel corso dei tre anni? Abbiamo già parlato dell'arrivo di Kenny [Aaronson] e dell'arrivo di Tony Garnier], ma in termini di suono e di come avete interagito tra di voi?

CP: Ci siamo sentiti sempre più a nostro agio. Nel corso dei tre anni molte cose sono cambiate. Suonavamo brani diversi o affrontavamo cose diverse.

RP: Nel caso di aggiunte all’ultimo momento, cover di canzoni semisconosciute, quando venivano provate? Si lavorava molto nei soundcheck o furono provate prima del tour?

CP: Alcune cose le avevamo suonate prima del tour. "Oh, sì, ricordo di averla suonata", e poi G.E. [Smith] e Kenny [Aaronson] o Tony [Garnier] che dicevano: "Come vuoi farla?" "Gli piace in Sol, vuoi farla in Sol?" "Scendiamo di mezzo tono per ogni evenienza". Una specie di ripasso. E questo succedeva nel backstage o sull'autobus, non quando ero alla batteria. Io ascoltavo. "Ok, potrei fare qualcosa del genere. Forse funzionerà." L’avrei suonata per la prima volta in concerto con Bob che cantava.
Il suo fraseggio è l'altro indizio su come avrei accompagnato, oltre al suo linguaggio del corpo. Il suo fraseggio è unico, come Frank Sinatra. Il modo di muovere la melodia, aspettando il cambiamento nella musica prima di cantare il testo che va su quel cambiamento, oppure anticipando il testo prima del suo cambiamento musicale in modo che la fine della frase sia quando senti il cambio musicale. Essere in grado di farlo è semplicemente geniale. Non ci sono altri cantanti oltre a Frank Sinatra, o forse Ella Fitzgerald o Ray Charles. Immagino anche Willie Nelson. Qualcuno che ha una tale padronanza della canzone da poter allungare le strofe, o stringerle o troncarle, accartocciare le parole o, al contrario, distenderle in modo che i versi esprimano il loro umore in quel momento, letteralmente in quel secondo. Ho imparato a godermelo davvero, sempre di più, mentre suonavo con lui.

RP: Ci fu un po’ di delusione perché all'epoca non usò la sua tour band per le cose in studio? Per Oh Mercy e Under the Red Sky non ricorse a G.E. Smith, né a te, né agli altri.

CP: Sì, fu un po' una delusione perché avremmo voluto ascoltare quei brani ed essere pronti a suonarli. Poi abbiamo visto uscire il disco e [abbiamo pensato] "Oh, avrei potuto suonarci. Cavolo!" A volte è stato un peccato perché il feeling che avevano dal vivo era più attuale che su disco.
Ora che stanno pubblicando tutte queste Bootleg Series, forse a un certo punto pubblicheranno roba dall'88 al '92. Ci sono state alcune esibizioni incredibili, con Bob alla chitarra acustica e armonica. Come ti ha detto Jim Keltner, ti farebbero piangere.

RP: Parlando di acustica, mi sembra che nei set acustici del primo periodo ci fossero solo lui e G.E. Smith, e successivamente suonasti anche tu.

CP: Ci si è evoluti nel tempo. Ricordo che una sera stavano facendo "Knockin' on Heaven's Door", io ero sul lato del palco e mi dissi: "Sai una cosa, qui si potrebbe davvero usare la batteria". I miei microfoni erano accesi, mi avvicinai di soppiatto alla batteria e feci questo riempimento gigantesco entrando nel ritornello. Bob si voltò e sorrise. Però non lo ripetei la sera dopo e nei concerti successivi in cui suonarono "Knockin'". Non gli piaceva. Se qualcosa gli sembrava prevedibile o troppo scontata, la cambiava.
Mi piaceva quando i chitarristi stavano lì e provavano a vedere quali accordi suonava Bob. Lui girava il manico della chitarra dall’altro lato del palco. Dovevano usare le loro orecchie, il loro istinto o qualsiasi altra cosa per adattarsi. Non puoi usare i bigini con Bob Dylan.

RP: In quella sorta di periodo intermedio in cui G.E. Smith annunciò che se ne sarebbe andato, ci fu una serie di altri chitarristi sul palco, ogni sera uno o due nuovi. Immagino che alcuni di loro avranno cercato di guardare le sue mani. Sembra un'esperienza strana per un membro della band.

CP: È stato molto duro ed è stato anche penoso. Straziante, davvero.

RP: Come mai?

CP: Ci furono alcuni momenti molto, molto imbarazzanti durante le audizioni di chitarra. C'erano un sacco di musicisti che sarebbero stati fantastici se avessero avuto la possibilità, ma hanno fatto dei passi falsi, in mancanza di una parola migliore, chiedendo a Bob un autografo o se potevano avere qualcosa di speciale. Non so cosa stessero chiedendo, ma so che per qualche ragione, certamente non musicale, non hanno avuto la parte. Finché il chitarrista con cui si sentì più a suo agio fu il tecnico della chitarra, César Diaz, che accordava le chitarre di Bob e gliele dava. Era sempre a lato del palco. Ma César, Dio lo benedica, non era un chitarrista. Voglio dire, sapeva suonare la chitarra, ma non era un membro della band. Questo è stato davvero penoso. Divenne di fatto il chitarrista. Era così nervoso, non abituato a stare sotto i riflettori, non abituato a esibirsi. E questo rese davvero difficile realizzare l’amalgama della band.
Quella fu l'ultima goccia per me. Inoltre, stavo per avere il mio secondo figlio e avevo già perso molto dell’infanzia del mio primogenito. Era una cosa che mi spezzava il cuore. Avevo aspettato 19 anni con questa donna, la cui madre aveva comprato Byrdcliffe, avevamo aspettato 19 anni ad avere figli perché volevamo farlo bene. Non avremmo fatto un errore che avevamo visto fare ad altre persone, volevamo che il nostro rapporto fosse solido.
Il mio primo figlio è nato nell'88 e sono stato in giro per i successivi 18 mesi. Poi è nato il mio secondo figlio, e la storia dei chitarristi stava scivolando verso il basso. È stato straziante, davvero straziante. Chiesi a Bob di lasciarmi andare a fare quello che dovevo fare con la mia famiglia.
È stato un viaggio fantastico, tanta musica fantastica. La cosa più dolorosa è non essere su nessuno dei dischi, non esiste un documento ufficiale di quel periodo. Alcune interpretazioni furono buone quanto i dischi classici, o persino migliori, o nuove e diverse.

RP: Hai parlato della versatilità e ascoltando alcuni bootleg si ritrova sicuramente lì, ma l’altra cosa che salta fuori è che eravate decisamente rock. È quanto di più vicino al punk Bob abbia mai fatto.

CP: Sì. Ricordo alcune ottime interpretazioni di certi brani. Alla West Point Academy eseguì "Masters of War" e fu fantastico. Era come se i Clash facessero Bob Dylan.



RP: Stavo giusto per chiederti di due o tre spettacoli specifici, e uno è proprio quello di West Point che hai menzionato [4]. Fu piuttosto controverso all'epoca. Ti ricordi il frastuono mediatico su Bob Dylan che suonava in un'accademia militare?

CP: Sì, certamente. Fu una serata piena di tensione. Eravamo in tour da, non so, tre o quattro mesi. Scendemmo dal bus. Affrontare i cadetti, la struttura di questo luogo e l'atmosfera letteralmente militarista, tutto fu molto ansiogeno. Nessuno sapeva come sarebbe stato lo spettacolo. I cadetti ci fischieranno? Ci lanceranno delle cose? Non sapevamo cosa sarebbe successo.
Chiaramente, c'era un gruppo di cadetti che lo conoscevano a fondo e conoscevano a fondo la sua musica, e voleva essere lì. Il posto era tutto esaurito. Fu uno spettacolo incredibile.

RP: Che mi dici di Toad's Place, 1990? Probabilmente la scaletta più pazza dell'intera carriera di Dylan [5]. Tutte quelle strane cover, "Dancing in the Dark", le sue canzoni che non aveva mai suonato. Qual è la storia di quello spettacolo? Una specie di prova con un pubblico?

CP: Una prova con un pubblico, sì. [Il Toad’s Place] non è proprio un teatro, lì tutti sono allo stesso livello. La batteria è sul pavimento, le chitarre sono sul pavimento, il basso è sul pavimento. Non c'è proscenio. Non credo che fino a quel momento avessimo mai suonato a così stretto contatto con il pubblico. Di solito c'è un palco, la sicurezza, le recinzioni o altre cose per tenere il pubblico e Bob separati, ma quella fu davvero la dissoluzione della quarta parete. Le persone erano proprio lì. Qualcuno mi guardava suonare la batteria a un metro di distanza. Potevi sentire l'energia. La gente era coinvolta, chiedeva canzoni. "Suona 'Baby Blue'! Fai 'Highway 61'!"

RP: Quando entrasti, sapevi che sarebbe stato così?

CP: No, pensavo che sarebbe stato vuoto e che avremmo provato e basta.

RP: Non sapevi che ci sarebbe stato un pubblico?

CP: No. Quando sono arrivate le prime persone ho pensato "Oh, devono essere amici del management o dei proprietari del posto, o qualcosa del genere”. Ma la gente ha continuato ad arrivare e ben presto è stato un pubblico in piena regola.

RP: Di tutte le cover di Springsteen, "Dancing in the Dark" fu una scelta bizzarra e non è che funzioni benissimo. Come è potuta succedere una cosa così stravagante?

CP: L’ha semplicemente chiamata a gran voce. Iniziava a cantare qualcosa e G.E. [Smith] diceva: "Okay, dai, sì, facciamola!". E io cercavo di entrarci senza averla mai suonata prima.
Un paio di cose che fece durante le prove avrei voluto che poi le avessimo suonate dal vivo. Abbiamo provato "God Only Knows", la canzone dei Beach Boys, che è davvero una melodia difficile: ha un numero dispari di battute e una figura orchestrale nell'intermezzo. Abbiamo provato – come si chiama? – "Father of Time" o qualcosa del genere…

RP: "Father of Night"?

CP: "Father of Night", sì. Provammo canzoni di Willie Nelson e canzoni di Hank Williams, alcune erano fantastiche. E canzoni di Woody Guthrie.

RP: Ho parlato con vari membri della band, ma tu sei il primo di quel periodo. Ci sono opinioni piuttosto discordanti se Dylan frequenti o se parli con la band fuori dal palco. Qual era l'atmosfera durante i tuoi anni?

CP: L'atmosfera con lui era fantastica, a meno che non fossimo a Los Angeles o a New York dove, come ho detto prima, le persone proprio lo assediavano con richieste. "Guarda questo, ecco un dipinto che ho fatto, ecco una fotografia del tal dei tali, ho pensato che dovresti avere questo..."
Quando suonammo al Radio City [6], il camerino era pieno di star. George Harrison, Allen Ginsberg, Peter Gabriel, Joan Baez… Arrivarono tutte queste persone e cominciarono ad assediarlo. Tu cosa avresti fatto? A Los Angeles una quantità assurda di persone. Jack Nicholson, Harry Dean Stanton, Brian Wilson, Joni Mitchell. C'erano 100 persone in fila per vederlo o dargli qualcosa. Non riesco a immaginare di avere a che fare con questo tipo di attenzione e questo tipo di bisogno che ti viene presentato in modo così tangibile.
Se eravamo in Oklahoma o nel New Mexico o in Colorado o posti simili, era una persona normale. Aveva un lottatore di nome "Mouse" Strauss, un ex pugile che era andato al tappeto così tante volte che era ancora un po’ suonato. Veniva ad allenare Bob, facevano boxe insieme. Dopo gli chiedevamo: "Ehi, com'è andata la tua sessione con Mouse?" Bob diceva: "Oh, l'ho steso" o "Mi ha fatto ruzzolare". Eravamo semplicemente persone normali. Non abbiamo avuto conversazioni infinite, ma abbiamo senz’altro conversato. Dopo che nacque il mio primo figlio, quando tornai in tour con lui la prima cosa che mi chiese fu: "Ehi Chris, come sta quel bambino?"

RP: Hai detto che non ti diede mai molte indicazioni in anticipo. Ma dei feeback dopo? Tipo "Voglio che domani sia più lenta" o "Mi è piaciuta questa cosa che hai fatto".

CP: Mai.

RP: Non rende difficile sapere se quello che stai facendo è giusto?

CP: No, non è più difficile che suonare jazz con qualcuno. Hai una sensazione, hai un'atmosfera. Se lui si girava e sorrideva, sapevo di non aver cannato. Se non era soddisfatto, non lo sapevo, ma forse la canzone sarebbe stata diversa la sera dopo.
Ho imparato da quel momento durante le prove, quando gli chiesi "Cosa vuoi che suoni su questa?" "Sono solo un fottuto poeta."



Note:

[1] Vedi intervista a Jim Keltner, già tradotta e pubblicata su Maggie’s Farm il mese scorso.

[2] L’episodio che sta raccontando si riferisce al concerto di Memphis del 26 luglio 1988. Il membro degli Eagles era il chitarrista Joe Walsh che poi si unì alla band nei bis per “Forever Young” e “Maggie’s Farm”.

[3] “Agent Orange” era il nome in codice dato dall’esercito statunitense al defoliante ampiamente usato durante la Guerra del Vietnam.

[4] Dylan suonò all’Accademia Militare di West Point il 13 ottobre 1990. Ritornò poi a esibirsi lì il 15 ottobre 1994.

[5] Si riferisce all’esibizione del 12 gennaio 1990 al Toad’s Place di New Haven, Connecticut. In quella occasione, Dylan e la band suonarono ben 4 set diversi, per un totale di 50 canzoni e di 4 ore di musica.

[6] Dylan si esibì 4 sere al Radio City Music Hall di New York, dal 16 al 19 ottobre, in chiusura dei tour del 1988.

Intervista al batterista e bassista Charlie Drayton

Charlie Drayton è un musicista unico e speciale, molto richiesto, in quanto è ugualmente abile sia come batterista che bassista, quindi la sua caratteristica musicale è quella della sezione ritmica in toto. La lunga ed eclettica lista dei credits di Charlie include nomi come Herbie Hancock, Keith Richards, Johnny Cash, Chaka Khan, Mariah Carey, Michelle Branch, Seal, Iggy Pop, Neil Young, Janet Jackson, Courtney Love, tra molti altri, e suonato il ritmo per l'irresistibile hit del B-52 "Love Shack". In questo estratto dal mio Studio Musician's Handbook (scritto con Paul ILL), Charlie ci dà uno sguardo dietro le quinte del suo lavoro di sessione.

“Mi dai un pò di informazioni su come sei entrato nel lavoro di session?

Mio padre mi ha indirizzato verso lo studio della musica in tenera età mentre lo guardavo fare sessions di jingle a New York. Occasionalmente mi faceva cantare in qualche spot che richiedeva una voce giovane, sia in un coro, in un gruppo, sia in una performance solista.
Prima che una sessione iniziasse, di solito trovavo un posto tra il box della batteria (erano gli anni '70) e la sedia del basso e l'amplificatore B-15 (che era l'amplificatore per basso standard in qualsiasi studio di New York all'epoca). Ci sono volute solo poche sessions per sapere che essere in studio era come essere nella migliore scuola in cui saresti mai potuto entrare per imparare musica, e tuo padre è il principio. Poi un giorno mio padre ha portato la band nella quale stavo suonando in studio per farci migliorare e crescere nell'ambiente dello studio. Che sballo viaggio è sentirti riprodotto in alta qualità audio per la prima volta! Ricordo ancora la prima volta, vividamente.
Se ricordo bene, la mia prima sessione di registrazione professionale è stata quando ho suonato la batteria per John Sebastian. Era brillante e un grande motivatore. Entrare in studio è stato facile, ma quel primo giorno di registrazione è stato per me un inferno! La parte spaventosa è stata cercare di non essere sopraffatto dal fatto che il bassista fosse Anthony Jackson (un turnista di New York molto apprezzato) e il chitarrista Steve Khan (penso che Stevestesso mi abbia consigliato per quella sessione). Inutile dire che fui agganciato e lo sono ancora.

