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"Napoleon in rags" Murino
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GLI
SCRITTI DI DARIO "TWIST OF FATE" GRECO
A
Il cambio di guardia dylaniano:
Street-Legal
Un fallimentare cambio di guardia per Bob Dylan in piena esplosione
punk
"C'è un leone sulla
strada, c'è un demone sfuggito, ci sono un milione di sogni passati, c'è
un panorama rapito. Mentre la sua bellezza si nasconde e la vedo
togliere le tende, non vorrei, ma poi ancora, forse posso. Oh, se solo
potessi trovarti stanotte."
Anche per un Forever Young come Dylan arriva il momento della maturità.
Street-Legal è infatti il suo 18esimo disco in studio, pubblicato il 15
giugno 1978. Per chi vi scrive si tratta di un album particolare, per
cui ha sempre provato affetto e condiscendenza. Voglio dirlo
esplicitamente: amo Street-Legal, per ragioni che tenterò di eviscerare
in questo commento retrospettivo.
Secondo un modo di pensare convenzionale, è più semplice scrivere di
argomenti che ci appartengono e che ci stanno maggiormente a cuore.
Ritengo sia un luogo comune da sfatare. Detto ciò, tenterò di risalire
la china e darvi un punto di vista personale di questo disco.
Difficile perché nonostante siano trascorsi più di 43 anni dalla data di
pubblicazione, critica e pubblico restano ancora divisi. Bisogna
sottolineare come vi sia, in questo caso, una distanza netta tra il
punto di vista del pubblico europeo e quello nordamericano. Per tanto
tempo si è detto che questo disco per tematiche musicali e testuali è
più vicino allo spirito e al modo di essere di noi latini. Sarà anche
vero, dato che io ci sento dentro davvero tante anime ed energie;
soprattutto la voglia da parte dell' autore di realizzare qualcosa di
nuovo e di diverso, con un bel passo audace e prorompente.
Artisticamente parlando gli ultimi prodotti erano stati tra i migliori
del decennio, con un Dylan tornato prepotentemente in corsa.
Come sempre si scatena la gara all'interpretazione critica di messaggi
cifrati, dato che in questa particolare occasione le liriche risultano
estremamente criptiche, anche rispetto agli elevati standard di un
artista come il Nostro. Tuttavia ciò la cosa che lascia perplessi e un
po' straniati è il tentativo estremo da parte della critica, la quale
vorrebbe interpretare i testi di questo Dylan del '78 come quelli di un
misogino rancoroso e risentito verso il gentil sesso. Quasi l'esatto
opposto rispetto a quel "poeta stilnovista" che da più di 15 anni aveva
idealizzato la figura e il proprio universo femminile. Immancabile
l'intervento del puntale Greil Marcus, sempre pronto a lanciare la prima
pietra, per via di un testo che allude alle mansioni e a quello che
dovrebbe fare il personaggio femminile in Is Your Love in Vain?
Chi vi scrive ha tentato di analizzare il testo in senso metaforico e
letterale, e non ha trovato nulla di strano, distorto e incoerente con
la poetica gentile e romantica che l'autore ha portato avanti per
lunghissimo tempo. Possiamo quindi dire che verso questo disco vi sia
autentico livore e accanimento, un po' voluto, un po' casuale, forse. Il
1978 è un anno fondamentale per la musica pop. Elvis Presley era morto
da pochi mesi, nello stesso tempo c'era stata la prima ondata punk rock
che si era abbattuta sugli States, come era già avvenuto più di dieci
anni prima con la British Invasion. Non solo, era il momento di altri
cantautori che più o meno si ispiravano dichiaratamente a Bob Dylan con
l'intenzione di detronizzarlo dalla propria leadership. Erano emersi
autori come Tom Waits, Bob Seger, Patti Smith, Tom Petty e ancora di
più, erano gli anni di massimo splendore di Bruce Springsteen.
Il cantautore del New Jersey durante i suoi esordi era stato più volte
accostato e paragonato a Dylan, ma adesso stava accadendo qualcosa di
diverso. Complice l'utilizzo del sax, con interventi a opera di Steve
Douglas, il sound di Street-Legal era stato accostato a quello di
Springsteen e del suo fedele sassofonista, Clarence Clemons. In effetti
prima di allora Dylan non aveva mai pubblicato un disco con la presenza
fissa di un sassofono. Questo è un fatto insindacabile. Tuttavia
l'utilizzo di fiati e ottoni aveva caratterizzato alcune prove
precedenti come quella di Blonde on Blonde e di Self Portrait.
Oggi abbiamo scoperto che una sezione fiati era stata utilizzata anche
per New Morning del 1970, poi messa da parte a favore di una soluzione
più essenziale degli arrangiamenti. Però l'analogia tra il sound di
Bruce Springsteen e quello di Street-Legal si interrompe qui. Non serve
un professore di musica, né un sassofonista per notare che la struttura
dei brani, l'uso del sax e altro ancora non ha punti di contatto tra
Dylan e Springsteen, specialmente perché quel genere di suono e di stile
non è stato creato nel New Jersey, ma deve la propria origine a cose
arrivate ben prima della pubblicazione di Greetings from Asbury Park, NJ
del 1973. Poco prima c'erano state le intuizioni di altri artisti come
Rolling Stones, ma soprattutto come Van Morrison.
Morrison infatti ispirandosi al sound di artisti black aveva preso a
piene mani dalle etichette Atlantic e Stax, ispirandosi ad alcuni
leggendari performer e a sezioni fiati che valorizzavano il sound del
sassofono, unito a quello del pianoforte e dell'organo Hammond B3. Tutta
questa digressione mi è utile per dire che il suono che stava cercando
di ottenere Dylan da questo album virava verso la black music. Non era
ancora arrivato però il tempo di fare un'inversione di marcia e puntare
dritti ai Muscle Shoals Sound Studio di Sheffield, Alabama.
Questa volta Dylan sarebbe inciampato in una registrazione californiana,
dove però la sua ricerca di un nuovo sound avrebbe prodotto un disco
davvero agile e ricco di sfumature, tra il blues e il soul, con una
presenza di cori femminili e tutto quello che serviva in termini di
energia e spinta della sezione ritmica, delle percussioni e delle
tastiere. Questo disco è stato per lungo tempo criticato e messo alla
gogna per il suo suono. Oggi grazie alla possibilità di ascoltare il
remix di Don DeVito, realizzato nel 1999, abbiamo una pulizia dei suoni
che ci fa intuire a cosa stava mirando Dylan. Per non parlare di alcune
canzoni che all'epoca non vennero capite né valutate per il loro reale
potenziale.
Si tratta di materiale come Changing of the Guards, No Time to Think,
Baby, Stop Crying, ma soprattutto di Senor (Tales of Yankee Power) e
della conclusiva, dolonte e maestosa Where Are You Tonight? (Journey
Through Dark Heat). Brani che dicono tanto di questo disco frainteso,
che a distanza di 40 anni possiamo riposizionare dove è giusto che stia.
Appena un passo dietro i grandi classici, ma in una posizione di rilievo
tra gli appassionati di buona musica, di chiunque abbia una passione per
il rock blues e quel genere di sound urbano, sanguigno e pulsante, che a
partire da Elvis e Orbison, tira dritto verso gli Stones, gli Animals,
Van Morrison e Santana. Dylan che già in passato si era tinto le mani e
il viso di nero, stavolta si cala completamente nella black music e
affiora con grande consapevolezza, tanto che lo step successivo sarà
proprio quello di farsi produrre da Jerry Wexler e Barry Beckett. Se vi
pare poco!
Signori, disse lui, non ho bisogno della vostra organizzazione, ho
lustrato le vostre scarpe. Ho smosso le vostre montagne e segnato le
vostre carte, ma il paradiso è in fiamme, o vi preparate ad essere
eliminati oppure i vostri cuori devono avere il coraggio per il cambio
della guardia.
Rough and Rowdy Ways: un Dylan ruvido
nell’era dei Millenials
E’ un Dylan diverso quello che torna a calcare le scene. Fermamente
convinto del fatto che ogni sette anni il nostro corpo possa mutare,
l’Autore si presenta con un pugno di canzoni durante l’ora più buia. Ad
attenderlo, manco a farlo apposta sono davvero Rough and Rowdy Times.
Già il tempo, i tempi: chi meglio di un artista con una carriera alle
spalle lunga mezzo secolo, potrebbe giocare con il tempo, con lo spazio?
Bob Dylan aveva scritto queste canzoni presumibilmente prima
dell’emergenza da Covid-19, specialmente prima che l’America tornasse a
bruciare. Ed è strano non abbia citato, in un disco dove c’è tanto
cinema l’Orson Welles che parlando dell’antica Roma elogiava le qualità
dell’orchestra di Nerone, che suonava magnificamente, mentre il mondo
intorno bruciava. Non sappiamo se Dylan sia un appassionato di Paolo
Sorrentino e della sua Grande Bellezza, ma ricordiamo di certo la sua
passione per Fellini e per Claudia Cardinale. Canzoni che inneggiano
alla satira, come i classici greci prima, latini poi. La gente diceva
che era una spugna; lui si definiva uno spedizioniere musicale per il
quale i diritti di proprietà erano provvisori, scriveva Daniel Mark
Epstein in "The Ballad of Bob Dylan".
Rough and Rowdy Ways ha un titolo che fa il verso, strizzando l’occhio a
uno dei suoi dischi meno apprezzati dalla critica: Street-Legal. Altro
contesto, altra epoca. Street-Legal usciva in piena esplosione punk e
new wave; giustamente non venne capito, né apprezzato, se non a distanza
di tempo. Era un lavoro enigmatico e oscuro, proprio come questo Rough
and Rowdy Ways: comune denominatore è l’energia, in quel caso legata
alla crisi matrimoniale, stavolta invece più spirituale, trascendentale.
Per certi versi questo disco segna un ritorno, a distanza di otto anni
dall’ultimo lavoro autografo: Tempest del 2012. Nella sua lunga e
sterminata produzione in studio, lo spedizioniere musicale Bob Dylan non
si era mai fermato così a lungo. L’ultima lunga pausa, come autore di
canzoni, era stata proprio negli anni novanta, quando dopo Oh, Mercy e
il meno importante Under the Red Sky, era tornato a incidere brani
tradizionali e cover. Ci fu poi il ritorno con Time Out of Mind, lavoro
che di fatto riaccese la miccia della creatività, da cui arrivarono in
successione quattro nuovi lavori, tutti di livello medio-alto. Quasi dei
capolavori, sicuramente dei classici contemporanei. Alla sua maniera. Ed
era tanto che non scriveva e non raccontava storie con un taglio così
evocativo, ispirato: dichiaratamente cinematografico. Difficile e
dispendioso citare tutti i rimandi e annotare tutti i nomi contenuti in
questo pregevole ritorno discografico. Di certo balza agli occhi un
richiamo all’horror, al gotico nordamericano. Poe e Lovecraft, ma per
restare nell’ambito dell’immaginario pop, Dylan parla il linguaggio
della Hollywood classica, tirando in ballo Al Pacino e Marlon Brando,
Indiana Jones e Nightmare, Boris Karloff e American Graffiti, Marilyn
Monroe, Elvis Presley e Frank Sinatra, Woody Allen, Buster Keaton e Bob
Fosse, riportando tutto a casa, compreso il mito, includendo i poeti e
gli eroi, includendo la propria esperienza e questo scomodo fardello.
Shakespeare, he’s in the alley, ma è una tragedia ancora una volta
filtrata attraverso uno schermo cinematografico, come nella pellicola
del 1953 di Joseph L. Mankiewicz, con Marlon Brando e James Mason.
L’atmosfera ricorda anche una vecchia pellicola di Vincent Price, mentre
aleggia il fantasma di Robert Mitchum in The Night of the Hunter. Spirit
on the water! Spettri, trascendenza e oscurità. Il baratro, così come la
fine, è prossimo. Conduce però non in un luogo allegorico, ma
semplicemente al Black Horse Tavern di Armageddon Street.
Oggi più che mai è davvero
facile riavvolgere il nastro e far partire un brano a caso, una volta ho
visto un film che parlava di un uomo che attraversava il deserto ed era
interpretato da Gregory Peck. Veniva ucciso da un ragazzo assetato di
gloria che cercava di farsi un nome. Tutto ciò avviene prima di giungere
dalle parti di Key West, girando la manopola di una vecchia radio
valvolare analogica. Ironia della sorta, Dylan citando stazioni radio
pirata lontane nel tempo e nella memoria ci riporta alle suggestioni di
In the Days Before Rock ‘N’ Roll, brano di Van Morrison dove comparivano
proprio le frequenze di Luxembourg e Budapest. E’ come se ci fosse la
piena volontà di trascinare sulle spalle o solo nella memoria, tutto ciò
che è stato, capace di viaggiare leggero, come una piccola valigia,
portando dietro tutte le cose importanti e anche quelle futili. C’è
l’idea di America e di Occidente, c’è la voce di una Nazione, oppure no.
C’è un riferimento alla Terra di Oz, ma anche ai presidenti degli Stati
Uniti che Dylan ha conosciuto e attraversato, forse con indifferenza,
più probabile con piena coscienza. Non è certo casuale il riferimento a
Ginsberg, Corso e Kerouac, le maggiori voci della Beat Generation. Senso
di appartenenza? Probabilmente. In un disco che fa della citazione la
sua arma prediletta, è necessario menzionare almeno Billy “The Kid”
Emerson e Jimmy Reed, così come Louis Armstrong e Bud Powell. Non può
mancare un riferimento alla Sacra Bibbia, immancabile totem dylaniano.
Sceglietelo da voi però il salmo che preferite. Solo un suggerimento:
visti i tempi evitate il Libro della Rivelazione. I opened my heart to
the world and the world came in.
Rough and Rowdy Ways: focus on the tracks
My Own Version of You è una delle tre gemme prezioso di questo disco. Il
passo è sinuoso ed elegante: una nuova, audace, Ain’t Talkin'. Più
aggraziata, meno sentenziosa e definitiva. Quasi a dare lo start al
disco, dopo una falsa partenza e un blues-stomp ingannevole e
fuorviante. Il testo è esemplare, un affresco che trasuda un gusto per
il gotico. Un vero e proprio racconto in prima persona, davvero simile a
quelli a cui ci aveva abituato negli anni sessanta e settanta. Un
ennesimo ritorno con impeccabile e implacabile sagacia. Un Bob Dylan
sardonico e mefistofelico, a metà tra Poe, Lovecraft e Mary Shelley. Un
nuovo classico?
Black Rider è un altro brano capolavoro, sia da un punto di vista
stilistico che formale. A metà tra un racconto di Italo Calvino e il
Cavaliere Nero di Proietti. Ricorda per certe atmosfere e intarsi di
chitarra il Leonard Cohen andaluso e il Tom Waits più teatrale e oscuro.
Key West (Philosopher Pirate) è un pezzo dedicato alla città della
Florida dove il regista Joe Dante aveva ambientato uno dei suoi film più
ispirati, Matinée, pellicola del 1993, che si svolgeva durante la crisi
dei missili di Cuba dell’ottobre 1962. Dylan descrive questo posto come
una specie di paradiso in terra attraverso un ispirato e poetico flusso
di coscienza dove trovano spazio anche i poeti beat Ginsberg, Corso e
Kerouac. La melodia fa pensare subito a The Band e alla fisarmonica di
Garth Hudson, ma anche al Tom Waits di Cold Cold Ground. “Key West è il
posto migliore dove trovarsi se si cerca l’immortalità, Key West è il
paradiso divino. Se hai perso il senno, lo ritroverai là. Key West è
sulla linea dell’orizzonte”. Un pezzo che da solo vale il disco, se non
fosse che stiamo parlando di uno degli album più ispirati di Bob Dylan
degli ultimi 30 anni.
The Basement Tapes and The Bootleg Series Vol. 11 (1975)
"L'idea era di registrare dei demo per altri artisti. Non sono mai stati
concepiti per essere pubblicati, per diventare un disco, per essere
presentati al pubblico". Fortunatamente Robbie Robertson ci conferma ciò
che appare evidente dopo l'ascolto di questo doppio disco pubblicato per
la prima volta il 26 giugno 1975. Otto dei 24 brani sono eseguiti da The
Band, senza Dylan, ma bisogna tenere un altro numero ben più imponente e
voluminoso, per questa raccolta che conta 139 tracce complessive. Le
registrazioni risalgono però al periodo che va da giugno 1967 al 1968.
Successivamente verranno eseguite delle sovraincisioni durante il 1975.
La gestazione di questo disco non è quindi molto omogenea, così come la
scaletta. Le composizioni sono di Dylan, Robbie Robertson, Richard
Manuel e Rick Danko, alcune delle quali scritte in collaborazione a
quattro mani. Il materiale include almeno 4-5 brani che entreranno di
diritto nella storia della musica popolare, ma la cosa più importante,
in termini di documento storico è come avvengono le sessions e le prove.
Resta da dire che non si può parlare di un vero lavoro in studio, ma che
sarebbe riduttivo dire che si tratti di semplici provini, visto anche il
valore e l'intensità con cui vengono eseguite. Purtroppo le
registrazioni e l' acustica della cantina renderanno il suono
decisamente lo-fi, ma se il disco viene ascoltato oggi il problema non
sussiste, dato che spesso la musica viene spesso prodotta in modo
simile, anche se la tecnologia ha fatto passi in avanti, naturalmente.
Escludendo il primo triennio (1962-1964) più qualche occasionale
ripensamento, Bob Dylan ha scritto, inciso e pubblicato dischi
supportato da una band elettrica o comunque elettro-acustica. Nonostante
abbia pubblicato solo 6 album su 39 con questo tipo di line-up per
moltissimi lui sarà sempre una voce folk, un menestrello armato di
chitarra acustica e armonica pronto a regalare note emozioni e nuove
canzoni al mondo. Questa premessa obbligatoria ci conduce nella cantina
più famosa degli anni sessanta. Perlomeno per un certo tipo di pubblico
affascinato dal fenomeno crescente del folk rock. Di quel genere
musicale che oggi abbiamo imparato a chiamare Americana. The Basement
Tapes sono una mappa alternativa, cartina tornasole di un gruppo che
stava muovendo i primi passi e di un autore già celebre e incensato alla
ricerca di ispirazione di un nuovo sound del groove con cui prima o poi
sarebbe tornato a far parlare di sé. Ufficialmente queste registrazioni
risalgono al periodo 1966-1967 ma il disco venne pubblicato dalla
Columbia Records solo durante l' estate del 1975. Bob Dylan all' epoca
era già tornato sia in studio che dal vivo, prima con "The Band" e
successivamente con un altro nucleo di musicisti che lo avrebbero
accompagnato in studio e nelle esibizioni live di quel carrozzone noto
come Rolling Thunder Revue. Le canzoni e le registrazioni, eccettuate
alcune sovraincisioni che fecero più danno che altro, risalgono quindi a
circa 8 anni prima. E questo non è certo un elemento trascurabile per un
artista sfuggente e mutevole come il Nostro.
La qualità è rozza, cruda, l'approccio diretto, spontaneo e
inconsapevolmente lo-fi. In maniera libera e informale prende vita un
ritratto totale della cultura americana, attingendo da ogni vena
pulsante della storia della musica degli States. Qui respiriamo l' aria
di pianure sterminate, dei deserti e sentiamo gli odori della terra, dei
fiumi, percependo infinite sfumature cromatiche di questo luogo
infinito. I testi si ispirano gioco-forza a quell' America rurale,
entrando nelle viscere di personaggi che sono al contempo santi e
peccatori, prostitute e vergini, amanti del vizio alla ricerca della
salvezza dell'anima. Il fatto che Bob Dylan e The Band si siano chiusi a
fare questa musica arcana e blasfema mentre il mondo sta andando a ferro
e fuoco, è un dettaglio da non trascurare. In effetti ascoltando bene
tra le tracce, qualcosa si avverte anche. Tears of Rage, You Aint' Goin'
Nowhere, This Wheel's on Fire e I Shall Be Realesed (che tuttavia non
sarà inclusa nel doppio album, ma pubblicata separatamente prima da The
Band e poi dallo stesso Dylan.) sono figlie illegittime di questi tempi
turbolenti e solo per alcuni mitizzati e ancora oggi celebrati come una
stagione irripetibile. Nota a parte per il brano I’m Not There,
pubblicato ufficialmente solo nel 2007 come colonna sonora dell’omonimo
film ispirato alle molte vite di Dylan e diretto dal talentuoso e
visionario regista statunitense Todd Haynes (ma della pellicola e della
colonna sonora vi parlerò in maniera estesa in un post a parte, più in
là nel tempo).
Non tutto il lavoro verrà però svolto invano, visto che The Byrds,
Peter, Paul and Mary e soprattutto i britannici Manfred Mann sapranno
valorizzare questo materiale. Personalmente ho sempre apprezzato molto
un brano come Goin' to Apaculpo o lo stesso Million Dollar Bash, mentre
il valore di Quinn the Eskimo (Mighty Quinn) è certificato dal primo
posto di questo singolo nelle classifiche UK, nella versione dei Manfred
Mann.
Che dite, ne valeva la pena raccogliersi in uno scantinato con un gruppo
di amici, cane sdraiato sul pavimento a fare da groupie casuale?
A rendere giustizia a queste takes ci penserà il tempo e la storia,
visto che nel 2014 viene pubblicata la compilation di registrazioni
edite, inedite, nastri demo e versioni alternative che troverete su The
Bootleg Series Vol.11: The Basement Tapes Complete. Se posso suggerirvi,
vi consiglierei di recuperare direttamente questa versione delle
incisioni, se non siete dei completisti anche in versione RAW a due
compact disc. Trentotto tracce che fanno da mappa riduttiva rispetto
alla versione completa da 139 tracce e 6 cd.
Fallen Angels, secondo capitolo dell'omaggio di Bob Dylan al
Great American Songbook è una sorprendente raccolta di classici della
canzone americana popolare che ricalca a grandi linee il manifesto
programmatico a cui avevamo assistito due anni prima, con il
predecessore Shadows in the Night. Trentasettesimo lavoro in studio,
registrato con la stessa band che lo accompagna dal vivo, più l'aggiunta
del chitarrista Dean Parks, per irrobustire la line-up, propone
una selezione di dodici brani, undici dei quali erano stati in
precedenza registrati e pubblicati da Frank Sinatra. L'eccezione
è rappresentata da uno dei brani più coinvolgenti di questo disco: la
traccia numero cinque, Skylark. Questo brano è una composizione a
firma di Johnny Mercer e Hoagy Carmichael, del 1941.
Carmichael deve la propria fama a brani come "Stardust", "Georgia on My
Mind", "The Nearness of You", "Heart and Soul" e “Baltimore Oriole”,
brani scritti principalmente durante gli anni quaranta. Dello stesso
co-autore di Skylark è anche il brano That Old Black Magic, firmato da
Harold Arlen e Johnny Mercer. Per sfatare il luogo comune
secondo cui Fallen Angels non rappresenterebbe una importante produzione
all'interno della discografia di Bob Dylan, vorrei citare la recensione
di Mat Snow, il quale sulle colonne di Mojo sostiene come Dylan in
queste registrazioni ci consegni una specie di memoriale sentimentale,
le quali apparentemente non hanno niente in comune con le sue canzoni
elettrizzanti e moderne ma ben radicate in alcune composizione come
Moonlight, Spirit on the Water, Soon After Midnight o Life is Hard.
Sembra scontato, eppure questo disco si fa notare per la bellezza e la
limpidezza degli arrangiamenti, per la qualità della produzione e per la
voce sempre più presente e dinamica, visto il materiale che va a
trattare.
Andy Gill su The Independent ha scritto, "il tocco sobrio e la pastosa
chitarra pedal-steel di Donnie Herron impongono uno stato d'animo
country morbido ma colloquiale dietro l'elegante e stanco canto di
Dylan". Allo stesso modo, Jim Farber di Entertainment Weekly ha scritto:
"Dylan si posa su queste parole con ironica delicatezza. La sua voce può
essere roca e danneggiata da decenni di esibizioni, ma c'è bellezza nel
suo carattere. Offrendo una interpretazione compassata di queste canzoni
d’amore perduto e di passione ardente la malinconia dell'esperienza".
Helen Brown nella sua recensione (dopo avergli assegnato cinque stelle)
per The Daily Telegraph ha elogiato le capacità vocali di Dylan
nell'album, affermando: "Anche se alcune persone hanno sempre sostenuto
che Dylan "non sa cantare", la verità è che, come Sinatra, ha sempre
avuto un talento straordinario per trasmettere un testo. Qui lo vediamo
muoversi con disinvoltura sui versi di Johnny Mercer".
Per farla breve Fallen Angels è come una lezione di storia rilassata
con tanti colpi di scena enigmatici che sovverte gli archetipi del
romanticismo, dell’eroismo e delle connessioni interpersonali per
rivelare qualcosa di più sinistro sulle intenzioni umane, il tutto
racchiuso in una bellissima musicalità di primissimo ordine.
Non è così scontato per Bob Dylan realizzare suonare e cantare un
lavoro così coeso, sobrio, concentrato e dinamico. Una sfida vinta a
mani basse, con un repertorio solo apparentemente e superficialmente
distante dalle sue corde. Sicuramente più significativo di tanti album
pubblicati dai suoi colleghi maggiormente dotati come Willie Nelson, Rod
Stewart, lo stesso Van Morrison o Linda Ronstadt.
Da veri appassionati del genere non possiamo non citare almeno i titoli
di brani come "Polka Dots and Moonbeams", "All the Way", "All or Nothing
at All", "That Old Black Magic" e la conclusiva ed eterna "Come Rain or
Come Shine". Prodotto da Bob Dylan con lo pseudonimo di Jack Frost,
questo disco è stato realizzato tra il 2015 e il 2016 nei Capitol
Studios di Los Angeles ed è stato pubblicato per Columbia Records il 20
maggio 2016.
Il pregiudizio verso questa operazione Sinatra lo delegittima
rendendolo un disco difficile da scovare per chi non rientri nella
categoria dell'appassionato del genere e del completista. Da rivalutare
e riascoltare. Non a caso la rivista musicale Mojo lo inserisce tra i
migliori 50 dischi del 2016, dove occupa la posizione numero 20.
Giudizio che ci sentiamo di condividere e sposare in toto.
Dario Twist of Fate
Good as I been to You - World Gone Wrong
(1992-1993)
Per analizzare in modo strutturato gli album
folk e tradizionali pubblicati da Bob Dylan durante i primi anni novanta
bisogna fare prima qualche passo indietro. Per una maggiore comprensione
della sua vicenda artistica, della scena musicale turbolenta e fertile,
di quel decennio appena iniziato, ma che già aveva mostrato vento di
cambiamento. In effetti c'era stato più di uno squillo da parte delle
nuove leve musicali e di una generazione che si sarebbe presa con
autorevolezza le luci della ribalta.
Bisogna partire proprio da quel programma televisivo di enorme successo
e impatto che fu appunto l'Unplugged, ma anche lo stesso palinsesto di
MTV potrebbe aiutarci a compiere una ricognizione efficace e polifonica.
Dire che Bob Dylan alla soglia del nuovo millennio era un artista senza
più molto da dire è un luogo comune da sfatare con ogni mezzo, legale e
illegale. Stiamo parlando di un autore e di un interprete che aveva
influenzato almeno una generazione di autori ora maturi e imposti sul
mercato discografico, i cui prodotti di grandissima qualità erano
destinati a durare nel tempo. Si pensi ad esempio a gente come Tom
Petty, che raccolse proprio a cavallo tra gli anni ottanta e i novanta
il testimone, così come lo stesso Bruce Springsteen, Tom Waits, ma anche
i Pearl Jam e in special modo Eddie Vedder, proprio come Bono Vox degli
U2. Gli U2 nel 1988 resero omaggio alla musica statunitense che li aveva
ispirati, nella loro lunga cavalcata verso il successo planetario. Senza
soffermarsi troppo sul singolo artista, band o chitarrista, il lascito
di Dylan era evidente e influente. Basti citare un singolo successo dei
Guns ‘N’ Roses come la rilettura di Knockin' on Heaven's Door, brano che
porta la formazione capitanata da Slash e da Axl Rose ai vertici delle
classifiche e dei gradimenti di un pubblico stratificato ed eterogeneo.
Eppure Bob Dylan non veniva certo da un decennio facile e ricco di
successi e gratificazioni discografiche. È vero che aveva prodotto e
pubblicato durante gli anni ottanta due dei suoi album migliori e di
maggior successo come Infidels del 1983 prodotto da Mark Knopfler dei
Dire Straits (altra band profondamente ispirata e in debito nei
confronti di His Bobness) e soprattutto il più recente successo di Oh,
Mercy prodotto stavolta dal mago del suono (U2, Robbie Robertson, Peter
Gabriel) Daniel Lanois. Il polistrumentista canadese aveva infatti
stravolto e modernizzato gli arrangiamenti delle canzoni di Dylan,
aiutandolo e dirigendolo verso una nuova visione di consapevolezza e di
brillantezza essenziale del sound. Dylan negli anni ottanta sembrava
sempre più perso e arroccato sulle proprie convinzioni. A detta della
critica non era altro che un ferro vecchio del rock e del folk. Nessuno
acquistava e ascoltava più la sua musica, in un decennio dove il
concetto fatalista dell'usa e getta aveva preso il sopravvento. Del
resto fu un decennio per niente facile per le vecchie glorie della
musica d'autore, come possiamo vedere dando uno sguardo ad artisti come
lo stesso Neil Young, Van Morrison e altri. In particolare però Dylan
era colpevole di un delitto capitale: aveva pubblicato almeno due album
nella seconda metà degli anni ottanta che la critica e il pubblico aveva
salutato come i suoi peggiori lavori dai tempi di Self Portrait. Come
sempre la storia e il tempo sono galantuomini, ma anche tra il suo
zoccolo duro di sostenitori questi dischi non erano affatto piaciuti.
