Da Luther King a Sun Tzu
di Corrado Ori Tanzi
«Non sono un pacifista, non so nulla di politica, non so nulla di destra e
di sinistra. Non ho mai scritto una canzone politica e chi afferma il
contrario è in malafede. Sono solo un musicista»
Forse una frase così espressa Bob Dylan non l'ha mai veramente
pronunciata, forse è solo un collage di pensieri che non possono esaurirsi
in un meccanico "taglia e incolla" di alcune sue dichiarazioni, ma a
rileggere le più significative interviste rilasciate da Bobby in tutti
questi anni ed evitando, per una volta, di fare un'analisi filologica dei
suoi testi, ci possiamo fare un'idea abbastanza nitida sulla sua posizione
su un tema di neverending attualità (guerra) e sulla parola più abusata di
questi ultimi decenni (pace). E questo a dispetto di chi, tra snobismo e
miopia, ha pensato in tutti questi anni che non valga la pena intervistare
un orso come Bob Dylan le cui risposte abbozzate, contraddittorie,
spiazzanti al limite dell'incoerenza, sono state spesso interpretate come
ostentato cripticismo o involuzione del pensiero quando non proprio
scambiate per un'autentica presa in giro verso interlocutore, ascoltatori
e lettori. Non è così. Per l'impenetrabilità del proprio privato Dylan ha
usato parecchie armi (alcune magari controproducenti a prima vista), ma
una strategia volta a rivelare di sé un volto sostanzialmente sciocco non
si sposa bene con l'intelligenza di uno dei rarissimi artisti capaci di
incidere così tanto sulla cultura occidentale del dopoguerra.
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Masters Of War: un equivoco?
Con Robert Hilburn, del Los
Angeles Times, in un'intervista pubblicata il 16 settembre 2001, Bob è
alquanto preciso e, rubando l'espressione al poeta Bartolo Cattafi,
aggredisce la questione col coltello: «Io non sono un pacifista. Credo di
non esserlo mai stato». La risposta verte su un furto che media e fan
secondo Bob avrebbero fatto in tutti questi anni di Masters of war, non a
caso definita dallo stesso Hilburn una decina di anni prima, «la più
ruvida e antimilitarista delle sue canzoni». «Ho sempre sostenuto -
afferma Dylan - che i media mi hanno spacciato per qualcosa che non ho mai
voluto essere…tutti quei discorsi sulla coscienza. Un mucchio di canzoni
che ho scritto sono state assolutamente fraintese da gente che non ne
capiva nulla (…) Prendiamo Masters of war. Tutte le volte che la canto c'è
qualcuno che scrive che si tratta di una canzone contro la guerra. Ma non
c'è nessun sentimento contro la guerra in quella canzone (…). Se presti
attenzione alla canzone scopri che si tratta di quello che Eisenhower
andava dicendo in merito ai rischi del complesso bellico-industriale nel
nostro Paese. Credo profondamente che sia diritto di tutti difendersi in
tutti i modi necessari».
Un equivoco quindi quella canzone di Bobby, un fraintendimento di uno
degli inni più cantati e citati da più di una generazione. Ci crediamo. Da
sempre Dylan scardina ogni nostra rassicurazione. Anche quella più ovvia.
Ma crediamo altrettanto che quell'equivoco sia nato in tutta buona fede da
chi ha fatto profondamente suo il testo della canzone dando pratica a
quello che Andrei Tarkovsky diceva sull'arte: «Un film visto da mille
persone sono mille film». Un equivoco, d'accordo. Ma non una
mistificazione del significato come è accaduto (e tuttora accade) ad
esempio per Born in the Usa di Bruce Springsteen, definita a priori un
inno patriottico che celebra il mito stelle a strisce quando una semplice
lettura è più che sufficiente per capire che il giudizio debba essere
spostato di centottanta gradi.
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A sostegno di Israele
Ma al di là della (supposta) opera di saccheggio che media e pubblico
dylaniano avrebbero fatto di Masters of war, importano le due
dichiarazioni di Bobby: «Non sono un pacifista» e «Credo profondamente che
sia diritto di tutti difendersi in tutti i modi necessari». E se la prima
affermazione per la sua stessa natura autodefinitoria non lascia scampo,
la seconda invece ci può condurre più lontano. E collegare Dylan alle sue
radici ebraiche che, in una prospettiva politica, lo portano ad affrontare
il tema dell'esistenza d'Israele e della sua sicurezza, storicamente
schiacciata tra terrorismo di stampo palestinese e amministrazione
israeliana spesso sconcertante nella sua ottusa violenza. Lui, il musico
di Duluth, non ha mai fatto mistero della sua "israelianità" (consapevole
quanto la sua ebraicità). E più di alcune immagini ormai entrate nella
memoria dei dylaniati (le foto scattate per Infidels e poi usate anche per
la copertina di Under the red sky, il cantato di One more cup of coffee,
l'immagine che lo ritrae accanto al muro del pianto…), definisce
chiaramente la questione Paolo Vites che del concerto di Dylan lo scorso
20 aprile a Milano ha lasciato su "Maggie's Farm" un commento. E le sue
parole non sono equivocabili: «…Dylan è ebreo e non so quanti hanno notato
il riff che Sexton esegue quando cominciano All Along the watchtower
(neanche io me ne ero accorto, me l’ha fatto notare un mio amico e poi ho
visto su alcuni newsgroup su internet che la cosa si ripete ormai da
qualche tempo): sono alcune note che riprendono la colonna sonora del
famoso film di Otto Preminger, Exodus, degli anni cinquanta, un film che
celebra la nascita dello stato di Israele. È ovvio che si tratta di una
dichiarazione di sostegno totale da parte di Dylan allo stato di Israele
in questa guerra che sta divampando in questi mesi in medio oriente.