Cosa porti con te in un sessione?

Dipende da cosa richiede la musica o il produttore e da quale cappello indosso durante la sessione, ma elencherò solo alcuni degli elementi a caso. Entro in studio con senso dell'umorismo, cuore e mente aperti e molta pazienza.
Porto anche un bollitore per l'acqua calda e del tè alle erbe, una quantità infinita di caramelle alla menta senza zucchero, un pò di incenso, bacchette, pepe di Caienna, senape inglese calda, peperoncino tritato e cardamomo macinato fresco.
Inoltre, non c'è niente di meglio che avere la tua attrezzatura in una session! Per me potrebbe consistere in batteria, piatti, stracci, nastro da hockey, microfono a proiettile, Bass pod Line 6, iPod per la disattivazione della batteria e alcuni dei miei pezzi preferiti di percussioni manuali. Inoltre bassi, chitarre, pedal steel, amplificatori, pedali e un cavo davvero buono. Porto anche le mie cuffie (Sony 7506 o Audio Technica TH-M50) insieme a un cavo di prolunga. A volte porto anche il mio pechinese nero "Holiday".

Personalizzi ciò che porti in base alla session?

Ci provo, perché sono fortunato ad avere accesso a una vasta selezione di attrezzi che mi piacerebbe vedere il più spesso possibile.

L'attrezzatura da palco è diversada quella dello studio di registrazione?

Questo dipende da cosa mi ispirerà a eseguire una performance o da che cosa ho accesso in quel momento. A volte posso aggiungere qualche pezzo di attrezzatura che non mi appartiene, quindi praticamente qualsiasi cosa che mi aiuti ad alimentare la musica.

Cosa ti piace nel tuo mix in cuffia?

La libertà di suonare come voglio. La mia prima preferenza però sono le cuffie quando è possibile. Mi piace cantare con gli altoparlanti a basso livello. Se suonerò dal vivo con una band, inserirò l'intero gruppo nel mix. Se suono su tracce preregistrate, è possibile che io non suoni insieme a tutti gli elementi nella traccia. Proverò diverse combinazioni di elementi nel mix finché non mi sentirò bene e mi sentirò più a mio agio.

Cosa vedi che è comune a tutti i bravi musicisti di session?

Un buon turnista non è necessariamente un musicista migliore di un musicista senza esperienza di session, ma un buon turnista ha il vantaggio di avere più strumenti tra cui scegliere ed è abituato a restringere le opzioni. Affrontare le avversità è fondamentale. Se il tuo talento è in stallo e stai passando una giornata di merda ma ti sei impegnato per una session, indovina un pò? Devi presentarti e suonare la musica! Più lo faccio, meglio ci arrivo.

Cosa sai ora che avresti voluto sapere quando hai iniziato?

Che saremmo arrivati a vivere in un'epoca in cui non c’è bisogno di avere molto talento per avere successo nel mondo della musica.
L'arte di suonare musica e il successo commerciale sono ora due cose completamente diverse.
Non so perché alcuni portano i computer nelle sale di registrazione per alcune delle ragioni sbagliate e rovinano l’arte ed il mestiere di creare e fare musica. Non sono contro i computer, ma pensavo che la musica si potesse suonare bene anche senza di essi. I Milli Vanilli non ti hanno convinto di questo?
(Milli Vanilli sono stati un gruppo di musica pop e dance formato da Frank Farian in Germania nel 1988, i cui frontmen erano Fab Morvan e Rob Pilatus. Il gruppo ottenne enorme successo con il primo album, intitolato All or Nothing in Europa e distribuito in America come Girl You Know It's True. La loro ascesa fu frenata quando si scoprì che le voci presenti nei dischi non erano in realtà quelle di Morvan e Pilatus. Negli anni successivi il duo registrò nuovi lavori, stavolta dichiarando le voci originali, che riscontrarono scarso consenso commerciale.
I dubbi sulle reali capacità del duo sorsero già durante le loro prime interviste, dove dimostrarono una scarsa conoscenza della lingua inglese, che portò i presenti a chiedersi se fossero effettivamente Morvan e Pilatus a cantare nei dischi. I sospetti trovarono ulteriore riscontro in seguito ad un incidente tecnico durante una esibizione "dal vivo" promossa da MTV nel dicembre 1989, in cui la musica e le voci (che erano inaspettatamente in playback) cominciarono a ripetersi all'infinito. Anche in seguito alla pressione di Morvan e Pilatus, che avrebbero voluto cantare nel disco successivo, il 12 novembre 1990 Farian confessò ai giornali che fino a quel momento non erano state usate le loro vere voci. Quattro giorni dopo venne revocato il Grammy vinto, e di lì a poco la Arista Records rescisse il proprio contratto con il gruppo. Vennero fatte partire almeno 26 cause contro Pilatus, Morvan e la Arista Records, tutte con l'accusa di frode. La loro attività cessò ufficialmente dopo la morte prematura di Rob Pilatus avvenuta nel 1998.)


Qualche consiglio per qualcuno che inizia a fare il turnista?

Non perdere la connessione o lo spirito di suonare in un ambiente dal vivo. Lo spirito è un ingrediente chiave che ti consente di brillare e prendere le decisioni giuste durante la sessione. Abbraccia la musica con il tuo cuore, anche se non è la tua tazza di tè. Sii nel momento, e questo non significa suonare tutto quello che sai.

Hai qualche consiglio da musicista di session?

Sii prima un musicista senza alcun titolo prima della parola musicista. Mi divertirò di più a sentirti suonare. Non limitarti. Sii nel momento, perché in studio prendi decisioni musicali che possono durare una vita su disco.

Quali sono le sessioni più difficili per te?

Quando i sogni del produttore sono irrealizzati. A volte alcuni non hanno la capacità di suonare il loro strumento, quindi vengono fuori suggerimenti all'infinito, le peggiori idee musicali possibili per te da suonare, o come dovresti suonarle.

Che tipo di sessioni sono le più divertenti?

Quando non ti sembra di lavorare e non vuoi che la sessione finisca.

Cosa odi di una session di registrazione?

Quando non si registra!!!”

Puoi leggere di più da The Studio Musician's Handbook e da altri miei libri nella sezione degli estratti di bobbyowsinski.com.

(Fonte: https://bobbyowsinskiblog.com/an-interview-with-charlie-drayton/)

Larry Campbell riflette sui suoi otto anni con Bob Dylan.

di Ray Padgett - (31 marzo 2021)

Fonte: https://dylanlive.substack.com/p/larry-campbell-goes-deep-on-his-eight

Traduzione di Silvano Cattaneo

Nel 2013, il sito dei fan di Bob Dylan Expecting Rain lanciò un sondaggio per votare il miglior chitarrista tra i tanti che hanno accompagnato Bob nel Never Ending Tour. Il vincitore? Larry Campbell. Nel 2016 fecero un altro sondaggio. Il vincitore? Larry Campbell. Nel 2018 un terzo sondaggio. E chi vinse quella volta? Charlie Sexton... a pari merito con il suo ex compagno di band e compagno di duelli di chitarra Larry Campbell.
Larry Campbell ha suonato con Dylan dal 1997 al 2004: una bella testimonianza della sua carriera, anche se oggi non è nemmeno la cosa per cui è meglio conosciuto. Potrebbe esserlo invece il suo rapporto decennale con Levon Helm, per cui ha prodotto dischi e suonato nella sua band insieme alla moglie Teresa Williams. Dopo la morte di Levon, Larry e Teresa hanno continuato a collaborare con amici come Jackson Browne e Hot Tuna, e registrato album in coppia.
Un nuovo documentario in dieci parti intitolato “It Was the Music” ripercorre il percorso delle loro carriere, singolarmente e insieme. Lo consiglio vivamente anche se conoscete Larry per il suo lavoro con Bob, o Larry e Victoria per il loro lavoro con Levon Helm. Relix lo ha definito "un documento profondo e commovente" e Americana UK "uno sguardo affascinante e dettagliato sulle vite di due musicisti di spalla che si prendono la scena". [Nota 1]
Oggi [31 marzo 2021] ricorre il 24° anniversario del primo concerto di Larry Campbell con Dylan, e di recente ho avuto con lui una lunga conversazione telefonica sui suoi otto anni nella band. È un argomento su cui è stato riluttante in passato, ma era disponibile ad aprirsi e a condividere uno sguardo approfondito su cosa è stato suonare tutti quegli anni accanto a Bob. La nostra conversazione è durata così a lungo che l'ho divisa in due parti. Ecco la prima.

Ray Padgett: Una cosa su cui fa luce “It Was the Music”, il documentario che hai realizzato, è quanto tu fossi immerso nel mondo della musica roots prima di entrare in contatto con Dylan. Come sei passato da quel mondo a suonare con Dylan?

Larry Campbell: Proverò a essere sintetico, per quanto possibile. Negli anni '60 c'era così tanta musica fantastica che mi ha realmente parlato: dai Beatles all'Ed Sullivan Show fino alle radio FM, musica psichedelica, Bob Dylan, Rolling Stones, tutta quella roba feconda nel mondo del rock ‘n’ roll e della musica popolare. Ero davvero estasiato da quella musica. Compravi un disco dei Beatles e c’era una canzone di Chuck Berry [Roll Over Beethoven]. Chi è Chuck Berry? Allora lo scoprivi. Da Chuck Berry andavi a BB King, da BB King ad Albert King e da loro risalivi a Robert Johnson e a tutto il country blues, e continuavi su quella strada. I Beatles hanno fatto una canzone di Buck Owens [Act Naturally]. Chi è Buck Owens? Da lui andavi a Hank Williams e George Jones fino alla Carter Family. Tutto questo si stava sovrapponendo al boom del folk. Non ne avevo mai abbastanza, ero insaziabile.
All'inizio degli anni '70 cominciai a essere un po' deluso da quello che sentivo nelle radio rock. Ero più incline alle radici profonde della musica. Decisi che in quel momento New York non era il posto per me. Feci le valigie e mi trasferii in California, forte della mia ambizione. Per farla breve, finii per andare in tour con una band e per stabilirmi un paio d’anni a Jackson, Mississippi, dove assorbii a fondo la cultura della musica che più mi parlava.
Alla fine degli anni '70 tornai a New York, giusto in tempo per quel boom da “urban cowboy”, quando la musica country era di moda. Si rivelò una situazione davvero redditizia per me perché trovavo lavoro negli studi e suonavo nei club ogni settimana: il Lone Star Cafe, il City Limits e tutti quei posti dove suonavano questo tipo di musica country, la musica delle radici che attirava pubblico.
Rividi Tony Garnier, uno dei ragazzi che avevo incontrato in California. A New York diventammo amici, era nel mio stesso giro. Quando l'avevo conosciuto in California era il bassista degli Asleep at the Wheel. Si era trasferito a New York più o meno nello stesso periodo in cui ero tornato anch’io. Insieme suonavamo un sacco di concerti, lavoravamo in studio e tutto il resto. Io cercavo solo di continuare a essere un musicista di New York. Suonavo nei club e andavo in tour con gente come Doug Sahm, Rosanne Cash, k.d. lang, Cyndi Lauper… è una lunga lista.
Arriviamo alla fine del 1996, quando decisi che non sarei andato più in tournée. Avevo appena finito un tour con k.d. lang, ma volevo essere solo un musicista di studio e dedicarmi di più alla produzione di dischi. Pochi mesi dopo ricevetti una telefonata da Jeff Kramer, il manager di Dylan. Mi disse che Bob era interessato a sentirmi, se potevo raggiungerli e passare un po’ di tempo a suonare insieme. Se Bob mi conosceva era grazie a Tony Garnier.
Inizialmente rifiutai. Avevo preso la decisione che non sarei più andato in tour. Ma quando mi risvegliai il giorno dopo, mi ricordai quale era stato il mio primo impulso per diventare musicista. Furono i Beatles, i Rolling Stones e Bob Dylan. Pensai: "Aspetta un attimo, avrò mica intenzione di rifiutare l’opportunità di lavorare con questo tipo?" Richiamai Kramer, la risolvemmo, li raggiunsi, suonammo per circa tre giorni e poi per otto anni sono stato in tour con Bob.



RP: Sei passato dal non voler andare più in tour a qualcuno che sta girando più di qualsiasi essere umano in vita.

LC: Esatto, sì. [ride] È stato un conflitto per tutti gli otto anni in cui l'ho fatto. E in effetti, è per questo che alla fine me ne sono andato. Volevo produrre dischi. Mi arrivavano opportunità, ma il più delle volte non potevo approfittarne perché magari programmavo un giorno per farlo e poi venivamo chiamati per partire.
Suonare con Bob è fantastico. Stai suonando grande musica con questo tipo completamente originario americano. Probabilmente il nostro meglio. Ma avevo il mio bisogno di esprimermi e quando sei nella band con Bob puoi farlo solo in misura limitata. Ci sono dei paletti intorno alla tua espressione personale. È assolutamente comprensibile, deve essere così perché è la sua musica. Ma quel bisogno stava emergendo e se volevo farlo dovevo darmi una mossa. Questo, unito al desiderio di stare di più con Teresa, di voler essere più un musicista di studio e la mia personale creatività, sono le cose che alla fine mi hanno fatto smettere di girare con lui.

RP: In uno degli episodi [del documentario “It Was the Music”], c'è un momento in cui Teresa mostra una foto del vostro decimo anniversario alle Hawaii e dice: "Beh, eravamo lì perché lui era lì con Bob". Mi ha fatto pensare alla tua vita personale. Se sei in viaggio otto, nove mesi l'anno ogni anno, che vita personale hai?

LC: Hai completamente ragione. Questa è la verità. È il prezzo che devi pagare per fare una cosa del genere. Ma finché ho resistito, ne ero attratto.

RP: Tornando all'inizio del tuo rapporto con Bob: Tony Garnier ti introduce e tu arrivi. Ci furono delle audizioni? Come passasti da lì al tuo primo concerto?

LC: Beh, non la chiamavano proprio “audizione”, anche se chiaramente era così. Mi presentai allo studio, incontrai Bob e iniziammo a suonare. Passammo tre giorni a suonare insieme. Per lo più suonavamo vecchi brani rock and roll e country. Anche alcune delle sue canzoni, ma per lo più si trattava di pezzi tipo Hank Williams e Buddy Holly. Fu molto divertente. Immagino che Bob stesse assorbendo quello che tiravo fuori. Dopo il terzo giorno Kramer mi chiamò e disse: "Okay, andremo in tour la prossima settimana. Vieni?" Risposi: "Beh, sì, immagino di sì".
Il tour iniziò in Nuova Scozia, Canada. Noi volammo lì, ma l’imbarcazione con l'attrezzatura rimase bloccata nel ghiaccio durante l’attraversamento di uno di quegli stretti. Restammo in Nuova Scozia con tutte le date ritardate perché non c'era l'attrezzatura. Fu un po' snervante perché ero pronto a cominciare, ma tutto poi ha funzionato.
Quel primo tour è stato fantastico. Avevamo provato - beh, non proprio “provato”, avevamo solo suonato un po' di musica insieme - e poi ecco che sono sul palco a suonare tutte queste canzoni di Bob Dylan, la maggior parte delle quali non avevo mai suonato prima e alcune non le avevo nemmeno mai sentite. Devi solo buttarti e fare quello che sai fare.

RP: Come le imparasti? Qualcuno ti diede una cassetta dicendoti "Ecco cosa ha suonato nell'ultimo tour. Vai e imparale".

LC: No. Avevo una scatola piena di cassette di tutti i suoi dischi. Una volta arrivati in Nuova Scozia, cercai di ascoltare le sue cose il più possibile. Durante il soundcheck del primo concerto eseguimmo alcuni brani che avremmo fatto quella sera, e così fu per il resto del tour. La maggior parte delle prove per gli spettacoli erano al soundcheck. Alcuni brani li avremmo fatti, altri no, e poi ci sarebbero state canzoni mai eseguite al soundcheck e che avremmo iniziato a fare. Era interessante! [ride]



RP: Ti sei sentito intimidito a essere il nuovo arrivato e nel calarti nei panni di un gruppo di chitarristi iconici che avevano suonato con Bob prima di te?