La resurrezione però ancora una volta è dietro l'angolo. Proprio
nell'anno peggiore, quello in cui diede alla stampe il fiacco Down in
the Groove, dove anche i critici e il pubblico più affezionato salva
forse 2-3 canzoni, come la pimpante e allegra "Silvio", Dylan torna alla
luce e lo fa con quello che gli riesce meglio da quando si è imposto nei
circuiti folk newyorkesi dei primi anni sessanta: torna a esibirsi dal
vivo con una certa continuità e autorevolezza. Non che prima fosse
fermo, anzi, era reduce da almeno due tour con band che rispondono ai
nomi di Tom Petty and the Heartbreakers e dei Grateful Dead di Jerry
Garcia. Circola in questo periodo un bel live su Youtube di un Dylan in
spolvero che divide il palco con Garcia & Co. Oh, Mercy e in parte Under
the Red Sky, il sequel del 1990, bilanciano quindi gli insuccessi di
Knocked Out Loaded e di Down in the Groove, ma c'è un problema. E non è
affatto un dettaglio da poco. A Dylan, autore tra i più imponenti degli
ultimi 25-30 anni mancano ora le canzoni, o meglio i pezzi giusti per
restare a galla, vendere qualche disco e continuare a esibirsi in
concerti e festival.
A questo punto l'idea appare chiara. Un ritorno alle origini di
menestrello e di folksinger. Del resto non era forse lui il Wonder Boy
degli anni sessanta, il principe della scena newyorkese che si impose al
pubblico e convinse il grande talent scout John Hammond a metterlo sotto
contratto con la Columbia Records? Era lui e ogni tanto forse gli piace
ricordarselo. Con questi due album che non contengono nessun brano
autografo, ma che si avvalgono di nuovi e squillanti arrangiamenti, Bob
Dylan torna alle atmosfere pacate e acustiche dei suoi esordi. I dischi
forse non sono dei capolavori, ma basta ascoltare anche solo i brani
scartati, gli outtakes che verranno pubblicate nel tempo per stabilire
le giuste gerarchie su chi sia ancora una volta il principe e il maggior
interprete della scena folk e tradizionale Made in Usa. Basta ascoltare
il brano Mary and the Soldier contenuta nel Bootleg Series Vol. 8 - Tell
Tale Signs per capire chi resta uno degli interpreti più efficaci in
termini di Contemporary folk music. Oppure per chi non concepisce e non
digerisce i dischi dedicati al Great American Songbook, consiglierei di
recuperare la sua versione di You Belong to me, la classica ballata
romantica, portata al successo da Ella Fitzgerald, Patti Page e Dean
Martin. Il brano eseguito da Bob Dylan e presente nella colonna sonora
del film di Oliver Stone è una outtakes di Good as I Beene to You del
1992. Oggi, a distanza di quasi 30 anni, possiamo facilmente affermare
come World Gone Wrong e appunto il sopra citato Good as I Beene to You
siano qualcosa in più che esercizi di stile o dischi di livello
accettabile. Sono una testimonianza di un artista che decide quale
strada seguire, contro i propri interessi commerciali, contro quello che
le radio e il sistema discografico imponeva. C'è chi in quegli anni si
era permesso il lusso di "consigliare" a Dylan di ritirarsi. Bene, a
distanza di 29 anni Dylan continua a fare la sua musica per il suo
pubblico, senza compromessi e senza bisogno di chiedere permesso e scusa
a nessuno.
A questo punto vi pongo la domanda che Soffia nel Web: chi era il vero
artista grunge negli anni ‘90?
Nessuno, forse nemmeno il grande talent scout John Hammond
poteva prevedere quello che sarebbe accaduto, in chiave retrospettiva
dopo quel 1962.
Eppure è proprio da questa data, 19 marzo 1962 che bisogna iniziare, se
si vuole ripercorrere in maniera coerente e completa la vicenda
artistica di Bob Dylan. Dai primi timidi tentativi di scrittura, che
sono appunto contenuti in questo esordio. I brani autografi sono due:
Talkin' New York e soprattutto Song to Woody, dedicata proprio al suo
mito, Woody Guthrie, la principale fonte di ispirazione per
questo acerbo cantautore. Eppure nel disco si sente anche altro, inclusi
brani che faranno da lì a breve la fortuna dei loro esecutori. Pensiamo
ad esempio a un pezzo come House of the Risin' Sun, che di lì a breve
avrebbe fatto la fortuna di Eric Burdon e dei suoi Animals. Ci
sono poi altre canzoni che meritano una citazione e una analisi più
approfondita, come ad esempio Baby Let Me Follow You Down, brano
tradizionale, come lo era anche House of Risin' Sun, arrangiato da
Eric Von Schmidt, che resterà però appiccicato a Dylan per
lunghissimo tempo.
Che dire di You're No Good? Brano che di fatto rappresenta il primo
vero approccio che si possa fare in maniera filologica con la musica di
Bob Dylan. Il pezzo che apre il disco è una composizione di Jesse Fuller
e mostra tutte le fragilità e le speranze di questo giovane chitarrista
e interprete che aveva fatto tanta strada per arrivare in quel di New
York per coronare il suo sogno di musicista. Certe volte la vita è
davvero strana, come racconterà molto tempo dopo nel suo mirabile
memoriale, Chronicles - Volume Uno.
Dylan arriva a New York City in un freddo mattino d'inverno del 1961,
per farsi strada tra le amicizie e i salotti radical-chic del Café Wha,
del Gerde's Folk City e del Gaslight.
Bastano dunque due sessioni di registrazioni che daranno vita a 36
minuti e 54 secondi di musica, per questo importante esordio per la
musica d'autore nordamericana. Eppure in quel 1962 tutto questo sarà
riservato davvero a pochissimi fruitori. Il disco infatti, pur
avvalendosi di una etichetta importante come la Columbia non venderà
moltissimo prima del 1964, quando però il fenomeno Dylan sarà già
esploso a livello mediatico specialmente negli Stati Uniti. Arriverà
alla 13esima posizione nel Regno Unito, tre anni dopo la sua
pubblicazione. Nemmeno la critica musicale gli riserva un trattamento di
favore, ma non sarà l'unica volta in cui un nuovo disco di Bob Dylan
verrà rivalutato a distanza di tempo. Del resto questa è la condizione
che un musicista imperfetto e personale deve imparare a gestire. Bob
Dylan non ha mai convinto tutto il pubblico e la critica, non è un
cantante perfetto, né un chitarrista eccezionale, ma sopperisce con la
personalità, il gusto e il carisma innato, queste carenze congenite.
Il suo disco d'esordio, ascoltato oggi, costituisce un modello di
paragone importante, rispetto a quello che avrebbe realizzato nel tempo,
alla sua maturità artistica, vocale e musicale. Eppure è davvero
incredibile non soffermarsi sui tratti distintivi e sulle qualità di
questo esordio. Non sappiamo bene se il merito sia da spartire con chi
gli aveva insegnato gli arrangiamenti di certi brani, fatto sta che oggi
tutti quei nomi sono solo ricordi sbiaditi, mentre la stella di Dylan
splende nel firmamento in maniera sempre più potente e brillante, segno
che il tempo è galantuomo con gli uomini di ingegno, di talento e di
passione. E Bob Dylan possedeva e possiede tutte queste qualità, se ci
consentite di esprimere un giudizio.
Triplicate è il 38esimo lavoro in studio di
Bob Dylan e come per i due precedenti non contiene brani autografi,
visto che è dedicato ai classici della canzone americana il cui minimo
comun denominatore è rappresentato dal fatto che fanno parte del
repertorio di Frank Sinatra. Tre dischi ciascuno dei quali segue un suo
filo tematico. Il primo disco si intitola 'Til the Sun Goes Down e
comprende composizioni che vanno da September Of My Years fino a Once
Upon a Time, passando per My One and Only Love, Stormy Weather e I Could
Have Told You. Il secondo si chiama Devil Dolls e comprende As Time Goes
By, P.S. I Love You, Imagination, The Best Is Yet to Come e Here's That
Rainy Day. Chiude la sequenza il terzo volume: Comin' Home Late dove
troviamo brani come Sentimental Journey, Stardust e These Foolish
Things, tra le composizioni.
La band che lo accompagna, in grande spolvero, è la solita degli ultimi
lavori in studio e live. Tony Garnier al basso, Charlie Sexton alla
chitarra, Donnie Herron alla steel guitar, George Receli alla batteria e
Dean Parks sempre alla chitarra. Come per i precedenti lavori la
produzione è di Dylan stesso sotto lo pseudonimo di Jack Frost. I tre
singoli il cui compito è quello di promuovere il triplo disco sono "I
Could Have Told You", "My One and Only Love", and "Stardust". A rendere
questo disco davvero speciale, più che il materiale inciso ci pensa però
il momento storico in cui verrà pubblicato. E infatti il 31 marzo 2017,
formalmente seppur si tratti di un disco di standard e cover già molto
popolari, la prima uscita discografica post-Nobel per la Letteratura,
premio che l’artista statunitense aveva ricevuto il 13 ottobre 2016 “per
aver creato nuove espressioni poetiche nella grande tradizione musicale
americana.” Potrebbe sembrare solo una casualità, così come lo è la
durata dei singoli dischi, 32 minuti cadauno, numero fortunato che
simboleggia la luce, tanto per citare la Cabala. Difficile dare un
giudizio di merito su questo terzo omaggio alla canzone americana
d'altri tempi. Si tratta di una scelta che spiazza non poco, ma che se
ascoltata nel giusto contesto ci trasporta in un altro tempo, in
un'altra dimensione.
Il manifesto programmatico resta lo stesso dei precedenti Shadows in the
Night del 2014 e Fallen Angels del 2016. Dischi suonati molto bene con
una band dal vivo in studio, dove Dylan sfoggia una voce davvero calda,
avvolgente, ispirata come non mai. Allora dov’è il problema, ammesso che
ve ne sia uno? Come sempre la percezione del pubblico. Forse un pò
stanco di sentire il loro autore e cantante preferito alle prese con una
verde milonga alla ricerca del traditional pop standards di sinatriana
memoria. Triplicate forse è un pò' eccessivo, se ascoltato nella sua
interezza, ma ci piace pensare a come sarebbe stato uno spezzatino dei
tre volumi, ridotto a 16-18 tracce totali. Forse il capitolo più
ispirato e sentito di questo omaggio all'epoca d'oro della canzone pop
anni quaranta e cinquanta. Dylan è senza alcun dubbio alla ricerca del
suo tempo perduto, di quella mitica radio ascoltata nelle case
d'infanzia nel suo amato Minnesota.
Un lavoro perfettamente in linea con la sua attività parallela di dj
radiofonico, visto che in precedenza aveva allietato il pubblico
dell'etere con il suo pregevole Theme Time Radio Hour. Non capita tutti
i giorni di sentire cantare un premio Nobel per la letteratura, ma è
comprensibile che il suo pubblico, lo zoccolo duro scalpiti per
ascoltare brani autografi e originali, scritti e arrangiati di proprio
pugno. Oggi naturalmente sappiamo che da quel 31 marzo 2017 dovranno
trascorrere ancora tre lunghi anni e due mesi. Anche se con Dylan non è
mai banale parlare di tempo e di spazio. Abbiamo imparato a conoscerlo
bene, il suo essere sempre e per sempre Time out of mind.
È innegabile come la lunga e rilevante carriera di Bob Dylan possa
essere analizzata in base a diverse fasi, epoche, bruschi balzi
temporali in avanti, indietro e in orizzontale. C’è stato però durante
questi dieci anni un momento cruciale, un crossroad, l’ennesimo, il
quale pare essere sfuggito alla critica mainstream. Mi riferisco a
quella fase inaugurata con “Love and Theft” album del ritorno del 2001,
erroneamente considerato sequel del precedente Time Out Of Mind, dove il
Nostro cambiò praticamente modus operandi. Da lì in poi realizzò tre
dischi composti da inediti, l’ultimo dei quali risponde al nome di
Tempest, del 2012. Successivamente iniziò la pubblicazione di quello che
venne giustamente definito come il suo Great American Songbook. Tre
volumi per cinque album, il primo dei quali si intitola appunto Shadows
in the Night, disco concept composto da dieci tracce standard pop,
portate al successo da Frank Sinatra, a cavallo tra gli anni quaranta e
il 1963.
Ora, chi conosce bene Dylan avrà imparato che i dettagli non solo fanno
la differenza, ma vanno a tratteggiare il quadro nel suo insieme. C’ è
un luogo comune e un refrain che con Dylan suona in continuazione: è un
artista enigmatico, non si capisce mai dove voglia andare a parare.
Potrebbe essere veritiero, se prendessimo in analisi la sua carriera tra
gli anni sessanta e i primi novanta. Da quel momento in poi però,
diciamo più o meno in seguito alla pubblicazione della trasmissione
televisiva Unplugged, qualcosa cambia e in positivo. Era il 1995 e Dylan
veniva giustamente considerato superato, non in linea né al passo coi
tempi, non era nemmeno giudicato un nume tutelare del movimento grunge,
a differenza del suo illustre collega, Neil Young. Dato praticamente per
bollito, Dylan aveva però un paio di carte da giocare. Una di queste fu
richiamare il produttore Daniel Lanois per una nuova avventura in sala
di incisione. Ne uscirà quello che ad oggi è considerato uno dei suoi
successi più importanti, dalla seconda metà degli anni settanta in poi.
Ma questa è storia, passata. My back pages, direbbe His Bobness!
Realizzare questo disco è stato un autentico privilegio. Tutti
conoscevamo molto bene questi brani. È stato fatto tutto dal vivo, forse
in una o due registrazioni. Senza alcuna sovra incisione. Niente cuffie,
niente cabina di registrazione per il cantante. Di cover ne sono state
fatte abbastanza: seppellite. Quello che io e la mia band stiamo
tentando è il procedimento inverso. Disseppellire i pezzi dalla tomba,
per riportarli alla luce del giorno. Perché questa band non lavora con
il favore delle tenebre, o meglio non sempre.
Questo il manifesto programmatico espresso dal suo autore, prima del
lancio di Shadows in the Night. Oggi invece, con un titolo speculare,
stiamo ascoltando e soprattutto visionando un nuovo format dylanesco. Si
tratta di questo incantevole film in bianco e nero che risponde al nome
di Shadow Kingdom. Ancora una volta Dylan spiazza, destabilizza,
distorce tempo, prospettiva e pensiero. Noi appassionati, succubi e
senza alcuna possibilità di redenzione, non possiamo far altro che
prendere o lasciare. Chiaramente nel mio caso prendo. Del resto il
manifesto programmatico è eloquente.
Parte come se fosse un episodio pilota diretto da David Lynch e
ideato in coppia con Mark Frost. Quasi uno spin off di Roy Orbison and
Friends: A Black and White Night, il celebre speciale andato in onda
appena prima della prima stagione di Twin Peaks. Perché è vero un fatto:
si scrive Bon Bon Club in Marseille, ma si legge Bang Bang Bar,
Roadhouse. Siamo dalle parti dell’Impero della mente, dove David Lynch
potrebbe senz'altro farci da anfitrione. La suggestione è possibile,
come abbiamo potuto vedere anche da certi indizi e suggerimenti lanciati
dallo stesso regista di Missoula, il quale di recente aveva affermato:
“Amo Bob Dylan. Non c’è nessuno come lui. È unico e semplicemente
fantastico.” Ora, fin qui niente di strano, pur trattandosi di uno come
Lynch! Del resto già nel suo disco del 2013, The Big Dream, Lynch aveva
omaggiato Dylan, eseguendo una versione sperimentale di un brano
giovanile e disperato come The Ballad of Hollis Brown, tratto da The
Times They Are a-Changin'. Stavolta invece è stato Bob Dylan a
sconfinare nei territori battuti dal visionario regista americano.
Certo, in Shadow Kingdom ci sono altri riferimenti a parte quello
evidente di Velluto blu o Twin Peaks, visto che l’atmosfera ricalca,
almeno in parte il Quest show CBC TV – Canada, la cui messa in
onda risale al 1964. C’è anche un frammento preso da I’m Not There, con
quelle sequenze in bianco e nero ideate dal regista Todd Haynes,
e se vogliamo potremmo vederci anche uno stile in debito verso l' Hal
Ashby di Bound for Glory.
È pacifico affermare come l’immaginario dylaniano, musicale e non,
difficilmente si spinga oltre la prima metà degli anni sessanta. Si
pensi ad esempio alla serie di quadri intitolata The Beaten Path
(dallo stesso Dylan) e di evidente ispirazione hopperiana, nel senso di
Edward. Tutti elementi che si rincorrono e affiorano durante le visioni
fumè e volutamente retrò di questo progetto Shadow Kingdom. Nome
suggestivo che stavolta non delude né trascende le aspettative. E non ho
nemmeno parlato di musica, ma con Dylan, dopo oltre 59 anni di carriera
alle spalle, può diventare davvero accessorio, se non superfluo,
talvolta. E' scontato affermare che si tratti di uno dei cinque artisti
più influenti del Novecento, dove gli altri potrebbero essere Frank
Sinatra, Elvis Presley, Johnny Cash, John Lennon e David Bowie.
Forse stavolta il Poeta dell’elettricità è davvero riuscito a dipingere
il suo capolavoro? Non a caso la canzone di apertura, prestata per lungo
tempo ai sodali The Band si intitola appunto When I Paint My
Masterpiece.
Non è ancora detta l'ultima parola su uno
dei periodi più controversi della parabola artistica di Bob Dylan. La
pubblicazione per il grande pubblico di questa nuova uscita antologica
getta luce su un periodo che divide da più di cinquant'anni i suoi
estimatori, i detrattori e in certi casi anche i fan più sfegatati.
Eppure se ci si abbandona davvero all'ascolto, in senso pieno e
profondo, questo "1970" convince tutti a mani basse. Di certo avrà
influito essermi trovato ben predisposto e in fase dylaniana e
dylanista. Confesso che da un po' di giorni non ascolto altro, a
eccezione di artisti comunque limitrofi e paralleli come The Band, Tom
Petty, Van Morrison e George Harrison.
Proprio l'ex Beatle gentile arricchisce queste registrazioni con alcune
performance, forse non proprio memorabili, ma che sono il primo atto
formale di quella che poi sarebbe diventato una lunga e proficua
amicizia. Bob Dylan e George Harrison incroceranno infatti i flussi
(passatemi la citazione di Ghostbusters) e le note delle loro chitarre
più avanti, lungo la strada. Le uscite retrospettive di Bob Dylan sono
una cosa per veri appassionati e collezionisti completisti. Se come me
aspirate a conoscere tutto quello che Dylan ha realizzato in studio di
registrazione, questa "50th Anniversary Collection 1970" farà di sicuro
al caso vostro, mentre in caso contrario vi consiglio di passare
direttamente alla prossima, più importante uscita. Presto o tardi ci
sarà altra carne al fuoco, in questo grande falò che accompagna la
nostra esistenza del ricco, monumentale canzoniere dylaniano. Ed è
interessante come questo sia il materiale che andrà a comporre quello
che il critico Greil Marcus commentava con la famosa espressione "What
is this shit?" frase ripresa in apertura da Michael Simmons nel suo
testo che accompagna le immagini del booklet dai titolo: This is what
this shit is.
Ed è anche vero che questi tre dischi erano già più o meno noti, in
formato di bootleg, oggi però possiamo ascoltarli e ammirarli in una
veste sonora decisamente migliore. Il ché visto che parliamo di un
artista eccellente come Bob Dylan fa eccome la differenza!
Evito di fare citazioni ai brani, perché salvo in qualche caso, si
tratta di pezzi già noti, incluse le versioni alternative delle canzoni
che compongono Self Portrait e New Morning. Eppure basta dare
un'occhiata al ricco booklet per renderci conto del valore di queste
sessioni e dei musicisti che vi hanno preso parte. Non solo Dylan e
George Harrison, dato che gli altri musicisti sono personalità come Al
Kooper, David Bromberg, Harvey Brooks, Charlie Daniels e Ron Cornelius.
Mi fermo qui perché non stiamo parlando di recensire e giudicare brani o
materiale nuovo, ma solo di fare una retrospettiva alternativa di cose
che avevamo già ascoltato e apprezzato. Ciò nonostante per chi conosce
nel dettaglio la discografia di Bob Dylan, ci saranno belle sorprese!
Naturalmente serve, tanto per cambiare, trasporto, interesse e passione.
Merce rara di questi tempi, in effetti. Time Passes Slowly, direbbe
il Buon vecchio Bob!
“Go on, get out! Last words are for fools who haven't said enough!"
(Karl Marx)
“Realizzare questo disco è stato un
autentico privilegio. Tutti conoscevamo molto bene questi brani. È stato
fatto tutto dal vivo, forse in una o due registrazioni. Senza alcuna
sovra incisione. Niente cuffie, niente cabina di registrazione per il
cantante. Di cover ne sono state fatte abbastanza: seppellite. Quello
che io e la mia band stiamo tentando è il procedimento inverso.
Disseppellire i pezzi dalla tomba, per riportarli alla luce del giorno.
Perché questa band non lavora con il favore delle tenebre, o meglio non
sempre!”
(Bob Dylan on “Shadows in the Night”)
Ora, ammetto di non aver seguito con grande interesse "il periodo
Sinatra" di Bob Dylan, tanto che ho acquistato e ascoltato in tempo
reale solo l'ultimo dei tre (o cinque) lavori: Triplicate, ma più che
altro in seguito all'hype post Nobel. Nel 2014 e successivamente nei
primi mesi del 2015, cioè sei anni fa, avevo da poco archiviato una
delle mie parentesi musicali più intense, ma rovinose e fallimentari. Mi
stavo reiventando, grazie anche al coinvolgimento di un amico, che mi
aveva inserito in un discorso di selezione musicale, in giro per Cosenza
e Rende. Confesso che questo Shadows in the Night non mi aveva proprio
coinvolto e preso subito. Ci sono voluti anni e molti ascolti. Successe
di peggio con il secondo, Fallen Angels che per quasi 4 anni non ho
nemmeno ascoltato, e oggi mi rendo conto del grave sbaglio, visto che
dei tre lavori dedicati al songbook americano noto come "Sinatra Era"
resta attualmente il mio preferito.
Eppure, tutto inizia, si fa per dire, il 3 febbraio 2015, quando Dylan
ha dato alle stampe questo 36esimo lavoro in studio: Shadows in the
Night, composto da dieci tracce e nessun brano autografo, ovviamente,
sequel del fortunato Tempest, che fino allo scorso 2020 resterà l'ultimo
disco di Bob Dylan con brani autografi. Passata la tempesta Dylan
tornerà a dimostrare il proprio valore come autore di brani propri. Qui
si cimentava per la prima volta con il repertorio Sinatra, portando
all'estremo le proprie idee che già dal 2001, con Love and Theft, aveva
iniziato ad esplorare, con brani composti in stile swing, jazzati e
altro. Piaccia o meno, la visione musicale e poetica di Dylan si
allontana sempre più dallo stile che lo aveva reso celebre e popolare,
quello del folk-rock anni 60-70. Per cultori e per veri audiofili
appassionati.
Dario Twist of Greco
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Oh Mercy (1989)
“Non ho un posto per sparire, non ho cappotto. Sono su un fiume
impetuoso in una barca ondeggiante e sto cercando di leggere un appunto
che qualcuno ha scritto a proposito della dignità.” (Bob Dylan)
Perché Oh Mercy è uno dei dischi più importanti della terza fase di Bob
Dylan? (*) Principalmente per ragioni anagrafiche e del contesto in cui
viene prodotto e inciso. Il suo autore veniva infatti da una sequenza di
album che avevano messo d'accordo critica e pubblico, ma in senso del
tutto negativo. Infatti dopo l' inusuale, ma coraggioso Empire Burlesque
(1985) Dylan dava alle stampe due lavori che sono considerati tra le sue
peggiori produzioni di sempre. Stiamo parlando di Knocked out Loaded e
Down in the Groove, rispettivamente del 1986 e del 1988. Eppure in
seguito ai tour con Tom Petty and The Heartbreakers e con i Grateful
Dead, accade qualcosa. Il Nostro infatti ha uno dei tanti ripensamenti e
decide di coinvolgere in fase di produzione il mago Daniel Lanois, su
segnalazione dell’amico comune Bono Vox. Ora, mentre oggi la distanza
tra questi due artisti appare meno evidente e scontata, non era affatto
lo stesso prima della realizzazione di Oh Mercy. Per una volta non
dobbiamo affidarci a terze persone, visto che lo stesso Dylan dedicherà
uno dei capitoli più avvincenti e ispirati nella sua autobiografia,
Chronicles Vol.1. Si parla quindi di New Orleans e della lavorazione di
un nuovo disco, il quale dovrebbe, si spera risollevare la carriera
ormai finita di un autore che incide musica da oltre 26 anni
(all'epoca).
Pubblicato il 18 settembre 1989, Oh Mercy è il 26esimo disco in studio,
comprendente dieci tracce. Solo due di queste superano appena la durata
di cinque minuti, dato già sorprendente per gli standard del suo autore.
Fin dai titoli e dai crediti possiamo notare come il disco appaia
differente rispetto al canone anni ottanta e più in generale, a
confronto con altri lavori del passato. Un nutrito gruppo di musicisti
accompagna Dylan tra cui lo stesso Daniel Lanois e Cyril Neville dei
Neville Brothers. Senza mezzi termini, il disco viene salutato come un
grande ritorno e un trionfo a livello di critica. In effetti il suo
valore aumenterà a distanza di tempo e resta uno dei dischi più al passo
coi tempi, per un autore che lungamente è stato refrattario a questa
idea di suonare un tipo di musica contemporanea. Non è un caso se tra i
ripensamenti ci saranno, di lì a breve, due dischi contenenti solo pezzi
tradizionali folk, country e blues.
Oh Mercy si apre con l'ispirata e tesa Political World, ma già dalla
seconda traccia mostra barbagli di tenerezza e di sentimento agrodolce,
grazie a brani come Where Teardrops Fall, ma soprattutto con la ballata
per piano, Ring Them Bells, con il cuore oscuro e misterioso di Man in
the Long Black Coat. Da citare anche Everything Is Broken, un pezzo che
per molti critici riflette sull'entropia del mondo. Ma è nel secondo
lato che Dylan e Lanois calano un pokerissimo d’assi che da queste parti
non si sentiva da tempo. Most of the Time, What Good Am I, What Was It
You Wanted e la tenera conclusione di Shooting Star, intervallate dall’
intensa e calda ballata per piano di Disease of Conceit. Da segnalare
come durante queste sessions siano state registrate e successivamente
scartate canzoni del livello di Dignity, God Knows e Born in Time.
Soprattutto la splendida Series of Dreams: probabilmente tra le migliori
canzoni di Dylan da Desire (1976) in poi. Una inaspettata sorpresa per
quel 1989 dove il mondo stava andando letteralmente a pezzi, Everything
is Broken appunto. Sono tanti gli artisti, colleghi e critici che
spenderanno qualche parola per manifestare il proprio apprezzamento nei
confronti di questo album. Ne citiamo almeno quattro: Lou Reed, che
definì Disease of Conceit la migliore canzone dell'anno, mentre Willie
Nelson e Mark Lanegan renderanno giustizia ai brani What Was It You
Wanted e Man in the Long Black Coat con due intense e convincenti
riproposizioni. L'ultimo, ma non per importanza è la testimonianza di
Eric Andersen. Proprio Andersen qualche tempo prima aveva affermato che
Dylan fosse un artista giunto ormai al suo capolinea, a livello
artistico. Eppure non bisogna mai vendere la pelle dell'orso prima di
averlo ucciso, men che meno quando l'orso risponde al nome di Bob Dylan.
Andersen con onestà intellettuale dirà infatti che queste canzoni sono
sostenute e incoraggiati da tocchi tenebrosi, oscuri, paludosamente
arcaici di Lanois. Oh Mercy urla incertezza, desiderio, dolore,
compassione e verità nascoste. Quasi un gioco morale. Questi brani sono
brutalmente sinceri, di chi non si sottrae al dolore. Quest'album
riflette una mezzanotte personale buia, la proverbiale ora di buio,
attraversando i territori sconfinati di un'anima senza protezione.
Scrivere questa confessione deve essergli costato non poco. Eppure
questa non sarà l'ultima volta; e non è sorprendente tutto questo, alla
luce di album del valore di Tempest e Rough And Rowdy Ways?
Un consiglio: anche se avete sempre manifestato pregiudizi verso Bob
Dylan e la sua musica, almeno per una volta provate a cedere. Troverete
un disco di livello eccelso, raro e prezioso.
“Il più delle volte metto bene a fuoco tutto quello che ho intorno.
Il più delle volte riesco a stare con i piedi per terra. Posso seguire
il sentiero, posso capire i segnali, tengo la destra quando la strada si
fa tortuosa, riesco ad affrontare qualunque cosa mi capiti, non mi
accorgo neanche che lei se n'è andata, il più delle volte.” (Bob Dylan)
N.B. - Nel testo si fa riferimento in apertura alla cosiddetta terza
fase discografica di Dylan. Per convenzione alcuni critici hanno
distinto nel seguente modo la produzione degli album in studio di Bob
Dylan:
Prima fase (1962-1969)
Seconda fase (1970-1978)
Terza fase (1979-1990)
Acclamato da critici e fans come uno dei miglior lavori in studio di Bob
Dylan, questo album è la prova di coraggio e della definitiva maturità
avvenuta del grande songbook dylaniano. Uno dei dischi di riferimento
degli anni settanta e forse uno dei migliori album di cantautorato rock
di tutti i tempi.