Quindi Dylan va sul palco in questo tour europeo con una grande paura di
essere bersaglio di qualche sostenitore dei palestinesi.» Troppo
semplicistico a questo punto pensare che Bobby pensi che un qualche
eccesso repressivo sia pur naturale in una lotta che cerchi di evitare che
la propria gente salti in aria mentre viaggia sull'autobus, fa la spesa in
un centro commerciale, balla in una discoteca, mangia in un ristorante o
festeggia un matrimonio?
Il Potere? Non basta una canzone
Che Dylan, in ogni caso, non pensi che una canzone sia un'arma efficace
contro il Potere lo desumiamo anche da un'intervista rilasciata al Mucchio
Selvaggio e pubblicata nel 1997 in cui, dopo aver detto che nelle sue
intenzioni Masters of war non è una canzone politica e di poter esprimere
su un argomento una posizione conservatrice e su un altro una che lo
collegherebbe tra i progressisti perché non ha mai ragionato in termini di
destra e sinistra, alla domanda: «Crosby, Stills e Nash pensano di aver
contribuito a fermare la guerra del Vietnam», Bob Dylan risponde: «Sì,
hanno messo fine alla guerra…(risate). Nelle loro intenzioni non c'è
dubbio. Facevano quel genere di spettacoli.» Serve qualche commento?
Una dichiarazione di resa? No, piuttosto di estraneità (e rigetto) al
sistema. Tanto quello che lo tirava per la giacca affibbiandogli un ruolo
messianico-profetico che lo inorridiva e gli imponeva l'isolamento nei
vasti spazi di Woodstock sia quello che detta le regole del gioco nella
vita organizzata. Laconico, ma emblematico da questo punto di vista, un
passaggio della sua storica intervista a Playboy nel 1978: « La politica
era una di queste zone, perché c'era gente che stava cercando di cambiare
le cose. Loro erano coinvolti nel gioco politico perché era quello il modo
in cui dovevano cambiare le cose. Ma io ho sempre considerato la politica
solo come una parte dell'illusione generale. Non sono molto coinvolto
dalla politica. Non conosco il funzionamento del sistema. Ad esempio,
c'erano persone che avevano idee politiche definite o che avevano studiato
tutti i sistemi di governo. Molta tra questa gente proveniva dai college e
aveva la tendenza a usare chiunque per qualsiasi scopo. Certo
strumentalizzarono anche la musica, perché la musica era accessibile. Noi
avremmo scritto quelle canzoni e le avremmo cantate a prescindere da ogni
implicazione politica. Non ho mai rinunciato a un ruolo politico perché
non ne ho mai avuto uno. Solo pensarci mi sembra comico. Gurdjeff diceva
che è meglio consumare la propria energia giorno per giorno.»
E, sfogliando MF nella sezione "I said that!", alla voce "Pace nel mondo"
ci si imbatte in queste dichiarazioni del Nostro:
- «Non ci sarà nessuna pace»
- «Mentre stai ricaricando il fucile, proprio nel momento in cui lo stai
ricaricando, quella è la pace. Può durare molti anni.»
- «Non è giusto lottare per la pace... Niente di tutto questo. Ho sentito
qualcuno che raccontava alla radio quel che sta succedendo ad Haiti:
"Dobbiamo essere coinvolti in quello che sta succedendo ad Haiti. Ora
siamo persone globali". Stanno spingendo tutti verso questo stato d'animo,
come se noi non fossimo più solo gli Stati Uniti, come se fossimo globali.
Pensiamo in termini di mondo intero perché le comunicazioni arrivano
dritto fino a casa. Bene, questo è l'argomento del Libro della
Rivelazione. Puoi essere certo che chi protesta per la pace non è per la
pace.»
Semplice voglia di sorprendere l'interlocutore, esercizi di equilibrismo
dialettico in sintonia con la definizione che nel 1966 diede di sé («Mi
piace pensare a me stesso come un artista del trapezio»), radicata
disillusione sul nostro destino, timore dell'uomo organizzato (come già
espresso da Fabrizio De André) o disincantato realismo su come mantenere
l'equilibrio in pieno internazionalismo politico?
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Da Luther King a Sun Tzu
Sia chiaro, se non è un
pacifista e se la sola ipotesi di diventare un'icona della pace gli
provoca sintomi vicini alla pellagra, Dylan non è certo un guerrafondaio.
Nel suo cammino artistico ha sempre gonfiato solo i muscoli del cervello e
colpito la mente di chi ha avuto la pazienza di ascoltarlo (perché Mr.