LC: Non so se intimidito sia la parola giusta. Ero decisamente sulle spine, come lo sarei stato in qualsiasi situazione musicale. Ma una volta che sei sul palco, se l'hai fatto abbastanza a lungo, ti dici semplicemente "Ok, questo è il mio concerto. Devo fare il lavoro migliore che so fare. Devo solo prestare orecchio a tutto quello che succede e reagire". Sono sicuro che se ci ho pensato, e probabilmente l'ho fatto a un certo punto, mi sarò detto che ero in una situazione davvero inebriante. Quel tipo l’avevo sempre rispettato come uno dei nostri più grandi artisti, ed eccomi lì, a due metri da lui, a suonare le cose che me lo hanno fatto ammirare. Non volevo rovinare tutto, questo è sicuro. In qualche modo ti cali in una modalità professionale: ti metti quel cappello che ti impedisce di andare fuori di testa, qualsiasi concerto fai.

RP: A proposito di andare fuori di testa, sembrava che le cose stessero andando alla grande quando all'improvviso Bob fu ricoverato di corsa in ospedale e il tour successivo venne cancellato. Quale fu la tua reazione?

LC: Avevamo suonato da qualche parte nel Midwest e ci fu una tempesta di polvere davvero densa. Stavo camminando per la strada e incrociai Bob sulla sua moto che guidava in questa tempesta di polvere. Sembra che la polvere sollevata arrivasse dal fiume e contenesse escrementi d'oca essiccati. E noi la inalammo. Anch'io mi ammalai un po', ma lui finì con l'istoplasmosi che è una cosa davvero seria. Lo scoprii mentre ci stavamo preparando per il tour successivo, che venne cancellato. Quando sentii quanto fosse grave speravo solo che migliorasse. Mi dissero che soffriva molto, e tutto il mio affetto era con lui. Ero preoccupato perché nessuno poteva darmi una risposta definitiva su eventuali danni duraturi o permanenti. Ero preparato alla possibilità che quella potesse essere stata la mia prima e ultima esperienza con Bob.
Mi chiamò Tracy Chapman perché seppe che il nostro tour era stato cancellato. Feci alcune date con lei, aspettando novità da Bob. Per fortuna andò tutto bene e ritornò come nuovo.

RP: Ricordi la sensazione o l'emozione del primo concerto al suo ritorno?

LC: Oh, fu fantastico. Era di buon umore e anche noi eravamo tutti carichi. Penso che stesse progettando un nuovo disco e iniziò a parlarne all'inizio di quel tour. Ero eccitato all'idea di fare un album con lui.
In quel secondo tour iniziai a sentirmi più a mio agio. Bob stava iniziando ad avventurarsi in musica più roots, cover, bluegrass, vecchie canzoni folk e pensavo che fosse grandioso perché molte di quelle cose erano proprio nelle mie corde. Sembrava che con quella particolare band stessimo cercando di colorare tutto con un tocco di radici - il che è stato una grande soddisfazione per me, te lo posso garantire!



RP: Sono un grande fan di quelle registrazioni, c’erano quei brani gospel che cantavate tutti insieme. Come arrivarono nella band? Fu Bob che durante i soundcheck suggeriva: "Ecco una vecchia canzone degli Stanley Brothers, lavoriamoci su"?

LC: Sì, più o meno. Oppure ci dava una cassetta con tre o quattro brani. "Ehi, amico, proviamo questa canzone." Tornavamo in hotel, ascoltavamo e poi il giorno dopo al soundcheck iniziavamo a lavorarci. Distribuiva cassette, oppure sceglieva un pezzo al soundcheck e vedevamo se ne veniva fuori qualcosa. O si arrivava da qualche parte o lo lasciavamo perdere perché non lo sentiva. È stato molto divertente suonare quei vecchi pezzi della Carter Family, di Ralph Stanley e le canzoni folk che aveva suonato nei suoi esordi.

RP: Volevo chiederti dell'arrangiamento delle canzoni. Persino i suoi stessi brani possono suonare in modo piuttosto diverso. Verso la fine del tuo periodo, io stavo imparando la chitarra e trovai su un sito la tablatura di una bella cosa di fingerpicking che facevi su "Girl from the North Country" - e, tra l'altro, mi ci sono voluti quasi due anni per impararla. Per cose del genere, eri tu che inventavi qualcosa e lo suggerivi alla band? O era lui che dava istruzioni tipo: "Voglio che la chitarra suoni come X, trova qualcosa"?

LC: Un po’ tutto questo. Bob poteva suggerire un riff per alcune canzoni. Suonava un riff di tre note che prendevo io, o Bucky [Baxter], o Charlie [Sexton] quando è entrato nella band, e poi lo abbellivo oppure no. Ricordo che con alcune canzoni diceva: "Suoniamo sempre questo stesso riff dopo ogni strofa". E suonavamo quel riff nota per nota.
Nel caso di canzoni come "Girl from the North Country", si limitava a suonare la chitarra e io lo accompagnavo una volta che avevo capito dove andavano a parare le strofe, in uno stile che sentivo avrebbe migliorato quello che stava facendo. Poi [il batterista] David Kemper o George Receli iniziava con un groove. Bob poteva chiedergli di cambiarlo, o di provare una cosa diversa, o mantenerlo ma modificato. Ognuno si lanciava con le proprie idee, ma rispettavamo anche quello che lui era in grado di spiegare. Spesso non sapeva nemmeno cosa stesse cercando di tirar fuori. Voleva solo che atterrasse in un posto che gli piaceva. Lavoravamo ai fianchi ognuna di queste canzoni finché non ci sembrava giusta. Molte volte all’inizio non c’era nulla di strutturato. Era solo un continuare a suonarla finché tutti trovavamo qualcosa che funzionasse bene.

RP: Queste sessioni si svolgevano principalmente durante i soundcheck o c’erano prove più strutturate?

LC: Potevano essere a un soundcheck o a una prova prima di un tour. Normalmente provavamo per quattro o cinque giorni prima di partire in tour. Quello era il momento per provare il nuovo arrangiamento di una canzone, che però poi avrebbe continuato a evolversi nel corso del tour. Facevamo soundcheck di due ore e molto spesso iniziavamo a lavorare sul nuovo materiale in quel momento.

RP: Poco fa hai citato Bucky Baxter [chitarrista steel di Dylan dal 1992 al 1999], mi è dispiaciuto quando è morto l'anno scorso. Che ricordi hai di quando hai suonato con lui?

LC: Bucky era un grande musicista, amico. Un suonatore di steel e di altri strumenti davvero talentuoso. Era grande alla chitarra e aveva cominciato anche con il violino. Gli stavo giusto insegnando qualcosa al violino prima che lasciasse la band. Mi è anche piaciuto molto cantare con lui. Quando lui, Bob e io cantavamo insieme eravamo una combinazione fantastica.
Teresa [Williams] veniva in tour con noi, stava sul nostro bus più o meno per una settimana. Dopo i concerti ci sedevamo nel salottino sul retro e suonavamo vecchi brani bluegrass, io, Teresa e Bucky. Mark Rutledge, che era il road manager, tirava fuori il suo dobro. Avevamo questa piccola band semi-bluegrass che si esibiva nel retro del bus.



RP: La partenza di Bucky cambiò il tuo ruolo? Tu ti facesti carico anche degli strumenti che suonava lui, quando vi ho visti nel 2004 suonavi diverse cose.

LC: Si, esattamente. Inizialmente io ero il chitarrista e Bucky suonava la steel. Quando se ne andò, arrivò Charlie [Sexton]. Charlie divenne il chitarrista e io saltavo dalla chitarra al violino, alla steel, al mandolino, al banjo. La presenza di Charlie nella band mi permise di fare tutte le altre cose che so fare e Bob cercava di capitalizzare questo, il che è stato bello anche se ero un po’ sulle spine. C’erano alcune canzoni in cui mi ero sentito proprio a mio agio con la parte di chitarra, e ora dovevo improvvisamente passare a una parte di steel o a una parte di violino. Ma è il mio lavoro, ed ero in grado di farlo.

RP: Forse non sarà una novità per te, ma quando tra i fan si tratta di scegliere la migliore band del Never Ending Tour, quella con te e Charlie credo sia indicata più di ogni altra.

LC: Wow, grande! Quando la nostra band dava il massimo era piuttosto difficile da battere. Devo dire che c'era una buona chimica lì.

RP: C’è qualche canzone in particolare che ti è piaciuto suonare sul palco?

LC: Mmh, è dura. Adoravo fare “Summer Days”, ma è davvero difficile stilare una classifica. Nella nostra serie di documentari ho citato "Mr Tambourine Man". Suonare quella, suonare "Blowin' in the Wind", suonare i brani iconici di Dylan con lui lì che si lasciava andare. Brani che avevano significato così tanto per me quando stavo imparando chi ero. Quei momenti sono stati davvero speciali.
I pezzi più blues sono stati molto divertenti da suonare con lui. "Crash on the Levee", "Maggie's Farm", "Serve Somebody", roba divertente da suonare.

RP: A proposito, che mi dici delle cose blues che saltavano fuori?

LC: Bob non è un vecchio nero, ma ha questa autenticità in quel genere che non so da dove venga. Il blues nasce dalla sofferenza. Viene fuori dall’esperienza che gli afroamericani hanno vissuto negli Stati Uniti, e tu senti che è davvero autentico solo se interpretato da qualcuno a cui quell’esperienza è stata tramandata attraverso le generazioni.
Quando Bob cantava un brano blues, suo o di qualcun altro, trovava sempre una strada. Anche se da lui non può uscire l'esperienza nera, c’è comunque qualcosa nella sua capacità di fare blues. Ho avuto la stessa impressione anche con David Bromberg. Bromberg è un ragazzone ebreo di Brooklyn, ma può interpretare una canzone blues con una sua personale autenticità che gli dà la licenza per farlo, ed è lo stesso per Bob. Non so bene come definirla o spiegarla, ma è una cosa istintiva che cogli. Quando suonavamo dal vivo i brani blues che avevamo inciso per “Love & Theft”, in una serata in cui lui si lasciava andare davvero avevi proprio questa sensazione profonda.

RP: Com'era una tipica giornata on the road con Bob?

LC: Si entrava in hotel alle 3 del mattino o qualunque ora fosse, perché ci spostavamo di notte. Sveglia, sperabilmente dopo qualche buona ora di sonno. Mangiavi qualcosa. Magari, se eri in grado, passavi prima in palestra. Ti vestivi e andavi al soundcheck. La band si scaldava un po' per circa mezz'ora. Arrivava Bob ed erano altre due ore a ripassare le cose. Magari due ore sulla stessa canzone, magari un paio di canzoni, magari qualche canzone che non avremmo mai più suonato. Fatto così il soundcheck è sempre stato interessante. Poi ci fermavamo e andavamo a cena. I ristoratori viaggiavano con noi, era una società di catering di Knoxville. Il cibo in quei tour era incredibile, era il meglio di quel genere. Credimi, era qualcosa per cui non vedevi l'ora.

RP: Di solito non sento persone impazzire per il cibo del backstage.

LC: Lo so, ma tutti in quei tour, tutta la troupe e la band, hanno fatto bene. Mangiavamo, ci rilassavamo per mezz'ora e poi facevamo il concerto. Questa era la routine. Poi, dopo l'ultima canzone, subito fuori dal palco e sul bus verso la città successiva. Nessun cazzeggio. Se eri fortunato erano due ore di viaggio, arrivavi in hotel a un'ora ragionevole e dormivi un po', ma molto spesso ci volevano dalle cinque alle otto ore. Sì, amico, la strada non è per i deboli di cuore. È piuttosto estenuante.

RP: Dopo uno spettacolo c’era una sorta di commento post-partita, un momento in cui la band o Bob o chiunque altro dicesse: "Questo ha funzionato, questo non ha funzionato, proviamoci domani"?

LC: C’era una piccola area dietro il palco che veniva allestita ogni sera. Scesi dal palco, ci si ritrovava tutti lì. Bob commentava, qualunque cosa volesse commentare. "Sì, è stato grande." "No, non ha funzionato." "Dobbiamo cambiare questo." Era un appuntamento abbastanza regolare. Qualcun altro diceva la sua. E poi avremmo affrontato la cosa il giorno dopo al soundcheck, ma anche no.

RP: Era sufficiente per andare avanti? Alcuni musicisti con cui ho parlato lo trovano frustrante. La gente pensa che sia difficile leggere la sua mente.

LC: Sì, Bob può essere volubile, di sicuro. Magari pensi che gli stai dando quello che ha manifestato di volere, e poi il giorno dopo è la cosa più distante da quello che ha in testa in quel momento. Succede, ma basta abituarsi. Potrebbe essere frustrante, ma penso che in una certa misura tutti possiamo diventare così quando cerchiamo di essere artisti creativi. Non è raro. Penso che con la nostra band, la mia e di Teresa [Williams], anch’io potrei essere stato colpevole della stessa cosa alcune volte. Sai, fa parte del gioco.



RP: C'è un periodo in particolare a cui ripensi con affetto?

LC: C'è stato un tour in cui stavamo suonando alcuni brani di Warren Zevon e alcuni dei Rolling Stones, quando tutto è entrato in sintonia in molti modi. Non ricordo che anno fosse. Quel tour sembrava una macchina dove tutto filava liscio. Non so come spiegarlo né il perché, ma il materiale che stavamo facendo, l'apparente soddisfazione di Bob per ogni cosa, sembrava che tutti fossimo in sintonia. [2]

RP: Quale lezione hai portato dalla tua esperienza con Dylan nei tuoi lavori successivi? Mi riferisco sia alle cose con Teresa Williams e sia alla tua collaborazione con Levon Helm, con Phil Lesh e tutti gli altri.

LC: La cosa grande per me è questa - e l’ha espressa molto bene Teresa guardando uno spettacolo di Dylan: se lo senti e lo capisci, non devi limitarti a nessun genere di musica. Teresa ed io siamo attratti dagli stessi stili di musica. Lei è una grande cantante country, una grande cantante di ballate, una grande cantante folk, una grande cantante rock and roll, e può anche essere una grande cantante blues. Lei può fare tutte queste cose, ma ha sempre pensato di dover scegliere e concentrarsi su una cosa sola, e in una certa misura l'ho fatto anch'io. Dopo gli anni con Bob, entrambi abbiamo sentito di poter esplorare come interpreti qualsiasi genere volessimo, a condizione di avere affinità e rispetto per quel genere.
Questa cosa l’abbiamo portata con noi quando abbiamo iniziato a lavorare con Levon Helm. Levon poteva muoversi in uno qualsiasi di questi generi con assoluta autorità. Qualsiasi genere collegato alle radici della musica americana, o quella che adesso è raccolta sotto la definizione ombrello di “Americana”, qualsiasi genere c’entri con quello. E, naturalmente, anche con Phil Lesh. I Grateful Dead volevano prendere questi generi delle radici ed estenderli ovunque potessero andare. Teresa ed io suonavamo con Levon Helm e con Phil Lesh allo stesso tempo. Ci fu persino un tour con Phil e Levon e noi suonavamo in entrambe le band. Con Levon questo mix di generi era più di un modo per fare la struttura di una canzone, mentre con Phil la struttura della canzone veniva buttata fuori dalla finestra. Bastava salire sul palco, iniziare a suonare, entrare nella canzone e vedere dove ti portava. Avere queste esperienze con loro due è stato incredibilmente appagante. Poi Teresa ed io abbiamo suonato con gli Hot Tuna, che avevano il “loro” modo di mescolare tutti questi generi. E poi con i Little Feat, che avevano il “loro” modo di mescolare tutti questi generi. È una cosa bellissima.
Ma tornando alla tua domanda iniziale, questo è ciò che ho imparato suonando con Bob. Questo concetto di sentirti a tuo agio in qualsiasi genere da cui ti senti attratto e avere la libertà di mettere tutte queste cose insieme nello stesso spettacolo. È qualcosa che si è consolidato in me a cominciare dagli anni passati con Bob.