Qualcuno ha scritto:“E' un album costruito sul tema della delusione
amorosa, e la sua esecuzione, quasi totalmente chitarra e voce, può, ad
un primo ascolto, far pensare ad un lavoro amatoriale. Ed è questo
l'esito al quale vuole pervenire Dylan, per il quale le origini sono
riferimento perenne, mai rinnegate dalle svolte rock”.
In Blood On The Tracks il tema universale è l’uomo: alla ricerca di se
stesso, di una donna, di un desiderio e con una malinconia da scacciare
lontano. Forse in Africa, forse nella provincia americana, sempre “sulla
strada, diretto verso un altro incrocio”...
Ispirato dal maestro di pittura Norman Raeben, Dylan ritrae un affresco
di rara potenza e suggestione lirica. Un lavoro capace di descrivere
sentimenti universali quali redenzione, destino ineluttabile, viaggio, e
soprattutto il desiderio di rifugio dal dolore. Non ultima la
consapevolezza del rimpianto. Il tema della rinuncia, che per dirla alla
Francesco Guccini porta sempre con sé una buona dose di malinconia e di
tristezza. Tangled Up In Blue, canzone che apre il disco è una
dichiarazione d’intenti all'arma bianca. Una storia ricca di dettagli,
frame e fughe laterali, come una periferica Interstate 35W del
Minnesota.
Blood on the tracks è anche un’ opera in due atti: New York Sessions
e Minnesota Sessions.
Uno dei punti di forza del disco è proprio questa riscrittura dei brani.
Testo e musica. Sono proprio pezzi come Tangled Up In Blue e Idiot Wind
a trarne maggiore giovamento e vigore, formale e strumentale. Brani che
possiamo ascoltare anche nelle versioni spoglie presenti su Bootleg
Series 1-3.
Partiamo proprio dalle chitarre barocche di Tangled up in blue, con quel
avvilupparsi e sciogliersi in preziosi intarsi, capaci di arricchire
anche il senso stesso delle parole. Notevole, in tal senso, è la
sequenza di note che apre il brano richiamando direttamente Like A
Rolling Stone. Non si tratta di una semplice riscrittura agiografica,
dato che qui Dylan è letteralmente consapevole di riscrivere la sua
storia. Ci racconta con verismo il mestiere di musicista come se questo
fosse un sogno effimero, suonando canzoni che vibrano, quanto il blues e
il folk che lo hanno ispirato.
Il genio di Dylan risiede nel dualismo caratterizzato da canzoni
vigorose eppure semplici. Blood On The Tracks è un disco che si può
eseguire per intero accompagnandosi solo con chitarra e armonica.
Nonostante questo l'album funziona anche e soprattutto riproposto in
chiave elettrica. Pensate alla poderosa resa di brani quali Shelter From
The Storm, Idiot Wind e You‘re A Big Girl Now, tratte dal live Hard
Rain.
Simple Twist Of Fate, elegante dramma notturno per chitarra, basso e
armonica. Essenziali pennate sostenute da morbide volute di basso, su
cui si fa strada lentamente il lamento dell'armonica. Siamo di fronte ad
uno dei migliori testi dylaniani in assoluto. Con un fatalismo da vivere
su un materasso umido di lanugine e lacrime di pioggia.
La frase d’armonica in You‘re A big Girl Now è un lamento a cuore aperto
per un dolore impossibile da spiegare. Il critico Paul Williams
definisce questo assolo “primitivo” ed efficace nel far da contraltare
all'elegante e inusuale tappeto sonoro. Idiot Wind, invettiva dai toni
shakespeariani sul tema del tradimento, è il solo brano ad avere una
struttura lineare di strofa-ritornello-strofa. Dominata dalla voce
grintosa di Dylan, e impreziosita dall’organo di Gregg Inhofer e dalle
percussioni di Bill Berg.
Lily, Rosemary and the Jack of Hearts è la sintesi di immagini
pittoriche narrate con toni da cinema western e surreali atmosfere di
biscazzieri e bettole del secolo scorso, che ricordano da vicino alcuni
film diretti da Robert Altman. If You See her Say Hello, si apre coi
dolci ricami delle chitarre di Dylan, Odegard e Weber. Una malinconica
epopea di separazioni, ricordi e amori lontani, forse anche più di un
continente.
Shelter From The Storm, è probabilmente il brano che vale il disco, se
non la carriera di un cantautore, forse anche due, in certi casi... Non
si tratta banalmente di una narrazione dell'amore per una donna, ma
della ricerca di un punto che va sempre oltre ogni apparente méta, e di
cui ogni cosa diventa in qualche modo simbolo. E’ la Bellezza l'ideale
che il cuore di Dylan insegue nella sua corsa senza fine. Il tormento
più terribile è quello di scoprire che, nel tentativo di costruire la
propria felicità, si è finito col distruggere con le proprie mani la
misteriosa promessa di compimento che si era intravista. E allora non
resta che riprendere nuovamente il viaggio. Ancora Paul Williams ci
viene in soccorso, per descrivere un brano di rara e unica bellezza e
magnificenza.
Blood On The Tracks è il disco più profondo, sofferto, che più di tutti
colpisce nell'intimo chi ascolta, e chi sa ascoltare. Qui le emozioni
sgorgano dure, improvvise, vive, come da una ferita: quella che Blood On
The Tracks lascerà nel vostro cuore. Un lamento sofferto ma mai privo di
dignità, sempre fiero, virile. Disco arcigno e a tratti indomabile, a
volte invece più placido e rassegnato, come per la conclusiva Buckets of
Rain.
Un album dove la linea del tempo viene volutamente destrutturata secondo
la lezione del maestro Raeben e che ci riporta ad atmosfere degne del
cinema di Altman, Bresson o Peckinpah.
L’eroe non celebrato di Blood On The Tracks resta il bassista Tony
Brown, che per aver partecipato alla realizzazione di questo disco
meriterebbe un posto di riguardo nella storia della popular music.
Ancora una storia di side-man dimenticati che varrebbe almeno un
articolo e un racconto a sé.
La rivista Rolling Stone piazza Blood On The Tracks al sedicesimo posto
nella classifica degli album più belli di sempre. E' un disco che ci
restituisce il pathos e la "concentrazione" del Dylan anni sessanta. Un
lavoro che ascoltato a distanza di quasi 40 anni possiede ancora un
fuoco, un'energia e un flusso di creatività che difficilmente è
possibile riscontrare nella storia della popular music.
Datemi un'altra tazza di
caffè così potrò tornare in tour
Commento critico sull'album Desire (1976)
Desire è il disco più importante di Bob Dylan degli anni settanta. O
meglio, è quello che si avvicina di più all'idea che abbiamo di un
autore in cerca di ispirazione, di tematiche forti che possano in
qualche modo ricongiungere con quella che era stata la parte più intensa
della sua carriera musicale. Sulla scia del successo di Blood on the
Tracks, Bob Dylan aveva acquisito più forza, sulla scena della musica
popolare, di quanta ne avesse mai avuta dalle fine dei Sessanta. Anche
la sua presenza sui media era tornata su valori ottimali, come non
accadeva dal 1966, in pratica. Questo ritorno di fortuna venne
consolidato dal tour con la Rolling Thunder Revue, episodio di cui
scriveremo più diffusamente, in un altro contesto e in separata sede.
Arrivati a questo punto della retrospettiva critica ci sembra doveroso
affermare come alcune collaborazioni inattese avevano indirizzato buona
parte della musica più innovativa di Dylan. Desire non fa eccezione a
questo tipo di contesto e di questa visione musicale estesa e condivisa.
Va anche detto come prima di questo lavoro Dylan raramente aveva
condiviso la composizione con altri autori. Album da primo posto in
classifica, Desire ebbe il merito di mettere d'accordo, una volta per
tutte, critica e pubblico come raramente succederà da qui in avanti
nella produzione in studio del Nostro. Oggi se non è tenuto nella stessa
considerazione di Blood on the Tracks, che lo aveva preceduto solo di 12
mesi, poco ci manca. Non è certo un caso se questo disco è presente in
molte classifiche dei migliori dischi di sempre, degli anni settanta e
naturalmente in quella specifica del suo autore, dove occupa una
posizione di assoluta rilevanza. È tra i cinque dischi che hanno venduto
di più; in Canada, Regno Unito e Stati Uniti ha raggiunto la cifra di
due milioni e duecentomila copie.
Desire è il disco dei nomi, degli arrangiamenti improvvisati, di un
flusso creativo caotico e consapevole. Le canzoni sembrano composte e
assemblate a nuclei da tre-quattro. Ed è un prodotto che andrà bene sia
in termini di vendite, sia sotto il profilo della critica. Senza dubbio
rientra ancora oggi tra le cose più riuscite, apprezzate e amate sia dai
dylaniani che da un pubblico più generalista. Non mancano ovviamente le
critiche, una tra tante quella di Lester Bangs, che non ha mai nascosto
la sua avversione verso il cantautorato impegnato e non (basti citare il
suo pezzo James Taylor deve morire) che in questo caso spunta dalle
retrovie per impallinare Dylan, ma soprattutto per muovere critiche
verso il co-autore Jacques Levy. Per chi fosse interessato ad
approfondire consigliamo la lettura del testo Deliri, desideri e
distorsioni, Il flirt di Bob Dylan con il Mafia Chic. Non è un
criminale, è solo un incompreso, dove naturalmente il territorio
d'analisi e lo spunto critico si basa su uno dei testi più controversi
di Dylan, fino a quel momento: Joey, dedicato a Joey Gallo, aka Crazy
Joe, killer e mafioso di New York, appartenente alla famiglia
Profaci-Colombo. Personalmente trovo piuttosto coerente l'operato di Bob
Dylan, che nella sua lunga carriera ha sempre fatto la scelta giusta,
schierandosi dal lato sbagliato della legge, con buona parte di tossici
deliranti e invasati testimoni di Geova. La lezione appresa dal suo
mentore Woody Guthrie che cantava di Pretty Boy Floyd dovrebbe chiarire
qual è il giusto punto di osservazione di un menestrello folk. La
domanda da porre oggi a Lester Bangs per noi è la seguente: - La canzone
popolare deve cantare (e celebrare) Jesse James, Charles Arthur Floyd e
Crazy Joe, oppure incensare il Federal Bureau of Investigation?
Spieghiamo meglio. Il mestiere di Dylan è quello di scrivere,
suonare e cantare canzoni. Ora, se questo non gli riesce sempre bene, è
un discorso e va argomentato. Però molti critici durante gli anni
sessanta e settanta avevano il vezzo di stroncare spesso lavori senza
argomentare e senza una comprensione testuale e musicale adeguata.
Desire come tutti i maggiori lavori che lo hanno preceduto gode di
questo metro di giudizio. Sicuramente è un disco con alcuni evidenti
difetti. Non tutto fila liscio sempre, sia a livello musicale che dei
contenuti. Eppure leggere oggi certe parole da parte di un decano della
critica musicale come Robert Christgau fanno sorridere o tremare i
polsi. Il critico qui va oltre il suo territorio di competenza, mettendo
in dubbio la buonafede di Dylan, ancora una volta. Eppure smontare un
lavoro come Desire oggi suona davvero poco professionale e risibile. Non
si tratta di simpatia o di essere estimatori, ma di essere equi. Spesso
i critici non lo sono. Questo disco merita quindi una revisione storica
e un riposizionamento tra i classici dylaniani. C'è poi un punto che mi
preme sollevare. Non si è mai parlato della volontà di Dylan di
realizzare un disco perfetto, come suoni, come registrazione e come
concept. Se state cercando questo tipo di qualità, avete sbagliato disco
e autore. Passate oltre e non ve ne pentirete.
Bob Dylan non è Roger Waters e non è nemmeno Springsteen, Pete Townshend
o Brian Wilson. Non stiamo parlando di un musicista maniacale e
perfezionista. Semmai è stato un produttore distratto, che non ha
valorizzato al meglio il proprio materiale. I casi in oltre 50 anni di
attività discografica sono numerosi. Quante volte da qui in poi scarterà
brani validi e potenziali hit? Allora il discorso è un altro, mi pare di
capire. Però dire che su Desire non vi sia libertà espressiva,
intensità, realismo e quella capacità di rendere interessanti personaggi
e situazioni bislacche, è un altro paio di maniche.
In astrologia la carta dell'imperatrice rappresenta Mercurio in Gemelli;
per altri, è sottoposta a Venere. Ha una corrispondenza cabalistica con
la lettera G, gimel dell'alfabeto ebraico. Potrebbe essere del tutto
casuale la scelta di inserire proprio questa carta in un disco dove i
temi sono davvero molteplici, se non fosse per il fatto che Dylan nel
disco precedente aveva utilizzato il fante di cuori proprio nel titolo
di uno dei brani più narrativi come Lily, Rosemary and the Jack of
Hearts e se nel disco successivo il brano di apertura, Changing of the
Guards non contenesse riferimenti diretti sempre a due carte dei
tarocchi, come il re e la regina di spade. Del resto già durante gli
anni sessanta aveva citato personaggi ascrivibili al mondo dei tarocchi
e delle carte da gioco, come in Gates of Eden e in All Along the
Watchtower. Più andrà avanti, dopo Desire, più questi riferimenti al
Poema della regina di Saba diventeranno più presenti ed evidenti.
Tuttavia Desire può essere considerato il disco che apre a un nuovo
ciclo di composizioni, proseguendo sul canovaccio che già era stato
mostrato in Planet Waves e soprattutto in Blood on the Tracks. Dylan
torna a essere enigmatico e ambiguo, grazie a testi abilmente costruiti
per avere più significati e più chiavi possibili di interpretazione.
Disco se possibile latino, dove per la prima volta si sente un sound
tipicamente zigano, europeo, e non a caso questo album avrà molto
successo oltre che negli Stati Uniti anche in altri Paesi, dimostrando
come il linguaggio universale della musica possa colmare e sopperire le
barriere linguistiche, in anticipo rispetto alla tendenza della World
Music più marcatamente anni ottanta e novanta. Diciassettesimo disco in
studio, Desire viene pubblicato il 5 gennaio 1976, diventando uno dei
maggiori successi di Bob Dylan di tutti i tempi. Per molti rappresenta
assieme al suo predecessore Blood on the tracks il vero ritorno del suo
autore e il disco di maggior impatto dai tempi di Blonde on blonde e
Highway 61 Revisited.
One More Cup of Coffee
(Valley Below)
Durante una vacanza nel sud
della Francia Dylan assiste all’annuale pellegrinaggio dei rom a
Saintes-Maries-de-la-Mer, nella cui cattedrale sono conservate le
spoglie della loro santa protettrice, detta Sara la Nera. Dylan ha
dichiarato di avere scritto il brano durante quest’esperienza ma che,
pur essendone probabilmente stato influenzato, la canzone (e in
particolare l'espressione valley below, la valle sottostante)
probabilmente riguarda altri luoghi. Desire unisce quindi il Messico,
New York City, il sud della Francia e l'Africa. È un disco itinerante,
nomade, zigano.
"Oh zigano, dall'aria triste e appassionata che fai piangere il
tuo violino fra le dita. Suona ancora come una dolce serenata mentre
pallido, nel silenzio ascolterò questo tango, che in una notte
profumata, il mio cuore ad un altro cuore incatenò."
Ognuno ha il pubblico che merita - Una nota dolente
Quasi nessuno nel 1976 aveva voglia di fare sconti a Dylan. Motivo per
cui un brano “leggero” e divertente come Mozambique, stravagante e
accattivante, viene frainteso. Per Paul Williams è uno dei brani di
Dylan che possono contare su una musica meravigliosa, inventiva, che dà
piacere che tuttavia non riesce a raggiungere l'intensità e l'unità
delle altre canzoni perché i testi sono un po' troppo vaghi e distanti
mentre per Clinton Heylin si tratterebbe di una canzoncina tirata su dal
fondo del barile, orribile, uno dei punti deboli di un disco il cui
compito era quello di rilanciare la carriera del suo autore. La melodia
ha ricevuto più elogi dei testi, essendo appunto sobria, giocosa e
valida, senza contare gli interventi del violino a opera di Scarlet
Rivera.
La Band di Desire
Per chi fosse interessato ad approfondire su questo disco consigliamo la
lettura del libro On the road with Bob Dylan, uno dei resoconti più
brillanti, audaci e appassionati mai scritti sul rock e sulla musica
anni settanta. Il suo autore, Larry Sloman, ha vissuto a stretto
contatto con la band di supporto di Dylan, che è poi la stessa base su
cui venne inciso Desire. Oltre alla già citata Scarlet Rivera, il cui
suono del violino contribuisce a rendere Desire unico nel suo canone,
per quanto riguarda la produzione in studio di Dylan, merita un elogio
la sezione ritmica composta da Rob Stoner al basso e da Howard Wyeth
alla batteria. Nel disco si sente poi il bel lavoro ai cori realizzato
da Emmylou Harris (futura star del country) Ronee Blakley che si unirà
al tour Rolling Thunder Revue, e da Steven Soles. Alle caotiche e
disordinate sessions prendono parte anche Eric Clapton, Luther Rix,
Vinnie Bell e Dominic Cortese, al mandolino e alla fisarmonica. Resta
uno dei gruppi di supporto di Dylan più importanti, non solo per quanto
riguarda il lavoro in studio, ma soprattutto perché questo nucleo sarà
quello del Rolling Thunder Revue. Sappiamo bene che il loro lavoro fino
al 2002, anno di pubblicazione del Bootleg Series V resterà nascosto ai
più. Oggi però, alla luce delle ultime pubblicazioni, tra cui lo
splendido e completo Bob Dylan – The Rolling Thunder Revue: The 1975
Live Recordings pubblicato nel 2019, possiamo finalmente ascoltare un
Dylan in forma splendida. Non a caso per molti il disco Desire
rappresenta la punta dell'iceberg di un performer in stato di grazia.
“Queste canzoni sono più fotografie istantanee che composizioni,
ma potrebbe anche essere che alla fine, tutte assieme, facciano un’unica
grande fotografia. E potrebbe anche non essere un lavoro artistico, ma
qualcosa più funzionale, come la foto del passaporto di qualcuno che è
sempre in viaggio per il prossimo concerto.”
Together Through Life è il
33° album in studio del cantautore Bob Dylan, pubblicato il 28 aprile
2009 dalla Columbia Records. La pubblicazione dell'album, che ha
raggiunto il numero 1 in più paesi, è stata inaspettata e ha sorpreso i
fan. Dylan ha scritto la maggior parte delle canzoni con Robert Hunter e
ha registrato con musicisti come Mike Campbell degli Heartbreakers e
David Hidalgo dei Los Lobos. La genesi dell'album è stata una richiesta
del regista Olivier Dahan di contribuire con una canzone al film a My
Own Love Song. Su Robert Hunter disse: "Hunter è un vecchio amico,
potremmo probabilmente scrivere un centinaio di canzoni insieme se
pensassimo che fosse importante o ci fossero le giuste ragioni ... Lui
sa usare le parole e anche io. Scriviamo entrambi un tipo di canzone
diverso da quello che oggi viene considerato come scrivere canzoni."
L'unico altro autore con cui Dylan abbia mai collaborato a tal punto è
Jacques Levy, con il quale ha scritto la maggior parte delle canzoni di
Desire (1976). Le voci sull'album, riportate dalla rivista Rolling
Stone, sono state una sorpresa, senza alcun comunicato stampa ufficiale
fino al 16 marzo 2009, meno di due mesi prima della data di uscita
dell'album. In una conversazione con il giornalista musicale Bill
Flanagan, pubblicata sul sito ufficiale di Bob Dylan, Flanagan ha
suggerito una somiglianza del nuovo disco con il suono di Chess Records
e Sun Records, che Dylan ha riconosciuto come un effetto del "modo in
cui venivano suonati gli strumenti". Ha detto che la genesi del disco è
stata quando il regista francese Olivier Dahan gli ha chiesto di fornire
una canzone per il suo road movie, My Own Love Song, che è diventato
"Life is Hard".
Per Danny Eccleston Together Through Life è un album tutto giocato sui
ganci, fin dalla prima traccia iniziale. Il merito del suo autore è
quello di rifiutarsi di mollare la presa lasciando andare le canzoni. È
buio intenso ma confortante, con un suono grande e duro, che rimbomba
leggermente come una band durante un soundcheck in un teatro vuoto, ma
in fondo c'è un ritornello inquietante. Perché soprattutto questo è un
disco sull'amore, sull' assenza e sul ricordo. Come un killer smemorato
e romantico, perso in un blues fatto con una chitarra e una fisarmonica,
a metà strada tra Durango e il Texas. A dare valore e intensità a questo
lavoro ci pensa il sempre puntale chitarrista Mike Campbell, prestato
dall'amico Tom Petty and the Heartbreakers, così come la tromba di
Donnie Herron e soprattutto la fisarmonica di David Hidalgo dei Los
Lobos. Secondo Dylan Campbell suona con Tom da così tanto tempo che
sente tutto dal punto di vista di un cantautore e può suonare quasi
tutti gli stili".
Da un punto di vista della Cabala questa è la prima volta da Time out of
mind che Dylan non chiude il disco con una lunga ballata di durata
superiore ai sei minuti. L’ultima volta infatti era stato proprio con
Under The Red Sky (1990) e Dylan si era affidato a un brano breve (solo
tre minuti e ventuno secondi) per concludere un suo lavoro. Più in
generale si noti come l’album viaggi volutamente sottotono e sotto giri,
visto che ci sono solo quattro brani che superano i cinque minuti di
durata e solo uno che sfiora i sei minuti, This Dream of You (titolo
quasi identico al brano di Van Morrison del 1970). Questo disco va
considerato per quello che è. Un capitolo minore della sua discografia.
Sotto questo punto di vista si tratta di un lavoro più che decoroso e
piuttosto godibile e riuscito. Il fatto che da Bob Dylan si pretenda
sempre la pubblicazione di canzoni e album memorabili, nonostante ci sia
una parte di critica e pubblico pronta sempre a stroncare ogni sua nuova
uscita, è motivo di discussione e di chiarimento che prima o poi
bisognerà affrontare in separata sede.
Bob Dylan è tornato ancora
una volta, al suo meglio, come non faceva ormai da dieci anni forse.
Questo nuovo lavoro è infatti la migliore produzione dylaniana dai tempi
di Time Out Of Mind e Oh, Mercy. Forgetful Heart è quello che si dice un
brano epico, uno dei migliori ruggiti del decennio da parte del
cantautore statunitense. Si tratta di un pezzo in grado di convince sin
dalla prima nota e dal primo verso. Chi meglio di Dylan potrebbe cantare
di questo "cuore smemorato"? Nessuno saprebbe essere così convincente
oggi, tranne forse il miglior Tom Waits. Questa volta Dylan ha scoperto
il gusto dell’auto citazione, e Forgetful Heart richiama con vigore alle
passate incisioni di Time Out Of Mind, Oh Mercy e Modern Times, ma lo fa
con un dono di sintesi espressiva e lirica che forse era mancata in
Modern Times, se prendiamo a modello il brano Ain ’t Talkin’ che può
benissimo essere sovrapposto a Forgetful Heart. Il banjo appalachiano di
Donnie Herron, la fisarmonica zydeco di David Hidalgo e la chitarra a
saturazione valvolare di Mike Campbell creano un connubio di nervi,
sangue e sabbia, in bilico fra aria e fuoco. Prodotto da un settantenne,
ma realizzato con la mano grintosa e professionale, manco ne potesse
dipendere il proprio sostentamento. In questo disco possiamo sentire gli
echi di Desire, Pat Garrett and Billy The Kid, e Time out of Mind. La
fisarmonica di Hidalgo e la chitarra di Campbell colorano panorami di
sole e terra, come non si sentivano e vedevano da tempo e c’è quel tipo
di energia che non ti aspetteresti su It's All Good e Beyond Here Lies
Nothin’, così come c'è vigore sonoro anche in I Feel a Change Comin’On,
ancora una citazione proveniente dai Basement Tapes e Planet Waves. Tra
fisarmoniche sporche di sangue e di sudore. Di recente è venuto a
mancare uno dei più insoliti e schivi organisti e fisarmonicisti, Danny
Federici della E Street Band, ed è molto bello che proprio Dylan abbia
riscoperto con grande passione l’amore verso uno strumento così legato
alla tradizione di in un certo folk come quello dei Calexico, che tanto
bene avevano suonato le sue canzoni riproposte sulla colonna sonora di
I’m Not There, la quale a ben pensarci era una sorta di imbeccata verso
il Maestro. In particolare David Hidalgo coi Los Lobos aveva riproposto
in versione zydeco Billy #1. Si tratta di musica di confine, tra il
Messico e la redenzione, sospesa tra cactus e nuvole. E già si è parlato
di una vicinanza fra questo Dylan e Willy DeVille. Ritorna a livello
testuale un'immagine che ossessiona e che Dylan ripropone spesso, quella
di una porta: aperta, chiusa o solo immaginata. Uno dei momenti più
convincenti del disco è It’s all good, dove energia, ironia e rinuncia
confluiscono nel grande fiume dell’ispirazione dylaniana, mentre intorno
a lui i palazzi crollano e il pianto delle vedove si mescola al sangue
degli orfani. Le svisate di basso in stile Rick Danko dei The Band ci
accompagnano in uno dei brani più significativi dell’opera, I Feel a
change comin’on, un brano che speriamo di ascoltare presto anche in
versione live. Cambiano le cose, cambiano i suoni e tutto sembra
diverso. Però poi una voce, familiare, comprensibile arriva nelle nostre
case, macchine, iPod e tutto il resto. È il nuovo disco di Bob Dylan, e
soprattutto è la voce autentica dell'America che fu. La voce di una rara
e devastata umanità che sembra vacillare, ma non cede di un millimetro,
perché quella voce non può cantare la resa, e neppure il crepuscolo
degli Eroi. È la voce della Gente, è la voce di una generazione che
ancora non cede il passo alla sconfitta. Come ha detto RJ Eskow “Oggi
Dylan non fa musica, lui è la musica!” Come dice Roy Menarini a
proposito di Gran Torino, c’è un filo sottile che unisce la letteratura
di Cormac McCarthy, il cinema di Clint Eastwood e i dischi di Dylan,
sono questi autori gli ultimi bardi della “mitografia” di una Nazione. I
dischi della Sun Records e della Chess, Elvis e Muddy Waters, Memphis e
Chicago, Otis Rush e All your love, Willie Dixon e I Just Want To Make
Love To You, Sam Cooke e A change is gonna come; insomma sembra davvero
che ci sia il sangue del Paese nella sua voce! Dylan canta con la
consapevolezza del sopravvissuto, al proprio mito, all’America dei
Faulkner e dei Twain, di Melville e di Masters, è lui probabilmente
l’ultimo discendente di una stirpe ormai estinta di cantastorie. David
Hidalgo suona frasi di fisarmonica a mezza strada fra i trilli d’organo
di Al Kooper e la senile e sontuosa mano di Auggie Meyers, ma non è solo
la fisarmonica l’arma vincente di questo disco, le chitarre trattenute e
distorte ad opera di Mike Campbell, sono cuciture di cuoio essenziali
nel loro ricamo avvolgente. La seconda metà del disco si avvicina
lentamente a pagine passate più elettriche e aggressive: c’è una
maggiore presenza della chitarra elettrica e alla fisarmonica si
sostituisce lentamente un violino country (in “This dream of you”) che
non può che richiamare alla mente l’intensissimo e danzante “Desire” del
’76 (e in particolare Romance in Durango) ma anche le ballate meticce
del compianto Willy De Ville.
Esiste forse una categoria di persone più povere di spirito rispetto a
quella del critico musicale o del critico in generale? Pensare oggi a
Self Portrait, decimo lavoro in studio di Bob Dylan e secondo album
doppio a distanza di quattro anni da Blonde on Blonde, ci fa pensare
subito al film di Woody Allen Io e Annie, dove il solone di turno
stroncava senza pietà la poetica di Federico Fellini. Perché a distanza
di cinquant'anni ci sarebbe da capire il motivo per cui questo disco
venne accolto con tanta ostilità! Eppure Dylan coadiuvato dall'abituale
produttore Bob Johnston non fa altro che radunare il solito gruppo di
lavoro, ancora una volta diviso tra le sessions di New York e quelle di
Nashville. Mette dentro un po' di generi differenti, di musicisti in
voga e di robusti e abili virtuosi che in studio erano abituati a
sfornare dischi importanti e a collaborare con solisti di primissimo
livello. Però qui qualcosa va davvero storto! Perchè dall'essere
d'accordo con il saccente Greil Marcus al definire questo disco un
capolavoro ce ne passa. Quindi scendiamo almeno di uno o due livelli,
rispetto ai lavori che lo avevano preceduto e che già erano qualcosa di
differente rispetto al trittico Bringing - Highway - Blonde, ma anche se
si prende a modello un disco pienamente centrato come John Wesley
Harding e il breve ma riuscito Nashville Skyline, vediamo che la
differenza è subito evidente. Eppure, basterebbe andare oltre le svagate
prime tracce e arrivare fino al cuore del primo disco, quello che va da
Days of 49 passando per Let It Be Me fino a Living the Blues. Oggi un
disco così verrebbe acclamato come un mezzo miracolo, ma in effetti qui
siamo nel 1970 e i critici musicali stavano vivendo la loro stagione
d'oro, come del resto anche l'industria musicale e quella
dell'intrattenimento analogico. Quindi è importante calarsi bene nella
parte, inforcare gli occhiali severi e spessi e dire che Dylan ha
sbagliato tiro, permettendosi di cantare bene, di farsi accompagnare da
bravi session men e di variare negli arrangiamenti, come mai aveva
saputo fare fino a quel momento.
