Schiacciato nel tempo
dall’annuncio che il suo autore sarebbe presto tornato in tour dopo una
lunghissima assenza dalle scene e da un trittico di successivi album che
portarono il decennio degli anni ’70 a competere ad armi pari con quello
maestoso e rivelatore appena chiuso. Planet Waves è ancor oggi il figlio
bravo e ordinato che deve lasciare spazio ai fratelli privilegiati dagli
Dei.
Siamo a fine 1973, Bob Dylan ha appena cambiato casa discografica passando
dalla Columbia alla Asylum. Dopo il benedetto “incidente” in moto si è
ritirato in casa a cambiare arte e vita, qualche presenza sul palco qua e
là ma nessun tour. Scrive e disegna in un’atmosfera privata e spesso
bucolica. C’è chi lo considera perduto, chi lo ha sempre detestato si
lecca le dita per la caduta del falso idolo, qualcuno in giro vorrebbe
tanto precedere la Annie Wilkins di Misery o, meglio, il Morris Bellamy di
Finders Keepers (sempre dall’orto di Stephen King) e fargliela pagare per
il sogno spezzato, altro che quel formichiere nella spazzatura di A.J.
Weberman.
Dylan invece semplicemente fa Dylan. E scrive un nuovo capitolo della sua
commedia umana. Una dopo l’altra completa la collezione di canzoni
previste per il suo nuovo album. Saranno dodici e si intitolerà Cerimonies
Of The Horses, autocitazione da Love Minus Zero/No Limit, una canzone di
otto anni prima. Si chiude con la Band in una manciata di giorni a
novembre al Village Recorder di Los Angeles. L’album non ne conterrà
dodici e non avrà quel titolo.
Il 17 gennaio 1974 nei negozi arriva Planet Waves, con una strana
copertina composta da un disegno picassiano in bianco e nero che ritrae
tre figure umane, un’ancora, un cuore, il già celebre CND symbol (quello
della pace tanto per intenderci), e le scritte Moonglow e Cast-Iron Songs
& Torch Ballads ai due estremi della facciata. Nulla è spiegato. Neanche
il nome dell’autore compare. Solo l’enigmatico titolo, in cui il secondo
termine potrebbe essere un nome o un verbo. Nel retro, uno scritto vergato
da Dylan stesso con la sua classica calligrafia illegibile sul suo già
mitico passato, mescolando Duluth con Baudelaire e Goya.
I fan lo mettono sul giradischi e non vengono affatto delusi. I critici
invece pure. Il disco segna un rinnovamento se non proprio una rinascita
nella scrittura dylaniana, una nuova spinta, magari ancora grezza, ma di
grande auspicio per qualcosa di veramente dirompente. E così appunto
accadrà, ma a farne le spese sarà proprio quall’album lì che, come ha
scritto Graeme Thomson sulla Guida dedicata all’uomo di Duluth edita da
Uncut “è sempre figurato non tanto come il più sottostimato, ma quanto
quello su cui meno si è indagato”.
Ecco la prova che anche la sfortuna può non vederci benissimo. Perché
Planet Waves è un disco che per delizia e suggestioni non teme confronti
estetici o di massa critica, come piace dire oggi, con i migliori titoli
del suo ineguagliabile patrimonio creativo. Un continuo dialogo e
controdialogo tra incanto dell’amore e oscurità più totale a cui l’amore
stesso può condurre, il lontano passato ricordato con dolcezza romantica,
il presente uncinato in errori letali commessi ieri e un futuro augurato
al sangue del suo sangue di gioia nel cuore e passo svelto e solido quando
arriva il vento del cambiamento. Un disco anguilla, uno tra i suoi più
sguscianti, caratterizzato da liriche mai così alte almeno da Blonde On
Blonde. C’è chi lo vede come il primo titolo del trittico che comprende
anche Blood On The Tracks e Desire, chi solo un saggio di prova per i
successivi due.
Si parte con quell’On A Night Like This che l’autore definirà su Biograph
come una sorta di esercizio verbale tipico dell’ubriaco quando torna
temporaneamente sobrio. Qualunque cosa volle intendere con questa bizzarra
spiegazione il pezzo veloce trasforma in un battito metafisico una
semplice notte passata insieme a casa tra due persone che si amano e in un
gesto del tutto naturale se non addirittura ordinario il metafisico
triplice adagio di Kerouac alla fine di Sulla Strada (“burn, burn, burn”).