 

Note
[1] La serie “It Was the Music” è sulla piattaforma Prime Video, ma purtroppo non ancora disponibile in Italia. Speriamo arrivi presto!

[2] Si riferisce allo US Tour dell’autunno 2002. Fu il primo in cui Dylan si divise tra chitarra e piano. Nelle scalette trovarono posto diverse cover: tutte le sere “Brown Sugar” dei Rolling Stones e almeno un paio di brani di Warren Zevon (la scelta era tra “Accidentally Like a Martyr”, “Boom Boom Mancini”, “Mutineer” e “Lawyers, Guns and Money”). In quel tour eseguirono spesso anche “Old Man” di Neil Young, “The End of the Innocence” di Don Henley, “Carrying a Torch” di Van Morrison e “Not Fade Away” di Buddy Holly.


Dal Papa a Soy Bomb: Larry Campbell ricorda undici insoliti show con Bob Dylan.

di Ray Padgett - (9 aprile 2021)

Fonte: https://dylanlive.substack.com/p/from-the-pope-to-soy-bomb-larry-campbell

Traduzione di Silvano Cattaneo

Qualche giorno fa ho pubblicato una lunga conversazione con il grande chitarrista (e non solo) Larry Campbell sui suoi otto anni trascorsi nella band di Bob Dylan. Abbiamo parlato degli alti e bassi del suo periodo con Dylan, di come si è unito al gruppo e del perchè se n'è andato.
Come piccolo e divertente poscritto, alla fine della nostra conversazione ho citato a Larry alcune esibizioni che pensavo ricordasse particolarmente. Per la maggior parte non erano concerti normali, ma serate di award, registrazioni di film, all-stars tour e pezzi unici vari. Li ricordava tutti, abbastanza sicuro e aveva alcuni aneddoti dietro le quinte da condividere.
Quindi, andando cronologicamente dai suoi primi concerti con Dylan nel 1997 fino al suo ultimo spettacolo nel 2004, ecco Larry Campbell su undici delle esibizioni più strane o insolite che ha dato con Dylan.

27 SETTEMBRE 1997 – CONCERTO PER IL PAPA

Larry Campbell: Lo ricordo molto bene. C’erano 400.000 persone là fuori. Il Papa era rimasto lì tutto il giorno con queste esibizioni internazionali, acrobati, maghi. Poi toccò a noi suonare alcune canzoni. Eravamo di fronte al pubblico e a sinistra sul palco c'era il trono del Papa. Era seduto con il mento appoggiato alla mano, doveva essere esausto.
Suonammo un paio di brani. Io ero alla destra del palco e Bob stava facendo - ho dimenticato quale canzone fosse, forse "Knockin' on Heaven's Door". Il regista televisivo, con le sue cuffie, mi si avvicina mentre sto suonando e dice: "Deve incontrare il Papa! Deve incontrare il Papa!" Mi guarda come se io dovessi fare qualcosa al riguardo. Tipico stile italiano. Scuote la testa, guarda l'orologio. "Deve-incontrare-il-Papa!" E io stavo cercando di suonare.
La canzone finisce, mi avvicino a Bob e gli dico: "Ehi, Bob, questo tipo mi sta dicendo che devi andare a incontrare il Papa". Bob si guarda intorno come per dire "Cosa?" Poi il regista gli indica con la mano il Papa. Allora Bob lascia la sua chitarra a qualcuno, si avvicina al Papa e gli stringe la mano. Il Papa gli regala un rosario o qualcosa del genere, Bob torna, suoniamo un altro pezzo e poi è finita. Fu un'esperienza che non mi sarei mai aspettato di fare. Semplicemente surreale.

25 FEBBRAIO 1998 – "LOVE SICK" AI GRAMMY AWARDS

Larry Campbell: Bob ebbe l’idea fantastica di far sembrare la nostra esibizione come una vecchia performance di Shindig! [Nota 1], dove un gruppo di ragazzi bazzicava dietro le band, si muoveva e si divertiva. Assunsero delle comparse e le piazzarono appena dietro di noi, in cerchio.
Al soundcheck andò tutto bene. Poi arrivò l’esibizione. Cominciammo la canzone e, prima che me ne accorgessi, una di queste comparse arrivò di corsa, iniziò a ballare e si tolse la maglietta. Sul suo petto aveva scritto "Soy Bomb" ed era in piedi a ballare accanto a Bob. Bob si gira verso di me e dice: "Chi diavolo è questo tizio?"
Rispondo: "Non lo so, amico, non lo so." Finché due della sicurezza uscirono di corsa, afferrarono il ragazzo e lo portarono via. Furono i suoi 60 secondi di celebrità, o qualunque cosa fosse, proprio lì. Bob mantenne la calma e continuò. Non ne fu affatto scosso, credo. Per un attimo pensai che fosse pianificato o qualcosa del genere, ma quando Bob si è girato a chiedermi "Chi diavolo è questo tizio?" ho capito che non lo era. Dopo ci abbiamo riso sopra.

MAGGIO 1998 – ALL-STAR TOUR CON VAN MORRISON E JONI MITCHELL

Larry Campbell: Fu fantastico stare con loro. Dopo ogni spettacolo ci fermavamo nella lounge dell'hotel a parlare di musica e cose del genere. Van raccontava le sue esperienze in tour e altre cose. E poi ascoltare Joni ogni notte… Gesù, amico, wow!
Fu davvero un grande tour. Bob voleva migliorare l’esibizione ogni sera. Avvertivo una sorta di competitività, ma in senso positivo. Non nasceva da un senso di frustrazione, cosa che potrebbe accadere con Bob. Nasceva da "Siamo tutti coinvolti insieme. Usciamo e facciamo qualcosa di forte". E l'abbiamo fatto. Il peso artistico di quelle tre personalità fu per noi un buon trampolino di lancio per dare il nostro meglio ogni sera.

Ray Padgett: Cosa intendi quando dici che la competitività a volte veniva da un senso di frustrazione? Era qualcosa già successo?

LC: Sì, a volte ho avuto questa sensazione. Se c’era stata un’esibizione particolarmente buona dell’artista di supporto, Bob diventava competitivo e apparentemente insicuro. Apparentemente. Non lo so per certo, ma questa è la mia analisi psichiatrica amatoriale. Siamo tutti insicuri e a volte questo sembrava venir fuori anche da lui.

RP: E questo come influenzava te e la band? Notavi qualcosa sul palco, oppure si lavorava più sodo al soundcheck del giorno dopo?

LC: Entrambi. Lo vedi a disagio sul palco, ma tu non puoi farci niente. Tu suoni al meglio che puoi e vai avanti. Ma non voglio che sembri che succeda solo a Bob, perché capita a tutti. È una cosa normale quando stai cercando di essere al meglio delle tue possibilità artistiche. Una sorta di insicurezza, di frustrazione, di sentire che per qualche motivo non stai dando quello che vorresti dare.

18 APRILE 1999 – "TRAIN OF LOVE" AL JOHNNY CASH TRIBUTE SHOW [Nota 2]

Larry Campbell: In sala prove a New York eseguimmo la canzone in un sacco di modi diversi. Il modo Johnny Cash, il modo blues più sporco, il modo più uptempo, ma nessuno ci colpiva.
Poi, mentre eravamo in pausa, successe che David [Kemper, batteria], Tony [Garnier, basso] e io iniziammo una sorta di jam, una specie di blues. Non aveva niente a che fare con la canzone. Stavamo solo improvvisando su una progressione di accordi, o qualcosa del genere. Allora Bob prese la sua chitarra e disse: "Proviamo qualcosa che abbia un feeling come questo". Ecco come siamo finiti a fare quella versione. L’adoro. Sto provando a convincere Teresa [Williams] a fare quella canzone nello stesso modo. Lei ne tirerebbe fuori il massimo.

GIUGNO - LUGLIO 1999 – TOUR CON PAUL SIMON

Larry Campbell: Ogni sera si alternavano per chi avrebbe dovuto esibirsi per primo. Se aprivamo noi lo spettacolo, Paul usciva a fare una canzone con noi alla fine, poi toccava a lui e alla sua band. Quando invece apriva Paul, Bob usciva e cantava una canzone con lui e la sua band prima che arrivassimo noi. Era fantastico, davvero fantastico.
In quel tour ho conosciuto abbastanza bene Paul Simon e ho finito per lavorare con lui al suo album [“You're the One”] e a un paio di altre cose. Penso che lui e McCartney siano i due più grandi musicisti della melodia del 20° secolo.
In più Paul aveva un gran bel lancio. Una delle mie cose preferite in questi tour estivi, prima o dopo il soundcheck, è uscire sul campo e lanciare la palla.

Ray Padgett: Adesso mi fai innervosire retroattivamente, al pensiero di te e Paul Simon che giocate a baseball. Fate tutt’e due un fingerpicking complicato, sono contento che nessuno si sia rotto il mignolo o qualcosa del genere.

LC: Sì, buona osservazione! [ride] Paul all'inizio del tour fece una considerazione, disse: "Io e Bob veniamo dallo stesso punto, ma finiamo a due estremità diverse. Quello che fa Bob è sempre stato molto più vicino all'anarchia musicale, io ho cercato di essere il più sofisticato e controllato possibile.” È davvero interessante, perché fondamentalmente attingono acqua dallo stesso pozzo, ma la servono in due modi diversi.

25 MARZO 2001 – "THINGS HAVE CHANGED" AGLI ACADEMY AWARDS

Larry Campbell: Eravamo in Australia e dovemmo andare in uno studio laggiù. Il regista televisivo aveva pianificato tutta la faccenda. A Bob non piaceva: l'illuminazione, la panoramica e tutto il resto. Disse: "Amico, no, no, no. Sbarazzati di quelle luci, sbarazzati di quelle luci, sbarazzati di quelle luci!” Finimmo con solo le luci dello studio, cosa che diede un'atmosfera oscura a lui e alla band sul palco. Ebbi la sensazione che stesse prendendo in giro il regista, ma funzionò alla grande. Qualche mese fa ho visto il filmato su YouTube. L'illuminazione sembrava proprio più naturale di quella che il regista stava cercando. Il regista voleva qualcosa più sparato e appariscente, Bob solo questa semplice illuminazione. Suonammo la canzone, era fatta, punto e basta.
In questo tipo di esibizioni per premiazioni, cerimonie e cose del genere, Bob cercava sempre di dimenticare la parte spettacolare. Dimentica il fumo, le luci, i lustrini e tutta quella roba. Basta suonare, filmare lui, filmare la band, in modo che nulla distragga dalla canzone.

27 FEBBRAIO 2002 – "CRY A WHILE" AI GRAMMY AWARDS

Larry Campbell: Stessa cosa. Avevano un enorme palco che stavano cercando di vendere a Bob. Lui disse "No, amico". Gli fece costruire una tenda sul lato del palco. Disse: “Restringiamo l'ambiente. Metteteci in questo palchetto e lasciate che la band suoni e faccia la band. Dimenticate tutto il resto”. Ancora una volta si discusse dell'illuminazione. Non voleva che ci fosse un light show, voleva solo una luce oppure un'illuminazione uniforme, come se stessimo suonando in un club da qualche parte.
Anche nell’episodio di Soy Bomb in cui avevamo le comparse intorno, lui voleva solo suonare la canzone. Che fossero tutti gli altri a fare il grande spettacolo con i ballerini, i fumogeni e tutta quella roba.

MAGGIO 2002 – PERFORMANCE PER "MASKED & ANONYMOUS"

Larry Campbell: Quello che vedi nel film è esattamente ciò che stavamo suonando. Indossammo tutti microfoni a bavero e microfonarono gli strumenti. La performance che vedi è genuina, niente trucchi, niente manipolazioni. Hanno fatto bene, era importante per me. In genere nei film, quello che vedi non è quello che sta suonando la band. Larry Charles, il regista di “Masked & Anonymous”, fu davvero fantastico nell'usare le performance reali. Penso che quella parte sia venuta benissimo.

Ray Padgett: Molte delle canzoni che suonaste in quel film non erano quelle dei vostri show. Erano canzoni diverse, arrangiamenti diversi. Ci furono prove ad hoc?

LC: Sì, ricordo che passammo parecchio tempo a riarrangiare alcune canzoni. Ad esempio, "Cold Irons Bound" ebbe il suo arrangiamento specifico. O "Diamond Joe", suonata solo per il film. Le altre non le ricordo adesso, ma le canzoni che suonammo le arrangiammo appositamente per il film.

3 AGOSTO 2002 – DYLAN TORNA A NEWPORT

Larry Campbell: Per ma la cosa più notevole fu quando salimmo sul palco ed ecco che arriva Bob con parrucca, barba e baffi finti e un cappello. Non aveva detto niente a nessuno, non c'era stata nessuna avvisaglia. Lo stavamo scoprendo sul palco nello stesso momento in cui lo stava scoprendo tutto il pubblico. Ne fui divertito. Quale fosse lo scopo, non lo sapevo allora e non lo so ancora adesso, ma va bene. Non cercherò di analizzarlo.
Ricordo che fu una grande esibizione. Ricordo anche di aver capito la monumentale importanza di quel concerto. L’esibizione di Dylan a Newport nel 1965 fu un momento iconico, e ora io potevo partecipare con lui alla successiva e forse unica altra esibizione lì. Quello fu fantastico.

21 FEBBRAIO 2003 – BOB CANTA "HAPPY BIRTHDAY" A LARRY IN NUOVA ZELANDA

R P: Tempo fa ho provato a cercare tutte le volte che Bob ha cantato a qualcuno “Happy Birthday” sul palco e non sono state molte. Erano solo cinque o sei e una è stata per te. Te la ricordi?

Larry Campbell: Sì, disse “Che ne dici? Lo faccio? Sì, lo faccio!” Fui molto commosso e toccato. [ride]

RP: Dopo lo hai ringraziato o sei passato al concerto successivo mantenendo un profilo basso?

LC: Andammo avanti, come se nulla fosse. Non penso che bisognasse farne un caso.

21 NOVEMBRE 2004 – ULTIMO CONCERTO DI LARRY CAMPBELL CON BOB DYLAN

RP: Sapevi che sarebbe stato il tuo ultimo concerto? L’avevi già comunicato o prendesti la decisione dopo?

Larry Campbell: No, non lo sapevo. Iniziai a rimuginarci sopra in quel tour. Durante quell'ultimo tour ci furono progetti che avrei voluto fare e non riuscii. Non li ricordo tutti. Uno di questi era suonare su un disco con Paul McCartney e non potei proprio farlo. Non fu questo il motivo scatenante, ma queste cose si stavano sommando.

RP: Decisione dura, però. È uno dei tuoi eroi.

