DYLAN DAL VIVO: LUCI E OMBRE
di Alessandro Cavazzuti
Sono sempre stato fortemente attratto dal Dylan live. Verso la fine degli
anni 70, quando finalmente fui in grado di reperire i primi bootleg di
concerti di Dylan (merce rarissima, allora) la prima cosa che mi colpì fu
la straordinaria versatilità di questo artista. Ricordo che qualche mese
prima che uscisse il live di Budokan avevo scovato il bootleg di uno dei
concerti di Parigi del 78. Poco tempo dopo, trovai un paio di bootleg
della Rolling Thunder Revue del 75. Due mondi a parte, due concezioni
musicali opposte, approcci, arrangiamenti, tutto diverso. La voce di
Dylan, per quanto diversa, creava il link. Poteva stravolgere le canzoni
rivoltandole come un calzino, anche cambiare timbro, impostazione vocale,
ma era sempre lui, nell’ennesima trasformazione o rivisitazione, che
riportava tutto a casa.
Diversità, versatilità, eclettismo. Tutte queste cose insieme. Nessuno
aveva questo talento, sulla scena musicale, quanto meno non ai suoi
livelli. Ancora oggi che, dopo più di 25 anni, la mia collezione di
concerti si è decisamente sviluppata, uno dei piaceri più grandi resta
quello di passare con disinvoltura dall’ascolto, per dire, di un concerto
del 74 a uno dell’80. Il Never ending tour non fa eccezione. L’88, il 92,
il 94, tanto per citarne alcuni anni, presentano approcci totalmente
diversi.
Ma c’è un’altra ragione che spiega la mia ‘inclinazione’ verso il Dylan
live. A mano a mano che prendevo confidenza con le registrazioni illegali
dei suoi concerti, cresceva in me la convinzione che la discografia
ufficiale, dischi dal vivo compresi, non raccontavano tutta la storia. Non
ne raccontavano nemmeno la minima parte, a dire il vero. Il film Renaldo e
Clara (per altro impossibile da trovare in versione ufficiale), dà solo un
assaggio di quello che fu il primo, splendido Rolling Thunder tour.
Budokan dà una scialba e distorta rappresentazione del tour del 78. Non
esiste alcun documento ufficiale del gospel tour del 79/80, uno dei
momenti più intensi e ispirati di tutta la carriera di Dylan . Zero
assoluto anche per quanto riguarda il brillante tour dell’86 con gli
Heartbreakers. Non parliamo poi del Never Ending Tour. Nell’arco dei suoi
14 anni di vita, le uniche ‘chicche’ disponibili per chi non volesse
‘sporcarsi le mani’ con le registrazioni pirata, restano Unplugged e
Woodstock. E non sarà certo stato il Live 1961-2000, anche se meglio di
niente, ad aver spalancato le porte sul Dylan live. Caso mai le ha appena
appena dischiuse.
Tutto questo spiega la frenetica corsa ai bootleg e alle registrazioni
pirata cui molti fans (il sottoscritto compreso) in tutto il mondo si
dedicano. Non è, come potrebbe sembrare a prima vista, un atto di puro
fanatismo, una specie di ossessione (e in quanto tale, irrazionale), che
spinge ad avere tutto il materiale possibile sul proprio artista
preferito. C’è, in questo caso particolare, anche una motivazione
implicita molto più razionale, che trova riscontro nella quintessenza
della dimensione live di Dylan, ossia il suo approccio alla performance,
sera dopo sera. Unico, perché dettato dall’estro del momento, dal ‘mood’
contingente.
L’arte del Dylan performer sta sostanzialmente in questo, istinto,
creazione, rivisitazione, manipolazione. Nell’esecuzione dei suoi brani
dal vivo, Dylan, diversamente dalla maggior parte degli altri artisti, non
ha come riferimento la struttura consolidata della canzone così come è
stata incisa sull’album. Al massimo c’è un canovaccio, una linea guida,
sulla quale Dylan esplora nuovi arrangiamenti, a volte nuove melodie,
spesso approcci vocali differenti. Sono centinaia gli esempi che si
possono portare di canzoni eseguite in maniera diversa da un tour
all’altro, perfino da una sera all’altra, in funzione delle diverse
‘sensazioni’, del mood del momento e perchè no, della voglia di eseguirle
o meno. Tangled Up In Blue è forse uno degli esempi più eclatanti. Dalla
splendida, evocativa versione acustica del 75, alla suggestiva versione
del 78, a quella completamente rivisitata nel testo e in gran parte della
melodia dell’84, a quella intensissima della prima parte del 96, per
finire con l’ unidimensionale, puro e semplice momento di divertimento che
è la versione un po’ piatta dei concerti degli ultimi 5 anni.
I rischi insiti in questo tipo di ‘attitude’ sono evidenti. Rinunciando ad
un approccio ‘sicuro’ e lineare, il risultato può essere spesso
controverso perchè l’artista si espone, si mette in gioco, decide di
prendersi tutti i rischi. Le canzoni mugulate, canticchiate
svogliatamente, inintelleggibili sono state un marchio di fabbrica dei
concerti dei primi anni 90. Lunghe introduzioni strumentali, pochi versi
cantati, interminabili finali. L’altra faccia, quella più oscura e
impenetrabile, dell’approccio live di Dylan.