Self Portrait venne registrato in più sessioni svolte tra il 24 aprile
del 1969 e il 31 marzo del 1970; vi presero parte un gruppo eterogeneo
di musicisti, tra cui Al Kooper, Ron Cornelius, Pete Drake, Charlie
Daniels, Kenneth Buttrey, Charlie McCoy, David Bromberg e naturalmente
The Band, per le registrazioni live al Festival dell’Isola di Wight.
Questo disco è un manifesto programmatico di quello che il suo autore
avrebbe continuato a proporre al pubblico e alla critica, durante i
cinquant’anni a seguire. Dobbiamo essere onesti: i dischi di Dylan
vengono incensati e stroncati senza che vengano ascoltati né assimilati.
È appena accaduto anche con questo ultimo capolavoro, Rough and Rowdy
Ways. Dopo un po' ci si stanca e si decide di staccare la spina. Anche
perché ci pensa il tempo a riqualificare e ristabilire le gerarchie.
Escono inediti e registrazioni alternative e ci mostrano un artista vivo
e vegeto, che canta e suona meglio, concentrato. Soprattutto con Dylan
venire abbagliati, sorpresi e spiazzati è all'ordine del giorno e del
gioco e non deve affatto stupire. Basta aprire una rivista del cazzo o
una testata hipster per leggere tutto e il contrario di tutto su un
disco prodotto da Mr. Zimmerman. Eppure non ci vuole molto per capire
che l'artista che diede alle stampe Self Portrait sapeva bene cosa aveva
pubblicato. Possiamo dirci stupiti e batterci il petto, con aria
affranta e frustrazione. Ma un artista finito non rilascerebbe a
distanza di così poco un nuovo disco come New Morning, e non avrebbe
tenuto a decantare per decenni quelle perle che oggi possiamo ascoltare
sulla decima uscita dei Bootleg Series, Another Self Portrait del 2013.
Credi di conoscermi? Credi di capire che tipo di musica dovrei fare.
Eccoti 24 brani, a riprova che non sai prevedere cosa farò. Quel che
colpisce è il fatto che buona parte del disco riguardi luoghi dove è già
stato o luoghi dove andrà in seguito. Si tratta di dispetti, scherzi
d'autore e non mi stancherò mai di essere indignato per le parole che
scrisse Greil Marcus. Quando non si capisce qualcosa bisogna avere il
buon senso di chiedere o se non si è umili, sarebbe preferibile tacere.
Il tempo è sempre un grandissimo gentiluomo e con Dylan, che ha mostrato
sempre di dare del tu al concetto temporale, anche di più. Per onore di
cronaca è importante dire che non tutti i critici nel corso degli anni
si sono schierati contro questo disco, almeno non in modo così
perentorio e demolitivo. Secondo Kim Ruhel redattore della rivista
alt-country No Depression che Dylan ne fosse consapevole o meno, Self
Portrait sembra essere solo l'ennesimo esempio di un lavoro in anticipo
sui tempi. Il dato interessante è con quante voci qui riesca a cantare.
Spazia infatti dal rock and roll, dal country al blues, infilando spesso
cose un po' bizzarre, ma non per queste prive di valore o di interesse.
Lo stesso utilizzo dei cori femminili e degli archi, per non parlare
della sezione fiati, aiuta le canzoni e il suo interprete a mostrare
tutto il suo bagaglio di influenze, curiosità e interessi compresi.
Toccanti e profonde sono poi
le parole di Marc Bolan, musicista che si distacca dal coro delle
stroncature affermando: "Belle Isle mi ha riportato alla memoria tutti i
momenti di tenerezza che io abbia mai provato per un altro essere umano,
e questo, nel panorama superficiale della musica pop, è davvero una
grande cosa. Per favore, tutte le persone che scrivono amaramente di una
stella perduta, ricordate che con la maturità arriva il cambiamento,
così come la morte segue la vita”.
È interessante rileggere in una chiave retrospettiva alcune insinuazioni
su un Dylan stanco e a fine corsa, che ironizzano tirando il ballo il
titolo della prima traccia: All The Tired Horses. Nel 2021 dopo 39
dischi e innumerevoli live, pensare a un ventinovenne Dylan stanco
strappa sicuramente più di un sorriso! Gli illustrissimi critici
musicali Jimmy Guterman e Owen O'Donnell, nel loro libro del 1991 The
Worst Rock and Roll Records of All Time sentenziarono: "Lo scioglimento
dei Beatles poco prima dell'uscita di questo album segnò la fine degli
anni Sessanta; Self Portrait segnò la fine di Bob Dylan". Insomma siamo
alle solite: chi ha orecchie per intendere e per apprezzare, ascolti, ma
la cosa che un po' lascia perplessi a fine disco, dopo oltre settanta
minuti di musica è che ci siamo divertiti non poco. Merda o non merda,
Self Portrait ha vinto la sua sfida contro il tempo e non è un disco
dimenticato. Vi pare poco?
How does it feel, How does it feel, To be on your own, Like a
complete unknow, Like a rolling stone?
Highway 61 Revisited è uno dei dischi spartiacque della storia del rock.
Solo che quando uscì il concetto stesso di rock, senza roll, non era
ancora stato delineato e messo a fuoco. Non solo: c'è da compiere
diversi passi indietro, sostenendo come all'epoca, molti dei nostri eroi
e miti musicali, non si erano ancora manifestati, o non stavano lottando
per ottenere successo. In effetti prima di quel 30 agosto 1965, c'erano
solo Dylan (non ancora affermato in ambito di musica elettrificata) i
Beatles, gli Stones (che erano poco più di una promettente blues band),
gli Animals e i Kinks. Basta così. Una lista breve, concisa. Dopo le
cose sarebbero invece cambiate, un po' per tutti, inclusi i fruitori di
musica pop rock. Le ragioni? Semplici. Questo disco oltre a contribuire
a gettare le basi dell'ascolto di un 33 giri conteneva due brani la cui
durata era superiore ai sei minuti. Uno di questi fece la storia del
rock. Si tratta di Like a Rolling Stone. Dylan può piacere oppure no, ma
questo classico della popular music resterà per sempre nel tempo e negli
annali. E non è semplice resistere al tempo e a un autore così
importante e influente. La canzone che diede il titolo al disco è
formidabile nella sua sintesi, sotto il profilo sonoro, quanto sotto
quello testuale. Cosa c’è di più innovativo e al contempo classico di
mettere in scena un dramma di ispirazione biblico dove troviamo Dio e
Abramo in un surreale dialogo che ha come sfondo proprio la Highway 61.
Si tratta in effetti di una vera strada che collega il Minnesota con New
Orleans, passando per Chicago, St. Louis e Memphis. Ed è di cruciale
importanza sottolineare come per il giovane autore questa strada che
conduce a Sud fosse di ispirazione come metafora della musica blues e
delle radici sonore e artistiche di cui Dylan si è sempre detto
affascinato. Una sorta di trovatore e di antropologo un po’ naif, ma
proprio per questo capace di coniugare il proprio pensiero musicale con
un modo nuovo di fare musica, che fino a questo punto in pochi avevano
davvero esplorato e tentato di portare alla luce. È un lavoro di
sintesi, che a un orecchio poco allenato potrebbe apparire rozzo e poco
definito. In realtà Dylan e i musicisti coinvolti diedero vita a un
lavoro maiuscolo per la forma canzone e per i limiti stessi del genere
in termini di crossover. Tuttavia il merito, nuovamente va suddiviso tra
il suo autore e i protagonisti che presero parte a questo capolavoro.
Come era già successo pochi mesi prima, ma stavolta con maggiore
continuità, Dylan realizza un lavoro in studio elettrico. Coinvolge
infatti un gruppo di musicisti che lo affiancano contribuendo in modo
sostanziale alla riuscita dei brani. In cabina di regia subentra Bob
Johnston a Tom Wilson, che aveva prodotto i primi dischi di Dylan,
incluso quello della svolta elettrica, Bringing it all back home.
Stavolta però le cose vanno in modo diverso, nel senso che ci sarà più
spazio e campo per la sperimentazione e soprattutto per
l'improvvisazione. Secondo alcuni sarà il caos a regnare sovrano in
tutte le sessions, ma il risultato finale ci dice qualcosa di
differente. Ci dice che questo è probabilmente il più grande disco mai
realizzato in carriera da Bob Dylan.
“Non sarò mai più capace di fare un disco migliore di questo.
Highway 61 è troppo buono, c'è un sacco di roba che io vorrei ascoltare,
lì dentro", disse lo stesso Dylan al suo biografo Anthony Scaduto.
Nove tracce dove l'unica più debole From a Buick 6 è un roco e teso
up-tempo in chiave blues che nel contesto farà da collante tra It Takes
a Lot to Laught e Ballad of a Thin Man, brano indebitato nei confronti
di Ray Charles con un testo killer e un riff di organo memorabile, uno
dei tanti colpi vincenti messi a segno in questo lavoro da Al Kooper, sì
proprio lui, quello che non poteva sedersi dietro l'Hammond per eseguire
il famoso suono che contribuirà al successo del singolo Like a Rolling
Stone. Dylan però oltre che essere in stato di grazia compositiva, ha
anche due ferri di cavallo sotto le suole delle scarpe. In quel momento
qualsiasi cosa tocchi, diventa oro! Come lo sappiamo? Basti ascoltare il
Bootleg Series Vol.12 The Cutting Edge. Storta va, deritta vene, sembra
essere il suo motto. Oggi con la critica revisionista tutto questo
potrebbe essere bollato come dilettantismo, infatti durante il 2020 se
la memoria non mi inganna nessuno è andato vicino dal realizzare un
disco lontanamente accostabile ad Highway 61 di Dylan, ma questa è
un'altra dannata questione!
Oh, Dio disse ad Abramo "Sacrificami un figlio" Abe disse "Amico,
mi prendi in giro? "Dio disse "No", Abe disse "Cosa?" Dio disse "Puoi
fare come vuoi Abe ma la prossima volta che mi vedi arrivare sarà meglio
che teli" Allora Abe disse "Dove vuoi che avvenga questo omicidio?" Dio
disse "Sulla Highway 61"
Cornice storica in cui
venne registrato l'album
Anticipato dal singolo Like a Rolling Stone, pubblicato il 20 luglio
1965, Highway 61 Revisited estende la formula che si era già sentita su
Bringing it all back home. A differenza del suo predecessore, con il
quale condivide la base degli arrangiamenti blues, che determina almeno
la metà del disco, qui trovano spazio un certo gusto per il pop, il
doppio shuffle, ritmi discendenti stile Ray Charles e rock and roll.
L’atmosfera e le vibrazioni dell’album riescono a catturare quello che
stava accadendo durante quegli anni. Un suono umano e ruvido, come una
copertina di Life, un discorso dove il senso di sfida e di
consapevolezza si fa audace, visto che l’autore consapevolmente punta il
dito verso tutto e tutti.
Secondo Joe Henry questo disco può essere paragonato a Citizen Kane di
Welles e sul fronte musicale a incisioni come West End Blues e Now’s the
Time, cambiando tutto quello che è venuto dopo. Per Bruce Springsteen
“Quel colpo di rullante risuonò come se qualcuno avesse sfondato a calci
la porta della tua mente. Un colpo di batteria che schiude un mondo,
crea una storia che si fa leggenda. Secondo Uncut si tratta dell’evento
culturale che ha cambiato il mondo. In questo disco c’è una aggressività
di suono che segna un cambiamento deciso di rotta, dove a differenza di
Bringing it all back home viene privilegiato un suono sporco, sbilenco,
con gli strumenti molto vicini tra loro. Un aspetto questo, che se negli
anni sessanta poteva risultare un errore, oggi ne fa aumentare il valore
intrinseco. Il merito è in parte di Dylan e in parte del gruppo che lo
accompagna. Qui troviamo infatti musicisti come Harvey Brooks, Sam Lay,
ma soprattutto Mike Bloomfield e Al Kooper. Contribuisce solo per il
brano Desolation Row, il pluristrumentista di Nashville, Charlie McCoy.
Un breve film di 11 minuti e 18 secondi, secondo Tony Glover. È come se
Billy Wilder venisse incontro allo stile surreale di Luis Bunuel.
Le cover di rilievo nel tempo
Pochi dischi contengono canzoni che sono state reinterpretate da altri
artisti come Highway 61. Citiamo qui solo gli artisti e le versioni più
importanti per questioni di spazio. Jimi Hendrix non ha mai nascosto
l’influenza di questo disco e la prova arriva dalla sua versione di Like
a Rolling Stone. Brano che è stato eseguito, tra gli altri, da David
Bowie, Rolling Stones, Bruce Springsteen, John Mellencamp, Johnny Winter
e Judy Collins. Vanno poi ricordate le cover di artisti del calibro di
Nina Simone, Neil Young, Grateful Dead, Billy Joel, PJ Harvey e Linda
Ronstadt, tra gli altri.
Considerazioni finali su Highway 61 Revisited
Non è il valore dei singoli brani o la somma di questo importante album
a renderlo così celebrato nel tempo. Secondo il produttore e musicista
Joe Henry, interpellato da Jon Bream per discutere di Highway 61: "Qui
sembra di ascoltare persone che saltano fuori da un microfono. Questo
avviene nei momenti migliore e nei solchi di un disco di valore
assoluto. Il suono è totalmente elettrico e vivo, non si tratta di un
documento con sigillo. Spesso Highway 61 mi fa questo effetto. Sembra
che si stia ancora evolvendo, perché noi ascoltatori siamo così
coinvolti, da evolverci mentre lo stiamo ascoltando. Non mi suona ancora
come un progetto musicale concluso del tutto." Naturalmente tale
dichiarazione va letta in un senso del tutto positivo che valorizza e
aumenta le quotazioni di un disco che ha fatto e continua a fare epoca,
nel contesto del rock d'autore. È innegabilmente uno dei lavori migliori
di uno degli autori più influenti della storia musicale popolare del
Novecento. Piaccia o meno, questo resta un dato oggettivo e fuori da
ogni discussione di rilievo in campo musicale, testuale e di cornice
storica. In attesa che venga scalzato dai nuovi autori di musica
popolare e rock. Li attendiamo fiduciosi al varco, con la medesima
aggressività che Dylan ha mostrato nelle liriche e nei suoi del suo
capolavoro, Like a Rolling Stone.
"Ezra Pound e T.S. Eliot combattono nella torre di comando mentre
cantanti di calipso li deridono e pescatori porgono fiori tra le
finestre del mare dove amabili sirene nuotano e nessuno deve
preoccuparsi troppo di questo vicolo della desolazione"
Vedere un mondo in un
granello di sabbia e un paradiso in un fiore selvatico. Tenere
l'infinito nel palmo della mano e l'eternità in un'ora.
Solo una sana e consapevole fede salva l'ascoltatore dalla negatività
del giudizio critico, parafrasando Fornaciari. Il gospel è una questione
di fede. Shot of Love, 21esimo disco in studio di Bob Dylan viene
pubblicato il 10 agosto 1981. Ottenne la top ten nel Regno Unito, ma
negli States non andò oltre la 33esima posizione in classifica. La
produzione dell'album è affidata a Bumps Blackwell e Chuck Plotkin, uno
degli uomini chiave in studio di registrazione di Bruce Springsteen. Nel
disco lo si nota subito, c'è una moltitudine di musicisti e tecnici di
talento. Da Ringo Starr a Tim Drummond, da Donald Dunn a Benmont Tench,
da Ron Wood a Jim Keltner, da Steve Ripley a Carl Pickhardt. Questo è
probabilmente uno dei lavori più fraintesi e sottostimati di Dylan, in
termini assoluti. Qui si conclude la fase "religiosa" e si apre lo
scenario "anni ottanta" del suo autore. Arrivati a questo punto Dylan si
era costruito una reputazione per metà fatta da detrattori, haters e
critici e per metà costituita da veri appassionati ed esperti della sua
musica e delle sue canzoni. E' un disco da rivalutare e posizionare dove
è giusto che stia, da ora in avanti. D'accordo: non sarà coeso e
coerente come Infidels, non sarà cupo e compatto come Oh Mercy, ma resta
una delle migliori opere realizzate dopo Blood on the Tracks e Desire e
prima del grande ritorno di Time Out of Mind e "Love and Theft".
Personalmente ritengo che il dovere del critico sia di vivisezionare e
smontare un disco, per renderlo maggiormente fruibile a un più vasto
pubblico. Di contro c'è però quello che fa un vero appassionato. E
l'appassionato, lo dice la parola stessa: vive di passione. Nel caso di
un lavoro che contiene una gemma come Every Grain of Sand, è facile
capire da che parte stia il nostro punto di vista. Il mio approccio a
questo lavoro si è rinnovato più volte nel tempo, tanto che per una
strana casualità ne possiedo addirittura tre copie. La prima
masterizzata con copertina fotocopiata in bianco e nero, la seconda
cartonata e la terza presa per completare la discografia live in una
confezione da cinque dischi che include Real Live e Dylan & The Dead. In
origine il primo vero approccio a questo disco avvenne con l' ascolto
del Greatest Hits 3 e dell'antologico Biograph. Ho iniziato ad ascoltare
Shot of Love con 2-3 brani e ritengo che questo resti ancora oggi, a
distanza di 40 anni, uno dei migliori approcci possibili. Canzoni come
Heart of Mine o The Groom's Still Waiting at the Altar, ci mostrano un
autore ispirato e che musicalmente non si è certo fermato in termini di
scrittura a quello che aveva prodotto durante i 18 anni passati. Si
tratta di un lavoro di transizione, che condurrà il suo autore verso un
nuovo percorso sonoro e di scrittura. Per molti non è altro che un disco
di routine. Sappiamo bene che però Dylan nel corso della sua lunga
carriera ha ricevuto molte critiche e recensioni preventive, e in questo
caso la disparità tra le recensioni e il prodotto finale, ascoltato in
un contesto retrospettivo, appare evidente. Sia chiaro, come il lavoro
che lo ha preceduto, non stiamo parlando di rivalutarlo e metterlo tra i
capolavori. Non di meno, questo non è affatto "il peggior album di
Dylan". O come sostiene il cecchino Lester Bangs: " Quello che troviamo
in Shot of Love è il lavoro dell'operaio a giornata". Tipico commento
insulso e immaturo di chi il disco probabilmente non l'aveva nemmeno
ascoltato per intero, figuriamoci compreso e analizzato. Ancora Bangs:
"Il problema è che il materiale non riserva nient'altro che una lettura
superficiale, dato che la maggior parte dei brani risulta incompleta e
non consequenziale." Davvero arduo comprendere da quale sentimento sia
mosso il critico in tale invettiva, ma forse è il caso di passare oltre.
Bob Dylan dirà di questo lavoro che la maggior parte delle critiche si
concentra sul ruolo di Gesù e attribuisce il problema a Boy George e
qualcosa di nuovo che sta montando in termini di trend e di nuovo
approccio al pop rock. Vero o no, non trovare spunti di interesse in
brani come Every Grain of Sand, In the Summertime, Lenny Bruce, Heart of
Mine e la stessa title track, in un contesto odierno, appare davvero
arduo. Ci troviamo davanti a un lavoro complesso, nuovo e con un sound
che alla lunga resta un tentativo piuttosto sofisticato per un artista
come Dylan. I cambi di accordi e la struttura musicale per certi versi
si associano al futuro Empire Burlesque, ma è vero che il suo autore ha
fatto centro conquistando pubblico e critica con canzoni dalla struttura
e dai cambi di accordi piuttosto essenziali. Eppure in questa
circostanza, merito dei musicisti coinvolti e specialmente del lavoro di
Jim Keltner alla batteria e di Danny Kortchmar e Steve Ripley alle
chitarre, possiamo sentire qualcosa simile alle sfumature di Thelonious
Monk: il massimo livello di sofisticazione raggiunto da Dylan fino a
Shadows in the Night del 2015. Resta il fatto che il Dylan del periodo
Gospel ha un tiro e un groove pazzesco. La musica trasuda fuoco e zolfo,
colori e luci sono accesi. È un delirio di bellezza (per chi vuole
cogliere) abbagliante! Come abbiamo imparato però il Dylan allegro
sovente crea disagio, rancore e antipatia nella critica militante. Il
cantautore sa mettere d'accordo la critica quando si strugge e
annichilisce la propria anima, ma quando il blues cede il passo alla
gioia, il bravo recensore punta il dito e indica lo stolto Dylan.
Trovare limiti e difetti in un autore 40enne che ha mostrato di essere
in stato confusionale non è certo un merito e un sinonimo di competenza
e di capacità critica. Per fortuna l'artista non si cura di ciò che
pensa la critica, ma tira dritto per la propria strada. Sarà il tempo a
decidere, ancora una volta. Il tempo qui dice che il disco contiene
almeno un capolavoro assoluto, cioè Every Grain of Sand. E anche William
Blake ce lo conferma.
La critica illuminata
È "forse il suo lavoro più sublime fino ad oggi", scrive Clinton Heylin,
"la sintesi di una serie di tentativi di esprimere ciò che la promessa
di redenzione ha significato per lui personalmente. Every Grain of Sand
è una delle sue canzoni più intensamente personali, rimane anche una
delle sue più universale. Descrivendo "il tempo della mia confessione,
l'ora del mio bisogno più profondo", il brano segna la conclusione del
suo periodo evangelico come autore di canzoni, qualcosa che la sua
posizione in coda all’album riconosce tacitamente. Paul Nelson di
Rolling Stone lo ha definito il Chimes of Freedom e Mr. Tambourine Man
del periodo cristiano di Bob Dylan. Questo lavoro ha sicurezza e forza
su tutta la linea, ma anche vulnerabilità. L'armonica meravigliosamente
idiosincratica di Dylan ha trasformato in un archetipo che trafigge il
cuore e inumidisce gli occhi. E, per una volta, i testi non ti deludono.
Il cristianesimo dell'artista è palpabile e comprensibile. Per un
momento o due, ti tocca, mentre i cancelli del paradiso si dissolvono in
un'universalità che non ha nulla a che fare con la maggior parte
dell'LP”. Paul Williams nel suo volume Bob Dylan Performing Artist The
Middle Years afferma: "L'amore in Every Grain of Sand, sebbene
saldamente radicato nell'esperienza di conversione di Dylan e nei suoi
studi biblici, va immediatamente oltre il suo contesto per comunicare un
profondo e provato spirito devozionale basato su esperienze universali.
Dolore di autoconsapevolezza e senso di meraviglia o soggezione per la
bellezza del mondo naturale. Tim Riley ha descritto Every Grain of Sand
come "una preghiera che abita la stessa zona intuitiva di Blowin 'in the
Wind, quasi un inno tramandato attraverso i secoli". Il critico Milo
Miles ha scritto: "Questa è l'unica canzone di Dylan in 10 anni in cui
esamina un paradosso della cultura pop (che le star leggendarie in
particolare devono credere in ideali più grandi di loro) in modo più
eloquente di qualsiasi altro artista. Anche Bruce Springsteen nel 1988
ha citato questo disco come uno dei suoi lavori migliori, stessa cosa
che farà Elvis Costello, che lo inserisce nella lista dei 500 album
essenziali per una vita felice. Forse il miglior brano di Dylan in
termini assoluti. Per approfondire il discorso si consiglia di
recuperare i Bootleg Series Vol. 1-3 e 13 (Trouble No More). Un’ultima
cosa: questa è la copertina di Bob Dylan preferita da mio nipote
Giorgio. Ascoltato a distanza di quarant’anni, Shot of Love sembra
invecchiare piuttosto bene, come dell’ottimo whisky. E ora dite Amen.
Amen!
"Ogni notte e ogni mattino alcuni nascono per la miseria. Ogni notte
e ogni mattino alcuni nascono per il dolce piacere. Alcuni nascono per
il dolce piacere, alcuni nascono per l'eterna notte."
A tre anni dal suo ultimo lavoro ritorna Bob Dylan. Ancora una volta, la
terza, sceglie come data di lancio quel fatidico 11 settembre. Un mese
frizzante, dove forse, dopo i fasti e le "monotone" litanie da
ombrellone è più semplice apprezzare un lavoro di un artista del calibro
di Dylan.
Tempest: un disco assoluto, bislacco e sardonico, come solo Dylan può
fare. Una produzione brillante e inaspettata. Dopo due dischi
musicalmente più ingessati e quasi privi di guizzi del suo genio
musicale, (a parte quei quattro episodi maggiori presenti su Modern
Times), è arrivata questa bella sorpresa. Un disco godibile, brillante,
ma al contempo cupo, funesto. Tempest ti sa conquistare già durante il
suo primo ascolto. Aspetto che forse non si verificava da "Love And
Theft". Il 35esimo lavoro in studio che coincide anche coi 50 anni di
carriera di Dylan, è stato prodotto ancora una volta con lo pseudonimo
di Jack Frost nello studio di Santa Monica di Jackson Browne. Ancora una
volta troviamo tra i più stretti collaboratori, Tony Garnier al basso e
Charlie Sexton, che torna nella band e partecipa al disco, assieme agli
ospiti David Hidalgo, che torna a suonare fisarmonica e violino, per la
terza volta in un disco di Dylan. Da annotare anche il featuring con il
paroliere Robert Hunter, storico collaboratore dei Grateful Dead e amico
di Dylan di lungo corso. Dentro questo nuovo lavoro c'è dentro una bella
girandola di figure e di personaggi nuovi da aggiungere all'affresco.
William Blake, lo spirito di John Lennon, Al Pacino, Keith Richards, Ron
Goulart, Leonardo Di Caprio, Louis Armstrong, Charlotte la prostituta,
Maria la madre di Gesù, la Regina delle Fate e Cleopatra, fanno tutti da
sfondo o da protagonisti al gran circo che mette in scena Bob Dylan.
C'è una nuova citazione a Charlie Chaplin, nel video di Duquesne
Whistle, una nuova apprezzabile prova registica di Nash Edgerton, già
autore dei precedenti "Must Be Santa" e "Beyond Here's Lies Nothin' ".
Un disco lungo e coeso, 68 minuti, come non si sentiva dai tempi di Time
Out Of Mind. Un sound che ricorda forse Love And Theft, ma con degli
innesti e dei graffi più contemporanei ed efficaci, a livello di
arrangiamento e di suono. La cosa che stupisce però è la qualità delle
canzoni. Testi e musica. La band capitanata dalla chitarra di Charlie
Sexton suona sugli scudi e dimostra, ancora una volta, che c'è sempre
voglia e motivo per ascoltare questa Musica. Dylan ancora una volta
dimostra la sua maestria nel sapersi districare tra musica ancestrale,
testi visionari e controllo dei suoni. In cabina di regia c'è lui, ed è
un bene. Nonostante qualche fan nostalgico possa ancora rimpiangere
Daniel Lanois, è Dylan il capitano di se stesso in questa sarabanda di
storie di mare, di terra e di ferrovie. Il western, le carovane, il
fischio dei treni che passano sferragliando e che riusciamo davvero a
sentire nelle chitarre di Duquesne Whistle, o nel blues nervoso di
Narrow Way... Lasciatemi poi dire qualcosa della meravigliosa "Pay In
Blood", la migliore hit dai tempi di Thing Have Changed. Con
quell'incedere rock-blues alla Rolling Stones ("Tattoo You"), le
chitarre ariose e la ritmica decisa e sensuale. Ed un testo ambiguo
quanto basta. Ad un primo ascolto Long And Wasted Years, Scarlet Town,
Tempest e Pay In Blood sono le canzoni che restano in testa. Tempest è
la sintesi finalmente riuscita tra la sua anima vintage, espressa a più
riprese nell’ultimo decennio, e la sfrontatezza folk rock dei suoi anni
giovanili. Ci era andato vicino con Love And Theft e Modern Times, ma
stavolta c’è riuscito davvero. Un disco che si nutre dell’eterno mito
della frontiera americana, tirando fuori dalle viscere della terra dieci
canzoni senza tempo. Rispetto al suo precedente lavoro, Together Through
Life, questo è sicuramente più cupo, meno consolatorio. Trasuda vita,
morte, sangue e fantasmi. La voce di Dylan pare provenire dall'aldilà,
proprio come nel suo percorso blakiano di Time Out Of Mind. Scorrono,
come in un flusso musicale a ritroso, tanti frammenti e riferimenti. Da
Infidels a Blood On The Tracks, da Desire a Blonde On Blonde, da Highway
61 Revisited a Slow train coming. E' semplicemente Bob Dylan, che torna
con un suo lavoro tra i più significativi ed importanti della sua
carriera. Tempest si muove sugli stessi territori che erano già stati
esplorati con Daniel Lanois in cabina di regia durante le sessions di Oh
Mercy e Time Out Of Mind, ma ha un sound che ricorda più da vicino
Modern Times e "Love And Theft", almeno nei suoi momenti migliori. Un
disco lirico, provocatorio, ironico e apocalittico, in poche parole, un
disco di Bob Dylan.
"Quest’uomo ha una personalità straordinaria, ineguagliabile. Lo puoi
criticare, odiare per come stravolge i suoi brani storici, però
l’immensità non si tocca" - (Stefano Bonagura)
"Fino a quando un uomo buono scriverà una grande canzone, questo
treno continuerà la sua marcia" - (Paolo Vites)
"In posa militare, puntavo la mano verso quei cani bastardi che
insegnavano, senza preoccuparmi del fatto che sarei diventato il mio
nemico nel momento stesso in cui avrei cominciato a pontificare. La mia
esistenza guidata da battelli in confusione ammutinati da poppa a prua.
Ah, ma ero molto più vecchio allora, sono molto più giovane adesso".
