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Dispiace, ma il mito è muto
di Walter Gatti

 

I sessant'anni di Bob Dylan. È stato un grande: però la sua poetica è troppo legata a una precisa epoca. A differenza dei Beatles che hanno attraversato mode e stagioni.
Mr. Tambourine man ha sessant'anni. Campane a festa nel mondo della musica e della cultura lo scorso 24 maggio, quando Bob Dylan, «Il cantautore», l'uomo che ha trasformato la musica pop in arte, in poesia, in protesta, in romanzo sociale, ha soffiato sulle candeline. L'uomo da cui tutti i cantautori d'ogni latitudine sono sorti, da Springsteen a De Gregori, da Lucio Battisti a Paul Simon, l'autore da cui pure John Lennon ha attinto. L'uomo che nel '62, in piena crisi Usa-Urss ,si prese la briga di scrivere una canzone - Hard rain gonna fall -sulla morte da guerra nucleare (quando l'unica morte che la gente era avvezza ascoltare in musica era quella da cuore infranto per amore); l'uomo che nel '69 mandò a quel paese gli organizzatori del più grande happening giovanile della rock generation, il festival di Woodstock, adducendo la sua voglia di tranquillità; l'uomo che si proclamò cristiano e contemporaneamente ebreo, ma anche palestinese. Sessant'anni, 29 dischi (evitando di conteggiarne un'altra ventina tra antologie, dischi live e collection di scarti più o meno pregevoli), una serie quasi infinita di «nomination»al premio Nobel per la letteratura e di lauree ad honorem. E poi canzoni, da Blowin in the wind a Like a rolling stone, da Forever Young ad All along the watchtower, colonne sonore dei vortici dell'epoca contemporanea, songs indecise tra melodia pura e la necessità di scoccare la scintilla della coscienza. Insomma un genetliaco che conta.
Peccato che sia un compleanno sentito più che altro dagli over 40, perché sotto quell'età (purtroppo? per fortuna?) Bob è quasi uno sconosciuto. Beninteso: chi ha una certa affinità con la cultura musicale pre Spice girls e Gigi d'Alessio conosce di certo Mr Tambourine e Hurricane, Blowing in the wind e Like a rolling stone, eppure - la considerazione è d'obbligo - lui, mister Robert Zimmerman da Duluth, Minnesota, non ha attecchito nella generazione di chi ama gli Alex Britti e le Britney Spears, o di chi s'appassiona per Radiohead, Offsprings e U2. La sua latitanza nella cultura diffusa salta agli occhi quando si raffronta la passione verso Dylan e i suoi dischi con quella per l'altro nome immortale della musica pop, quello dei Beatles, noti urbi et orbi, senza differenza di generazione, senza soluzione di continuità popolare (come dimostra la recente calata di Paul McCartney a firmar dischi a Milano, con contorno di centinaia di fans under 20 sovreccitati). Attenzione: stiamo parlando dei due pezzi da Novanta del pop, dei due nomi che più hanno influito (in assoluto) sulla musica rock. Ma perché una canzone come Imagine continua a passare su tutte le radio del mondo, mentre la più melodica delle sue canzoni simbolo, Knocking on heavens door, rimane negli archivi? Come mai i Beatles sono più noti, più amati e famosi?