Ecco perché Dylan è sempre stato un artista ‘ai limiti’. Le sue esibizioni
sono quasi sempre state caratterizzate da un ‘estremismo’ di fondo. Non
c’è quasi mai stata via di mezzo, con Dylan. Meraviglioso senza riserve o
pessimo, al limite dell’ascoltabile, a volte persino imbarazzante. Certo,
esistono anche le vie di mezzo, a ben guardare, esibizioni così così,
senza infamia né lode ma il filo conduttore, quella sensazione di
‘creazione’ della musica in tempo reale, per quanto a volte flebile e meno
percepibile, è sempre stata presente.
Le cose sembrano essere cambiate negli ultimi anni. Il Dylan degli ultimi
5/6 anni ha ‘scelto’ un approccio più sicuro, meno rischioso, decisamente
più professionale. Scelta consapevole o ineluttabile, inconsapevole,
fisiologica ‘evoluzione’ artistica? Un po’ di tutte e due le cose, credo.
Dylan ha superato la soglia dei 60, negli ultimi 14 anni ha tenuto una
media di cento concerti all’anno e continua imperterrito a girare per il
mondo senza dare segni di cedimento. Nessun altro artista al mondo (e non
solo della sua generazione) è così attivo sulla scena musicale. Non esiste
nessuno che ci vada anche solo vicino. Ma è evidente che questo Never
Ending Tour-de- force è diventato una specie di droga a cui Dylan si è
inevitabilmente assuefatto. E l’assuefazione porta invitabilmente alla
routine. I concerti degli ultimi anni, per quanto molto professionali e
impeccabili dal punto di vista tecnico, soffrono di una certa
ripetitività, e non mi riferisco solo alle scalette. Sto parlando di un
approccio sempre più omogeneo, uniformato, dove i rischi che Dylan decide
di prendersi, quei rischi che una volta erano il sale dei suoi concerti,
sono ora sempre molto calcolati. Difficile uscire da un concerto delusi,
oggigiorno, ma altrettanto difficile uscire con la sensazione di aver
assisitito ad uno spettacolo memorabile.
C’è poi l’aspetto puramente commerciale da non trascurare. Quanti si
ricordano gli spalti desolatamente vuoti del Palatrussardi nel 1993 (e per
questo motivo nascosti da inquietanti teloni neri) o lo sparuto gruppo di
fan presenti sul polveroso ( e alquanto squallido) spazio del Parco
Aquatica nel 1994? Eppure stiamo parlando di due tra i migliori concerti
che Dylan abbia dato in Italia e, più in generale, di due tra i migliori
anni dell’intero Never Ending Tour.
Dylan pagava allora il prezzo di 2/3 anni di concerti quantomeno
sconcertanti (quelli dei primi anni 90), uniti ad una ‘sovraesposizione’
live probabilmente eccessiva per un artista che non ha mai avuto un forte
riscontro commerciale.
Certo, gli ‘hard core fans’ quelli, non mancavano mai, ma è evidente che
Dylan aveva bisogno di attirare un pubblico più vasto, quel tipo di
pubblico che sarebbe venuto ai concerti dell’’icona’ Bob Dylan per
sentirgli fare Blowin’ in the wind o Like a Rolling Stone. Non che Dylan
all’epoca non le facesse o evitasse accuratamente i ‘greatest hits’, ma
probabilmente c’era bisogno di una maggiore ‘stabilità’ nell’esecuzione di
quelle canzoni. Perché se è vero, da un lato, che le sorprese in scaletta
non sono mai mancate, anche nel corso degli ultimi anni (canzoni mai
eseguite prima o ‘ripescate’ dopo anni di forzato isolamento), è
altrettanto vero che le novità sono andate via via scemando per diventare
vere e proprie mosche bianche. Di contro, i ‘classici’ hanno preso sempre
di più il sopravvento nelle scalette. Bisogna andare indietro fino al tour
mondiale del 78 per trovare insieme, nello stesso concerto e per una lunga
serie di concerti, tanti greatest hits come avviene adesso.
Performances buone ma alquanto standardizzate e scalette un po’ più
prevedibili non significano necessariamente concerti noiosi. Dylan rimane
un artista unico nel suo genere, in grado di accendere un concerto con una
sola canzone, se solo lo vuole. Ed esempi ce ne sono, anche nei concerti
più recenti. Ma la tendenza generale sembra essere quella che ho appena
descritto. E la mia non vuole essere una critica, quanto piuttosto una
constatazione. Non smetterò mai di andare a vedere Dylan finchè avrò la
possibilità di farlo, perché un suo concerto rimane un’esperienza unica,
nel bene o nel male, una sorta di viaggio che comprende sensazioni,
emozioni che magicamente si rinnovano e si ripresentano, ricorrenti, nel
preciso momento in cui Dylan sale sul palco, esattamente come un anno
prima, quella sensazione di dejà vu che non è legata ad un ricordo
specifico ma ad emozioni già provate da qualche altra parte in qualche
altro momento, quel sentire di essere in qualche modo ‘a casa’ solo
sentendo quella voce rauca, tagliente e increspata, i momenti di
esaltazione, a volte di fastidio, di irritazione, il mio umore che cambia
innumerevoli volte…e tutto questo, e molto altro, nell’arco di poco più di
due ore.
Voi rinuncereste ad un ‘esperienza simile?
Alessandro Cavazzuti |