(Bob Dylan)
Non ci voleva poi così tanto a capire che l'artista che pubblicò il suo
terzo album autografo (quarto in totale) era già una persona differente
rispetto a quella che aveva composto un anno primo il suo disco più
impegnato e politico. Forse il titolo non è il modo migliore per marcare
la distanza e il cambio di passo, ma Another Side of Bob Dylan è senza
dubbio la più convincente fotografia di un autore all'epoca 23enne che
stava tentando di affrancarsi dall'immagine che gli volevano costruire
attorno. Oggi basta fare qualche ricerca in rete per trovare una miriade
di articoli, alcuni molto esaustivi, che tracciano la distanza tra il
disco precedente e tutto ciò che sarebbe arrivato, da adesso in poi. Con
le dovute differenze Another Side of Bob Dylan è molto più connesso e
collegato alla trilogia elettrica e non ai due album autografi che lo
avevano preceduto. In particolare troviamo testi e canzoni che hanno
davvero molto poco a che vedere con il folk revival di cui Dylan aveva
condivido idee, grammatica fondamentale e un certo radicalismo anni
trenta. La netta distanza tra il brano che chiudeva The Times They Are
A-Changin' e questo nuovo lavoro, appare evidente già dalle prime note e
dal tono che accompagnano l'opening di All I Really Want to Do. Bisogna
essere ciechi e soprattutto sordi, per non capire che è in atto un
cambiamento epocale per l'autore di Blowin' in the Wind. Sia chiaro:
Dylan non rinnega e non tradisce niente e nessuno. È solo andato oltre;
ha gettato il cuore oltre l'ostacolo e ha vinto la sua battaglia
personale. Qui infatti il giovane cantautore diventa un vero artista,
affrancandosi dai movimenti e dal genere folk. Lo aveva detto a
caratteri cubitali ed è bene riaffermarlo qui, in chiave retrospettiva.
"Qui dentro non ci sono brani che puntano il dito. Quei dischi li ho
pubblicati e li difendo, ma in parte erano fatti per essere ascoltati,
perché segnavano a dito tutto ciò che non va. Non voglio più scrivere
per la gente, né fare discorsi. D'ora in poi voglio solo scrivere dal
profondo di me stesso."
Un manifesto programmatico difficile da fraintendere. È vero che Bob
Dylan tornerà su queste parole e saltuariamente sarà ancora quella "voce
di protesta" che scrive "per la gente", ma è innegabile come con la
trilogia composta da Bringing it all back home, Highway 61 Revisited e
soprattutto con il capitolo finale, Blonde on Blonde, darà un taglio
netto alle sue pagine passate. My Back Pages, appunto. Queste undici
tracce possono disorientare, stordire e far gridare al traditore, ma
sono il punto di vista di un giovane autore nel fiore degli anni. Non
più quello stile narrativo con cui si era imposto, ma pura poesia
astratta, dove trovano posto stati mentali impressionistici come il
seguente: “Attraverso il folle e mistico martellare dell'incessante grandine
picchiettante. Il cielo faceva esplodere i suoi poemi in nuda meraviglia
che il tintinnare delle campane della chiesa soffiava lontano nella
brezza, lasciando solo campane di fulmini e il loro tuono che colpiva
per i cuori nobili, colpiva per il mite, colpiva per i guardiani e i
protettori della mente e dietro al pittore indomito prima che venisse la
sua ora e osservammo i lampeggianti rintocchi di libertà.”
Riascoltare oggi e perdonare qualche sbavatura e alcuni passaggi che
girano forse a vuoto, significa dare una dimensione del lavoro di un
musicista che in appena cinque anni contribuiva a rendere più netto il
cambiamento con tutto quello che l'America, la popular song e la musica
poteva rappresentare. Diverse forze stavano ridisegnando lo stile di
Dylan.
Un autore sensibile che dirà al suo biografo Anthony Scaduto: “Sapevo
che i Beatles puntavano nella direzione in cui la musica sarebbe andata.
Non volevo snobbare gli altri, ma per me loro erano la cosa.” Non è
semplice scrivere e commentare un lavoro che ha fatto la storia della
canzone d'autore e che forse per Dylan è stato il passo più audace della
sua carriera. Qui infatti non avviene ancora la svolta elettrica, ma il
modo di suonare e di interpretare i propri brani è nettamente diverso,
più pop, più orientato verso un modo nuovo di fare dischi. Le canzoni a
modo loro, siano esse i grandi capolavori o episodi minori e forse
trascurabili, svolgono il loro ruolo. Incredibile, ma vero Another Side
of Bob Dylan venne registrato in un’unica sessione. C’è un aspetto che
bisogna sottolineare, la voglia di divertirsi e di divertire di queste
canzoni. Eppure dietro certi bozzetti frivoli, l’autore infila scene e
immagini da Apocalisse, ed è questa la sua abilità, la grande cifra
stilistica di un giovane e audace troubadour. Come sottolineano Ric
Ocasek e Ike Reilly Dylan esegue tutte le canzoni accompagnandosi solo
con la chitarra acustica. E in questa occasione si tratta di
arrangiamenti in grado di supportare seriamente melodia, testi ed
esibizione. Si è detto poche volte che è un chitarrista acustico
formidabile, ma in questa occasione è importante ribadire il concetto.
Perché c'è un vero calderone di idee, immagini e suggestioni in titoli
come Spanish Harlem Incident, Ballad in Plain D o Motorpsycho Nitemare,
sono episodi unici nel canzoniere dylaniano, figlie di quei turbolenti e
suggestivi anni sessanta. Proprio in Motorpsycho Nitemare Dylan trae
ispirazione dall'universo cinematografico di due registi come Federico
Fellini e soprattutto Alfred Hitchcock ribaltando i principi cardine di
Psycho.
La canzone è infatti una parodia ispirata alle barzellette di commessi
viaggiatori, dove il protagonista si presenta in una fattoria in cerca
di un posto dove passare la notte, solo per essere attirato dalle
tentazioni della figlia del contadino. Dylan sposa le trame di base del
film e scherza per creare un racconto umoristico con un accenno
politico. Oggi forse alcune cose potrebbero apparire un po' naif e
acerbe, ma furono da apripista per quello che sarebbe arrivato dal disco
successivo a seguire. Fatto non trascurabile il brano Mr. Tambourine
Man, non presente nella versione finale del lavoro, venne composta ed
eseguita in una prima versione proprio per Another Side of Bob Dylan.
La critica lungimirante
David Horowitz definì le canzoni un fallimento assoluto di gusto e di
consapevolezza autocritica. Dylan ammise nel 1978 che il titolo
dell'album non era di suo gradimento. "Ho pensato che fosse troppo
banale", ha detto, "mi ha creato un po' di problemi un titolo come
questo".
Domanda da sempliciotto di periferia: "Era così difficile capire
l'ironia di Dylan nel '64?"
Dici di cercare qualcuno che non sia mai debole ma sempre forte, per
proteggerti e difenderti quando hai ragione o quando hai torto. Qualcuno
che ti apra una a una tutte le porte, ma non sono io, babe.
Ceremonies Of The Horsemen (Quel Dylan
commerciale)
Planet Waves (1974)
“Così canta la tua glorificazione del progresso e della macchina del
giudizio. La verità nuda è ancora proibita dovunque possa essere vista.”
Discutere e analizzare in termini retrospettivi alcuni dischi di Bob
Dylan è una buona occasione per mettere meglio a fuoco la sua produzione
in studio. Specialmente quando si tratta di commentare un album
frainteso come Planet Waves del 1974. I più anziani di voi certamente
ricorderanno la pessima abitudine di metà anni novanta di descrivere un
artista e un prodotto artistico come "commerciale". Probabilmente questo
termine prese piede per via del genere di musica dance, conosciuto nel
nostro Paese proprio con il nome di Commerciale. Ecco, questo album
all'epoca della sua uscita venne bollato come "il disco commerciale di
Bob Dylan", mentre avrebbe potuto essere uno dei suoi grandi ritorni. In
effetti ci sono molte novità e qualche sguardo al passato. Le due novità
più rilevanti sono il fatto che questo disco venisse prodotto e
registrato nella West Coast, durante un momento dove la musica
californiana stava prendendo il sopravvento rispetto alla East Coast
dove Dylan si era fatto conoscere e si era affermato. La seconda novità
riguarda l'etichetta, non più Columbia, a Asylum Records, che significa
in pratica David Geffen ed Elliot Roberts, due nomi che non hanno certo
bisogno di presentazione. A queste due novità sostanziali bisogna
inoltre aggiungere un elemento che collega questo disco con gli anni
sessanta di Dylan, quindi un ritorno alle radici e al suo passato:
Planet Waves vede come gruppo di accompagnamento The Band. Nonostante il
sodalizio artistico tra Dylan & The Band risalga al 1965, questa è la
prima volta e unica volta in cui il cantautore registrerà in studio un
disco con gli ex-Hawks. È vero, c'era già stato The Basement Tapes, ma
come sicuramente saprete quello non era nato come un progetto ben
definito e comunque non è stato registrato in un vero studio. Le uniche
sessions in studio con The Band sono quelle poi scartate da Blonde on
Blonde, che spinsero Dylan e il suo produttore a lasciare New York per
incidere a Nashville, ma quella è un'altra storia.
Planet Waves risente in termini di accoglienza critica di una duplice
ostilità nei confronti del suo autore. Tuttavia il disco ottiene per la
prima volta il numero uno in termini di vendite per il mercato
statunitense. Le critiche sono tendenzialmente favorevoli, ma spesso
fuori bersaglio. Si pensi ad esempio a questa affermazione da parte di
Ellen Willis del New Yorker: "Credo che le parole siano intese come
riempitivo, qui Dylan sta tentando di sottrarsi alla sua reputazione di
poeta per farci concentrare sulla musica".
Quella che sembra una critica nemmeno così feroce, rispetto a quei
buontemponi di Landau, Marcus e Marsh, è in effetti una delle
considerazioni più errate di sempre. Prima di tutto Dylan non si reputa
poeta e non ha mai affermato di scrivere per dare maggior peso alle
parole. Questa è il punto di vista della critica, che durante gli anni
abbiamo poi scoperto essere un po' impreparata sul discorso puramente
sonoro. In pratica è facile prendere un disco di Dylan e scrivere
qualche cartella sul presunto significato di questo e di quel testo. Che
egli fosse un autore sfuggente e un po' enigmatico ci sono pochi dubbi,
ma resta il fatto che nella maggior parte dei casi non abbia avuto un
pari trattamento rispetto ai suoi illustri colleghi e questo
considerando la sua importanza e la carriera longeva e ricca di
successi, appare una questione difficile da comprendere, in termini
retrospettivi.
Planet Waves non è quindi il sequel di New Morning, nonostante sia la
prima vera raccolta di brani inediti pubblicata a tre anni di distanza
da quel disco. Il valore dei testi e delle canzoni non ha bisogno di
alcuna difesa d'ufficio. A parte il successo di Forever Young, diventata
una delle canzoni simbolo del suo autore, bisogna citare brani di
spessore come Dirge, Wedding Song e Going Going Gone. Di questo disco
registrato durante il mese di novembre del 1973 bisogna dire che forse
non è il suo lavoro più ispirato e coeso, ma contiene almeno metà dei
brani che sono sopra la media, come Hazel, Never Say Goodbye e You Angel
You. Certo, ci sono anche pezzi come On a Night Like This che potevano
essere risolti meglio, ma qui era importante tornare sulla strada e
riprendere da dove la giostra aveva lasciato esattamente ben otto anni
prima.
Eppure questo Planet Waves spicca come lavoro, in quanto diverso
rispetto agli altri. Più apertamente personale: un dilemma pratico ed
estetico, del suo autore nei confronti della consorte. Un buon disco, a
tratti notevole, a tratti trascurabile, ma comunque gradevole. Lavoro
ragguardevole, ma strambo. Forse l'elemento di disturbo, ingombrante è
proprio The Band, da cui francamente chiunque sia appassionato di rock
si aspetterebbe qualcosa in più. Per Jim Beviglia alcune esecuzioni
risentono infatti del "pilota automatico" innestato da Levon Helm, Rick
Danko, Garth Hudson, Richard Manuel e Robbie Robertson. Ci sono momenti
in cui questo lavoro è semplicemente fantastico, altri in cui sembra un
po' rigido e messo in circolazione in maniera un po' frettolosa.
Premesso che oggi un disco così sarebbe acclamato come un capolavoro
assoluto, bisogna escludere dal concetto di pilota automatico gli
incastri e le dinamiche che fanno di Going Going Gone, di Forever Young,
di Hazel e di altre tracce che si avvalgono invece di esecuzioni
importanti, oggi storiche per la canzone rock seventies. Dylan sta per
tornare, e se anche fosse in una fase strana e "commerciale", che male
c'è? Troviamo che il disco sia ben realizzato e con quattro brani che
suonano tra le migliori di sempre realizzate in studio dal suo autore.
Non tutti sanno che in questo lavoro c'è un omaggio e un debito verso
uno degli autori chiave di Bob Dylan. Si tratta di Jack Kerouac e del
suo meraviglioso Angeli di desolazione. Per chi fosse interessato
consiglio la lettura del capitolo 15, prima parte, Desolazione nella
solitudine. Detto questo, la cosa che ci crea un po' di rammarico, in
questa occasione è la scelta del titolo. Nonostante Planet Waves sia un
funzionale claim da copywriter, gli avremmo preferito il più suggestivo
Ceremonies Of The Horsemen, una citazione dal brano del 1965 Love Minus
Zero/No Limit.
Ci sono colori i quali adorano la solitudine, io non sono uno di loro.
In quest'epoca di vetroresina sto cercando una gemma. La sfera di
cristallo non mi ha ancora mostrato niente. Ho pagato il prezzo della
solitudine, ma finalmente non ho più debiti.
Provate a immaginare la scena. Un giovane
cantautore non ancora 23enne lancia le proprie invettive contro un cielo
plumbeo, minaccioso, nefasto. Il terzo disco in studio di Bob Dylan
risente fortemente del clima in cui gli Stati Uniti d'Americano erano
piombati durante quel fatidico autunno del 1963. Il presidente Kennedy
era stato assassinato appena sei settimane prima della pubblicazione di
The Times They Are a-Changin' e il musicista che diede alle stampe il
suo primo disco completamente autografo sente il peso e la
responsabilità di un momento così drammatico, privo di speranza. Una
premessa doverosa per un disco che ascoltato oggi manca un po’ del
pathos e della leggerezza a cui Dylan ci ha abituati nel corso dei molti
episodi maggiori della sua carriera.
Disco importante per un artista poco più che ventenne, ma già in grado
di incarnare, più di tutti, il senso dell'epoca che sta attraversando.
Le registrazioni risalgono a un periodo che va dal 6 agosto al 31
ottobre 1963, motivo per cui il disco pur risentendo del clima politico
e sociale di quel periodo non dovrebbe avere riferimenti diretti alla
storia recente del Paese in cui è ambientato. Sono proprio i temi, i
riferimenti biblici e il tono serio a creare un corto circuito di cui il
giovane autore faticherà ad affrancarsi completamente per lunghissimo
tempo. Ancora oggi in Italia e in Europa ci sono ambiti dove l'equivoco
politico e politicizzato permangono e sono probabilmente uno dei motivi
per cui i dischi e la musica di Bob Dylan sono ritenuti, a torto,
materiale valido per una certa parte di utenza e di ascoltatori. Con
questo non intendiamo dire che Dylan è un autore bipartisan o
politicamente ambiguo, ma che non ha certo impostato la propria carriera
artistica sull'impegno politico e partitico. Ugualmente c'è da dire che
questo terzo disco risulta ancora oggi, dopo oltre 50 anni il lavoro più
radicale e innodico per una generazione.
Non è servito il tempo e i molti riferimenti nella cultura di massa per
rendere questo disco qualcosa di meno vincolato al momento storico in
cui è stato realizzato e pubblicato. Eppure vi sono titoli e testi che
potrebbero parlare di molte cose diverse. L'ambiguità dei testi di Dylan
è leggendaria, ma questa volta, salvo casi isolati, appena poggiamo la
puntina sul vinile ci scorre davanti un'istantanea dei primi anni
sessanta. Il ché non è necessariamente un male, anche se preferiamo
pensare a Dylan come a un autore universale, senza tempo, eterno. Dylan
il profeta, l'autore che flagella la propria coscienza e che è più
maturo rispetto ai suoi dati anagrafici. Un disco che però si fa fatica
ad ascoltare per intero, a differenza del precedente The Freewheelin' o
dei lavori che lo seguiranno. Resta questa immagine seria e alcune delle
più azzeccate metafore mai enunciate da un cantante fino a quel momento.
Ogni brano, sia esso di denuncia o di protesta, ha un senso ed è
perfettamente a focus, eppure c'è qualcosa nell'inflessione della voce e
nelle note di chitarra che fanno pensare a tematiche troppo serie per
essere ascoltate in un normale giorno di pioggia, di sole e di vento di
una timida primavera come quella che stiamo attraversando.
“Sapevo esattamente cosa dire e a chi dirlo. Volevo scrivere un grande
brano, una sorta di pezzo simbolo con versi brevi e concisi, accumulati
in modo ipnotico l'uno sull'altro.”
Di Dylan potrebbe dirsi che è stato uomo per tutte le stagioni, come
accezione assolutamente positiva. Eppure questo giovane ventitreenne che
si affaccia alla canzone di protesta appare così sicuro e consapevole di
un ruolo non certo semplice. Ha dalle sue la spavalda certezza dei
vent'anni ed è un artista con una missione, come raramente sarà
nell'arco della sua lunga carriera. Il terzo disco che contiene solo
materiale autografo è lavoro serio, perentorio che suona davvero
biblico. Le sue più che canzoni, sembrano essere canti di chiesa. Una
chiesa laica e politicamente impegnata, ma che risponde a criteri
piuttosto precisi, codificati. Un giovane ossessionato dal folk, che non
nasconde le proprie influenze e che ammette di aver preso in prestito
alcune melodie da vecchi brani irlandesi e scozzesi. Due esempi su tutti
sono quelli di Restless Farewell dal tradizionale The Parting Glass.
Mentre la melodia di With God on Our Side proviene da The Merry Month of
May. La stessa title track ha qualcosa di già sentito, visto che affonda
nelle radici della tradizione. Aspetto che anziché penalizzarne il
valore, lo accresce, rendendo il brano riconoscibile e semplice da
memorizzare. Dal punto di vista squisitamente sonoro e musicale il disco
è tanto scarno quanto solenne. Tuttavia non mancano i lampi di luce e di
brio in un album che è principalmente cupo, teso, vibrante. Tra le cose
più solari, troviamo un brano arrembante come When The Ship Comes In,
che secondo la critica musicale deve qualcosa al brano Seeräuberjenny
(Jenny dei pirati) composto da Kurt Weill su testo di Bertolt Brecht.
Dieci brani dove oltre alle già citate spiccano composizioni come One
Too Many Mornings, una delle rare canzoni non dichiaratamente politiche
del disco, assieme alla splendida Boots of Spanish Leather, una sorta di
remake di Girl from the North Country. L'impegno torna protagonista in
brani come The Ballad of Hollis Brown, ballata amarissima che narra le
vicende di un contadino del South Dakota che travolto dalla disperazione
e dalla povertà uccide prima la moglie e i figli e infine sé stesso. Non
è un caso se questo brano ha ispirato molti anni dopo il regista David
Lynch che realizzerà una cover di questo brano per il suo disco The Big
Dream del 2013. Troviamo poi canzoni che faranno epoca come The Lonesome
Death of Hattie Carroll, ancora un brano su un omicidio e una grave
ingiustizia da denunciare, Only a Pawn in Their Game, dedicata
all'attivista dei diritti civili Medgar Evers, ucciso il 12 giugno del
1963 a Jackson, Mississippi. Da segnalare anche il brano North Country
Blues, tipica ballata del Minnesota, dove a raccontare questa storia di
lavori in subappalto nell'Iron Range, per la prima volta troviamo una
protagonista femminile. Radici folk profonde per un pezzo ancora una
volta drammatico e teso.
"Venite scrittori e critici che
profetizzate con le vostre penne e tenete gli occhi ben aperti,
l'occasione non tornerà. E non parlate troppo presto perché la ruota sta
ancora girando e non c'è nessuno che può dire chi sarà scelto. Il
perdente adesso sarà il vincente di domani perché i tempi stanno
cambiando."
Resta da dire della title track. Probabilmente una delle più famose
canzoni di Bob Dylan. In molti ritengono che catturi lo spirito di
sconvolgimento sociale e politico che ha caratterizzato gli anni '60. A
chiudere il cerchio, confermando le tesi secondo cui Dylan è uno dei
maggiori autori della sua generazione, ci penserà il monumentale brano
Murder Most Foul, pubblicato come singolo nel 2020 e che farà poi parte
del disco Rough and Rowdy Ways. Il brano tratta dell'assassinio del
presidente John F. Kennedy nel contesto della più ampia storia politica
e culturale americana. Come a dire che dopo quel fatidico 22 novembre
1963 qualcosa cambiò per sempre nelle vite di chi era presente. I tempi
sono cambiati, nuovamente. Per completezza si consiglia di ascoltare i
primi due volumi di The Bootleg Series 1-3, visto che molti outtakes di
valore assoluto provengono proprio dalle sessions di The Times They Are
a-Changin'. Chiude il disco un contenuto unicamente testuale. Si tratta
del poema che si trova sul retro del vinile: 11 Outlined Epitaphs. Quasi
a dire che il ragazzo avesse ancora delle cose da dire… oltre alla
mitragliata di parole già contenute nelle sue dieci canzoni da
consegnare alla Storia.
Lavoro importante e indispensabile, ma che raramente lascia spazio
all'immaginazione e concede tregua rispetto a una rovina imminente. Tra
le sue qualità troviamo la capacità di prevedere quel che accadrà 50
anni dopo. Non sempre la musica deve essere qualcosa di piacevole da
ascoltare, quando ci sono dentro parole di questo valore assoluto. Uno
dei dischi più ostici da ascoltare di Dylan, ma che vale comunque lo
sforzo. Soprattutto in momenti drammatici come quelli che stiamo
vivendo.
- Eh, dimmi, come ti vanno le cose?
- Qualche strike e qualche palla pesa.
- Come ti capisco!
- Ah. Grazie, Gary. Beh tu stammi bene. Torno alla partita.
- Certo. Prendila come viene.
- Sì. sì.
- So che lo farai.
- Sicuro, Drugo sa aspettare.
- Lunario musicale del Lockdown
(Speciale Maggie's Farm) -
Secondo un modo di pensare convenzionale, è più semplice scrivere di
argomenti che ci appartengono e che ci stanno maggiormente a cuore.
Personalmente ritengo sia un luogo comune da sfatare. New Morning di Bob
Dylan è uno dei motivi per cui mi sono avvicinato a questo autore. Era
il 1998 e al cinema usciva il film dei fratelli Coen, Il grande
Lebowski. Io avevo diciannove anni e mi trovato a Roma quando la
pellicola venne distribuita in Italia. Purtroppo tra le città dove il
film uscì non c'era Cosenza, quindi dovetti aspettare che venisse
riproposto per una rassegna di cinema d'essai in seconda visione.
Ero già un discreto appassionato di film
e tra i miei preferiti c'erano proprio i Coen assieme a Kubrick,
Scorsese, Lynch, Polanski e Quentin Tarantino. Dei Coen avevo amato e
mandato a memoria i vari Arizona Junior, Barton Fink, Blood Simple e
soprattutto Fargo. Non sapevo niente di questo nuovo film, ma appena
vidi il suo manifesto intuii che aveva del potenziale per essere
qualcosa di diverso, nuovo, divertente e stimolante, almeno per uno come
me. Di Bob Dylan sapevo che era un grande autore di testi e di canzoni,
ma non lo ascoltavo ancora, o meglio, conoscevo quei 15-20 pezzi che per
cultura personale e distratta, mi era capitato di beccare, in film, nei
passaggi radio o in trasmissioni tv a tema musicale tipo Help di Red
Ronnie. Ok, sto divagando. Flashforward: ho visto e rivisto Il Grande
Lebowski e grazie a una VHS mando a memoria il brano che accompagna i
titoli di testa del film. Si tratta di The Man in Me. Un pezzo "minore"
di Dylan, solo che qui non sembra il cantante che aveva imparato a
distinguere. È un cantante diverso, con un piglio allegro, quasi
ironico. Da qui in poi gradualmente cado nel vortice e nel pentolone
come un gallo da combattimento in preda al folk-blues. Grazie a un amico
comune recupero un po' di LP e mi metto sul mio giradischi Philips che
in quel momento fa ancora il suo sporco lavoro. Ascolto quindi dischi
come Infidels, Nashville Skyline, Another Side of Bob Dylan e
soprattutto New Morning. BOOM! Mi piacevano già alcune cose come Eric
Clapton, Sting, R.E.M., Neil Young e aveva iniziato ad appassionarmi a
Bruce Springsteen grazie a dischi come The River e Born to Run. Però
l'effetto che mi fece un disco sulla carta tranquillo e "minore" come
New Morning di Bob Dylan, pubblicato il 21 ottobre del 1970, me lo
fecero poche cose. Da lì fu una ricorsa matta per reperire tutti i
dischi, le musicassette e i cd possibili di Dylan. Ricordo che mio
fratello aveva registrato una trasmissione su Rai 3, Schegge, dove c'era
una porzione di uno speciale tv del 1976, HARD RAIN. Un vero battesimo
del fuoco sacro dylaniano per me.
New Morning non avrà il passo dei
capolavori anni sessanta e non sarà un disco che cambiò la storia della
musica, ma cambiò la mia vita, ed è per questo che ve ne parlo con
sentimento e a cuore aperto che sgorga emozione, ricordo, rabbia e
tensione. Prima di tutto non ci sono brani troppo lunghi. Quindi se uno
è leggermente curioso se lo può ascoltare e riascoltare anche 3-4 volte
al giorno. Questo è un approccio che mi direte si può applicare anche ad
altri dischi, non solo di Dylan, ma di tutto il pop minimale fini
sessanta e inizio settanta. Purtroppo però non sono un fan di Cat
Stevens o di James Taylor e scoprirò Elton John solo diverso tempo dopo.
Conoscevo già Joe Cocker e quando recuperai alcune sue cose mi fece
piacere ascoltare la sua versione un po' reggae di The Man in Me. Oggi
so che questo disco nasce da diversi approcci, tra cui la composizione
di una colonna sonora teatrale per un pièce di Archibald MacLeisch dal
titolo Scratch. Leggo con piacere uno dei capitoli più ispirati di
Chronicles - Volume 1, dedicato proprio a questo disco di transizione.
Tuttavia per essere un album meditativo e di transizione, New Morning ti
colpisce e ti abbaglia. Non ci sono riempitivi, le canzoni sono ben
eseguite e arrangiate. C'è Al Kooper assieme a uno stuolo di musicisti e
sessionmen di primordine e per l'ultima volta il suo autore viene
prodotto dal capace e tranquillo Bob Johnston. Si torna a New York negli
studi B ed E della Columbia con un pugno di brani coerenti. Non ci sono
le stravaganze hipster degli anni sessanta, ma troviamo comunque il
bell'affresco beat di If dogs run free, una canzone del repertorio
maggiore come If Not for You, che vanta alcune cover illustri come
quella di George Harrison e di Bryan Ferry, oltre la title track, la già
citata The Man in me e un nucleo di canzoni che vanno ad arricchire il
songbook dylaniano dopo le prove incerte (a livello di critica) di
Nashville Skyline e soprattutto di Self Portrait. Personalmente sono
trascorsi più di vent'anni da quando la puntina del mio giradischi si
poggiò su New Morning, ma lo ascolto come allora e ne traggo piacere.
Durante gli anni il valore di questi dischi di transizione è
notevolmente aumentato, grazie a cover, antologie e all'uscita del
Bootleg Series Vo. 10 Another Self Portrait. Di questo disco ci sono
canzoni che porto nel cuore: Went to See the Gypsy, che si ipotizza
fosse un omaggio a Elvis, e poi ancora, Three Angels e Sign on the
Window. Ricordo di aver assistito al soundcheck del cantautore Mimmo
Locasciulli, dylaniano doc, il quale per scaldarsi e per provare
microfono e voce eseguiva all'epoca questo pezzo. Ecco, questi sono quei
ricordi marchiati a fuoco nella memoria. Tatuaggi sonori che il tempo
non cancellerà mai, finché ci sarà spazio per raccontare la poetica di
un disco brillante e solare come New Morning di Bob Dylan. Non un
capolavoro, ma qualcosa di più di un amuleto portafortuna per il
sottoscritto.
Dario Twist of Fate
Se ti è piaciuto questo post ti invitiamo a visitare il Lunario Musicale
del Lockdown:
Impressioni sul brano "Murder Most
Foul" di Bob Dylan
Hey! Mr. Tambourine Man, play a song for me,
I'm not sleepy and there is no place I'm going to.
Hey! Mr. Tambourine Man, play a song for me,
In the jingle jangle morning I'll come followin' you.
Ci sono Shakespeare, Allen Ginsberg, Lee Harvey Oswald e una miriade di
rimandi e citazioni, in questo nuovo brano pubblicato, a sorpresa, il 27
marzo da Bob Dylan. Murder Most Foul, questo il titolo di un nuovo
capitolo della saga dylaniana, partita nel lontano 1962 con le prime due
canzoni scritte di proprio pugno, Talkin' New York e Song to Woody.
