PATTI SMITH COME
PASOLINI DYLAN COME
BLAKE... di Corrado
Ori Tanzi |
Un grazie di cuore a Corrado Ori Tanzi che
mi invia questo suo articolo originariamente apparso su
Sette
Forse in giro è rimasto qualche purista delle lettere che
proprio non ce la fa a legittimare quel campo della creatività umana che, per
sbrigative esigenze definitorie, identifichiamo col termine «rock». Ma ogni
classicità si rinnova e allora osiamo. I paralleli che leggerete di seguito
rispondono a una domanda: chi è in letteratura l'alter ego di questi dieci
musicisti?
Identica sensibilità, contiguità dei temi,
simile parabola esistenziale, analogo percorso artistico, affinità linguistica:
azzardato o no, questo è il catalogo.
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PATTI SMITH - PIER PAOLO
PASOLINI
La forte critica al Potere,
l'impegno contro la deformazione del mondo contemporaneo, il senso della morte,
la libertà irreversibile di ogni essere vivente: un evidente ugual sentire lega
la poetessa del rock a Pasolini. Teste autenticamente anarchiche, mai indulgenti
nel ritrarre l'umanità e mai inclini
a coprire la
miseria con il mito del «buon selvaggio» perche l'attenzione verso le borgate
romane o l'underground americano non porta necessariamente a derive
terzomondiste. E da qualunque parte la si guardi, la loro arte è intrisa
di
una profonda religiosità che non vuole intermediari
tra se e il divino e che trova completezza nella rivoluzionaria figura del
Cristo. Altro che neopaganesimo. «In questo mondo che tutto compra e disprezza,
il più colpevole sono io,
inaridito dall'amarezza»,
scrisse Pasolini. Canta Patti Smith.
BRUCE SPRINGSTEEN - JOHN
STEINBECK
Naturale il collegamento tra il
Tom Joad del Boss e dell'autore di Furore, ma comune anche lo stesso stile secco
ed essenziale, l'atmosfera rarefatta in cui si muovono i personaggi che popolano
le loro storie. Personaggi peraltro figli della tradizione americana ma sempre
troppo proiettati verso i propri simili per accettare l'ortodossia di una
qualunque religione, filosofia o stile di vita. Steinbeck e Springsteen evocano
l'immagine di una terra promessa e scrivono alimentati da un personale senso
della giustizia che mette nel cassetto le grandi battaglie per l'umanità
tuffandosi invece nella lotta quotidiana dei vari Tom, Mike, Mary, Rosalita che
vivono il nostro stesso passaggio delle ore. Emblematica la chiusa di Bruce in
Reason to believe: «Alla fine di una dura giornata di lavoro le persone trovano
sempre una ragione in cui credere» .
TOM WAITS - CHARLES
BUKOWSKI
Solo bevute in locali fumosi alla
ricerca di una donna anche stagionata? No, a scavare, il nichilismo di
superficie rivela tanto di quel sangue per la vita quotidiana da mettere i
brividi e una commozione che stringe lo stomaco. Il Marving Denning, aspirante
suicida di uno dei racconti di Confessioni di
un
codardo di Bukowski, riportato alla vita in una notte passata con un'enorme
cameriera, sembra uscire da Rain Dogs di Waits e la tavola calda da cui parte la
narrazione è lo stesso set di Invitation to the blues del musicista
californiano, dove nasce l'incontro tra un uomo e un'altra cameriera, così
ordinari e insignificanti da sentirsi James Cagney e Rita Hayworth.
Persone senza nome che hanno dentro sè un'esplosione solare
con cui spesso però non riescono a scaldare neanche se stessi, questo il mondo
dei due «figli» di John Fante.
JANIS JOPLIN - SYLVIA
PLATH
Più che analogie stilistiche
colpiscono la medesima ansia del vivere, il senso dolente dell'esistenza, il
minuzioso lavorio per raggiungere la perfezione. Due donne tormentate dalla
conflittualità tra energia e malinconia, impazienti di bruciare,
autodistruttive, rivelatrici di qualcosa di primitivo. La carriera di Janis
Joplin è stata una continua ricerca di composizioni rock and blues che
esaltassero la sua voce grezza ed elettrica, intima e vulcanica. E per tutta la
vita Sylvia Plath ha lavorato con ossessione quasi dovesse generare una lingua
personale. E con un senso di sconfitta sempre accanto ( «Perchè ho paura di
fallire prima ancora di incominciare?», confida nei Diari).
Due fiamme che si sono spente in modo tragico troppo presto (a 27 anni,
per overdose, Janis e a 31, suicida, Sylvia). Eppure, nel loro sofferto flusso
di vita non sono mai state soltanto il magro strumento della loro fatica.
BOB DYLAN - WILLIAM
BLAKE
Hanno cesellato innocenza ed
esperienza nella vita umana meglio di chiunque altro. Due spiriti ribelli alle
leggi morali, padri di una poetica visionaria che ha fatto scuola, innovatori
nella metrica e nelle tematiche. In quanti dischi del vagabondo di Duluth
troviamo echi della London di Blake (a caso dal suo sterminato repertorio: Oh
Mercy), in quante sue canzoni si avverte la prepotente lirica di The Tiger
(Masters of war per esempio).
E poi la forza della
Bibbia e lo spirito del Gesù blakiano nei tre «album della conversione» di
Dylan.