LC: Si, esatto. Volevo anche stare con Teresa [Williams]. Quando finii l’ultimo tour con Bob, Teresa era impegnata in uno spettacolo dedicato alla Carter Family. Passammo il Natale assieme, poi lei riprese questa cosa sulla Carter Family. A casa guardai la programmazione dei tour con Bob per l’anno a venire e le cose iniziarono a sommarsi.
Fu in quel tempo libero che decisi che dovevo fare qualcosa. Chiamai [il manager di Dylan] Jeff Kramer. Il tour successivo sarebbe stato con Merle Haggard. Volevo farlo, gli dissi: "Non posso più continuare. Ti do tutto il preavviso di cui hai bisogno". Gli spiegai e lui capì. Pensava che avrei potuto fare il tour con Merle Haggard, ma dopo averne discusso con Bob dissero: "Okay, via libera, troveremo qualcun altro per il prossimo tour". [Nota 3]
Ero spaventato. Stavo abbandonando una grande nave. Sapevo solo che dovevo farlo e che qualcosa di interessante sarebbe successo. Due settimane dopo ricevetti una chiamata da Levon [Helm] che mi disse: "Ehi, ho sentito che hai lasciato Bob, vieni qui e cominciamo a fare un pò di musica".
Quello fu l'inizio del più grande capitolo nella mia vita di musicista. Non che Bob non lo fosse stato, ma in quei quasi dieci anni con Levon ci fu tutto ciò di cui avevo bisogno come artista e come essere umano. Lui volle subito che Teresa si unisse a noi. Facevamo musica con lui e avevamo completa libertà di farla nel modo in cui volevamo. Divenni il suo produttore, realizzando quel mio desiderio. Levon incoraggiò tutti i componenti della band a farsi avanti e fare le loro cose, in un contesto davvero confortevole.
In più potevamo suonare tutte quelle canzoni fantastiche con una figura che, come ho detto prima, aveva assoluta autorevolezza su qualsiasi genere riconducibile alla musica americana delle radici. Era il paradiso. Teresa dice che era musica fatta di onore ed è esattamente così. È da lì che lei ed io siamo stati in grado di sviluppare quello che facciamo adesso. Suonare la musica che ami, con la persona con cui vuoi stare, cos'altro puoi chiedere di più? Era la situazione perfetta. E all'interno di questa situazione, avere pure la libertà di lavorare anche con altre persone. Davvero realizzai tutto quello che mi era mancato negli anni con Bob.
 

Note:

[1] Show televisivo della rete ABC andato in onda da settembre 1964 a gennaio 1966, presentato dal dee-jay Jimmy O’Neil. Tantissimi gli artisti che si esibirono nel programma: Beatles, Rolling Stones, Animals, Yardbirds, Who, James Brown, Sam Cooke, Aretha Franklin, Bo Diddley, Roy Orbison, Beach Boys… e persino la nostra Rita Pavone.

[2] Trasmesso in tv il 18 aprile 1999, il concerto tributo a Johnny Cash si svolse in realtà il 6 aprile all’Hammerstein Ballroom di New York. Parteciparono diversi artisti, tra cui Bruce Springsteen, Willie Nelson, Lyle Lovett, Mavericks, U2, Kris Kristofferson, Emmylou Harris, Chris Isaak e lo stesso Johnny Cash. L’esibizione di Dylan fu invece pre-registrata durante le prove per il tour europeo di quell’anno, che iniziò a Lisbona il 7 aprile.

[3] Larry Campbell fu sostituito da Denny Freeman che rimase con Dylan dal 2005 al 2009. Freeman è purtroppo scomparso quest’anno all’età di 76 anni.

 

Regina McCrary parla del cantare i Gospel con Bob Dylan

1979-11-01, Warfield Theatre, San Francisco, CA
Ray Padgett, Nov 1

Traduzione di Anonimo

Nei tre anni dal 1979 al 1981, quando Bob Dylan suonava la musica cristiana, ha registrato e fatto tournée con una varietà di coriste. Ma solo una cantante è rimasta al suo fianco per ogni singolo spettacolo di ogni singolo tour: Regina McCrary.

McCrary ha la musica gospel nel suo DNA, essendo cresciuta cantando insieme a suo padre, il reverendo Sam McCrary, il leader dei pionieri del gospel “The Fairfield Four”. Tutti questi anni dopo, continua a esibirsi con la sua famiglia, cantando con le sue tre sorelle Ann, Deborah e Alfreda nelle “McCrary Sisters”, così giustamente chiamate.
Esattamente 42 anni fa, il primo di novembre del 1979, Bob Dylan si esibì nel suo primo spettacolo dell' era gospel, al Warfield Theatre di San Francisco. Così ho chiamato Regina McCrary per farmi raccontare dei tour e delle registrazioni con Bob Dylan durante i suoi anni gospel.


Come sei stata coinvolta per la prima volta con quella band e con Dylan?

Ho ricevuto una telefonata da una delle mie amiche (Carolyn Dennis) che stava cantando con lui. Stavano cercando un’altra corista. Lei mi ha chiesto se ero interessata? Ho detto di sì. Sono andata all'hotel dove alloggiavano a Nashville e ho fatto il provino.
Conoscevo certe canzoni: "Lay Lady Lay", "Blowin' In The Wind", cose del genere. Non sapevo chi fosse Bob Dylan e non l’avrei riconosciuto se fosse stato in piedi accanto a me alla fermata dell' autobus. A parte alcune canzoni, non ho mai saputo chi fosse.
Ho cantato tre canzoni. La prima canzone, non credo lo abbia commosso. La seconda canzone sembrava essergli piaciuta,alla terza canzone saltò in piedi e disse: "Questo è quello che voglio".

Ricordi quali erano le canzoni?

Sì, la prima canzone era "Everything Must Change ", la seconda canzone era "Precious Lord Take My Hand" e la terza canzone era
" Amazing Grace".

Quello che è successo dopo? Sei partita quel giorno sapendo che avevi acquisito un lavoro?

Bene, dopo che ho finito di cantare "Amazing Grace " , è balzato in piedi e ha detto: "Sì, è quello che mi piacerebbe!" L’ amica che mi ha chiamato per l'audizione, Carolyn Dennis, ha iniziato ad armonizzare con me in "Amazing Grace". Lui saltò in piedi, disse: "Sì, questo è il suono che voglio. Questo è quello che voglio". L'abbiamo cantata di nuovo e lui l'ha registrata sul suo stereo. Poi ha detto: "Hai avuto il tuo lavoro" e io ho detto: "Okay".
Ha detto che voleva che mi intrecciassi i capelli. Ho detto: "Va bene, paghi tu il parrucchiere, lui ha riso e detto di sì, poi ha detto: "Voglio che tu veda il mio spettacolo".
Voleva che andassi allo spettacolo del 3 dicembre, che era il compleanno di mia madre. Ho detto bene. Disse: "Bene, quanti biglietti ti servono?" Gli ho detto 17. Lui fa "Cosa?" Ho detto: "Sì. Ho quattro fratelli, tre sorelle, un marito. mio figlio, io stessa..." Ha detto: "Fermati, avrai 17 biglietti a tuo nome ."
Io e la mia famiglia abbiamo visto il suo spettacolo. Quando lo spettacolo è finito, siamo tornati tutti nel backstage e Bob ha incontrato tutta la mia famiglia. Poi tutti se ne sono andati tranne me e mio padre. Mio padre guardò Bob Dylan e disse: "Porti la mia bambina in tour?" Bob Dylan ha detto: "Sì". Mio padre ha messo la sua mano nella mano di Bob e ha lo ha tirato verso di lui con molta delicatezza e gli ha detto: "Non farla piangere". Bob ha detto: "Te lo prometto".

Circa due mesi dopo ho ricevuto una telefonata per registrare un disco [ Slow Train Coming ]. Ho preso un aereo e sono andata ai Muscle Shoals, in Alabama. Quando sono arrivata, abbiamo alloggiato in una grande vecchia casa. Bob Dylan andava con la band in studio e registrava, e poi tornavano nella casa in cui stavamo noi. Lasciavano che noi coriste ascoltassimo la musica. Creavamo le parti di sottofondo per la canzone, e poi andavamo in studio e registravamo le parti di sottofondo.

  Da sinistra: Mona Lisa Young, Regina McCrary, Bob, Clydie King.

Quando hai scoperto che era diventato un cristiano rinato? Nel dicembre del 1978, quando hai visto quello spettacolo, di certo la cosa allora non era di dominio pubblico. Sapevi quando sei andata a Muscle Shoals che quelle sarebbero state canzoni influenzate dal gospel?

Sapevo qualcosa, perché poco prima di entrare in studio per registrare, è uscito un grande articolo a Nashville, nel Tennessee, che diceva "Bob Dylan ha confessato di essere un cristiano rinato". La cosa non m’importò in quel momento. Essendo una cantante professionista, ero lì per fare il mio lavoro.

Ho letto che anche tuo figlio ha avuto un ruolo in quel disco. Puoi raccontarmi quella storia?

Beh, eravamo seduti in casa e Bob è tornato. Lui e i produttori Jerry Wexler e Barry Beckett avevano ovviamente avuto un grande dibattito su una particolare canzone che non sapevano se sarebbe dovuta andare nel disco. Il dibattito è andato avanti così tanto tra loro che hanno riportato la canzone a casa per farcela ascoltare.

Mentre lo ascoltavamo, la canzone iniziò a parlare di "Penso che lo chiamerò maiale, penso che lo chiamerò orso". All'epoca mio figlio aveva circa due, tre anni, e quando diceva: "Penso che lo chiamerò maiale", Tony si chinava e rideva davvero forte. "Mamma! Mamma! Ha detto un maiale! Ha detto, penso che lo chiamerò maiale, mamma." Poi hanno detto: "Penso che lo chiamerò orso", e Tony sarebbe caduto e avrebbe riso. "Mamma, ha detto, penso che lo chiamerò orso!" Bob inizia a guardare Tony. Ha appena iniziato a guardarlo. Ogni volta che Bob chiamava il nome di un animale, Tony scoppiava a ridere. Bob ha detto , "Ok, metteremo la canzone nel disco".

Cosa succede dopo quelle sessioni? Lo sapevi che stava arrivando la partenza del tour?

Quando abbiamo finito di registrare il disco, sono tornata a casa. Ci è stato detto dal management di Bob che si sarebbero messi in contatto con noi. Poi siamo andati a Santa Monica. Abbiamo provato per alcune settimane, poi siamo andati a New York per partecipare al “Saturday Night Live”.

Com'era?

È stato fantastico e sorprendente. Ho adorato il Saturday Night Live. Ho adorato guardare Gilda Radner, John Belushi e Dan Aykroyd e tutti loro. Andare a fare Saturday Night Live e incontrare tutti questi ragazzi che vedevo in TV ogni sabato è stato molto eccitante.
Dopo il Sarurday, sono tornata a casa per alcune settimane, poi a Santa Monica abbiamo fatto le prove per quasi tre mesi di fila prima di andare in tournée.

Wow, è un sacco di prove.

Bene sì. Ha detto al mondo che è un cristiano rinato. Ha detto al mondo: "Quest'uomo ebreo crede in Gesù Cristo e crede nella Parola di Dio" e tutto il resto. Uscirà per la strada e farà qualcosa che, in tutti questi anni, non aveva fatto prima...! Perché se ascolti i testi di molte delle sue canzoni, stava parlando le parole positive di Dio, amore, giustizia, solidarietà e uguaglianza. Stava parlando di tutto questo in tutte le altre sue canzoni. Ora ha detto con coraggio al mondo che crede in Gesù Cristo.
Quindi ecco le prove, stiamo lavorando a questo spettacolo, lavorando su questo show in modo che quando sarà nei teatri la gente non pensi che sia solo un espediente. Devono capire che è sincero e veritiero reale riguardo a quello che sta cantando.

Musicalmente, in tutte quelle prove, la band e tutti i cantanti si sono uniti velocemente?

È andata bene, ma vedi, sono una ragazza della vecchia scuola. Entro, faccio quello che devo fare e poi esco. C'era solo una persona con cui avevo un rapporto stretto, e questo perché la conosco da quando avevo sette anni, Carolyn Dennis. Quando le prove sono finite, vado a prendermi qualcosa da mangiare, torno indietro, ascolto la musica, provo le canzoni, e poi mi rilasso e mi sveglio il giorno dopo per andare di nuovo alle prove.

Cosa ricordi di quei primi spettacoli?

Mi sentivo benissimo, e il motivo per cui mi sentivo benissimo era perché ero nella mia confort zone. Possiamo andare là fuori e cantare la Parola di Dio e sperare che le persone che hanno pagato i loro soldi per venire ad ascoltare ricevano il messaggio. Quando arrivo nel backstage per salire sul palco, ascolto e guardo le persone.... e mi sintonizzo spiritualmente su quello che sto per fare.

Diversi articoli dicevano che c'erano alcune persone incazzate, arrabbiate che fischiavano. Beh, indovina un po' Ray? Non ne ho mai sentito parlare. Immagino che Dio abbia bloccato il mio udito in modo che non lo sentissi. Perché io sono salita su quel palco da sola, raccontando la storia di una donna anziana che sale su un treno, se avessi sentito alcune di quelle persone che fischiavano, come dicevano alcuni articoli di giornale, la cosa mi avrebbe devastato. Questo avrebbe incasinato la mia mente e il mio cuore. Devo davvero dire che Dio mi ha portato via tutto questo. Tutto quello che so è che sono andata fuori sul palco concentrata su quello che stavo per dire e quello che stavo per fare. Questo è quello che ho fatto.

Com'è successo che hai aperto lo spettacolo con quella storia del treno?(Regina ha iniziato i primi spettacoli gospel di Dylan in piedi da sola sul palco, raccontando una storia spirituale su una donna che cercava di salire su un treno)

Eravamo a teatro, avevamo fatto il soundcheck e tutto il resto. Ho visto Bob grattarsi la testa e ho pensato, okay, qualcosa non va. Sta pensando intensamente. Così mi sono avvicinato a lui e gli ho detto: "Cosa c'è che non va?" Disse: "Manca qualcosa". Ho detto: "Cosa vuoi dire?" Ha detto: "Questo è un grande spettacolo, ma manca qualcosa e non so cosa sia".
Sono una burlona, settima figliao di otto fratelli. Vengo da una famiglia che ama giocare, scherzare e fare le sciocchezze. L'ho guardato e ho detto: "Ok, so cos'è". Ha detto: "Cosa?" Dissi: "Sto per salire sul palco e racconterò questa storia su questa vecchia che piangeva..."... Dopodiché, le altre ragazze saliranno sul palco e la prima canzone che canteremo è ‘If I’ve got my ticket lord, can I ride?’”
Mi ha guardato come se avessi perso la testa. Uscì dalla stanza e io iniziai a ridere. È tornato con i membri della band Jim Keltner, Tim Drummond, Fred Tackett e gli altri. Disse: "Dì loro quello che hai appena detto a me". Ho detto: "Stavo giocando!" Disse: "Okay, beh, fallo di nuovo e dì loro quello che hai appena detto a me".
Ho raccontato l'intera storia di nuovo, tranne che ora siamo nel camerino e tutte le ragazze, tutte le coriste, il ragazzo delle luci, eravamo tutti lì dentro. Ho raccontato di nuovo la storia e, quando ho raccontato la storia, nessuno ha detto niente.
Poi, sono passati circa 15, 20 minuti prima che arrivasse il momento di salire sul palco. Noi ragazze ci stavamo mettendo i vestiti, il trucco e tutto il resto. Bob è entrato nel camerino e ha detto: "Ecco come apriremo il mio spettacolo". Ho detto: "No, no, no. Stavo giocando, stavo solo giocando!" Ha detto: "Va bene. Canta. Vai là fuori. È così che apriremo il mio spettacolo".

Ho detto a una persona: "Oh amico. Hai un quarto di dollaro?" Disse: "Un quarto? Perché vuoi un quarto?" Dissi: "Devo usare un telefono pubblico e chiamare mio padre". Ha detto: "Cosa?" Dissi: "Quella storia che ti ho raccontato era la storia che mio padre raccontava spesso in chiesa". Mio padre, essendo un pastore, raccontava storie, e questa era una delle storie che ricordo che raccontava.
Mi ha dato i soldi. Sono andato al telefono pubblico. Ho chiamato mio padre e gli ho detto: "Papà, ti ricordi quando mi dicevi che il mio parlare mi avrebbe benedetto o mi avrebbe maledetto?" Ha detto: "Sì". Ho detto: "Beh..." e gli ho detto cosa era successo. Ha iniziato a ridere. Mi ha detto: "Questa è una benedizione". Ho detto: "Papà, non posso farlo!" Ha detto: "Sì, puoi. Ti dirò cosa fare. Quando uscirai su quel palco, quel grande riflettore luminoso che sarà su di te, guarda in quel riflettore". Ho detto: "Perché?" Disse: "Perché Dio sarà lì, e io sarò lì. Saremo proprio lì, quindi ogni volta che ti innervosisci, guarda in quella luce e sappi che siamo proprio lì". Ho detto: "Va bene".
La moglie di Fred Tackett, il chitarrista, era in tour con noi in quel momento e, essendo un'attrice, mi ha tirato da parte e mi ha dato alcune indicazioni. Disse: " Quando stai raccontando la storia, bisogna che tu sia il narratore e racconti la storia come un narratore. Quando il narratore inizia a parlare del conduttore, devi cambiare la tua voce e diventare il conduttore. Quando la vecchia donna inizia a parlare, devi cambiare la tua voce ed essere la vecchia. Quando stai leggendo la lettera del figlio che è ferito in ospedale, cambia la tua voce e sii il figlio". Ero tipo "Oh mio Dio".