Il testo nella prima parte racconta dell'omicidio di JFK avvenuto a
Dallas, nello stato del Texas, quel maledetto 23/11/1963. Un'ossessione
tipicamente americana, visto che anche lo scrittore horror Stephen King,
vi dedicherà un pregevole romanzo di fantascienza, pubblicato nel 2011,
che avrà in seguito una riduzione televisiva, realizzata da J. J. Abrams
nel 2016, con protagonista James Franco. Da ricordare anche il
monumentale affresco filmico realizzato da Oliver Stone. nel 1991, con
un cast all-stars, guidato da un Kevin Costner in stato di grazia. Ma
sto divagando!
"Murder Most Foul" è la prima nuova canzone autografa di Dylan in otto
anni: un affascinante ritratto sul quadro storico dell'assassinio di
JFK, ricco di dettagli culturali pop e che fotografa, in modo nitido, il
terrore apocalittico e il mutamento sociale dell'epoca. Una ricca e
struggente cavalcata, dove il Nostro non lesina uno stile
dichiaratamente in debito nei confronti di Allen Ginsberg e della poesia
beat. Bob Dylan avrà forse percepito che era giusto pubblicare questo
brano, proprio ora che il mondo è alle prese con la pandemia da
Covid-19. Lui, più di altri, con il tempo e con la storia, ci gioca da
anni. Strano poi notare come ci sia stata simultaneità, per questo
brano, pubblicato lo stesso giorno in cui Papa Francesco prega per la
fine dell’Epidemia. Bergoglio prega sotto una dura dura pioggia, in un
clima da Giudizio Universale, che pare davvero fare da contraltare a una
canzone apocalittica del Dylan anni sessanta, settanta e novanta (sì,
ometto di proposito gli anni ottanta!). Non sarà il più grande
intellettuale in vita, ma di sicuro è tra gli artisti più influenti
della sua epoca, ed è ancora in vita. È un brano evocativo e di rara
potenza, almeno a livello testuale.
Una sorta di Requiem, sul sogno che tramonta. Sull'America idealista
degli anni sessanta, che ha sicuramente un legame forte e una
connessione con l'attualità. Non può essere un caso che questa canzone,
presumibilmente in archivio da anni, sia apparsa proprio oggi, dopo le
dichiarazioni di Donald Trump: un leader politico in cui Bob Dylan non
può certo rispecchiarsi, né riconoscersi. La morte che sfida la vita, la
rassegnazione contro la speranza. Ed è tutto racchiuso nei versi finali:
Play darkness and death will come when it comes
Play "Love Me Or Leave Me" by the great Bud Powell
Play "The Blood-stained Banner", play "Murder Most Foul"
Una perfetta e circolare chiusura del cerchio, con un brano che per
certi versi sembra ricordare e citare un altro pezzo epico ed epocale.
Un brano sulle speranze e sui sogni di una generazione, all'epoca forte
dell'energia vitale della giovinezza:
With all memory and fate driven deep beneath the waves,
Let me forget about today until tomorrow.
Che sia questo un congedo definitivo per il cantautore Premio Nobel per
la letteratura 2016?
John Wesley Harding - Il rock biblico
secondo Dylan
Mi ritiro dalle scene per produrre
rock biblico
Durante il dicembre 1967 Bob Dylan diede alle stampe il suo ottavo
lavoro discografico, John Wesley Harding.
Prodotto da Bob Johnston e registrato nuovamente a Nashville, con un
ristretto gruppo di musicisti, dove ritroviamo Charlie McCoy al basso,
Kenneth Buttrey alla batteria e la pedal steel guitar di Pete Drake in
due brani. Il resto lo fa Dylan che suona chitarra, piano e armonica. E'
un lavoro diverso rispetto ai tre dischi elettrici che l'hanno
preceduto. Anche a livello testuale e tematico vi sono differenze
sostanziali. Troviamo in questo contesto dodici brani, sei per facciata,
dove la traccia più lunga, The Ballad of Frankie Lee and Judas Priest
non va oltre i 5 minuti e 35 secondi.
Da quando il suo autore ha iniziato a produrre dischi autografi, non era
mai accaduto che desse alle stampe un numero cospicuo di canzoni tanto
brevi. In un paio di occasioni scendiamo sotto la soglia dei due minuti
e mezzo, segno che qualcosa era cambiato nella scrittura. Del resto
questo lavoro arriva dopo l'incidente motociclistico e dopo che Blonde
on Blonde aveva concluso la prima parte della sua carriera musicale. La
cosa incredibile sta nel fatto che Dylan non torna indietro alle
incisioni che lo avevano mostrato al pubblico. Il disco è una virata sul
country e contribuisce a gettare le basi per il concetto del back to the
roots, di cui oggi si continua a parlare. Nonostante i suoi testi siano
stati altre volte influenzati da riferimenti biblici, in particolare The
Times They Are a-Changin' del 1964, in questa occasione possiamo davvero
parlare del primo disco di rock biblico della storia. Anche stavolta il
tempo viene in nostro soccorso, in un contesto di analisi retrospettiva,
ma dobbiamo tentare di immedesimarci su cosa volesse dire dare alle
stampe alle soglie del 1968 un disco così "conservatore" e nel contempo
capace di andare oltre i fronzoli e la psichedelia imperante di quel
momento particolare.
Questo è un disco che è rimasto, mostrando il suo valore nel tempo e per
il tempo. Non si tratta di limitarsi a citare un classico come All Along
the Watchtower, che certamente merita un posto privilegiato non solo per
ciò che riguarda il suo autore, ma per la storia della canzone rock. È
un disco seminale e importante per il suo autore in primis e poi per
l’intero trend della canzone d'autore. Da questo momento in poi prenderà
piede e si delineerà un nuovo stile di composizione dei brani, il quale
dimostra come Dylan tornando sulle scene, sia capace di dettare una
linea da seguire. Certo, lo farà altre volte, ma qui ha ancora la forza
e la tenacia della giovinezza. I dodici brani che compongono l’album,
tra citazioni bibliche e modi di dire del linguaggio parlato, sono tutti
esemplari e daranno idee a una schiera di artisti e musicisti, di
diverso genere, che andranno ad attingere a questo tipo di canzoni. Da
Jimi Hendrix a Patti Smith, da The Black Keys ai Judas Priest, che
prenderanno il loro nome proprio dal brano di Dylan, gli esempi ancora
una volta si sprecano. In pratica siamo di fronte a un lavoro coeso,
ispirato e musicalmente brillante nella sua dichiarata semplicità. Non è
un caso se questo disco è considerato un album di svolta. L’artista che
torna a pubblicare dopo un anno e mezzo è molto diverso. Questi brani
sono sogni che si rivelano, in qualche luogo del passato, per il loro
minimalismo centrato, da autentico cecchino della canzone. Ora, se è
vero che i sogni sono dal principio un elemento importante per la
scrittura dylaniana, è evidente come qui vi sia una predominante
indeterminatezza piena di simboli e di significato. Le canzoni hanno la
capacità di aprirsi in molte direzioni e di essere letti secondo
differenti prospettive interpretative. Un lavoro innovativo e
sorprendente, specialmente se messo in relazione alla semplicità degli
arrangiamenti eseguiti con una strumentazione così scarna e al contempo
particolare. C’è qui una vera rinascita, che arriva attingendo in modo
consapevole dalle sorgenti del materiale originale.
Si gioca di sottrazione, ma questo non
significa produrre un lavoro lontano anni luce dalla trilogia Bringing
/Highway 61/Blonde, semmai si parla di dare un degno seguito a una fase
caratterizzata da capolavori di livello eccezionale. Le preferenze,
escludendo i due brani chiave, All Along the Watchtower, vero fulcro del
disco e la conclusiva I’ll Be Your Baby Tonight, che già anticipa nei
toni Nashville Skyline, sono del tutto personali e soggettive. La title
track è senza dubbio una canzone semplice e ispirata. Si passa così a
una sequenza come As I Went Out One Morning, I Dreamed I Saw St.
Agustine, Drifter’s Escape, Dear Landlord e Down Along the Cove, che
mostrano un Dylan capace come interprete e come scrittore. La voce
funzionale e duttile rispetto al valore dei brani fa un tutt’uno con la
sezione ritmica che accompagna questo disco in modo adeguato. Come se
non bastasse si tratta di uno degli album meglio invecchiati, a livello
musicale, viste le scelte minimali e bucoliche. Siamo infatti dalle
parti dell’alt country contemporaneo. Oggi possiamo ascoltare le belle
incisioni alternative presenti sul volume antologico The Bootleg Series
15 – Travelin’ Thru per farci un quadro più esaustivo e per riprendere
in mano questo grande affresco minimale che è John Wesley Harding.
Dedicare un disco al Vecchio Testamento potrebbe forse sembrare una cosa
eccessiva, oggi. Eppure in un decennio turbolento e un po' folle come
gli anni sessanta, sembra quasi un'idea innocente e una metafora di
protesta, come quella dei molti personaggi che affollano queste canzoni
e le sue liriche. Dylan era ancora al top e la sua ispirazione parte
proprio dalla Bibbia fino a raccontare di fuorilegge, di amori e follia,
tutti temi cari all’autore. Sembra una sorta di profeta sceso dalla
montagna per narrare le sue dure verità. Un comportamento che oggi
potrebbe sembrare eccentrico ed esagerato, ma che sembra essere in linea
con il personaggio di quel momento. Una ricerca di spiritualità che
avrebbe accompagnato il suo autore nel corso della sua lunga e ricca
carriera. Per fortuna in questa occasione molte critiche furono
lungimiranti e obiettive, indicando questo come uno dei suoi dischi
migliori, seppur diverso, all'interno di una discografia che fino a quel
momento non aveva mostrato ancora alcun segno di cedimento, a livello di
ispirazione e di furore poetico. Citiamo, tra le altre cose, "l'omaggio"
al poeta Wystan Hugh Auden di As I Walked Out One Evening. Dylan nella
sua As I Went Out One Morning canta di un uomo che offre una mano a una
donna in catene, ma si rende conto che lei vuole più di quello che offre
e che intendeva fargli del male. Appare un personaggio identificato come
Tom Paine, il quale "le ordina di arrendersi" e si scusa con il
narratore per le azioni della donna.
Gli scivoloni sarebbero arrivati a breve, ma durante quell'ultima
settimana del 1967 Dylan e la Columbia poterono ancora una volta
usufruire di una critica attenta, obiettiva e capace. Le cose sarebbero
repentinamente mutato, ma non è questo il momento. La Bibbia è la stoffa
con cui sono fatti i suoi testi migliori, come questi. Come ci ricorda
Northrop Frye, si tratta del Grande Codice della letteratura
occidentale. Bob Dylan che conosceva queste sfumature già nel corso
della sua giovinezza, continuerà a farne tesoro lungo una ricca carriera
costellata da successi, quasi tutti meritati, a nostro parere.
Non il capolavoro definitivo in cui il pubblico sperava, ma un tassello
fondamentale per quello che sarebbe venuto nei decenni successivi.
Fondamentale per la carriera del suo autore. Dico bene?
Slow Train Coming irrompe sulla scena
Gospel (1979)
Il mio nemico indossa un’aureola di
decenza
Bob Dylan è sempre stato un genio nel
sottoporci il suo apparato immaginifico e nel farci provare certi
sentimenti mostrandoci delle immagini ben precise. Così abbiamo questa
idea del lento treno che sta arrivando, come metafora ideale volta a
introdurre un nuovo tema, che sarebbe diventato il leitmotiv della fase
Gospel durata due anni e mezzo lungo i quali Dylan darà alle stampe tre
nuovi album con composizioni inedite. Visto oggi, attraverso un punto di
vista retrospettivo, tutto ci appare differente, più semplice da
recepire e da commentare. A quel tempo invece era più una cosa tipo:
“Bene, ci siamo giocati Dylan. Lui farà questi album cristiani per
sempre.” Abbiamo visto invece da vicino gli effetti sui fan dei cinque
dischi dedicati al Great American Songbook (periodo Sinatra) e di come
anche questa fase sia stata accolta con fastidio da parte di alcuni
fandom del cosiddetto zoccolo duro. Il punto della questione è che il
nostro autore, raramente è venuto incontro ai bisogni e ai desideri del
pubblico. Tuttavia, se oggi il 79enne musicista del Minnesota ha
tracciato un solco indelebile nella canzone nordamericana del secondo
Novecento, le cose stavano diversamente in quell’estate del 1979.
Bisogna capire il contesto in cui un disco come Slow Train Coming vide
la luce. Registrato ai Muscle Shoals Sound Studio di Sheffield, Alabama
e prodotto da Jerry Wexler e Barry Beckett questo disco si segnala come
uno dei migliori lavori, a livello tecnico ma pubblicati da Dylan. Il
merito è in larga parte della produzione e dei musicisti che prendono
parte alle sessions di Slow Train Coming. Lo stesso Beckett suona
tastiere e percussioni, mentre le coriste sono Regina Havis, Helena
Spring e Carolyn Dennis. Al basso troviamo il sempre valido Tim
Drummond, la batteria è suonata di Pick Withers dei Dire Straits. Anche
Mark Knopfler, con la sua chitarra contribuisce a delineare il sound di
questo disco, con un Dylan che sa bene cosa vuole: un suono potente e
robusto che vira decisamente sul funky. Non è un caso se Jann Wenner
definì il lavoro come uno dei dischi migliori che il suo autore abbia
mai realizzato. "Col tempo è possibile che arrivi a essere considerato
il suo lavoro migliore". Queste dichiarazioni probabilmente nel 1979
potevano risultare pretenziose e un po' esagerate. Tuttavia se andiamo a
ripercorrere la discografia di Dylan anni sessanta e settanta, in
termini retrospettivi, non è facile trovare un disco registrato e
suonato meglio rispetto a questo. L’apporto di ogni singolo musicista lo
fa suonare davvero potente, più incisivo rispetto alla media. Pur
muovendosi nei confini del genere gospel, il disco fa il suo dovere per
i suoi 46 minuti e 19 secondi. Le critiche sono più che positive, nella
maggior parte dei casi, in virtù di brani destinati a durare nel tempo.
Titoli come Gotta Serve Somebody, I Believe in You o Slow Train, così
come la seconda facciata dell’LP: tesa, vibrante e coerente.
“Cambierò il mio modo di pensare, mi darò un diverso codice di
comportamento. Cambierò il mio modo di pensare, mi darò un diverso
codice di comportamento. Devo partire col piede giusto e smettere di
essere influenzato dagli imbecilli.”
Quando nel 1979 Dylan diede alle stampe il suo 19esimo album in studio,
probabilmente non credeva potesse creare così tanto scompiglio tra il
pubblico e a livello di critica. La svolta Gospel del Nostro era
avvenuta già con l'album precedente, Street Legal (1978), un lavoro
accolto in modo piuttosto ostile, soprattutto in America a livello
critico, con il puntuale Greil Marcus a cui si aggiunge Dave Marsh, il
quale affermava di non aver capito lo scopo di questo lavoro. Una
critica che soprattutto in Europa suona indecifrabile visto il valore
dei brani e del risultato d'insieme per un disco che il pubblico ha
apprezzato fin da subito. Nel Regno Unito arrivò celermente al secondo
posto per la classifica di vendite. In sede retrospettiva c’è da capire
perché Dylan sia stato così spesso frainteso. Probabilmente ha avuto un
ruolo il suo eclettismo, musicale e testuale, aspetto che molte volte ha
spiazzato critica e pubblico. Nel 1979 l'autore aveva alle spalle già 17
anni di carriera, dove pesavano in maniera determinante le produzioni
realizzate negli anni sessanta a cui bisognava aggiungere due successi
come Blood on the Tracks e Desire. Lavori che erano stati accolti molto
bene dalla critica che li aveva salutati come un tanto atteso ritorno
sulle scene, senza perdere credibilità e con pezzi pregiati che andavano
ad arricchire in maniera sostanziale il suo repertorio. Brani come
Senior o altre cose contenute in Street Legal facevano presagire gospel,
inni e canti di chiesa, bianchi e neri sono centrali già nel disco che
aveva preceduto Slow Train Coming. Changing of the Guards ha qualcosa di
spirituale, oltre ai toni apocalittici, sembra quasi una marcia di tipo
laico ma che richiama appunto al gospel e agli inni sacri, seppur in
modo personale, come era solito fare l'autore durante i suoi lavori
passati.
Sant’Antonio predicava ai pesci per confondere le acque, mentre Dylan
registrava il suo primo album Gospel per ritrovare sé stesso, dopo un
decennio piuttosto complicato, ma non privo di guizzo, estro e
inventiva. Ascoltare Slow Train Coming dopo Trouble No More - The
Bootleg Series 13 aiuta molto in termini di rivalutazione critica
retrospettiva. La qualità delle canzoni, sotto il profilo sonoro è
sempre stato uno dei punti di forza di questo lavoro. La produzione e il
sound ancora oggi sono dominanti e danno la dimensione della potenza di
fuoco che Dylan e il suo ensemble erano capaci di produrre. Ma è
arrivato il tempo di rendere giustizia anche per quel che riguarda
l’ideologia e il lavoro di tipo testuale. Fatta salva qualche eccezione,
dove il nostro artista pare in debito di ispirazione, i testi sono di
buonissima levatura. Difficile trovare difetti in brani come Do Right To
Me Baby, Precious Angel, Gotta Serve Somebody e soprattutto Slow Train e
Gonna Change My Way Of Thinking. Purtroppo la critica militante anni
settanta di rende per l’ennesima volta colpevole del peccato originale:
dire a Dylan cosa deve fare, cosa deve suonare e che cosa dovrebbe
scrivere. Puttanate del tipico puritanesimo di matrice anglosassone.
Ancora una volta Greil Marcus non perde occasione per mostrare la
propria miopia quando si tratta di scagliare la prima pietra che rotola
nei confronti del suo amato-odiato Dylan. Il problema è che sono
critiche che accusano l’autore di non essere ironico, di prendere troppo
sul serio il tema evangelico, di furore messianico. Nella critica
scagliano saette e giudizi, senza ascoltare il proprio cuore e senza
avere un punto equidistante che si richiede a chi si occupa di critica
musicale. Come al solito, il tempo darà ragione all’artista, ma non è
certo una novità. Diciamo pure che già a partire dal lavoro che lo aveva
preceduto, la critica Usa perderà di vista Dylan, per poi ritrovarlo
solo nel 1983, quando darà alle stampe Infidels. Ed è un peccato perché
questa fase gospel merita una adeguata rivalutazione in sede critica. Ci
siamo anche un po’ stancati di leggere nel 2021 certe critiche prive di
senso estetico e figlie di preconcetti su cosa sia gospel e cosa possa
essere accettato da un artista che in quasi sessant’anni di carriera
discografica ha toccato con mano sensibile ogni genere, arrangiamento e
stile appartenente alla tradizione della canzone nordamericana. Risulta
poi incomprensibile non accorgersi dei legami tra questo lavoro e alcuni
illustri predecessori come John Wesley Harding e The Times They Are
a-Changin’. Probabilmente i crediti illimitati in sede critica si erano
esauriti, visto che oggi possiamo con facilità e coerenza collocare Slow
Train Coming tra i tasselli a tema religioso e spirituale di un autore
che non ha mai nascosto il proprio punto di vista sul mondo, a volte
inattuale e scomodo, a volte solo in anticipo sui tempi. Questo album
dice è in arrivo un cambiamento per l’umanità. Un messaggio coerente per
un autore che aveva scritto i tempi stanno cambiando.
Slow Train Coming è senza dubbio uno dei dischi che ha risentito di un
giudizio poco obiettivo e centrato della produzione dylaniana. A nostro
parare è musicalmente tra i migliori 10 album mai realizzati dal Nostro.
Vecchio Testamento permettendo!
Questo lento treno è destinato alla Gloria!
Dario Twist of Fate
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Infidels
Nessuno canta il blues come Dylan
All'inizio degli anni Ottanta, Dylan si ritrova per la prima volta nella
posizione di non essere né un prodotto commerciale alla moda né un
artista di tendenza secondo la critica. Le mode dominanti dei tardi
Settanta e dei primi Ottanta erano il punk, la new wave, il funk e la
disco, generi dai quali Dylan era molto lontano, nonostante le sue
contaminazioni in chiave di soul music, proprio di quest'epoca. Il suo
ultimo successo commerciale risaliva al 1979, quando Slow Train Coming
fu un grande successo, portandogli in dote il suo primo Grammy per
merito del singolo Gotta Serve Somebody. Nonostante le tematiche
religiose e una musica notevolmente in debito nei confronti del gospel,
Dylan aveva chiuso in attivo un decennio caratterizzato da alcuni alti,
ma parecchi bassi. Non ci fu mai un annuncio ufficiale o qualcosa di
simile, ma Infidels segnò il ritorno per Bob Dylan alla musica laica o
quantomeno a materiale privo di riferimenti cristiani espliciti. Va
detto che i richiami religiosi non sono mai mancati nei suoi lavori,
infatti sarebbero continuati anche in futuro. Comunque questa è un'altra
storia, questo è Hemingway!
Infidels è il 22esimo album in studio di Bob Dylan. Viene rilasciato il
27 ottobre 1983 per conto di Columbia Records. Lo avevano preceduto tre
lavori definiti dalla critica album "cristiano-evangelici" come Slow
Train Coming, Saved e Shot of Love, anche se a onor del vero solo il
secondo era stato un disco propriamente estremista nei toni e nelle
liriche, dato che già Shot of Love in diversi episodi se ne discosta,
musicalmente e a livello testuale. Infidels, tranne per qualche brano
poi scartato in fase di editing e di missaggio, rappresenta il ritorno
alla cosiddetta musica secolare. È un buon successo, a discapito di
critiche circa la scaletta definitiva che lo andrà a comporre.
Innegabile lo sforzo di essere attuale e contemporaneo. A tal proposito
l'eminente Paul Zollo dirà nel tempo: "Infidels non ha perso nulla del
suo potere, a differenza di tanti album del passato. Forse ha il suono
migliore tra i suoi lavori in studio. Il suo genio è profondamente
rispecchiato in ciascuno dei brani. Esclusioni a parte, resta uno dei
suoi migliori dischi.
Sotto il punto di vista musicale il disco è saldamente nelle mani di
Mark Knopfler, nella doppia veste di chitarra solista e di produttore.
Fonti molto vicine all’artista dicono che in lizza per questo disco ci
fossero David Bowie e Frank Zappa. Venne scelto invece il chitarrista di
Glasgow, probabilmente più in linea con il feeling delle canzoni e che
già aveva collaborato con Dylan in studio nel 1979. Lo affianca una band
di livello eccellente, dove spicca la chitarra dell'ex Stones Mick
Taylor, mentre la sezione ritmica è composta da Sly Dunbar e Robbie
Shakespeare. Alle tastiere, Alan Clark.
Infidels è la chiara istantanea di un autore che si esprime con
consapevolezza ai massimi livelli, sotto ogni punto di vista:
performativo, musicale e testuale. Un performer al massimo,
consapevole di avere le carte in regole per tornare. C'è chi sostiene
che questo poteva essere il miglior disco dai tempi di Blood on the
Tracks se non addirittura superiore. E invece... è un dannato
capolavoro! Basti pensare al fatto che questo lavoro ha ispirato artisti
del calibro di Caetano Veloso, Tom Petty, Jimmy LaFave, Built to Spill e
Craig Finn i quali nel corso degli anni gli renderanno omaggio
riprendendo alcuni dei pezzi migliori di questo lavoro.
Pochi dischi del Dylan post anni sessanta possono contare sulla solidità
e la compattezza di questo album. Otto brani, quattro per ogni facciata
con pezzi di valore assoluto come Jokerman, Sweetheart Like You, License
to Kill e I and I, che da soli valgono già il disco. Ai quattro gioielli
vanno poi aggiunti i seguenti brani: Dont' Fall Apart on me Tonight,
Union Sundown, Man of Peace e Neighborhood Bully. La critica (per una
volta benevola verso questo lavoro) resterà un po' spiazzata facendo
spallucce quando Dylan utilizza l'arma dell'ironia venendo il più delle
volte frainteso e scambiato per un lamentoso reazionario. Riascoltando
oggi alcune canzoni verrebbe da dire che l’autore abbia un atteggiamento
da boomer, quando afferma:
Le mie scarpe vengono da Singapore, le mie tovaglie dalla Malesia, la
mia cintura con la fibbia dall'Amazzonia. Questa camicia che indosso
viene dalle Filippine e la macchina che sto guidando è una Chevrolet
fabbricata in Argentina. Questo abito di seta è di Hong Kong, il collare
del cane è dell'India e il vaso di fiori è del Pakistan. Tutti i mobili
recitano "Made in Brazil".
Eppure un artista sul viale del tramonto non avrebbe dato alle stampe un
disco così compatto, lucido e coerente. E poi, sorpresa delle sorprese,
il meglio che aveva scritto (e registrato) non è neppure presente sul
disco. Ci sono infatti almeno tre brani che avrebbero reso l'album se
possibile più valido e di maggior peso specifico. Blind Willie Mc Tell,
Death is Not The End, Lord Protect My Child, Foot of Pride, Someone's
Got A Hold Of My Heart, Clean Cut Kid, Tell Me avrebbero costituito
l'ossatura per un ottimo doppio album. Un ritorno? Forse, anche se per
alcuni fan toccherà attendere ancora qualche anno. E' difficile
giudicare in termini negativi un disco che lavora per sottrazione e che
rinuncia a pezzi pregiati in nome di compattezza e coerenza in virtù del
messaggio che vorrebbe lanciare. Dylan qui è uscito dall'ubriacatura
religiosa e ritorna con la voce più credibile, quella del suo glorioso
passato. Non più la voce di una generazione, visto che sono cambiate
molte cose, ma un lucido visionario, che ha letteralmente superato le
fiamme dell'inferno per tornare dai peccatori a raccontare una poco
lieta novella. Peccatori? Meglio dire infedeli.
Considerazioni personali su Infidels (e sul brano Blind Willie Mc Tell)
Quanta potenza e quanta rinuncia c'è in questo disco, in questa prova in
studio. Non è facile scrivere e argomentare su quello che poteva essere,
ma non è stato. Eppure noi qui sappiamo come andranno le cose. Basta
avere la volontà di riavvolgere il nastro. Basta acquistare un biglietto
e se sei fortunato il tuo numero uscirà. È stato così per noi, è stato
un gioco dove non c'erano vincitori e sconfitti, perché questo treno non
porta più prostitute e biscazzieri, perché nessuno ha più occhi per
vedere e sogni da infilare sotto cuscini improvvisati. C'è un pianoforte
e una chitarra che suonano magnificamente e c'è una voce che si staglia.
Non sembra bella, ma è urgente e sincera. È la voce di Bob Dylan. Il
canto di un menestrello in preda ai deliri di un blues ancestrale e
solitario. Infidels è il disco che poteva essere e non è stato. Blind
Willie Mc Tell è una riflessione sulla fine dei tempi. Eppure Infidels
resta ancora oggi un'idea di viaggio sonoro preciso, puntuale,
consapevole che ci consegna una delle migliori canzoni dai tempi di Mr.
Tambourine Man, quella splendida, ipnotica, meravigliosa, Jokerman. Una
sorta di nuovo alter ego, dove l’autore e il performer trovano adesione
e immedesimazione totale, quasi mimetica. Nessuno ora canta il blues
come Bob Dylan. Nemmeno Dylan stesso!
Nella sua lunga produzione discografica, Bob Dylan ha prodotto 39 album
in studio, molti dei quali non sono certo dei capolavori. Nashville
Skyline non rientra tra questi, eppure è uno dei suoi lavori più
divertenti, leggeri e frizzanti. La produzione vira in modo evidente
verso il country, quel tipo di musica che oggi viene giustamente
chiamata Americana. È un lavoro che ricevette una buonissima accoglienza
da parte del pubblico, arrivando al primo posto nel Regno Unito e al
terzo in Usa. Siamo certi che forse nel corso del tempo, sia stato amato
e apprezzato anche in Italia, visto che è citato da autori come De
Gregori e Baglioni e se pochi brani furono considerati tra le sue
composizioni più memorabili, bisogna considerare il successo da
classifica ottenuto dal singolo Lay Lady Lay. Questo brano era stato
scritto in origini per la colonna sonora del film Midnight Cowboy con
Dustin Hoffman e Jon Voight. Tuttavia la canzone venne scartata e gli fu
preferita invece Everybody's Talkin' di Fred Neil, interpretata da Harry
Nilsson, che ebbe un successo straordinario. Per la prima volta Dylan
incide un brano strumentale, The Nashville Rag, stesso discorso sul
fronte dei duetti: il disco si apre con la riproposizione a due voci di
un suo classico contenuto nel secondo disco, Girl from the North
Country. Il duetto con Johnny Cash è memorabile e per lungo tempo
resteranno inedite le altre tracce eseguite assieme, oggi finalmente
raccolte nel Bootleg Series Vol. 15 Travelin' Thru. È interessante
notare come l'album sembri continuare laddove il precedente si era
concluso.
I'll Be Your Baby Tonight chiudeva il precedente John Wesley Harding,
mostrando la via per la nuova direzione musicale che l'autore avrebbe
percorso con il suo lavoro successivo, Nashville Skyline appunto. Una
cosa che balza subito all'occhio e all'orecchio di questo nono album,
rilasciato il 9 aprile del 1969, le cui sessioni guidate dal produttore
Bob Johnston si tennero proprio nella capitale dello Stato del Tennessee
tra il 12 e il 21 febbraio dello stesso anno, è la durata. Disco snello
e agile, non solo non arriva a trenta minuti, come durata complessiva,
ma fatto più unico che raro, non contempla brani troppo strutturati nei
testi e nella durata, appunto. Si pensi che la traccia più lunga, non va
oltre i tre minuti e quarantatré secondi, mentre quella più breve,
Country Pie, dura appena un minuto e trentanove. Pensiamo che ciò
avviene molto prima rispetto all'urgenza del punk-rock (genere che non
c'entra nulla con questo disco) e che risulta insolita, visto che Dylan
ha pubblicato brani celebri e importanti che arrivano anche a dieci
minuti di durata.