Certo ci sono motivi di freddo marketing. In pratica la differenza tra «industria dylaniana» e «industria beatlesiana»è abissale: laddove Dylan sfugge intenzionalmente a ogni programmazione a tal punto che persino sul palco i suoi musicisti ignorano quale canzone «Il mito»voglia suonare il minuto successivo -gli strateghi di McCartney e soci programmano ogni minima virgola del percorso commerciale. E inoltre non si può dimenticare quanto pesi la fortuna che bacia chi si ritira presto (per non parlare -ma è un discorso di macabro branding - di chi scompare fisicamente...) e non vive l'onta della vecchiaia, della mancanza di creatività, dell'appannamento delle idee. Certo i Beatles si sono sciolti e gli anni successivi alla loro divisione (fino a oggi) sono stati colmi di rimpianti; questo porta alla beatificazione di ogni prodotto dato in pasto al mercato come chicca o rarità, come ad esempio la Beatles anthology, il recente One, la canzone realizzata con il Lennon clonato, vale a dire Free as a bird. Per Dylan è l'esatto contrario: Bob ha continuato a produrre dischi spesso al di sotto delle attese, continuando a esibirsi in tournèe a volte deludenti, in cui - salvo eccezioni - il pubblico era formato da quarantenni. E mentre autori coetanei - su tutti Van Morrison, ma anche Neil Young, Leonard Cohen, James Taylor - riuscivano comunque a farsi ascoltare dagli under 20, lui restava lontano, sfocato, quasi in ritiro sull'Horeb.
Ma tutto questo non spiega forse l'incidenza sul costume. Come mai su questo piano Dylan arranca nella sfida con i Beatles? C'è una spiegazione: di sicuro Bob e i quattro di Liverpool cercavano cose diverse e hanno lasciato tracce diverse. I Beatles cercavano la perfezione della canzone. Per i quattro musicisti britannici partiti dal più elementare dei beat e approdati (con l'aiuto di un certo signor George Martin, musicista sopraffino e intenditore di jazz e classica) a un certo punto (dopo il concerto di San Francisco del 29 agosto 1966, all'interno del Candlestick park) divenne obbligatoria la scelta di ritirarsi dalla vita on the road, dal contatto con il palco e con il pubblico, per dedicarsi esclusivamente a loro stessi e alla loro... idea di canzone. Non ne volevano più sapere di pubblico urlante, di fans che svenivano ai loro piedi. Di colpo John e Paul e Ringo e George erano diventati grandi e avevano deciso di mollare la vita da star per dedicarsi ad altro. Ad esempio per dedicarsi a far dischi: erano degli affamati di cose nuove, avevano mille musiche nelle orecchie e -con anticipo di qualche decennio -la voglia di realizzare il primo melting pot artistico della storia musicale. E il primo disco licenziato dopo quella decisione fu Sgt pepper's lonely hearts club band, vale a dire l'album considerato il capolavoro assoluto della pop music. Nella loro forma più elementare - come in Yesterday o in Imagine - o nella loro forma più complessa - come in A day in the life o in Lucy in the sky with diamonds - i Beatles hanno lasciato a tutti «la canzone»: qui sta la loro capacità di durare. Dylan aveva altre idee per la testa: era più interessato alla forma poetica, all'espressione di parole e concetti nelle forme care al folk e al blues, non aveva ne l'intenzione, né le qualità, né una guida (come Martin lo fu per i Beatles), per partire alla conquista di mille nuovi linguaggi musicali. Inizialmente Bob era il simbolo della rivolta giovane, poi - quando ha intuito che la cultura radical americana lo voleva sentir cantare a oltranza Master of war et similia e mal digeriva i suoi trasformismi culturali, sonori, religiosi e umani - ha rifiutato tutto ciò che lui stesso aveva rappresentato. Cercava di comunicare miliardi di parole che gli frullavano per la testa (testi lunghissimi in canzoni magnifiche, ma a volte noiose....), aveva necessità vitale di esprimere, ma anche la necessità bruciante di non essere «usato»dalle mode e dai media. Così se la prima fase della sua carriera (quella di Freewheelin fino a Highway 61 revisited) era stata segnata dalle canzoni sociali e la seconda coincideva con la sparizione dalle scene, negli ultimi anni, in cui è emersa una certa incapacità di confermarsi ad alti livelli di produzione, Dylan ha convissuto con la ricerca di una identità non replicabile, di un «essere imprevedibilmente Dylan» che lo ha portato a vivere «senza il suo pubblico», a esibirsi senza la necessità di farsi comprendere, come fosse suo obbligo giocare con il pubblico come il gatto con il topo. Ne è emerso con una paranoia strutturale espressa nella necessità di vivere sempre in lunghe, estenutanti tournèe (una delle più lunghe, il Never ending tour, è praticamente durata tre anni, a cavallo tra il 1988 e il 1990, testimoniata da un appassionante libro di Paolo Vites, giornalista milanese, uno dei più colti e documentati biografi mondiali del musicista di Duluth), quasi una edizione riveduta e corretta del personaggio del dottor Dick Diver, creatura sconvolta dell'indimenticabile Tenera è la notte di Scott Fitzgerald.