Stava  succedendo tutto questo prima di salire sul palco per farlo per la prima volta?

Esatto, assolutamente.
Sono entrata nella stanza, ho pregato e poi è arrivato il momento di iniziare lo spettacolo. Sono salita sul palco, da sola, e ho raccontato la storia. Quando sono arrivata alla parte in cui si dice: "Il conducente ha rimesso la vecchia sul treno e, quando la vecchia è salita sul treno, il treno inizia lentamente a muoversi", in quel momento, il pianista inizia a emettere suoni per imitare le ruote del treno in movimento. Mentre il tastierista faceva ciò, le altre coriste uscirono, perché la luce in quel momento era solo accesa su di me. Quando il tastierista suonò era il segnale, e le coriste si sono messe in posizione.
Avevo ancora il microfono in mano e la prima canzone è stata "If I Got My Ticket, Lord". Ero la prima voce di quella canzone. Quindi sono passato da [imita il suono del pianoforte] a “If I got my ticket Lord…” e siamo andate avanti.
Abbiamo fatto 25 minuti di gospel. Alla fine di quelle canzoni, la luce si è abbassata. Quando la luce si è riaccesa, Bob Dylan era in piedi sul palco e stavamo facendo "Gotta Serve Somebody".

È un modo potente per aprire lo spettacolo ogni sera.

Sì, molto potente.

C'è un duetto che hai fatto con lui, "Mary From The Wild Moor", in cui suonavi l'autoharp. Era anche l'unica canzone su cui hai suonato uno strumento?

Altro che tamburello, sì. Mi ha insegnato l'autoharp. Mi ha insegnato gli accordi.

Oh veramente? Immaginavo fosse uno strumento che già suonavi.

Oh no. Non ne sapevo niente.

Sta facendo un'altra di quelle serie pirata che include alcune delle cose successive che avete fatto insieme. Nella tracklist c'è "Mary From The Wild Moor". Dice che viene da una prova, quindi spero che sia uno dei duetti. [Springtime in New York è uscito dopo che abbiamo parlato, e "Mary" è davvero in uno dei loro duetti.]

Oh, spero che lo sia, perché te lo dico, mi è piaciuto farlo. L'avevo sentito fare quella canzone da solo e poi ha deciso: "Regina, voglio che tu impari questa canzone". Ero tipo "Okay". La sfida era imparare i testi e voltarsi dopo aver imparato i testi per imparare a suonare l' autoharp. “Mary The Wild Moor” ha così tanti versi, non è divertente.
Questo è davvero essere gettato nel profondo. Non solo imparando la canzone, ma poi devi imparare uno strumento nuovo di zecca da suonare davanti a migliaia di persone.
Oh, sì, uno strumento che non avevo mai suonato prima.

C'erano molte cose che venivano aggiunte durante il tour e che non avevi provato, o cose cambiate che dovevi imparare al volo?

Beh, Bob non ha mai cantato sempre la stessa canzone allo stesso modo. Ci sono state volte in cui è salito sul palco e si poteva dire che si sentiva e pensava in modo diverso. Ho imparato a guardare la sua bocca e a guardare i suoi piedi. Questo mi ha aiutato a capire se cambiava il fraseggio di una canzone, o voleva che il ritmo cambiasse, o che rallentasse o accelerasse, o dargli un'altra sensazione. Lo guardi e puoi semplicemente entrare in azione.

Hai delle canzoni preferite in particolare che ti piaceva cantare ogni sera?

Mi è piaciuta “Man Gave Names to All the Animals” perché Carolyn Dennis è la madrina di mio figlio. Quando siamo andati in studio per registrarla, eravamo solo io e Carolyn a fare da sottofondo a quella particolare canzone. Jim Keltner mi ha insegnato a tenere il tempo con le bacchette. Quando senti quel donk, de-donk, de-donk , sono io che suono i bastoncini.

Ovviamente, era uno spettacolo molto religioso. Era così anche nel backstage? Stavate pregando insieme? C'era una sorta di lettura della Bibbia, qualcosa del genere accadeva?

Oh si. Abbiamo pregato. Abbiamo pregato prima ancora di salire sul palco. Ci siamo tutti alternati quando abbiamo girato intorno prima che fosse il momento dell'inizio dello spettacolo. È stato fantastico poter sapere che tutti si tenevano per mano e che tutti pregavano. Forse c’erano uno o due che non erano nel cerchio, ma andava bene anche questo, abbiamo pregato per loro.

Una cosa che non hanno incluso nel cofanetto [Trouble No More] sono i lunghi sermoni che Bob ha tenuto dal palco. Chissà se erano simili a quelli della tua infanzia, anche se Dylan è diverso ovviamente non è un predicatore tradizionale.

Questo è come lo vedo. Puoi andare a scuola tutto il giorno e uscire e dire alla gente che sei stato addestrato, ma sei chiamato? Posso solo dire questo: so che essendo in viaggio con Bob Dylan, Bob è stato chiamato. Dio lo ha chiamato. Aprendo la bocca e parlando del mondo, delle bugie e di Dio, e citare le scritture era naturale per lui perché gli era stato detto da Dio di fare ciò che aveva fatto. Per me, è stato perfetto, come ascoltarlo citare le scritture e parlare con le persone e assistere le persone come guardare un bambino che nasce. Molto naturale.

Come ti sei sentita più tardi quando ha iniziato a suonare canzoni più vecchie? Ti è piaciuto suonare isuoi più grandi successi o hai preferito fare tutte le nuove canzoni, tutte le canzoni cristiane?

Lascia che te lo dica: posso alzarmi tutto il giorno e cantare canzoni su Dio. Amo il Signore, e questo è il mio cuore, e questa è la mia passione, e questo è ciò che sono. È il mio DNA quando si tratta di musica. Voglio sempre cantare canzoni e presentare alle persone Gesù Cristo. Voglio farlo sempre. Voglio avere sempre una preghiera nel mio cuore, sulle mie labbra, per aiutare qualcuno ed essere quel faro di luce di cui qualcuno potrebbe aver bisogno e che potrebbe essere perso. Ma allo stesso tempo, Dio mi ha dato un lavoro per salire sul palco ed esibirmi con Bob Dylan. Sono contenta che Bob stesse cantando la sua musica gospel, e quando ha iniziato ad aggiungere un po' della sua altra musica, anche a me andava bene.

Abbiamo parlato molto di Slow Train Coming, ma hai fatto anche Saved e Shot of Love. Ti salta fuori qualcosa riguardo alle sessioni di quei due dischi, che sono anche fantastici?

Amo, amo, amo Saved. " Saved" è una di quelle canzoni che mettono quella cosa dello Spirito Santo nel tuo feed e vuoi solo cantare e ballare. Adoravo suonare il tamburello e in "Saved" ho avuto modo di suonare quel tamburello. È stato meraviglioso.

Registrare l'album Saved è stato simile a Slow Train Coming ?

Sì. Anche andare in studio per registrare Saved è stato davvero fantastico e potente. In Slow Train Coming, non sapevamo con certezza quali fossero le canzoni finché non le riportava a casa dove stavamo tutti, ma con Saved lo sapevamo tutti. Stavamo per entrare e divertirci con lo Spirito Santo.

La band e il team di produzione "Saved" (Regina in rosso)

Hai scritto un paio di canzoni con lui, tra cui "Don't Make Her Cry", ispirata a ciò che gli ha detto tuo padre, e "Give Him My All " , che alla fine hai registrato tu stesso. Come è avvenuta la scrittura con lui?

Ho sempre ricordato a Bob quello che ha detto mio padre. Ho detto: "Alla fine dovremo scrivere questa canzone". Lui ha iniziato a ridere e ha detto: "Quale canzone?" Dissi: "Le parole che ha detto mio padre: non farla piangere". Ha detto bene.
"Give Him My All" è stato scritta mentre ero in viaggio con lui, ed eravamo sull'autobus in viaggio verso un'altra città. Avevo carta e penna in mano e lui disse: "Cosa stai facendo?" Dissi: "Sto scrivendo una canzone e sono bloccata. Non so cosa fare ora". Disse: "Posso vederla?" Gliela ho fatta vedere e lui l'ha guardata. Ha preso la penna, ha girato la pagina e iniziò a scrivere. Gli ho chiesto: "Cosa stai scrivendo?" Ha detto: "Sto scrivendo il ponte della canzone". Ha scritto il ponte per "Give Him My All".

Come mai hai deciso di registrarlo con le tue sorelle così tanti anni dopo?

Quando abbiamo registrato il nostro primo disco, abbiamo inserito "Blowin' in the Wind" sul nostro disco, e volevo anche mettere quella canzone dato che era una canzone di cui parlava di dare tutto di te stesso a Dio. È quello che facciamo io e le mie sorelle ogni volta che ci alziamo e cantiamo. Cantiamo come se non ci fosse un domani. Questo è quello che facciamo.

Hai mai registrato “Don't Make Her Cry”?

Non ancora. Non lo registrerò. Sto cercando di trovare un artista maschio che la voglia registrare. Sto cercando di convincere Buddy Miller a registrarla. Quello è mio fratello ma di un'altra madre.

Come hai agganciato Buddy?

Ha sentito me e le mie sorelle cantare su un disco con il bassista dei Fairfield Four. Isaac Freeman ha registrato il suo primo disco da solista e non voleva che nessuno cantasse in sottofondo se non le figlie di Sam McCrary. Buddy Miller l'ha sentito e ha detto: "Chi sono quelle ragazze? Le voglio nel mio prossimo disco".

Hai girato molto per tre anni. Cosa succede alla fine del 1981? Si parla di altro?

Beh, sono rimasta con Bob e ho fatto altre cose con lui. Poi sono rimasta sul suo libro paga ancora per qualche altro anno, e poi ho iniziato a cantare e fare altre cose.

Che tipo di lavoro hai fatto per quei due anni dopo i grandi tour?

Sono uscita on the road e ho fatto spettacoli teatrali con Tyler Perry. Ho cantato con un uomo di nome Dr. Bobby Jones che aveva uno show televisivo su BET. Quindi ho fatto ancora il lavoro di sessione. Sono spesso in viaggio con le mie sorelle. Prima di fondare le McCrary Sisters, avevamo un gruppo chiamato CBS Singers, che stava per cugini, fratelli e sorelle. Era uno dei nostri fratelli e tre dei nostri cugini e tutte e quattro le ragazze. Abbiamo viaggiato e cantato e abbiamo registrato un disco.

Hai fatto qualcos'altro con Dylan mentre eri sul suo libro paga in quegli anni?

Ogni tanto mi chiamava. Esco e canto questo, canto quello, faccio un po' questo, faccio un po' quello e questo, era tutto.

Ho visto te e le tue sorelle un paio di volte di recente [nel 2012 e nel 2013] fare " Blowin' in the Wind" con Bob. Come è successo?

È venuto in città, mi ha chiamato e mi ha detto che sarebbe venuto a vederci. Ho detto: "Finisci ancora il tuo spettacolo con 'Blowin' in the Wind'?" Ha detto: "Sì". Dissi: "Beh, io e le mie sorelle saremo sul palco e la canteremo con te". Rise e disse: "Va bene, dai".

Avete dovuto provarlo con lui tutti questi anni dopo o siete semplicemente saliti sul palco e l'avete fatto?

Come ho detto, quando l'ho incontrato per la prima volta, quella era una delle canzoni che ricordavo da molto tempo. Le mie sorelle e tutti noi lo sapevamo già. Ci siamo appena presentati sul palco e lui credeva che sapessimo cosa stavamo facendo.

È bello che voi due siate rimasti in contatto.

Terrò sempre il contatto con Bob. Sarò sempre preoccupata e starò sempre in contatto con lui perché è un brav'uomo. È davvero un gran brav' uomo.

Grazie a Regina McCrary per aver trovato il tempo di parlare! Seguite le McCrary Sisters tramite il loro sito web o Facebook . E date un'occhiata al loro ultimo singolo "Amazing Grace".

1979-11-01, Warfield Theatre, San Francisco, CA

Jim Keltner racconta trent’anni alla batteria per Bob Dylan

di Ray Padgett (22 luglio 2021)

(Source: https://dylanlive.substack.com/p/jim-keltner-talks-thirty-years-of)
(Source: https://dylanlive.substack.com/p/jim-keltner-im-there-because-bob)

Traduzione di Silvano Cattaneo

Jim Keltner ha suonato la batteria per quel genere di artisti che per ricordarli basta semplicemente il nome. Neil, Joni, Mick, Elton, Willie, Tom, John, George e Ringo. E, naturalmente, Bob.

In effetti, pochi musicisti hanno lavorato con Bob Dylan per un periodo di tempo più lungo di Jim Keltner. Si incontrarono la prima volta in una session del 1971: la sezione ritmica di Keltner, guidata da Leon Russell, accompagnò Bob in "Watching the River Flow" e "When I Paint My Masterpiece". Trent’anni dopo, Keltner andò in tour con Dylan sostituendo senza alcun preavviso il batterista George Receli che si era infortunato al tunnel carpale.

Nel mezzo sono successe parecchie cose. Keltner è stato il batterista dei tre "anni gospel" di Dylan. Ha suonato in diversi album – Pat Garrett & Billy the Kid, Saved, Shot of Love, Empire Burlesque, Time Out of Mind – e vari brani. È diventato il batterista di riferimento di Bob per gli eventi unici, dallo speciale per il decimo anniversario del Letterman Show al Japan's Great Music Experience in cui Bob ha suonato accompagnato da una grande orchestra; fino, ovviamente, al “Bobfest”, il concerto dove le più grandi star hanno celebrato i trent’anni di attività di Dylan.

E vogliamo forse dimenticare che Keltner era il sesto Travelling Wilbury? George Harrison gli chiese persino di diventare un membro ufficiale della band, ma Jim disse no (però ha ancora il suo soprannome di Wilbury: Buster Sidebury).

Quando ci siamo sentiti al telefono un mese fa, c'erano perciò molte cose da discutere. Non siamo riusciti a parlare di tutto, ma nel corso di una conversazione lunga, argomentata e affascinante, ho cercato di affrontare il più possibile le sue collaborazioni con Dylan.

La prima volta che incontrasti Bob Dylan fu la session del 1971 con Leon Russell?

Sì. Ero in Inghilterra con la mia famiglia e ricevetti una telefonata da Leon per incontrarmi a New York con Carl [Radle, bassista] e Jesse [Ed Davis, chitarrista].
All'epoca non mi rendevo conto di quanto fossero importanti quei ragazzi nella mia vita. Leon, Jesse e Carl. Eravamo una sezione ritmica. In realtà, io non avevo ancora combinato granché, ma stavo facendo delle session e ne sarebbero arrivate molte altre. Ho sempre amato il fatto che venissimo tutti e quattro dall'Oklahoma, c’era anche quel piccolo legame.
I miei ricordi di quella session sono come un sogno, davvero. Ero seduto alla batteria, Leon stava suonando e noi ci siamo accodati. Ho dato un’occhiata in giro e ho visto Bob in piedi di fronte al muro. Potevo vedere le sue labbra muoversi. Stava scrivendo su un blocchetto. Pensai: "Wow, scrive i testi mentre suoniamo." Forse aggiustò qualche verso, sistemando qualcosa per adattarlo al ritmo. Mi fece impazzire.
Il suo fraseggio è unico. Ho appena fatto un'intervista su Willie Nelson e stavo parlando del suo fraseggio completamente originale, molto simile a quello di un jazzista. Mentre parlavo di Willie, mi sembrava di parlare di Bob. C’è questa somiglianza tra loro: entrambi sono unici nel loro cantato, nel modo in cui si esprimono e come le loro voci suonano. Li ho messi tutti e due nella categoria jazz. Non cantano come il tipico cantante rock.
Ascoltare quello che allora registrammo fu semplicemente straordinario, come un’esperienza extracorporea per me. Quella piccola canzone era Watching the River Flow e ancora oggi mi emoziona quando la sento. Mi riporta indietro. Nel corso degli anni mi sono sempre chiesto cosa sarebbe successo se fossimo diventati la sezione ritmica di Bob per altre cose. Ma non è andata così.