E si arriva con Wedding Song, un pezzo così trasparente nella sua lirica
di riconoscenza verso la moglie Sara riscattato dall’appassionata
interpretazione vocale dell’autore. Una canzone che avrà come suo
contraltare l’anno dopo la famosa Idiot Wind e che troverà sintesi quello
ancora successivo in Sara. Del pezzo si lamenterà Jon Landau perché nella
registrazione sentiva i bottoni della camicia di Dylan strisciare contro
la sua chitarra acustica, ma quel che più conta e che la canzone
all’ultimo minuto sostituì la più devota verso la moglie Nobody ‘Cept You,
segno che il grande freddo tra i due era in arrivo.
Ma sono due i momenti che illuminano nonostante il nero con cui solo
Alberto Burri avrebbe potuto dipingerli uguali: Going, Going, Gone e
Dirge. Due pezzi lenti, dal ritmo funereo (che il secondo contiene anche
nel titolo), disperati, pieni di ombre, il primo quasi recitato il secondo
con la voce che prova il canto tirato tipico del biennio 75-76 con la
Rolling Thunder Review per la strada e Desire nei negozi.
Un’autentica “autopsia sulla pelle viva” Brian Hinton definirà Dirge, un
pezzo disturbante che, con quel piano ossessivo, evoca morte e senso della
fine in ogni angolo (“Mi odio per averti amato”) ma che, come in ogni
scivolosità dylaniana che si rispetti, contiene uno dei versi più fertili
di vita che abbia mai scritto: “C’è chi venera la solitudine/ io non sono
uno di loro/ in questa epoca di fibra di vetro sono in cerca di una
gemma”. Insuperabile. Uno schiaffo a due mani Going, Going, Gone, con la
chitarra di Robbie Robertson che accompagna l’ineluttabilità con cui la
voce narrante registra l’apocalisse della sua vita. E qui senza l’Epifania
(o l’anelito verso essa) presente nel citato lamento funebre che appare
qualche titolo dopo.
E il piatto resta ricco: l’amore presentato con aura stilnovistica (Hazel,
You Angel You, Never Say Goodbye), la preghiera di buona vita al figlio
costruita partendo dalla benedizione talmudica durante la cerimonia di
circoncisione (Forever Young, presentata una via l’altra in due differenti
versioni, pezzo che Roddie Woomble, voce degli Idlewild, avrebbe in
seguito dichiarato essere il vero inno dylaniano), lo scintillio giunto
fino al presente dell’antico passato nei volti di chi lo animò (Something
There Is About You, oh cosa pagherei per sentirla cantata da Bruce
Springsteen col mood di Jungleland!), il pezzo “scappato” da Blonde On
Blonde per il suo essere così pieno di vivide immagini visionarie e
imperscrutabili attorno a una Bellezza Nera (Tough Mama, il romanticismo
inglese incontra Tim Burton).
La meraviglia imprevedibile e a tratti capricciosa di questo disco non ha
subito lo scempio del Tempo. I pezzi che la compongono, salvo per Forever
Young, non sono stati più riproposti in concerto dall’ultima data del Tour
1974 con la Band, a Los Angeles, il giorno di San Valentino. Pure il suo
autore sembra essersene dimenticato. Un album inghiottito da altri “più”
(fate voi, ma non scomodate la bellezza). La frettolosità con cui venne
registrato e dato al mercato prima che lo storico tour prendesse piede a
ben vedere fu un colpo a favore e non contro. I musicisti tutti furono i
produttori dell’opera (che infatti, nei suoi credit non reca un nome in
questo ruolo). Che fu il vero colpo di pistola dei Seventies di Bob Dylan.
Ma di cui poi si perdette lo sparo.
SCALETTA
(musica e parole di Bob Dylan)
On A Night Like This
Going, Going, Gone
Tough Mama
Hazel
Something There Is About You
Forever Young
Forever Young (continued)
Dirge
You Angel You
Never Say Goodbye
Wedding Song
(Nobody ‘Cept You nelle Bootleg Series vol 1-3)
MUSICISTI:
BOB DYLAN – voce, chitarra, armonica
ROBBIE ROBERTSON – chitarra
RICK DANKO – basso
LEVON HELM – batteria
GARTH HUDSON – organo
RICHARD MANUEL – piano, batteria
Date di registrazione: 5,6, 9 Novembre 1973
Data di Pubblicazione: 17 Gennaio 1974
Registrato a: Village Recorder, Los Angeles, CA
Casa discografica: Asylum (nel 1982 ripubblicato da Columbia)
Ingegnere del suono: Rob Flaboni
Assistente speciale: Robbie Robertson
Originale pubblicato su :
https://8thofmay.wordpress.com/2015/11/23/oscurati-dalle-nuvole-planet-waves-bob-dylan/
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