I Beatles cercavano la canzone perfetta, Dylan no. E infatti sono sempre più rari gli autori importanti che scelgono Dylan come riferimento e anche album meravigliosi (Infidels e Oh Mercy) usciti negli ultimi 20 anni non sono riusciti a ridargli credibilità. Così se è vero che proprio John Lennon indicava in Dylan, Elvis Presley e Little Richards le persone che più l'avevano influenzato, è anche vero che tutti i più influenti musicisti delle ultime generazioni prendono i Beatles a modello, merito anche della loro capacità sincretica di miscelare, di amalgamare, di sintetizzare stili, ritmiche, sonorità. «Il mio sogno è riuscire a scrivere piccoli capolavori pop di tre minuti, come li scrivevano MacCartney e Lennon» ebbe a dire Kurt Cobain, leader dei Nirvana scomparso suicida. E così come lui si sono espressi Tom Yorke dei Radiohead, Billy Corgan degli Smashing pumpkins e pure Jeff Buckley, il songwriter americano che lo stesso Dylan aveva definito come «la più grossa sorpresa della musica americana degli anni Novanta». Se poi mettiamo nella partita l'altra grande scuola rock, quella dei Rolling Stone, maestra di tutti gli outsider da Vasco Rossi ai Guns'n'roses, vediamo che la canzone d'autore dylaniana, la rockballad d'impianto dylaniano (così come interpretata da Springsteen o - per venire all'Italia - da De Gregori), è in ribasso.
Insomma, sarà colpa sua, della sua selvatica incostanza e della sua radicale svogliatezza, o forse anche eredità dei tempi cambiati fin troppo (tirando le estreme conseguenze della sua Times they are a-changing) eppure Dylan oggi è meno vivo - nel gusto, nei discorsi, nella popolarità - di tanti altri, dei Beatles, ma anche di Celentano, degli Stones di Jagger e Richards, oppure dei Pink Floyd. Il Dylan dei nostri anni è un musicista che vive per i suoi show, un tossico cronico, un alcolizzato in pericolo e un ammalato di sesso «mordi e fuggi». Ma in fin dei conti tutto questo non gli sembra pesare più di tanto, visto che la sua necessità di incidere, di essere un riferimento è pressoché scomparsa. «Non so cosa la gente pensi di me, so solo cosa dicono le case discografiche, i manager e la gente come loro», ebbe a dire nel 1989 Dylan in un'intervista al Telegraph. In fin dei conti Bob Dylan non ha avuto (per lo meno dopo la sbornia dei primi anni) alcun interesse a «rimanere» nei gusti della gente, visto il modo di rendersi trasparente e inafferrabile che ha deciso di interpretare. La sua è fobia del successo: si potrebbe fare un parallelismo con il Lucio Battisti degli ultimi anni, quello della collaborazione anti-canzonettistica con il poeta-paroliere Panella. Per questo non ha mai rincorso i gusti, le immagini, le presenze (non ha voluto neppure essere fisicamente presente alla cerimonia di consegna dell'Oscar per la miglior canzone, che gli hanno assegnato lo scorso febbraio a Hollywood). E forse proprio per questo perde la battaglia della popolarità con i Beatles, i suoi amicinemici degli anni Sessanta. «Non amo essere popolare, preferisco essere me stesso», ebbe a dire nel '91, alla festa per i suoi 30 anni di attività. A costo di essere dimenticato...

(Fonte: http://www.maggiesfarm.it/talking209.htm)