Ne hai parlato come di un cantante jazz, o quasi. So che tu hai iniziato suonando jazz. Pensi che sia stata quella la strada attraverso cui ti sei collegato alla sua musica?

È una forte possibilità, anche se non è stata una cosa cosciente. Per me, suonare con Bob è sempre stata una delle cose più naturali che potessi fare. Ma forse ci hai visto giusto. Potrebbe essere quella sensazione di libertà che provi quando suoni jazz, come se avessi solo bisogno di conoscere la canzone, conoscerne la forma e poi provarci, senza paura.
La cosa che amo di Bob è il suo coraggio. Da parte di alcuni artisti c'è un coraggio che si trasmette ai musicisti che li accompagnano. E quando accade ottieni il meglio dai musicisti perché non sono preoccupati se sono perfettamente in tempo, se stanno correndo troppo o se stanno andando troppo lentamente.
Non si tratta di trovare il tempo esatto o l’atmosfera giusta, ma trovare quella cosa che fa sì che la canzone prenda vita. Io adoro essere in grado di trovare il tempo giusto, ma amo anche la fase esplorativa, quando lasci che la canzone ti viene addosso anziché essere tu a saltare su di lei.
L'altro giorno, ad esempio, stavo parlando con il mio grande amico Matt Chamberlain che attualmente suona la batteria con Bob. Conosco Matt da molto tempo, fin da quando aveva appena iniziato. Mi raccontava che una volta Bob gli ha detto, prima che iniziassero a registrare: "Suona e basta. Non cercare di trovare una cosa per accontentarti di quella". Magari non ricordo esattamente le sue parole, ma il senso era quello, proprio come ti dicevo io prima. Lascia che la musica accada. Non sforzarti di trovare "una parte" per la canzone. Questo è abbastanza simile al jazz. E questo è il Bob Dylan che ho sempre conosciuto.

Un paio di anni dopo incidesti Knocking on Heaven's Door e la colonna sonora di Pat Garrett e Billy the Kid. In che modo fare una session per una colonna sonora fu diverso dalla prima session?

A quei tempi registrare la canzone per un film significava suonare mentre guardavi le immagini. Oggi non credo si faccia più così, ora il compositore riceve tutto già ben definito prima.
Knockin' on Heaven's Door doveva colpire profondamente le corde del cuore perché era una scena di morte. La sequenza indugiava su Katy Jurado, questa grande attrice messicana, sui suoi grandi occhi marroni pieni di sentimento. Piange perché suo marito sta morendo in riva al fiume. Guardare la scena mentre ascoltavo la voce di Bob fu davvero... Piansi. Fu la prima volta che piansi mentre suonavo. Pensai: "Gesù, devo stare attento o farò diventare questo take uno schifo.”
Credo che essere commosso fino alle lacrime mentre suoni il tuo strumento sia un regalo. Anni dopo, al contrario, feci una session con Randy Newman dove il testo della canzone mi colpì così tanto che non potei fare a meno di ridere. Non potevo ridere ad alta voce, ma dentro di me ridevo così forte che mi spaventai di nuovo allo stesso modo. E ripensai: "Oh no, sto per far diventare questo take uno schifo.”

Facciamo un salto in avanti di qualche anno, ai gospel tour, il tuo periodo più lungo con Dylan: tre anni. Ho letto che prima avevi declinato alcuni inviti ad andare in tour con lui. Perché allora decidesti di partecipare a quei tour?

Bob mi chiese di unirmi alla sua band un paio di volte, ma per vari motivi ebbi sempre qualche timore. Inoltre, a quei tempi lavoravo così tanto in studio che non volevo perdermi niente. Pensavo che se non fossi andato in tournée con lui era lo stesso okay, perché prima o poi l’avrei incontrato in studio.
Una sua chiamata per un tour cominciava con un invito a suonare. Era quasi come un'audizione, ma sapevo già che se mi fossi presentato avrei avuto la parte.
Quella volta, invece, fu un pò diverso. Le istruzioni ricevute erano che avrei dovuto scendere [nello studio], sedermi nella stanza da solo e ascoltare il suo nuovo disco [Slow Train Coming]. Poi, finito di sentirlo, tornare su e incontrare Bob. Pensai: okay, è interessante.
Arrivai nel suo studio, a Santa Monica in Main Street. Mi sedetti lì e un’assistente fece partire la musica. Una canzone dopo l'altra cominciò a prendermi a pugni in testa, a colpirmi il cuore. Hanno iniziato a succedermi tutte le cose più sdolcinate che puoi immaginare. Ecco di nuovo Dylan che mi fa piangere, ed è stato un pianto incontrollabile! [ride] Quando il disco finì, avevo consumato mezza scatola di Kleenex.
Andai di sopra, aprii la porta e lui era seduto lì, davanti alla sua macchina da scrivere. Dissi: "Bob, non so cosa farai, ma qualunque cosa sia, voglio venire a farla con te." E così fu.
Poi iniziarono le prove. Provammo tanto. Ricordo che mi sembrava tutto molto naturale. Aveva dei musicisti davvero fantastici. Aveva Tim Drummond al basso e Tim era un grande musicista innato. Non c'era logica nel suo modo di suonare. Era esattamente il tipo di musicista che Bob amava, nel senso che non cercava di capire ma ci si attaccava. Suonava proprio accordandosi a quello che stava succedendo in quel momento. Poi c’era Fred Tackett alla chitarra. Conoscevo Fred dai Little Feat. Avevamo già suonato insieme in alcune session ed era sempre molto facile e divertente suonare con lui. Fred e Tim erano incredibili. Poi c’era Spooner [Oldham] all’organo e Spooner era l'eroe di tutti. L'uomo che aveva suonato il Farfisa in When a Man Loves a Woman.

Quel tipo è una leggenda!

La leggenda dei Muscle Shoals [Studios]. Ma forse è anche la persona più dolce del mondo intero. Quella era la sezione ritmica principale. E poi Terry Young, il pianista, aveva delle doti incredibili.
Mi sentivo circondato dal soul. Era una band davvero piena di sentimento, persone piene di sentimento. Il coro gospel alle sue spalle era assolutamente irreale. Mi sentivo proprio nel posto giusto. Poi, in virtù della natura della musica, iniziai ad avere una specie di vita di preghiera. E sai com’è, più preghi e più acquisti fiducia in te stesso, fa parte della preghiera. E aumenti la tua fede. Pensai: "Wow, è proprio sorprendente."
Partimmo in tour iniziando da San Francisco, al Warfield [Theatre], la casa di Bill Graham. È un ottimo posto per suonare. Il palco è molto vicino al pubblico. Il modo in cui è costruito è che sale ripidamente, così che quando sei sul palco stai quasi guardando un muro di persone piuttosto che un mare di persone.
Ero seduto lì, a suonare dietro a Bob, e guardavo le facce. Non dimenticherò mai quel ragazzo con una bandana rossa intorno alla testa. Penso che stesse fumando perché aveva qualcosa in mano, e probabilmente non era una sigaretta. [ride] Si alzò e disse: "Fottiti Dylan! Rock and roll!" Poi proprio accanto a lui – amico, lo ricordo chiaro come il sole – proprio accanto a lui era seduto un ragazzo con addosso una giacchetta sportiva, assieme a sua moglie, o la sua ragazza, e un bambino piccolo. Si alzò in piedi dopo il "Rock and roll!" e disse: "Ti amiamo, Bob! Adoriamo la tua musica!"
Fu così fino alla fine del tour. Come una rissa tra il pubblico. Non una lotta nel senso letterale, ma un sovrapporsi di urla e di inviti ad andare avanti. Ho avuto proprio l'impressione che a Bob piacesse perché sapeva che stava colpendo un nervo scoperto.

Come quando passò all’elettrico e suscitò più o meno le stesse reazioni.

Esattamente. Non che lo volesse. Non ho mai avuto l'impressione che facesse quelle cose solo per attirare l'attenzione o qualcosa del genere. Stava facendo ciò che intendeva fare, e il suo pubblico lo avrebbe amato o lo avrebbe odiato.
Man mano che il tour proseguì, penso che la gente si rese conto che la musica parlava da sola. Non stava solo parlando di Gesù. Penso che le persone – i non credenti, dovrei dire – abbiano iniziato a rendersi conto di quanto fosse splendida la musica. Perché era davvero musica splendida. Per quanto mi riguarda, quelle canzoni gospel sono tra le più belle mai scritte. Puoi immaginare quanto sia stato eccitante far parte di tutto quel progetto. È stato il periodo più lungo in cui sono stato con qualcuno in una band.
Ci fu una notte a Seattle che non dimenticherò mai. Era un bel concerto, tutto stava andando bene, tutto girava al massimo. Finché arrivammo a Solid Rock, brano che adoravo suonare perché era veloce e aveva la ferocia dentro. Bob andava a mille quella notte e le parole colpivano forte. Alla fine della canzone ci furono gli applausi che ci si aspettava, ma andarono avanti per almeno cinque minuti. Posso dimostrarlo: ho una copia del nastro registrato dal mixer. Dovetti insistere parecchio per averne una copia, ma quello fu un evento straordinario per uno che suona in una band. Non riesco a immaginare cosa sia stato per Bob. Cinque minuti di standing ovation per una canzone che non era nemmeno in chiusura di concerto. Ci furono momenti così.

Ne era passata di strada dal ragazzo con la bandana rossa che urla "Fottiti"!

Penso che dovrei definirlo un momento clou della mia carriera di musicista. È una di quelle cose che non dimentichi mai. Ci furono altri momenti simili durante quel periodo.

Avesti la percezione che il tour era cambiato durante quei tre anni? So che alcune persone andavano e venivano, specialmente tra le coriste, ma era cambiata anche l’atmosfera?

Sì. Una delle cose che cambiò e che rese le cose più facili per il pubblico, fu che gli furono date alcune delle canzoni più vecchie. Nel primo tour suonammo solo le canzoni di Slow Train Coming. Ad ogni tour successivo sembrava che aggiungessimo sempre più i suoi classici. Ricordo la sera in cui suonammo per la prima volta Like a Rolling Stone. Ricordo di aver avuto i brividi perché il pubblico impazzì.

Dopo i gospel tour, il tuo lavoro successivo con Dylan è stato Empire Burlesque. A quel punto avevi alle spalle già un certo numero di album e parecchi tour. Qual è la differenza tra suonare con lui in studio o in concerto?

Con la maggior parte degli altri artisti, suonare dal vivo e suonare in studio sono due cose piuttosto diverse. Quando suono per un disco, di solito cerco di portare in studio cose differenti dall'ultima volta che ho suonato. Per me è sempre stato così. Suonare in studio è una specie di divertente avventura, mentre andare in tour significa provare e imparare le canzoni.
Con Bob suonare dal vivo non era poi così diverso dall'essere in uno studio perché la parte avventurosa rimaneva intatta. È quello che ti ho detto prima: lui non vuole dover ascoltare sempre e sempre la stessa cosa, proprio come io non voglio dover suonare sempre e sempre la stessa cosa.
Ci sono situazioni in cui ogni volta devi suonare un arrangiamento esattamente nel modo in cui è stato provato e perfezionato. L'ho fatto durante il tour “Old Friends” di Simon & Garfunkel. In questi casi, se la musica è davvero buona non è proprio un lavoro, è anche divertimento. Però è un divertimento disciplinato.

Come sei stato coinvolto nei Traveling Wilburys? È stato grazie a Dylan? So che avevi lavorato anche con George Harrison.

Fu tutto merito di George. George divenne come un fratello. Gli piaceva avermi intorno per qualunque cosa. Quando stava lavorando a un progetto, io c’ero. Mi sembra ci fosse stato l'album Cloud 9 [di George Harrison] prima dei Wilburys, corretto?

Cloud 9 è del 1987. Quindi sì, penso che abbia preceduto i Wilburys di poco.

Ero nel suo studio. Lo chiamavamo HOT Studio, da Henley-on-Thames, e ci stavamo divertendo un mondo. Ci siamo sempre divertiti a suonare, specialmente in quello studio perché era in casa sua. La casa era un enorme parco dei frati del monastero. Era come un sogno.
Jeff Lynne stava lavorando con lui a quell’album, Cloud 9. Jeff e George avevano lo stesso senso dell'umorismo. Quel genere di folle umorismo inglese alla Monty Python. Più birre bevevano, più stupidi diventavano. Eravamo seduti lì una notte, penso avessimo appena inciso This Is Love, la mia canzone preferita del disco. Si stavano divertendo e cominciarono a inventare nomi per una band. Continuarono ad andare avanti finché si focalizzarono su Traveling Wilbury. Pensavano che fosse semplicemente esilarante.
Poi, finito quel lavoro, sentii da George che erano andati a casa di Bob e avevano inciso una canzone [Handle with Care]. La cosa successiva che mi disse fu proprio: “Ehi, stiamo per formare una band. Saremo i Traveling Wilburys. Faremo un disco." E così iniziammo a registrare.

A proposito di nomi divertenti, chi ti diede il soprannome di Buster Sidebury?

Sempre George. Si aspettavano che diventassi un Wilbury. Ma io allora pensavo: hai Roy [Orbison], hai Bob [Dylan], hai Tom [Petty], hai Jeff [Lynne] e hai George [Harrison]. Sono cinque ragazzi, uno al centro, due ai lati. Se ci metti un altro Wilbury, si sbilancia. Da che parte dovrei stare? So che è uno strano modo di ragionare, ma pensavo così.
Inoltre erano cinque icone. Io potrei essere considerato un'icona nel mondo della batteria, ma non è di questo che stiamo parlando. [ride] Per me fu naturale dire di no. Poi mi venne in mente: io sono un Sidebury. George rise. Lo adorava, ma dovevo ancora convincerlo. Così aggiunsi: "Sono un cugino Sidebury, il tuo primo cugino."
Sai, ero molto legato a Tom [Petty]. A lui piaceva che avessi partecipato, ne ha sempre parlato nelle interviste. È così che sono diventato Buster Sidebury.
Gli altri fumavano tutti, io avevo smesso. Prova a pensare di essere in uno di quei camper che tengono nel parcheggio degli studi per girare i video: quattro tipi tutti che fumavano, era troppo per me. Durante uno dei video saltai giù dal camper e andai da Roy [Orbison]. Roy era da solo perché sua moglie Barbara gli aveva detto: "Farai meglio a non puzzare di fumo quando vengo sul set!" Gli aveva lanciato il guanto di sfida.
Andai al suo bus, bussai, entrai e iniziammo a parlare. Mi disse: "Jim, questa cosa è davvero divertente, no?" Risposi: "Amico, è incredibile. Sai Roy, i ragazzi sono tutti qui solo per te, davvero. Tutti vogliono sentirti cantare." E lui: "Beh, io sono il solo autentico cantante della band. Gli altri quattro sono raffinati autori." Dovetti trattenere la risata. Era la verità, un dato di fatto, ma lo disse in modo così divertente! La prima cosa che feci fu raccontarlo a George, che scoppiò a ridere. Poi lo dissi anche agli altri. "Io sono il solo autentico cantante della band. Gli altri quattro sono raffinati autori." Era assolutamente vero.