Tra gli episodi più significativi bisogna citare oltre alla prima
traccia, eseguita in duetto con l'amico e collega Johnny Cash, almeno
altre quattro tracce: I Therew It All Away, Lay Lady Lay, il pezzo che è
rimasto di più del disco, Tell Me That It Isn't True, con un
arrangiamento solido e brillante, scelta piuttosto particolare per gli
standard dylaniani del periodo e la chiusura, affidata alla stupenda
Tonight I'll Be Staying Here With You, brano che avrà una seconda vita
durante il tour della Rolling Thunder Revue nel 1975.
Nashville Skyline ha il difetto di essere un album allegro e brillante,
per certi versi molto erotico e sensuale. Dotato di un timbro vocale
differente, che può spiazzare al primo ascolto, visto che Dylan aveva
dichiarato di aver smesso di fumare in quel periodo, secondo Marshall
Chapman è un disco sexy, dove è la semplicità della musica a rendere
tutto così potente. Sembra che Dylan stia cercando di semplificare
mantenendo un basso profilo da signorotto di campagna, tornando alla
terra, tagliando la legna e seguendo l'esempio di Walden di Henry David
Thoreau e delle Foglie d'erba di Walt Whitman.
Eppure l'uomo che registra Nashville Skyline si avvale di alcuni
musicisti locali che rispondono ai nomi di Norman Blake, Kenneth
Buttrey, Charlie Daniels, Bob Wilson, Charlie McCoy, Pete Drake e Carl
Perkins. Per chi conosce la musica in modo più approfondito, qui
verrebbe da esclamare, giustamente: - Alla faccia del disco minore!
Subito dopo la pubblicazione di Nashville Skyline gli studi di
registrazione e i musicisti utilizzati da Dylan diventeranno molto
gettonati e richiestissimi. E probabilmente senza questo album,
giudicato a torto o a ragione un disco minore, non ci sarebbe stato
Harvest di Neil Young, o meglio, non sarebbe stato quel grande successo
di critica e pubblico che il disco ha ottenuto. Non ci sembra affatto
una questione marginale, a ben vedere.
È notte nella grande città. Una donna cammina a piedi nudi, con le
scarpe a tacco alto in una borsetta. Un uomo si ubriaca e si rade i
baffi. Un gatto rovescia una lampada. Un poliziotto fuori servizio
parcheggia di fronte la casa dell’ex moglie.
(Theme Time Radio Hour)
Modern Times è il 32esimo disco pubblicato da Bob Dylan per la Label
Columbia. Come il precedente "Love And Theft" anche questo lavoro viene
prodotto da Dylan e suonato con la band che in quel periodo lo
accompagnava in studio. Per molti versi questo disco sembra una sorta di
sequel del lavoro precedente. La critica ha parlato di una "potenziale
trilogia" che andrebbe a concludere il discorso sonoro intrapreso con
Time Out of Mind. Aspetto che tuttavia lo stesso autore ha escluso,
affermando che se ci sarà una trilogia, questa è iniziata con Love And
Theft. Diamo quindi per buone le dichiarazioni di un autore che nel
tempo si è ammorbidito, sostituendo al suo stile di intervista criptico,
una trasparenza che solo chi è in netta malafede può non riconoscergli.
L'autore che si affaccia al pubblico nel 2006 è in effetti un nuovo
performer, sotto molti punti di vista. Oltre a prodursi con successo i
suoi dischi, Dylan ha infatti realizzato successivamente alla sua ultima
prova in studio: un film, Masked And Anonymous (flop al botteghino, cult
per i fedelissimi) un libro autobiografico (Chronicles), ma soprattutto
il suo programma radiofonico Theme Time Radio Hour, che andrà in onda
dal 3 maggio 2006 fino al mese di aprile del 2009.
Oltre alle uscite antologiche della
Bootleg Series, giunte al volume numero sette, nel 2005 viene realizzato
il film documentario No Direction Home, diretto da Martin Scorsese, che
ripercorre la vita di Bob Dylan dai primi passi fino all'incidente in
moto del 1966. Così per avere un quadro più esaustivo del momento
storico e artistico, il Nostro cantautore americano preferito, è vivo e
vegeto, quando darà alle stampe questo Modern Times. Disco stravagante e
illuminato, riceve ancora una volta il plauso della critica unanime,
salvo poi rivedere questa posizione quando il disco venderà bene (forse
troppo!) , per via della mancanza dei soliti crediti, furto con scasso e
plagi che Dylan opera con la solita capacità di tombarolo che gli
andrebbe una volta per tutte riconosciute! Un Dylan in versione Arsenio
Lupin.
Stavolta di suo ci mette giusto la voce e la firma, almeno a sentire
certi giudizi. Il titolo richiama al noto film di Charlie Chaplin del
1936, mentre molte canzoni sono in debito per quanto riguarda la
struttura musicale e il contenuto testuale. Oggi, 2021 sappiamo bene che
questo sarà uno degli ultimi lavori autografi (o semi-autografi) in 15
anni di attività musicale. Nonostante le polemiche, a nostro parere
risibili, a causa dei testi simili a quelli del poeta Herny Timrod più
qualche oscuro blues, Modern Times è un successo clamoroso, sia in
termini di pubblico che di critica.
Diverse riviste lo indicano come disco dell'anno e anche il rating
attuale lo colloca tra i grandi capolavori, visto che oscilla tra il 9 e
il 10 e tra le quattro e le cinque stelle, su prestigiose testate quali
Uncut, Rolling Stone, Mojo e The Guardian. Per Joe Levy di Rolling Stone
l'album il "terzo capolavoro consecutivo" di Dylan, mentre Uncut lo ha
definito un "sequel diretto e audace" di Love and Theft. Secondo Robert
Christgau è un lavoro sorprendente capace di sprigionare bellezza con
quella calma osservante da vecchi maestri che hanno visto abbastanza la
vita per essere pronti a tutto. Si passa dal poeta William Butler Yeats
a Matisse fino a giungere dalle parti di Sonny Rollins. Jody Rosen
definisce Modern Times un lavoro migliore di Time Out of Mind e del
maestoso Love And Theft: una delle migliori opere di Dylan dai tempi di
Blood on the Tracks. Sul fatto che si possa definire un capolavoro
senile moderno, siamo tutti d'accordo.
La band coinvolta vede uno stravolgimento della line-up rispetto a Love
And Theft, dato che l'unico superstite è Tony Garnier al basso. Per il
resto troviamo due nuovi chitarristi, con Denny Freeman e la vecchia
conoscenza di Stu Kimball, il batterista George G. Receli, che da lì in
poi sarà una presenza stabile per un lungo periodo e il polistrumentista
Donnie Herron, che suona diversi strumenti a corda, dal vivo così come
in studio. Il suono è questa volta meno calibrato e questo non sempre
giova a bani che mediamente superano i sei minuti, ma l'atmosfera e
l'intensità di certe performance, di alcuni versi e del disco, è più che
riuscita, tanto che Modern Times se possibile sarà un successo maggiore
rispetto ai due dischi che lo hanno preceduto. Vi sono senza dubbio
almeno tre nuove canzoni che possono assurgere al ruolo di nuovi
classici dylaniani. Il numero di rimandi, citazioni, strizzatine
d'occhio è ancora una volta elevato. Questo lo si nota fin da subito
dato che ad esempio il titolo del brano Workingman's Blues #2 è una
citazione al brano di Merle Haggard del 1969, Workin' Man Blues. Come
con il precedente disco si respira ancora una volta musica di genere
blues, rockabilly e ballate pre-rock, in una parola: Americana.
Le canzoni che restano saranno principalmente le seguenti: Nettie Moore,
Thunder on the Mountain, Workingman's Blues #2 e soprattutto Ain't
Talkin'.
In merito a quest’ultimo brano è utile ricordare il punto di vista di
Greil Marcus: “Dopo aver pronunciato le prime parole del testo, Dylan
scompare. Sembra che a cantare il brano sia un’altra persona anziché il
cantante che pensiamo di conoscere. Questo brano non ha una conclusione,
e con le prime parole, Mentre uscivo, viene gettata un’ombra.” Il pathos
e la capacità di farci vivere quell’istante in modo così vivido e reale
è una qualità a cui raramente un disco e una canzone pop potranno
ambire. Eppure Bob Dylan ci riesce e non ci conduce per mano in un posto
sicuro. Tutto il contrario. C’è sgomento, thrilling, panico assoluto.
Dylan esce allo scoperto in quanto è mosso da un autentico desiderio di
puro istinto: la vendetta. L’autore dopo essere uscito e aver effettuato
un percorso si ritrova in un mistico giardino. Sta parlando forse del
suo Getsemani. Il brano resta irrisolto musicalmente e il testo si
conclude con questi versi: Non parlo, soltanto cammino, su per la
strada, dietro la curva. Brucia il cuore, ancora si strugge, nell'ultima
retrovia alla fine del mondo.
Morale della favola
Nel 2006 Bob Dylan partecipò a un concorso per sosia di Charlie Chaplin
a Montecarlo e arrivò terzo, ex aequo con Arsenio Lupin.
Questo post è dedicato alla memoria dello
scrittore Larry McMurtry.
Dario Twist of Fate
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Love And Theft (2001)
Dopo aver realizzato dischi nuovamente all'altezza
del proprio nome come Oh Mercy e soprattutto Time Out of Mind, Bob Dylan
torna ancora, con un suo nuovo lavoro autografo. O meglio,
semi-autografo. "Love And Theft" è il 31esimo disco in studio, ed è
stato registrato ancora una volta a New York City, nei Clinton
Recording, durante il mese di maggio. In cabina di regia, utilizzando lo
pseudonimo di Jack Frost, c'è proprio Dylan, che si occupa della
produzione. Novità importante, visto che da questo momento in poi sarà
l'autore stesso a produrre i suoi futuri lavori discografici. Non è del
tutto una novità: molte volte era stato proprio lui a dirigere i lavori,
incluso lo stesso Time Out of Mind, che per molti aspetti era una
co-produzione con Daniel Lanois. Importante sottolineare poi il ritorno
a New York, in un momento storico specifico e dopo tanto girovagare. Era
dai tempi di Empire Burlesque, ma soprattutto da Infidels, che Dylan non
registrava in quella che a buon diritto può essere considerata la sua
città d'adozione oltre che la seconda casa, musicalmente parlando. E
così dopo tanti viaggi, Dylan giunge in sala d'incisione e lo fa con la
sua abituale live band. Non una backing band qualsiasi, visto che può
contare sull'elasticità e sulle dinamiche di una sezione ritmica
perfettamente rodata on the road, ma soprattutto su ottimi strumentisti
come Larry Campbell e Charlie Sexton. I due sono perfettamente a loro
agio in questa prova in studio. Capaci di mostrare fin dalle prime
battute tutto il loro armamentario e il giusto feeling per portare a
casa un ottimo lavoro. Tony Garnier, il bassista che lo segue dal vivo
già da qualche anno, qui è alla sua seconda prova in studio, dopo il
fortunato "esordio" di Time Out of Mind.
L'atmosfera che si respira è davvero buona e raramente abbiamo sentito
Dylan così allegro, frizzante e motivato, rispetto a questa prova
discografica. Il merito è legato al materiale che porta in sala di
registrazione, ma anche ai premi ottenuti negli anni che lo hanno
preceduto. Non bisogna dimenticare che "Love And Theft" sia il primo
disco dopo l'Oscar per la miglior canzone vinto con Things have changed.
Dylan però non è certo il tipo a cui piace cullarsi sugli allori. Qui
sale in cattedra con un lavoro solare, pulito nei suoni e con un
imponente armamentario caratterizzato da suoni di impostazione roots
rock, blues, country, jazz. In pratica quella che oggi viene definita
Americana. Un genere che in pratica egli stesso ha contribuito a
ridefinire e plasmare nella cantina coi fidati The Band. Naturale che
Dylan si senta a suo agio a produrre, registrare e cantare questo
particolare tipo di canzoni. Nonostante ciò, bisogna sottolineare come
il lavoro rappresenti una novità importante a livello musicale. Il
cantautore introduce un nuovo importante elemento all'interno del suo
percorso sonoro. Per la prima volta infatti si confronta con un tipo di
canzone antecedente al folk revival e al rock: dopo lo swamp-rock di
Time Out of Mind, il Nostro ci riporta alle atmosfere Vaudeville e a
tutto il contesto che aveva reso importante il Tin Pan Alley. Il titolo
è preso in prestito dal volume Love & Theft: Blackface Minstrelsy and
the American Working Class, scritto dallo storico Eric Lott e pubblicato
nel 1993.
La fotografia che viene rilasciata ci mostra un autore sorridente e
beffardo, che si diverte moltissimo a mettere in atto i suoi scherzi
tremendi. Con la complicità di una band che suona a memoria, più
l'intervento del grande tastierista texano, Augie Meyers, Dylan sale in
cattedra ancora una volta con il suo stile di scrittura surrealista e
cubista. I testi sono dei veri e propri flash, inchiodati in una cornice
di grandi riff di chitarra: fraseggi e scambi che Larry Campbell e
Charlie Sexton sono capaci di produrre e concepire, spesso improvvisando
sul ritmo messo in piedi dallo stesso Dylan e dalla sezione ritmica
guidata dal drumming di David Kemper. Per Wesley Stace "Love And Theft"
rappresenta un passo in avanti, dopo la tristezza dominante e il suono
gonfio e gommoso di Time Out of Mind. Ci sarà un motivo certamente
plausibile se in tanti non amano i dischi di Dylan "allegri" e giocosi,
fatta esclusione per titoli come Blonde on Blonde e Highway 61
Revisited. Eppure Dylan è capace di creare un linguaggio assolutamente
nuovo attraverso cui esprimersi. Uno stile che gli calza a pennello e
che non aveva fin qui mai utilizzato. Si tratta di un linguaggio fatto
di scherzi pesanti, possiamo dire. La cosa incredibile è che la musica
copre interi decenni, che hanno preceduto il suo ormai distante esordio
del 1962. Non è certo un caso se queste canzoni vengano messe su nastro
proprio mentre il suo autore stava per compiere 60 anni. Con Dylan
sappiamo bene come il tempo assuma un'importanza considerevole. Andiamo
a ritroso dai blues anni venti allo swing, passando per il pop fino ad
arrivare a Elvis. Ed è qui che il disco prende quota, attraverso ritmi
indiavolati e chitarre infuocate.
C'è però un aspetto che bisogna sottolineare, dopo l'amore tocca al
furto. E Dylan stavolta saccheggia, come può, tutto ciò che gli sta a
cuore. Passiamo da Dock Boggs a Gene Austin, da Robert Johnson ai
riferimenti espliciti di Big Joe Turner from Kansas City, fino al
Charley Patton di High Water Everywhere, pezzo Delta blues, registrato
nel 1929. Difficile individuare la citazione del brano Po' Boy, visto
che con lo stesso nome abbiamo questo incredibile sandwich a cui il
testo sembra fare riferimento, ma siccome il disco è un esempio
esplicito di amori e ruberie, potrebbe esserci anche qui un riferimento
ai mentori Elvis Presley e Woody Guthrie. La critica, tanto per cambiare
si è diverte a fare le pulci ai testi quanto ai debiti di scrittura
musicale. Eppure il disco andrebbe giudicato e considerato nel suo
insieme, dato che sotto questo punto di vista funziona alla grande!
Questa volta ci si diverte, si balla, pestando il piede a tempo. E ci
sarebbe anche da capire cosa c'è di male nel rivalutare e rilanciare
canzoni dimenticate degli anni '20 e '30 del secolo scorso. A questo
punto mettiamo dietro la lavagna i vari Eric Clapton, Mark Knopfler, Van
Morrison e Neil Young, dato che anche loro hanno dedicato metà carriera
a rimaneggiare standard blues, country e folk.
Il problema è che questo gioco a Bob Dylan riesce meglio, visto che gli
vale premi, dischi d'oro e una considerazione critica, storica e
letteraria che probabilmente i suoi illustri colleghi non riceveranno
mai. Nel 2015 in un raro intervento dal vivo, Dylan dirà che nelle
recensioni a lui riservate i critici vanno a guardare sotto ogni pietra
nel tentativo di riportano alla luce tutto quel che trovano. È
possibile, ma è anche vero che nessun collega ha mai ricevuto il plauso
unanime della critica, intercettando, per così tanto tempo, gli
interessi di legioni di adepti, fandom ed estimatori di musica. Di
questo dovrebbe rallegrarsi, riteniamo. Greg Kot sul Chicago Tribune ha
scritto di Love And Theft: "I miti, i misteri e il folklore del Sud come
sfondo per uno dei migliori album roots rock mai realizzati". Dodici
brani, ognuno a suo modo importante e indispensabile per tracciare la
nuova rotta musicale e sonora del suo Autore. Ogni traccia ha il suo
valore e peso specifico, anche se forse alla lunga quelle che sono
rimaste sono il nucleo swingante comprendente Bye and Bye, Floater,
Moonlight, Po’ Boy a cui è giusto aggiungere la ballata finale Sugar
Baby, il ritmo incalzante bluegrass di High Water e la sferragliante
apertura di Tweedle Dee & Tweedle Dum.
Interessante notare un aspetto inusuale per il Nostro autore. Il
recupero del brano Mississippi, outtakes di Time out of mind già inciso
tre anni prima da Sheryl Crow. Dopo i precedenti illustri di brani del
valore di Blind Willie McTell, Foot of Pride, Series of Dreams e Dignity
solo per limitarci a quelli più evidenti, Dylan stavolta corre ai ripari
e si assicura uno dei suoi pezzi pregiati per rinforzare un disco che
per lui rappresenta una nuova sfida e l’inizio di un nuovo percorso
musicale e di metodo di lavoro. Perché, aspetto che pochi hanno
evidenziato, il suo metodo di lavoro ricorda più quello dei sapienti
artigiani, dei mastri ferrai che dei pittori italiani del Rinascimento.
Amore e furto, va benissimo, ma anche un Riportando Tutto a Casa Volume
2, sarebbe stato titolo appropriato e funzionale, crediamo.
Capolavoro brillante e unico. Disco prezioso da ascoltare nei momenti di
sconforto e di malumore. Uno dei suoi 5-6 lavori migliori.
N.B.- Siamo consapevoli del fatto che il disco sia stato pubblicato l’11
settembre 2001, ma pensiamo si tratti di una spiacevole coincidenza. In
altre sedi questo potrebbe costituire elemento di analisi e di
congetture, che ci sentiamo qui di eludere, per ovvi motivi.
Quando Bob Dylan scrive i nuovi pezzi per quello che sarà il suo 23esimo
disco in studio, la cosa che gli sta più a cuore è dimostrare, (a sé
stesso) di poter stare sul pezzo ed essere competitivo con la musica che
gira intorno. Un po’ quello che era stato il chiodo fisso della seconda
metà dei settanta e che sarà croce e delizia durante uno dei decenni più
bui per lui e per le vecchie glorie del rock e del pop. Gli anni ottanta
non lasciano scampo, per tutti quelli che non sanno creare roboante
musica da stadio. Basti pensare ad artisti come Bruce Springsteen e Joe
Cocker, i quali pur riuscendo a produrre grandissima musica, finiranno
per snaturarsi, soprattutto in rapporto al pubblico e a quel modo di
produrre musica così intimo e speciale del decennio precedente. E Dylan
tenterà di percorrere la stessa strada di tutti gli altri big che
avevano iniziato a fare musica a cavallo tra i ‘60 e i ‘70. Per farlo si
avvale di uno stuolo di musicisti di altissimo livello. Basti leggere
con attenzione i crediti di Empire Burlesque per farci un'idea. Ci sono
pezzi importanti di Tom Petty and The Heartbreakers, così come alcuni ex
e attuali Rolling Stones, e trovano spazio perfino due membri della E
Street Band (ma che poi nel disco non si sentiranno), senza contare i
suoi fidati Al Kooper, Jim Keltner, Robbie Shakespeare, e le prime
apparizioni di musicisti come Stuart Kimball, Benmont Tench con qui da
qui in poi stringerà un sodalizio destinato a durare nel tempo. Dietro
la console c'è anche il mago dei remix dance Arthur Baker, nel tentativo
di dare ai suoni un’impronta al passo coi tempi e marcatamente
radiofonica. L'idea è quella di mettere assieme del materiale valido per
dare seguito al successo, di critica e pubblico, rappresentato dal suo
disco precedente: Infidels. Purtroppo la cosa non riesce, non perché le
canzoni siano prive di valore e di impegno, basti pensare che da queste
session verrà scartato un pezzo come New Danville Girl, poi recuperato
sull'album successivo con un nuovo titolo e un testo leggermente
differente. Si tratta del brano Brownsville Girl scritto con Sam
Shepard. I testi spesso richiamano a un immaginario filmico, aspetto
forse più penalizzante che vincente per il lavoro finale. Non a caso si
è sempre detto che Dylan deve fare Dylan, punto. Sarà così? Qui si
percepisce l’idea di un album drive-in più che Disco Music, come molti
hanno scritto, denigrando il risultato di Empire Burlesque.
Al netto di un'operazione che pubblico e critica in parte rigettano,
senza capire né ascoltare con impegno, (ma ci può stare, visto che siamo
nei tremendi anni ottanta!) troviamo un tentativo di intercettare quel
suono a metà tra rock, pop contemporaneo e soul. Il sound, tolte le
diavolerie di tendenza modaiole, si rifà in modo netto al periodo
1979-1981, quel cosiddetto periodo religioso, che la critica ha
killerato senza pietà. Eppure ci sono canzoni e suoni che ancora oggi
possono dire la loro. Il valore di brani come I'll Remember You,
Emotionally Yours, When the Night Comes Falling from the Sky, della
scarna e solitaria Dark Eyes, non si discutono. C'è poi un brano che a
nostro parere risulta riuscito e ben calibrato, nel tentativo di
rincorrere il suono contemporaneo dell'epoca. Parliamo di Tight
Connection to My Heart (Has Anybody Seen My Love). Uno dei pezzi dove
Dylan riesce ad attualizzare e modernizzare il proprio canone, senza
snaturarsi troppo, ma centrando l'obiettivo. Empire Burlesque come il
precedente Infidels, risente per certi versi della svolta evangelica, in
termini testuale. Don McLeese afferma: "Anche questo lavoro che esce
come album laico, nel testo del brano di apertura recita un verso che è
un riferimento esplicito al rituale cristiano della comunione. Ci sono
altri episodi che riportano alla luce queste cose. Forse non le afferma,
ma se ne distacca, di certo le evoca e questo ha un significato. Il soul
che sentiamo nei solchi di questo lavoro, con un brano molto bello come
Emotionally Yours è il perfetto ponte tra il Dylan tardo settanta e
quello di metà anni ottanta. Un disco complesso ed eclettico, che è
stato etichettato e giudicato come scarso, mentre era un audace
tentativo di stare al passo. Il tentativo di fare un grande disco, un
grande disco di Bob Dylan, con un sound attuale per l'epoca. Un suono
che nei migliori episodi è certamente formidabile. O meglio: se tutti
brani fossero al livello della prima traccia, di I'll Remember You e di
When the Night Comes Falling from the Sky oggi potremmo parlare del
riuscito sequel di Infidels. Così purtroppo non è stato. Bisogna perciò
tenere il buono e archiviare i pezzi irrisolti e meno riusciti. Certo, è
innegabile come di lì a breve, le canzoni brutte e non riuscite
diventeranno tante, per un grande autore come Dylan. Per Alex Lubet il
disco va di pari passo con brani che hanno più cambi di accordi, forme
più complesse rispetto al materiale precedente. Certi brani si avvalgono
di meravigliose melodie, ottimi cambi di accordi, ma non si sposano
perfettamente con i testi. Una complessità musicale che nuoce
all’audience dell’album, dove Dylan ci mostra di padroneggiare strumenti
di cui la gente non pensava potesse servirsi. Anche il critico Robert
Christgau si distacca dalla lista dei detrattori di questo episodio,
affermando che nella migliore delle ipotesi Dylan ha raggiunto la
professionalità che ha sempre affermato come suo obiettivo; potendo
contare sul talento necessario per inventare un buon gruppo di canzoni.
Per chi fosse interessato a recuperare una recensione negativa ma molto
divertente, consigliamo quella di Greil Marcus, dal titolo Un’altra
rentrée, apparsa su Village Voice il 13 agosto 1985. Stavolta un
signorile Marcus non definisce il lavoro rifiuto alimentare organico, ma
si limita a definirlo fanghiglia, un disco meglio assemblata rispetto a
Street Legal (Sic!).
Peccato che chi applauda al futuro Oh Mercy non abbia apprezzato e
compreso a fondo il valore e il senso di Empire Burlesque per il suo
autore. Perchè senza questi esperimenti e quel desiderio ossessivo di
restare sulla breccia, (un fiasco completo) non avremmo in seguito i
tour con Tom Petty e la sua band, ma soprattutto non avremmo un disco
nel 1989 prodotto da Daniel Lanois.
Se vi sembra poco…
Dario Twist of Fate
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Time Out of Mind (1997)
Un trionfale ritorno per Bob Dylan. Time
Out of Mind è il trentesimo lavoro in studio di Bob Dylan, nonché uno
dei suoi più grandi successi, riconosciuto dalla critica, dal pubblico,
e per una volta anche dai premi che ricevette. Oggi può suonare strano,
ma questo disco venne salutato come Album of the Year, davanti a
produzioni come Flaming Pie di Paul McCartney e OK Computer dei
Radiohead. Nonostante venga pubblicato come cd singolo, Time Out of Mind
è in realtà un doppio album in studio. Wikipedia afferma si tratti del
primo doppio dai tempi di Self Portrait (1970), ma in realtà l’ultimo
era stato The Basement Tapes (1975). La durata complessiva sarà di 72
minuti e 50 secondi, con il solo brano Highlands che raggiunge doppia
cifra, arrivando a 16 minuti e 31 secondi. Registrato negli imponenti
Criteria Studios di Miami, il lavoro si avvale nuovamente di Daniel
Lanois in cabina di regia. Per certi versi possiamo considerarlo una
sorta di sequel di Oh Mercy, nonostante vi siano alcune evidenti
differenze, nel suono, nell'impostazione e nella realizzazione. Il suo
autore qui sembra avere maggior controllo e liberà di movimento. Laddove
Oh Mercy era un lavoro agile, breve e conciso, Time Out of Mind, pur
avendo un marchio preciso che lo definisce nel suono e nell'atmosfera,
ricorda per certi versi il metodo di lavoro che Dylan avevano adottato
con successo, a cavallo tra gli anni sessanta e settanta. È un disco
molto cupo, a tratti deprimente, ma che al suo interno contiene una
delle migliori raccolte di canzoni dai tempi di Blood on the Tracks,
Desire e Infidels. In più, rispetto a quel tipo di lavori che i fan di
Dylan hanno apprezzato e amato nel tempo, questo disco è stato capace di
mettere d'accordo un po' tutta la comunità musicale, sia quella del
blues e del country, ma soprattutto quella più eterogenea del rock, per
via del suo suono gonfio, presente e per una volta ben centrato e
calibrato, durante gli episodi maggiori dell'album.
È innegabile come l'autore che si presenti in studio sia in stato di
grazia a livello compositivo. Non è un caso se dal cilindro riesca a
togliere fuori oltre alle sue solite ballate ispirate anche un singolo
di successo come Make You Feel My Love, che verrà in seguito ripresa da
diversi artisti come Billy Joel, Adele, Bryan Ferry e Garth Brooks.
Tornano i grandi testi e possiamo affermare di ascoltare almeno quattro
nuovi classici dylaniani, altrettante canzoni di valore assoluto e forse
giusto due-tre riempitivi come 'Till I Feel In Love With You, Dirt Road
Blues e Million Miles. Le atmosfere richiamano certi western
crepuscolari sulla fine del mito della frontiera e lo stesso Greil
Marcus, dirà che il disco gli ricorda per certi versi uno score
alternativo degli Spietati di Clint Eastwood. In questo caso però
ascoltiamo i lamenti e il male di vivere di chi ha sempre saputo
stillare oro dalle proprie paturnie. Musicalmente il disco risente
dell'ispirazione di alcuni importanti artisti seminali come Charley
Patton, Little Walter e Little Willie John, a cui lo stesso Dylan
aggiungerà durante il discorso di cerimonia dei Grammy anche il nome di
Buddy Holly. Dylan è in viaggio, diretto verso l'ignoto, il Nowhere,
anche se qui e lì accenna a posti reali, come Baltimora, New Orleans, il
Missouri, Boston-town, oppure descriva di aver visitato Londra e Parigi,
come in passato aveva fatto con Roma in When I Paint My Masterpiece.
Torna anche la garra agonistica di confrontarsi col suo ingombrante
passato. L'impressione è che i suoi guai sentimentali e la chiamata alle
armi di un cuore sofferente, metaforicamente e non, gli abbiano fornito
l'assist giusto e la volontà per consegnare alla morte una goccia di
splendore, di umanità e verità. A livello di ispirazione lirica i
critici citano spesso John Keats, Robert Burns e il visionario William
Blake. In particolare le liriche di Not Dark Yet sembrano una risposta
proprio al poema Ode to a Nightingale di Keats. Per Jochen Markhorst
Tryin' to Get to Heaven è tra le "opere più belle" dell'autore, data la
somiglianza "più accessibile" della celebre Not Dark Yet perché qui
offre la "prospettiva di redenzione in un aldilà". Anche da un punto di
vista sonoro bisogna annotare il gran lavoro di Mark Howard rispetto
all'uso dell'armonica di Dylan, che qui possiamo apprezzare per la sua
qualità elettrica, di distorsione del suono, predominante tra una strofa
e l'altra. Un brano superbo e maiuscolo, come del resto lo è tutto il
disco, nei suoi momenti di maggiore ispirazione e intensità.