Blake fu anche pittore e tra i suoi lavori si
contano le illustrazioni della Divina Commedia. E non c'è autore rock più
dantesco di Dylan, con le sue donne perdute, i suoi pugilatori ridotti a topi
nell'inferno delle carceri, la sua gente che «non vive o muore ma solo
galleggia».
Due artisti immensi che la strada
dell'eccesso ha condotto al palazzo della saggezza.
FABRIZIO DE ANDRE' -
OMERO
Chi meglio di De Andrè è riuscito a
essere viandante e testimone del circostante come lo fu Omero?
«Cantami, o Diva del pelide Achille, l'ira funesta» inizia l'epos
omerico, «Cantami di questo tempo l'astio e il malcontento di chi è sottovento»
apre l'Ottocento di De Andrè. Due incipit per un parallelismo corposo,
testimoniato dallo stesso De Andrè che non fece mistero di abbeverarsi alla
fonte omerica. Il lunghissimo viaggio per mare (che per il Mediterraneo il
cantautore compì per scrivere il capolavoro Creuza de ma), il marinaio come
metafora di un mondo
che scandisce i suoi ritmi
millenari, l'incontro con le anime salve, la disamistade tra le genti divise, il
recupero del canto come strumento per liberare dalle sofferenze ed esorcizzare
il male, la ricerca linguistica per ricreare un suono antico e l'individuazione
di un idioma (il genovese) capace, «coi suoi dittonghi, i suoi iati, la sua
ricchezza di sostantivi e aggettivi tronchi che puoi accorciare e allungare» (il
virgolettato è suo), di evocare l'epica di un'epopea perduta. E la terra madre.
Ulisse che chiude a ltaca e l'uomo di Da a me riva che parte col sogno di «poter
baciare ancora Genova».
NICK CAVE - FEDOR
DOSTOEVSKIJ
Due personalità tormentate da
un'attenzione spasmodica all'essere umano, negli aspetti prima peggiori e poi,
malgrado tutto, migliori. Dostoevskij parte con Delitto e castigo e arriva ai
Karamazov, il song writer australiano passa da Your funeral my trial a No more
shall ve part. Una ricerca inesausta tra ignominia e vergogna, elevazione e
struggente umanitarismo, che va da Raskol'nikov al perdono cristiano a tutto
tondo di Aljoscia nei Karamazov e, nella poetica di Nick Cave, dallo Stagger Lee
dell'omonima canzone, alla richiesta di perdono di Oh my Lord e alla serenità di
God is in the house. Lo sforzo titanico di superare la paura della libertà e
l'uccisione dei propri fantasmi in una sorta di caduta ed ascesa: l'uomo moderno
nasce in Russia, combatte due guerre mondiali per poi trovare (forse) la pace in
Australia.
VINICIO CAPOSSELA - ERMANNO
CAVAZZONI
Il medesimo gusto sanguigno per la
parola parlata, le invenzioni linguistiche che ci consegnano il ritratto di
piccoli uomini e piccole donne vittime del loro stesso sarcasmo, l'idea che la
vita sia un immenso fumetto così grottesco da risultare sempre più reale di un
dramma shakespeariano. Le "Canzoni a manovella" di Capossela prendono per mano
le vite dei lunatici, degli idioti e degli scrittori inutili che riempiono
l'universo di Cavazzoni. Il sottoterra straccionesco di Cirenaica, che tutto
inghiotte e più restituisce, fa il paio col mondo carbonaro del musicista nato
ad Hannover. E la Ramona, Bardamù, il Mustafà che implora di essere tenuto fermo
perchè colpito dal ballo di S.Vito viaggiano sul treno scapestrato diretto
proprio al paradossale sottobosco cavazzoniano.
DAVID BYRNE - THOMAS
PYNCHON
La curiosità è il loro pane. Se
Byrne vara continuamente nuovi universi musicali, dalla musica nera in Remain in
light dei Talking Heads al country di Little creatures al Brasile di Uh-Oh,
Pynchon s'interessa di storia (V), fisica aeronautica (L'arcobaleno della
gravità), filatelia (L'incanto del lotto n. 49), cartografia (Mason &
Dixon). Entrambi freddi, da letture o ascolti ripetuti per arrivare al nocciolo.
Entrambi fondamentalmente pessimisti, ma anche convinti che il senso della vita
sia nel non cercarne il senso. Stop making sense vale tanto per Byrne quanto per
tutti i protagonisti del newyorchese nascosto.
STAN RIDGWAY - JAMES
ELLROY
Leggere James Ellroy dà l'impressione
di avere la testa su un'incudine che viene martellata senza pietà. Ascoltare
Stan Ridgway significa sentire il suono di quelle martellate. Una scrittura
scarnificata, come scarnificati sono i loro protagonisti, uomini e donne che
possono permettersi solo un sentimento, e mai positivo, e per i quali la
redenzione è un lusso che costa troppo caro. O che arriva troppo tardi. Entrambi
di Los Angeles, ma la loro non è la città del sole, semmai di una notte che non
vede l'alba. Ridgway poi ha una venerazione per il papà di Dalia nera. Anni fa,
presentando Anatomy sul suo sito internet, celebrò così a lungo Ellroy che alla
fine lasciò al disco lo spazio di una virgola. E tra i due meglio non mettere il
naso. Potrebbero condannarci all'ergastolo con l'aggiunta di 99 anni.
Corrado Ori Tanzi