Mi piace. Si è mai parlato di suonare dal vivo?

Sì, certo. C'erano piani, grandi progetti per andare in tour. Stavamo per fare un tour in treno che doveva attraversare tutti gli Stati Uniti. La cosa divertente è che tutti pensavano che sarebbe stato Bob a bocciarlo, ma Bob era assolutamente d'accordo. Si è scoperto che fu George. Non mi interessa speculare sul motivo per cui non volle farlo, ma non volle farlo.

Peccato.

Sì, davvero. Mi sembra che Roy fosse già morto. E forse c'entrò anche questo.

L'energia sembrava diversa nel secondo album senza il "cantante", come [Roy] si definiva?

Fu diverso perché il primo album lo realizzammo nel modo classico, mettendo giù le tracce e poi sovraincidendo singolarmente. Il secondo album, invece, l’abbiamo fatto dal vivo, suonando tutti seduti nella stessa stanza.

Più come un album di Dylan.

Esattamente. Non ho più ripensato a cosa sarebbe stato un tour dei Wilbury. Per me è come se la morte di George avesse steso un’ombra su tutto quel progetto. Con George che se n’era andato, svanì ogni interesse. George era più giovane di me, dovrebbe essere il mio fratellino che vedo sempre. Lui non era fatto per andare in giro. Amava Los Angeles e amava il suo Friar Park [lo studio casalingo in Inghilterra]. Avremmo dovuto continuare ad andare avanti e indietro come abbiamo fatto in tutti quegli anni.
Bob è ancora qui, e ti dirò una cosa: George Harrison era il più grande fan al mondo di Bob Dylan. Non c'è nessuno che io abbia conosciuto che fosse un così grande fan di Bob Dylan. Conosceva il testo di ogni sua canzone, vecchia e nuova.

Hai mai sentito il nastro del 1970 dove loro due suonano insieme, passando il tempo in studio a divertirsi? Io l'ho ascoltato proprio l'altro giorno.

Potrei averlo sentito. Questa è un'altra cosa da andare a riprendere appena posso.

Fanno una cover di Da Doo Ron Ron, la canzone di quel gruppo femminile [le Crystals]. Non ricordano una parola del testo tranne "da doo ron ron", ma si divertono così tanto a cantarlo e ricantarlo che è assolutamente contagioso.

Fantastico!

Proseguendo col tuo lavoro seguente con Dylan, come sei stato coinvolto nel “BobFest”, il concerto per il 30º anniversario della sua carriera?

Potrebbe essere stato Bob a chiedermi di farlo. O Bob o George. O forse entrambi. Vediamo. [Jim sfoglia un'agenda.] Il 7 [ottobre] abbiamo fatto le prove con Tom Petty. Il 12 abbiamo provato con Sophie B., gli O'Jays, e Johnny Winter. Il 13 abbiamo provato con Clapton, Stevie Wonder, Sinéad O’Connor, Bob e la house band. Il 14 con Rosanne Cash, Shawn Colvin, George Harrison e Lou Reed. Poi il 15 abbiamo provato con Neil Young.

Una bella settimana!

Sì. Poi il 16 ci fu il concerto. E il giorno dopo iniziai un album con Willie [Nelson] ai Power Station [Studios].

Ti ricordi di qualcuno in particolare di quei nomi?

Ricordo le prove con Neil e poi la gioia di provare con Stevie Wonder. Stevie era come se fosse di un altro pianeta. E Clapton. Ho sempre amato Eric.

Cosa c’era in quei tre?

Immagina come ti sentiresti. Sei a questo evento importante per onorare Bob Dylan e poi improvvisamente ti ritrovi tutti i più grandi artisti del momento. Stai suonando la musica di Bob con loro. Vederli tutti insieme per Bob, è questo che mi ha steso.
Quello fu l'inizio della nostra collaborazione con Neil Young. Io, Steve Cropper e Duck Dunn [entrambi nella house band del BobFest]. L’anno dopo andammo in tour con Neil e metà della band erano gli M.G.’s. Cropper e Duck. Fu incredibile suonare dal vivo con loro.
Neil è un altro artista molto simile a Bob. Ce ne sono pochi e Neil è sicuramente uno di quelli. Neil vuole che tu interpreti la sua musica, che tu lo ascolti e lo segui. Ed è quello che abbiamo fatto.
Suonare con Duck Dunn al basso è stato come un sogno. E anche la ritmica di Cropper era irreale. A volte c'era un pò di tensione, nella musica intendo, perché Cropper è così potente con il suo groove e a Neil piace davvero nuotarci dentro. Ero in paradiso. Potevo esprimermi come volevo, volteggiare dentro e fuori questa cosa incredibilmente ritmata e immergermi con Neil nelle acque più profonde. Fu un grande tour. Ed è successo grazie al BobFest.

Dobbiamo parlare di un'altra session, Time Out of Mind, uno dei grandi album di Dylan dei tempi più recenti. Sia Bob che Daniel Lanois hanno parlato della tensione che c’era tra loro. Tu eri una delle persone chiamate da Bob per aiutarlo?

Sì, mi chiamò Bob, o qualcuno dei suoi collaboratori. Ero sicuramente lì per Bob. Bob e Lanois non la vedevano sempre allo stesso modo. C'era tensione. Devo dire che Bob non è il solo ad essere così. Penso ci siano alcune persone che si nutrono di tensione e, in un certo senso, anch’io sono una di quelle. Quando c'è tensione, c'è una ragione in più per cui le cose cambiano. Non ho avuto alcun problema con Lanois. In realtà, per me è stato più divertente, ma in un modo quasi insano.
Quello che ho sempre amato di quel disco è che la voce è così grande. C'erano molti musicisti che suonavano contemporaneamente, ma come è stato mixato – in modo che la musica sia tutta dietro, quasi sfocata, mentre la voce è ben in primo piano – mi ha sempre meravigliato.
Ricordo che una sera, mentre eravamo tutti lì intorno, Bob fece una domanda. Chiese: "Cosa ti piace? Ti piacciono i pezzi o ti piace l'insieme?" Quello a cui si riferiva parlando di “pezzi” erano le tante singole parti presenti nella musica, piccole cose musicalmente davvero fantastiche. Risposi: "Mi piacciono i pezzi." Quando è uscito il disco, ho poi capito cos’era successo. Ha tenuto i pezzi di cui parlavamo, e quei piccoli pezzi di musica tutti assieme sono diventati come una parete, uno sfondo per uno voce immensa, in modo che i testi risaltassero magnificamente e la voce suonasse incredibile.
Non molto tempo fa stavo suonando con Eric Clapton e lui mi ha detto che Tryin' to Get to Heaven è una delle sue canzoni preferite in assoluto.

Anche David Bowie ne ha fatto una cover.

Oh, sì. Time Out of Mind è un disco molto, molto amato da tanti artisti perché è semplicemente fantastico. Voglio dire, la musica è killer. Il modo in cui è stato mixato, la sua voce così grande, è incredibile. È una delle mie cose preferite.
Il modo in cui il disco suonava! Quando è uscito e l'ho sentito per la prima volta, ho pensato: "Wow, Bob ha ottenuto quello che stava cercando." Solo che ci è arrivato dopo. Nel mix l'hanno fatto funzionare!

L'ultimo tuo tour con Bob è capitato quasi per caso. Nel 2002, George Receli, il suo batterista, si infortunò e tu hai suonato nella band per qualche settimana.

Esatto, [George Receli] ebbe un grave problema al tunnel carpale. Così mi chiamarono e fu un cosa tipo: "Mi stai dicendo che vuoi che venga subito senza aver provato?" Bob voleva proprio che fossi a Milano l’indomani. "Wow, non so se posso farlo. Non credo di poter arrivare così presto." Arrivai due giorni dopo. Il mio primo concerto con loro fu il 21 aprile a Zurigo. George, un grande batterista e davvero un buon amico, rimase in modo che io potessi… fammici pensare, forse suonò nel sound-check.

Mi sembra che per quel primo concerto, lui suonò metà dello show e tu l’altra metà. Poi, per le date rimanenti, suonasti tu.

Giusto, ecco com’è andata. George suonò la prima parte del concerto [di Zurigo] in modo che potessi farmi un'idea di quello che stavano facendo in termini di volume, e cogliere l'atmosfera dell'intera cosa. Poi ho finito io. Proprio così.

Ma lui non suonò le canzoni che avresti dovuto suonare tu dopo. Sei stato gettato sul palco a suonare altre cose.

Si, esattamente. Anche in quel caso fu la fiducia che Bob aveva in me. La fiducia che potevo fare le cose che lui amava davvero, ovvero suonare semplicemente la musica. Basta adattarsi alla musica in qualche modo. Non cercare di trovare una parte da recitare e tutto quel genere di cose. Non preoccuparti se non sei perfettamente preciso in tutto. Non importa. Bob è un vero campione di questo tipo di pensiero e perciò fu facile per me.

Avevi mai dovuto fare una cosa simile con qualcun altro prima, letteralmente senza nessuna prova?

Assolutamente no. Come ti ho detto, quello è Dylan. È stato incredibile, amico, ora che ci penso. Mi piacerebbe ricordare ogni particolare. Tenemmo due concerti a Parigi, mi rivedo seduto alla batteria, dietro Bob. Ricordo che furono piuttosto buoni. Mentre suonavano, Tony [Garnier] e i membri della band tutti... C'era Charlie Sexton, giusto?

Sì, c’era.

Okay, i membri della band tutti si prendevano cura di me. Mi lanciavano segnali.

E tu, in qualche modo, rispondevi?

Oh, sì. Mi stavano davvero dando una mano.

Nel tipico stile di Bob, non suoni mai lo stesso show. Ogni sera ci sono nuove canzoni in cui vieni catapultato. Non è come riuscire a superare il primo concerto e poi navigare senza problemi.

Proprio così. Con Bob molte volte non sapevi nulla. È così che dovrebbe essere, se ci pensi. Non c'è niente di sbagliato nell'avere uno show veramente buono e ben provato, ma penso che la vera arte sia un pò più di questo. Penso che aggiungere alla situazione un piccolo elemento di pericolo o di tensione, o come vuoi chiamarlo, in certi casi sia una buona cosa. Di nuovo, torniamo alla paura. Se non sei senza paura, avrai paura. Io e molti musicisti che conosco possiamo sentire l'odore della paura. So che sembra strano, ma deriva dall'essere in uno studio con altri artisti e fare dischi in cui tutto è in gioco. Lì il tempo è denaro, le carriere delle persone vengono create o modellate, c'è molta responsabilità. Se senti che qualcuno ha paura o è riluttante in qualche modo, allora devi cambiare atteggiamento. Quelli eccitanti, quelli davvero davvero eccitanti come Bob, Willie [Nelson], Neil [Young], Clapton, sono del genere senza paura. E questo rende la cosa eccitante anche per i musicisti.
Adoro riascoltare quello che registriamo, è la cosa che più mi piace. E poi commentare: "L’abbiamo fatta bene? Okay, ma riproviamo di nuovo", oppure "Fantastico, non saremo più in grado di farla così".

Funziona così una tipica session di Dylan? Fate uno o due take e poi andate assieme nella sala di controllo a riascoltare?

Sì. Sono tutti un pò diversi. Bob è un pò più convenzionale, il più anticonformista è Neil Young. Con Neil c'è una sorta di prova sommaria della canzone e poi il primo take. Prima di quella prova sommaria, si sta solo cazzeggiando. Ho suonato con Neil in dischi dove il cazzeggio è diventato il take, senza nemmeno arrivare alla prova. Può essere un pò scioccante.

Ad oggi, le tue più recenti collaborazioni con Dylan chiudono il cerchio perché abbiamo parlato molto di Willie Nelson. E l'ultima cosa segnata sulla mia lista è che hai suonato con Bob Dylan e Willie Nelson contemporaneamente. L’hai fatto un paio di volte: hai registrato con loro Heartland negli anni '90 e un decennio dopo (maggio 2004) c'è stato lo speciale televisivo in cui Bob e Nelson hanno cantato You Win Again.

Che grande accoppiata! In quella intervista [su Willie Nelson], l'intervistatore mi aveva chiesto – e si tratta di un video ufficiale e io sono davanti alla telecamera e tutto il resto – il tipo mi aveva chiesto: "Hai suonato in Heartland?" E io avevo risposto: "Non ne sono sicuro. Non so se c’è della batteria su quel brano." Tornato a casa l’ho riascoltato e sicuro che c'è la batteria! Mi sono detto: "Oh no! Sono un fottuto idiota." Se per 50 anni hai suonato e inciso dischi, ci sono cose che non riesci a ricordare. Ora è troppo tardi per dirlo in quella intervista su Willie, ma posso certamente dirlo in questa: in Heartland Willie Nelson e Bob Dylan sono due delle voci più distintive nel mondo della musica. Sei d’accordo?

Assolutamente.

Capisci subito quando cantano e sentirli cantare insieme è bellissimo. Adoro come si combinano in Heartland. Vorrei che lo facessero di nuovo. Sono entrambi qui, amico! Entrambi su questo pianeta e continuano a ricevere tutta l'attenzione che meritano. Ne abbiamo bisogno. Lo dirò a Jeff Kramer [manager di Dylan]. Lo chiamerò non appena avremo finito.

Fai parte di un ristretto gruppo di musicisti che Bob ha chiamato e richiamato per decenni. Perché pensi che continui a farlo?

Penso sia per i nostri precedenti insieme. La prima volta lo incontrai suonando in Watching The River Flow. Non fu un successo gigantesco, ma sicuramente è una delle sue canzoni memorabili. Poi Knockin' on Heaven's Door, brano iconico. Poi gli anni del Vangelo. Penso che con questi precedenti penserà sempre a me.
Uno dei miei momenti preferiti con Bob è stato durante i Traveling Wilbury. Era così divertente. Vorrei che le persone come te e tutti i suoi grandi fan potessero conoscere o vedere quel lato di Bob, anche se non puoi averlo senza momenti speciali come quello. Mi faceva scoppiare dal ridere. Una volta gli dissi: "Amico, sei come Lenny Bruce tornato dal passato." È davvero molto più simpatico di quello che la gente immagina.

Chissà se glielo dicesti prima o dopo aver inciso con lui la canzone su Lenny Bruce…

Io e mia moglie andavamo a vedere Lenny Bruce nei club di Los Angeles i primi tempi che stavamo insieme, prima di sposarci. Le persone della nostra generazione erano grandi fan di Lenny Bruce.

Lo sai che stava eseguendo quella canzone nel suo ultimo tour? L'ha ripresa di nuovo.

Davvero? Ha suonato Lenny Bruce?

Sì, nell'ultimo tour con Matt Chamberlain. Un arrangiamento lento, davvero cool.

Oh, fantastico. È un peccato che abbiano dovuto fermarsi perché questa band sarà davvero una buona band.

Sì, e c’è Bob Britt, che ha lavorato anche con te in Time Out of Mind.

Pure lui? Grande!

Lui e Matt si sono uniti negli ultimi tre mesi del tour, poi hanno dovuto fermarsi per il Covid.

Ci starà pensando tutto il tempo.

Bob Britt è un altro che compare e ricompare. Prima Time Out of Mind e venticinque anni dopo nella band live. Ho parlato con Duke Robillard un paio di settimane fa, anche a lui è successo lo stesso: ha fatto un paio di session con Bob e decenni dopo l’ha seguito in tour.

Da quello che avevo capito, Duke [Robillard] aveva partecipato a Time Out of Mind per Bob. So per certo che quelli che furono chiamati da Bob e non avevano nulla a che fare con [Daniel] Lanois eravamo io, Jim Dickinson e Duke Robillard, oltre alla sua band.
Per quanto mi riguarda, pensavo: finché sono qui, sono qui per Dylan e basta. So perché sono qui e cosa devo fare, cioè intuire quello che Bob vuole da me. Posso capirlo riascoltando le registrazioni o da qualunque cosa lui dica. Ma sono qui perché Bob Dylan vuole che io sia qui.