Oltre al plauso che va condiviso tra l’autore e il produttore, è bene
citare alcuni dei musicisti che prendono parte alle sessions del disco.
Dylan schiera quella che all’epoca era la sua band di palcoscenico, dove
troviamo il fidato Tony Garnier al basso, David Kemper alla batteria,
Bucky Baxter alla chitarra acustica e pedal steel e alcune vecchie
conoscenze come Jim Keltner e soprattutto l’organista Augie Meyers e la
suonatrice di steel guitar e dobro, Cindy Cashdollar. Questa combo, che
comprende naturalmente anche gli stessi Dylan e Lanois, si avvale poi di
altri musicisti addizionali come il percussionista Tony Mangurian, Duke
Robillard, Robert Britt e altri due batteristi: Winston Watson e Brian
Blade. Un sistema di produzione e registrazione che sembra la versione
aggiornata di Blonde on Blonde, a tratti. Per quanto riguarda la parte
testuale, il marchio speciale di disperazione di Bob Dylan sta tutto
nelle parole di testi come Not Dark Yet, Love Sick, Tryin' To Get To
Heaven e soprattutto di Cold Irons Bound, quando afferma:
"Ci sono troppe persone, troppe da rammentare. Credevo che alcuni di
loro fossero miei amici; mi sono sbagliato su tutti. Bene, la strada è
rocciosa ed il pendio della collina è fangoso. Sopra la mia testa ci
sono solo nuvole di sangue. Ho trovato il mio mondo, trovato il mio
mondo in te. Ma il tuo amore non si è dimostrato vero. Sono a venti
miglia dalla città, incatenato a fredde manette."
Tra le dichiarazioni migliori su questo disco, alcune sono proprio dello
stesso Dylan e di Daniel Lanois.
"Quei dischi furono fatti molto tempo fa, e sai, sinceramente, le
registrazioni che furono fatti in quei giorni erano tutte buone. Avevano
dentro un po' di magia perché la tecnologia non andava oltre ciò che
stava facendo l'artista. Era molto più facile riportare l'eccellenza in
quei giorni su un disco di quanto non lo sia ora. La massima priorità
adesso è la tecnologia. Non è l'artista o l'arte. È la tecnologia che
sta arrivando. Questo è ciò che rende Time Out of Mind particolare. Non
si prende sul serio, ma poi di nuovo, il suono è molto significativo per
quel disco. Se quel disco fosse stato realizzato in modo più casuale,
non sarebbe suonato in quel modo. Non avrebbe avuto l'impatto che ha
avuto. Non c'è stato alcuno spreco di sforzo su Time Out of Mind e non
credo che ci sarà più nei miei dischi. Una dichiarazione d'intenti che a
distanza di quasi 25 anni possiamo condividere e sposare. Bob Dylan dopo
il suo trentesimo e ispirato lavoro in studio è tornato ai suoi livelli
di eccellenza, dove i passi falsi si sono notevolmente ridotti e
ridimensionati. Anche se a onor del vero, bisogna ricordare come
successivamente alla pubblicazione di Time Out of Mind, darà alle stampe
solo cinque dischi contenenti brani autografi, uno dei quali scritto in
collaborazione con Robert Hunter, paroliere dei Grateful Dead. Uno degli
ultimi fondamentali squilli di tromba, una chiamata alle armi, che
arriva quasi dall'Oltretomba.
Fatto non trascurabile: da queste sessions, verranno scartate canzoni
del calibro di Mississippi (poi pubblicata nel successivo Love and
Theft) della splendida e rara Red River Shore, di Marching to the City
(pubblicata sul volume 8 dei Bootleg Series) e di Dreamin’ on You,
anch’essa recuperata sull’antologico Tell Tale Signs del 2008.
Tra le bellissime interpretazioni di questo disco, sono da segnalare
almeno tre cover: Not Dark Yet del compianto Jimmy LaFave, Tryin’ To Get
To Heaven rifatta da David Bowie e Make You Feel My Love di Bryan Ferry,
tratta dall'album tributo Dylanesque del 2007.
Disco monumentale e imprescindibile per conoscere in maniera più
approfondita l’opera del suo autore.
La cosa più scioccante di questo disco è che si possono prendere anche i
brani minori e scriverne per ore e ore. Non c'è bisogno di azzannare e
di aggredire alla giugulare un'opera così bella, iconica e capace di
resistere e sopravvivere al lento scorrere del tempo. Già, il tempo! “My
only friend, the end” dirà qualche anno dopo uno sciamanico Jim
Morrison. Bisogna riavvolgere il nastro e ripartire da questa copertina
iconica, una delle più importanti e suggestive di una decade tanto
importante come i sessanta. Uno scatto che è tutto un dettaglio, un
simbolo. Scende in strada Bob Dylan, con il tutto il suo entusiasmo e
non è da solo. Nel disco, tra i solchi di questo esordio, come autore, è
quasi sempre solo lui, con la sua incredibile penna, con le sue parole,
taglienti come forbici, in una notte buia come la pece. Ci sono dischi
che hanno un biglietto da visita migliore rispetto a The Freewheelin'
Bob Dylan?
A ben vedere questo è uno dei sei dischi chitarra e voce, tanti ne
realizzerà nel corso della sua lunga carriera discografica. I primi
quattro vengono realizzati durante gli anni sessanta, mentre per i due
successivi bisognerà attendere ben trent'anni. Mi riferisco a Good As I
Been To You del 1992 e a World Gone Wrong del 1993.
Il disco parte agile e fiero sulle note di chitarra di Blowin' in the
Wind. Due minuti e quarantotto secondo per consegnare la sua voce alla
gloria e alla storia di una decade, di un ideale, fallace, ma non per
questo meno significativo ed evocativo. Del resto nelle prime tre tracce
non c'è segnale alcuno di reso, di sconfitta. La seconda canzone è
probabilmente tra le migliori composizioni di sempre del suo autore. Si
tratta di Girl from the North Country. Non siete convinti? Basta
ascoltare una delle innumerevoli cover realizzate di questo classico
immortale. Mentre lo fate ragionate su questo: l'autore e l'interprete
principale lo scrisse quando aveva appena 21 anni. Così, tanto per dire.
Dopo la rilettura del classico folk Nottamun Town, a cui Dylan cambia il
testo per farlo diventare Masters of War, si passa a due brani meno
noti, ma non per questo privi di valore e di significato come Down the
Highway e Bob Dylan's Blues.
Nel primo Dylan cita proprio l'Italia, nel verso "My baby took my heart
from me/ She packed it all up in a suitcase/ Lord, she took it away to
Italy, Italy" che naturalmente è dedicato e ispirato alla sua relazione
con Suze Rotolo, la stessa ragazza che lo abbraccia nello scatto di
copertina realizzato da Don Hunstein.
Bob Dylan's Blues è un concentrato di acume, umorismo e sfrontatezza,
qualità che Dylan sfoggia con quel tipico orgoglio che è usuale durante
la giovinezza. Gioventù che però scompare rapidamente per fare spazio al
sermone di uno dei suoi primi capolavori a livello testuale: A Hard
Rain's a-Gonna Fall. Un capolavoro senza macchia che ancora oggi ci fa
pensare: - Ma da dove diavolo l'ha tirata fuori?!? Non a caso al pari di
altri classici, Hard Rain diventa un punto saldo del suo repertorio dal
vivo, capace di attraversare il tempo come un fendente in una notte
senza stelle.
Il lato B dell'album si apre con un altro capolavoro, sia per il testo
che per la musica e la melodia. Don't Think Twice, It's All Right. il
titolo cita forse Elvis Presley e sarà da ispirazione al Re, che lo
inciderà qualche tempo dopo. Da segnalare la bella versione country di
Waylon Jennings, interprete che assieme a Johnny Cash contribuirà a
sdoganare negli ambienti dei puristi del genere il talento puro del
menestrello di Duluth. La melodia incantevole di Dont' Think Twice apre
alla seconda facciata di questo disco che consegna il suo autore alla
storia della musica popolare del Novecento. Non serve infatti affermare
che anche fosse terminata qui la carriera di Dylan, se ne parlerebbe
ancora oggi e in senso principalmente positivo e nostalgico.
Il resto dei brani a parte la cover di Corinna, Corinna, presenta altre
composizioni significative come I Shall Be Free, che è una rilettura di
Lead Belly, così come Talkin' World War III Blues, che deve molto allo
stile del suo mentore dell'epoca, Woody Guthrie. Resta da dire di Oxford
Town e di Honey, Just Allow Me One More Chance. La prima è un'altra
canzone intelligente, ironica e di taglio decisamente satirico, come era
solito fare in questa fase della sua carriera. C'è un aspetto che viene
spesso poco considerato quando si parla del Dylan autore: la sua
capacità di tracciare bozzetti ironici e satirici. Eppure è una delle
cose che dovrebbero colpire di primo acchito l'ascoltatore. "Io e la mia
ragazza, il figlio della mia ragazza siamo stati accolti con i gas
lacrimogeni. Non ho capito nemmeno che ci siamo andati a fare, ce ne
torniamo da dove siamo venuti." Honey, Just Allow Me One More Chance è
invece un tour de force vocale e performativo di un giovane cantautore
che avrebbe poi creato un marchio di fabbrica e contribuito a rinnovare
la tradizione del blues con le sue liriche al vetriolo e con una penna
che sgorga talento, sfacciataggine e coraggio da ogni poro. The
Freewheelin' Bob Dylan venne pubblicato il 27 maggio del 1963. La
produzione del disco è di John Hammond e Tom Wilson. È giustamente
considerato tra i vertici assoluti dell’autore e della musica popolare
del Novecento. Ha contribuito ha delineare un nuovo modo di scrivere e
produrre canzoni d’autore, che vanno oltre il singolo genere di
riferimento. Dylan probabilmente non aveva ancora la License to kill, ma
di certo con la sua chitarra è stato in grado di battere i fascisti,
conquistando i cuori di chi sapeva ancora sognare.
Folgorante e innovativo. La luce di questo lavoro, che per certi versi
rappresenta il vero esordio del Bob Dylan autore, non cesserà mai di
brillare.
Allora andiamo, tu ed io, quando la sera si stende contro il cielo.
Come un paziente eterizzato disteso su una tavola; andiamo, per certe
strade semideserte, mormoranti ricoveri. Di notti senza riposo in
alberghi di passo a poco prezzo e ristoranti pieni di segatura e gusci
d’ostriche; strade che si succedono come un tedioso argomento. Con
l’insidioso proposito di condurti a domande che opprimono… Oh, non
chiedere «Cosa?» andiamo a fare la nostra visita. Nella stanza le donne
vanno e vengono parlando di Michelangelo.
(T.S. Eliot - The Love Song of J. Alfred Prufrock)
In esoterismo il numero 7 è considerato un numero perfetto, LA LUNA
SEPOLTA, i poteri occulti. Il Sette è l’espressione privilegiata della
mediazione tra umano e divino. 7 sono le lettere dell’alchemico V I T R
I O L: Visita, Interiora, Terrae, Rectificando, Invenies, Occultam,
Lapidem: visita l’interno della terra, il proprio intimo, la Psiche, e
rettificando scoprirai la pietra nascosta. L’acqua celeste si sposa con
il fuoco infernale convertito e messo al servizio della pura Grande
Opera. Il numero 7 rappresenta il tutto, poiché il 7 è il numero della
creazione. Ogni cosa esiste, sia essa appartenente al genere umano, un
oggetto, un animale o una pianta, contiene nella sua unità, due opposti,
non vi è cosa che non abbia il suo opposto. La legge della dualità è la
legge che domina l’universo condizionando la nostra esistenza. Ogni
pianeta ha un’orbita crescente e una decrescente; una doppia polarità. 7
sono le lettere doppie dell’alfabeto ebraico e 7 i sigilli del libro
dell’apocalisse, da aprirsi per mezzo delle 7 virtù, da opporre ai 7
vizi capitali. Se noi sommiamo cabalisticamente il numero 7, esso ci dà
inizialmente 28, cioè 2 e 8, simbolo del binario (il 2, l’uomo e la
donna, il bene e il male, il positivo e il negativo) e dell’infinito,
l’8 la lemnisca, la continua lotta degli opposti per il raggiungimento
dell’equilibrio e quindi i simboli del continuo evolversi della vita per
mezzo dei contrari. Tutto questo per dire che Blonde on Blonde, è il
settimo disco realizzato in studio da Bob Dylan la cui durata
corrisponde a 72 minuti e 57 secondi.
Cosa fare a New York se a
Nashville c’è Charlie McCoy?
Buona parte dell’accompagnamento (e del vestito sonoro) di Blonde on
Blonde venne garantito da musicisti di Nashville specializzati in
sessioni di registrazione come Charlie McCoy e la futura star Joe South.
Va detto che molti di loro non erano abituati a lavorare con musicisti
di ambito rock, ma presero confidenza con questi pezzi complessi in modo
piuttosto rapido, garantendo la giusta atmosfera, anche quando un brano
come “Sad Eyed Lady” continuava ad andare, senza indicazioni sul momento
in cui sarebbe finita. I musicisti di Nashville hanno dato ai testi di
Dylan, tipicamente ambigui, il supporto più rilassato e solidamente
musicale che abbiano mai avuto. Un mix notevole di liriche, che si muove
tra la descrizione realistica e quella iper-realistica.
Bob Dylan dichiarò: “Il momento in cui sono arrivato più vicino al sound
che sento nella mia mente è stato proprio durante le sessions di Blonde
on Blonde. Si tratta di quel suono sottile, da spirito selvaggio. È
metallico, oro brillante, qualsiasi cosa evochi.” Riuscite a trovare una
definizione migliore di questa per descrivere questo capolavoro?
Che vada in malora il concetto di concept album: questo doppio album è
una delle migliori raccolte di canzoni killer mai ascoltate per chi ha
orecchie da intendere. Non ve lo dico io, è un dato oggettivo e
insindacabile. Semmai il problema è diametralmente opposto: proprio come
concept omogeneo il disco "fallisce". Si fa per dire, naturalmente. Il
tema è l'amore anzi il canto anfetaminico di un giovane uomo alla
ricerca di un posto nel mondo. Un tema che ancora oggi a distanza di
quasi sessant’anni suona dannatamente attuale. C'è il disagio, il
malessere del viaggio, spirituale e non. C'è il blues e c'è la ricerca
interiore, c'è la beat generation e il suprematismo. C'è la grandezza e
la spavalderia dell'essere giovani. Sentimento che Dylan ha continuato a
coltivare e che ancora oggi si ostina a preservare. Un mio amico di
pennino mi dice spesso che per restare un grande artista bisogna osare e
se necessario andare a pisciare nei bassifondi dell'anima che ci
inghiotte e che ghermisce questa sempiterna notte. Per comprendere dove
termina il caos e inizia lo stato dell'arte bisogna però ascoltare gli
outtakes contenuti in The Bootleg Series 12 The Cutting Edge. Serve
audacia e virtù, serve quella passione che nel cuore della notte ti fa
scrivere, comporre e suonare brani come Visions of Johanna, canzoni come
Just Like a Woman. Delle prime sessions di New York verrà mantenuta
nell’editing finale la registrazione del solo brano One of Us Must Know,
dove va evidenziato l’ottimo lavoro della sezione ritmica a opera di
Rick Danko e Bobby Gregg, del pianoforte di Paul Griffin e dell’organo
Hammond di Al Kooper.
Dylan canta della dolce Marie, ma anche di Johanna e Louise e dedica il
gran finale alla sua amata Sara Lownds, che diventa qui Sad Eyed of
Lowlands. Sul fatto che il disco trabocchi di romanticismo e
surrealismo, ci sono pochi dubbi. Canzoni d’amore che in modo differente
sono la cifra stilistica di pezzi come Just like a Woman, I Want You,
One of Us Must Know, 4th Time Around e Leopard-Skin Pill-Box Hat.
Hitchcock su Visions of
Johanna
Per il poeta Andrew Motion Visions of Johanna è il miglior testo di
canzone mai scritto, prova evidente del brillante uso del linguaggio da
parte del suo autore; il pensiero del cantautore Robyn Hitchcock
combacia alla perfezione con le dichiarazioni del Motion: “Visions of
Johanna per me è la matrice. È da lì che provengo come autore di
canzoni. Questo brano definisce le potenzialità di una canzone, il
motivo per cui vale la pena cercare di scriverne. Bob Dylan con questo
disco mi fece capire che questo era il lavoro che intendevo fare nella
vita. Quando sarò grande voglio che il mio impiego sia scrivere pezzi
come Visions of Johanna. Canzoni che nello spazio della stessa frase ti
facciano ridere e piangere, in pratica”.
Basterebbe scrivere un brano come Visions of Johanna, ispirato allo
stile di T.S. Eliot e forse in debito verso il Jack Kerouac, per dare
peso e senso a una carriera da cantautore. Il tutto avviene dopo aver
già dato alle stampe brani come Mr. Tambourine Man e Desolation Row,
dopo aver creato quell’instabile suono al mercurio su figure retoriche
audaci ed efficaci, metafore surrealiste e immagini folli e distorte,
che solo in apparenza sono figlie dello sballo e del delirio. Cosa c'è
di meglio che lasciarsi andare alla fantasia, all'immaginazione e al
sentimento, quando hai poco più di 20-30 o anche 50 anni. Bob Dylan è un
tipetto impertinente che ti dice cosa pensare, ma che non ha bisogno del
tuo giudizio e del tuo supporto, è spavaldo e coraggioso e sa che non ci
sono prigionieri da fare quando si è in missione per conto dell'arte,
perché questo lavoro è arte impressa su bobina, non ci sono canzoni, non
ci sono versi, arrangiamenti e accordi o tonalità. Basterebbe perdersi
nei blues ancestrali raffinati e melliflui dell'organo di Al Kooper,
delle soffiate urgenti di Dylan in una dolce e accogliente armonica e
poi la crema dei musicisti di Nashville, che non sono ancora stati
contaminati con il rock urbano e che per questo motivo contribuiscono a
dare vita al capolavoro che sarà Blonde on Blonde.
Un vero capolavoro non ti conquista al primo ascolto e nemmeno al
decimo. Un vero capolavoro si impone al 37esimo ascolto. Così è stato
per me: in una notte di tempesta, dove tuoni e fulmini dominavano la
notte irlandese e il cd volteggiava nel mio impianto di pochi euro, dopo
una capatina a quel Virgin Store di Cork. Dio benedica quella commessa
lenta che non aveva fretta di chiudere. E Dio benedica Dylan e la sua
gioiosa macchina da guerra che non fa prigionieri né ti chiede un
riscatto. La redenzione è nelle orecchie di chi vuole intendere e ha
intenzione di portarsi avanti con l'ascolto. Dylan non ti invita a
uscire con lui e non è nemmeno un buon amico, ma del resto i grandi
artisti, i veri Maestri hanno bisogno di questo? Loro ti possono
conquistare con uno sguardo, con un riff di Hammond o con una parola
sussurrata in un brano, che sembra non avere mai fine.
Se vi sembrano lunghe le strofe di Visions of Johanna, allora non siete
ancora giunti alla fine del secondo disco. Queste sono le quattro
facciate con cui il rock accede ai piani alti dell'Accademia delle Belle
Arti. Non fila tutto liscio, c’è qualche passo falso e un paio di
momenti di esitazione. È un'opera capace di guidarvi nel viaggio al
termine della notte. “È un biglietto di sola andata per la terra
promessa” per dirla alla Bruce Springsteen. Ci sono brani dove il piano
di Hargus "Pig" Robbins guida le danze come se fossimo a un galà in cui
la bella dama attende che qualcuno la inviti al valzer finale; in altre
circostanze l'organo di Al Kooper suona letteralmente la carica mentre
la sezione ritmica è elastica, pronta, ma allo stesso tempo rilassata.
Il suo autore dovrà sfogarsi per bene, prima di cedere il passo alla
resa e alla rassegnazione di quella imperiosa ballata agrodolce che è
Sad Eyed Lady of The Lowlands.
In un album, anzi due, dove il tempo è tutto o quasi, ci si abbandona
ora a una suite che dura oltre dieci minuti. Il testo ci porta in luoghi
che non sapevamo ancora di conoscere. Sarà il brano definitivo presente
sul disco con cui Dylan verrà ricordato? Difficile dirlo visto che il
Nostro continua a produrre musica e testi di livello formidabile. Da
dove vengono queste canzoni? Dove ci conducono? Sono davvero la nuova
Guida Michelin per la Gloria? Sono realmente il meglio che un musicista,
poeta e menestrello possano concepire? Dylan non si definisce
cantautore, ma non è nemmeno un musicista o un bluesman in senso
classico. Eppure la musica suona secondo quella scuola e filosofia di
pensiero. C'è chi parla di terzo capitolo di una ipotetica trilogia
elettrica, ma a noi piace pensare che questo sia solo l'inizio di un
viaggio che non è ancora terminato. Il momento iniziatico del
Neverending Tour. Musica senza barriere e senza confini. Cavalcate
elettriche, surrealismo e rock and roll. Musica maiuscola, comunque
vogliate etichettarla. Ve ne servirà di nastro adesivo qui per mettere
tutto assieme. Per incollare e appiccicare tutti i versi, le metafore,
le immagini che questo disco può e deve rilasciare, nella migliore delle
ipotesi. Non è Hendrix, non sono i Beatles (anche se alcune cose li
ricordano), è libertà espressiva, di quelle che non senti più così
spesso: perché nessuno dedicherebbe lo stesso sforzo, tutta la propria
ispirazione per un semplice disco, anzi due.
La linea comica di Blonde
on Blonde
Una delle note dolenti della poetica e della forza dei testi di Dylan è
rappresentata proprio dal suo sottile, fine, senso dell’umorismo e dal
bisogno di non prendersi sul serio. Soprattutto negli album anni
sessanta questo è uno dei tratti distintivi. Nonostante ciò quasi
nessuno sembra accorgersene. Eppure in un lavoro come Blonde on Blonde,
se si vuole davvero fare un’analisi testuale credibile diventa un tratto
saliente, quasi fondamentale. Just like a woman, Rainy Day Women,
Visions of Johanna, Stuck inside of Mobile e su tutte Leopard-Skin
Pill-Box Hat, sono brani caratterizzati da un umorismo evidente. Questo
non vuol dire che Dylan non fosse in grado di essere serio, ma parliamo
di un giovane autore 25enne che sta ancora cercando il suo posto nel
mondo musicale e nel tessuto sociale in cui vive. A volte un giovane
vuole solo scherzare, spassarsela e giocare con gli amici. Leopard-Skin
Pill-Box Hat è senza alcun dubbio un attacco verso un certo modello di
donne, di classe sociale e di atteggiamento. Parliamo infatti di un
autore molto vicino alla beat generation, con un modo di fare bohemièn,
che attacca senza mezze misure uno dei simboli di una certa classe
sociale, gente seriosa e pretenziosa. Per farci capire, il cappello a
cui fa riferimento veniva indossato da personalità del calibro di Jackie
Kennedy. Di contro però Dylan riesce a fare ironia e umorismo anche
sulla sua stessa categoria, con atteggiamenti sfacciati, ma che non
suonano mai del tutto gratuiti, amari o disperati. Un autore al comando,
capace questa volta di puntare il dito contro tutto e tutti, anche
contro sé stesso, se il caso dovesse richiederlo. È come una ruota sul
punto di staccarsi dal carro, una matrice che in tanti hanno cercato di
ricreare, il brano festaiolo che metti la domenica mattina per dare un
tocco di umorismo a un giorno senza senso o senza sole. Con un numero di
hit piuttosto cospicuo, ci sono brani che tendono a essere dimenticati.
Tra questi però non può certo ritrovarsi, per il valore strettamente
musicale, un pezzo come Stuck Inside of Mobile.
Shakespeare, è nel vicolo con le sue scarpe a punta e le sue campane.
Sta parlando ad una prostituta che dice di conoscermi bene. E io vorrei
spedire un messaggio per scoprire se ha parlato, ma l'ufficio postale è
stato derubato e la cassetta postale è chiusa. Oh, Mama, può essere
veramente la fine essere di nuovo bloccato a Mobile col blues di
Memphis.
Siamo qui di fronte al tipico testo che autori di culto come Hunter
Thompson, Tom Robbins e con uno stile differente lo stesso Richard Ford,
hanno utilizzato come ispirazione per le proprie opere. È una situazione
surreale, picaresca, tipica dello stile di vita on the road del
musicista. Il tutto viene descritto e narrato con una penna agile e
carica di umorismo. Anche la parte musicale con il pianoforte, le
chitarre e il solito lavoro di Al Kooper all’organo conferiscono
spessore, potenza ed elasticità al pezzo, su cui Dylan stende i suoi
versi, i giochi di parole e la verve umoristica. Uno dei brani più
riusciti di un disco che è entrato nella storia della musica popolare
del Novecento.
La copertina del disco
Venne realizzata dal fotografo Jerry Schatzberg, il quale desiderava
trovare una location interessante al di fuori dello studio, si optò
quindi per la zona di Chelsea, distretto di confezionamento della carne
di New York all’epoca. Lo scatto scelto per la copertina è sfocato e
fuori fuoco. Tutti cercavano di interpretarne il significato, si diceva
rappresentasse l'ebbrezza durante un viaggio con l'LSD. Per niente vero!
Faceva freddo e stavano tremando. Nonostante vi fossero altri scatti
nitidi e a fuoco, Dylan scelse lo scatto sfocato, che è diventato uno
dei più iconici del rock di metà anni sessanta.
Blonde on Blonde oggi
Bob Dylan, con o senza consapevolezza, contribuisce a ridefinire le
dinamiche di un supporto come il vinile, dato che di lì a breve, il 33
giri prenderà definitivamente il posto del 45 giri. Durante il 1966 il
pop rock cambierà volto, suono e punto di vista su ciò che può
contenere. Assieme a Beatles, Beach Boys e poche altre eccezioni, questo
disco avrà le qualità necessarie per resistere nel tempo, sia a livello
contenutistico che per quanto riguarda il vestito sonoro. La scelta di
tenere le chitarre e la sezione ritmica un po’ dietro rispetto
all’organo di Kooper e all’armonica di Dylan si rivelerà infatti
vincente e azzeccata. Due strumenti cardine non così dissimili, in
quanto esili e capaci di creare un mormorio che attraversa tutti i
solchi dell’album, mentre le chitarre e la sezione ritmica fanno il loro
lavoro in sottofondo. La cosa sorprendente per il Dylan musicista e
autore è che spesso si rifiuta di risolvere la progressione di accordi,
elemento il cui il Nostro ha dimostrato grandi capacità già da The
Freewheelin’. Qui i cambi sembrano avvicinarsi a un climax sonoro che in
realtà non arriva mai, sostiene il critico Geoffrey Himes. Jason Isbell
nel 2015 attribuisce al batterista Kenny Buttrey la riuscita del disco.
“Quando gli altri non sanno dove andare, il batterista con i suoi
colpetti mantiene la tensione necessaria, così che nessun brano sfugga
al controllo.” Basti citare il lavoro che esegue sul rullante nella
vivace Most Likely You Go Your Way And I'll Go Mine. Non a caso Buttrey
verrà richiamato da Dylan per suonare la batteria nei successivi John
Wesley Harding, Nashville Skyline e Self Portrait.
Citazioni su Blonde on
Blonde
Per Jon Bream Blonde on Blonde fu un’operazione pienamente riuscita, in
quanto Dylan allargò il suo ventaglio melodico con il supporto di validi
musicisti e grazie a testi sempre più enigmatici nel loro mix di
desideri romantici, critiche ciniche e invettive sapientemente alternate
a divertenti giochi di parole dal sapore decisamente surreale. Ha uno
stato d’animo carnevalesco, che si mescola in maniera efficace con il
blues di Highway 61 Revisited, spingendo il cuore oltre l’ostacolo, per
così dire. Un ruolo determinante lo tenne anche il produttore Bob
Johnston, subentrato durante le registrazioni di Highway 61 Revisited a
Tom Wilson. Pare sia proprio di Johnston l’idea di spostare le sessioni
di registrazione agli studi della Columbia Records di Nashville. Charlie
McCoy già in Desolation Row aveva contribuito con i suoi preziosismi
alla chitarra acustica nella buona riuscita del brano. McCoy oltre che
pluristrumentista, farà anche da raccordo e da direttore ai musicisti di
Nashville che accompagnano Dylan nelle registrazioni di Blonde on
Blonde, che venne quasi tutto registrato nella capitale del Tennesee.
Una novità e un’anomalia che presto diventerà regola, visto che tanti
altri illustri colleghi ne seguiranno l’esempio. Ancora una volta come
si suol dire: Bob Dylan mostra la strada da seguire.
Per Chris Gantry Blonde on Blonde è stato un agente libertario,
fondamentale in quanto ruppe molte regole, a livello testuale e non. Ha
avuto un impatto su tutti gli autori che sarebbero venuti dopo,
allargando i confini di ciò che era accettabile nel songwriting pop,
permettendo a essi maggiore creatività di scrittura. Nel contenuto di
questo lavoro è rilevante la contrapposizione tra vita reale e
desiderio. Perché una volta presa la decisione, risulta molto difficile
tornare indietro.
“My love she speaks softly,
She knows there's no success like failure
And that failure's no success at all.”
Bob Dylan
N.B. Per chi fosse interessato ad approfondire l’argomento consiglio la
lettura del libro di Daryl Sanders Un sottile, selvaggio suono
mercuriale – Bob Dylan, Nashville e Blonde on Blonde.