Zimmerman si ascolta non si sente) col seme del dubbio (il più grande
regalo che una persona possa ricevere da un artista). In passato ha
sposato cause civili (Hurricane tanto per citarne una) e lo ha fatto con
convinta partecipazione, anche se ben difficilmente lo potremmo vedere
marciare urlando farisaicamente questo o quello slogan. E, senza
nascondersi dietro alle parole, ha "battuto la lingua sul tamburo" quando
si è trattato di portare alla luce episodi di quotidiana violenza
individuale e di giustizia negata (The lonesome death of Hattie Carroll,
Ballad of Hollis Brown) e ha cantato il diritto e la forza di dire "No"
all'autorità costituita (Chimes of freedom, Knockin' on heaven's door).
Conosce gli scritti di M.L. King e quelli di Allen Ginsberg, giuriamo
abbia letto i nobili discorsi di Abraham Lincoln e quelli di Robert
Kennedy, con ogni probabilità non gli sono estranei i pensieri di Voltaire
e Rousseau. La Bibbia potrebbe recitarla al contrario e altrettanto
profonda è la conoscenza che ha dei testi sacri ebraici. Ma nello stesso
momento non s'illumina d'orrore davanti a testi che definiscono la guerra
un'arte. A tal proposito è esemplificativo un passo dell'imperdibile
saggio di Alessandro Carrera intitolato "Bob Dylan l'inafferrabile" in cui
si cita un'intervista apparsa su Rolling Stone il 22 novembre 2001 ed
esattamente il punto in cui il giornalista Mikal Gilmore gli chiede un suo
commento sulla strage dell'11 settembre. Questa l'esemplificativa risposta
di Dylan: «Davvero non so cosa potrei dirle. Non sono né un educatore né
uno che sa spiegare le cose. Quello che faccio lo vede, ed è quello che ho
sempre fatto. Ma ora è il momento che si facciano avanti dei grandi
uomini. In un momento come questo, niente di grande si potrà fare con
piccoli uomini. Quelli che sono al potere, sono sicuro che hanno letto Sun
Tzu, che ha scritto l'Arte della Guerra nel sesto secolo a.C. È quel
passaggio dove dice: "Se conosci il nemico e conosci te stesso, non devi
aver paura neanche di cento battaglie. Se conosci te stesso e non il tuo
nemico, per ogni vittoria soffrirai una sconfitta". Chiunque siano quelli
che comandano, sono sicuro che l'hanno letto».
Ora, al di là del beffardo sarcasmo con cui Dylan si ritiene sicuro che i
vari George Bush, Donald Rumsfeld, Condoleeza Rice e Tony Blair (ma anche
Jacques Chirac e Gerard Schroeder) abbiano letto l'antico testo, c'è la
sensazione che Dylan abbia col tempo sposato l'idea che la guerra, per
quanto orribile possa essere, per quanto portatrice di un dolore spesso
senza ritorno, per quanto strumento d'imbarbarimento umano, sia quasi un
risvolto antropologico della vita stessa su questo pianeta, un capitolo
della terrestre esistenza che disastri sociali e un dio economico che
progressivamente si è fatto padrone della vita stessa di chi lo alimenta
rendono in un certo momento storico quasi ineluttabile. E che rispondere
con la forza alla forza sia semplicemente un diritto che qualcuno
esercita. Una posizione filosofica fatalista? Non credo, troppo
semplicistica per uno come Bob Dylan. Nihilista? Neanche, non è Charles
Bukowski (ma poi Bukowski lo fu veramente?). La sua sembra più la
posizione del testimone del suo tempo di quello che "Far between sundown's
finish an' midnight's broken toll/ We ducked inside the doorway, thunder
crashing/ As majestic bells of bolts struck shadows in the sounds/ Seeming
to be the chimes of freedom flashing".
Non so onestamente se Dylan si sia mai espresso sulle due ultime guerre
(Afghanistan e Iraq), non sono al corrente se sposi o meno la posizione
espressa da Bruce Springsteen prima dell'attacco americano a Bagdad («La
guerra in Afghanistan trovava la causa nell'11 settembre, eravamo stati
attaccati. Non so se la gente davvero capirebbe le vere ragioni di una
guerra all'Iraq»). Vista la sua idiosincrasia ad accettare come verità le
ragioni di stato e le giustificazioni ufficiali, mi suonerebbe parecchio
stonata la sua adesione alla maggioritaria convinzione statunitense che
sia stata una guerra di liberazione di un popolo per il ripristino della
democrazia. Molto arduo pensare che Dylan si faccia imboccare da G.W. Bush
o dai notiziari propagandistici della Fox Tv, megafono sintonizzato su
Washington e senza orecchie per il minimo dissenso. Davvero molto arduo.
Ma, proprio partendo dal conflitto iracheno, non mi stupirei al contrario
se pensasse che non si sia trattato che di una scelta tra le tante a
disposizioni dell'uomo. La più orribile certo, ma non per questo disumana
(estranea alla nostra stessa natura). Come dire: è la realpolitik baby. E
ancor meno sarebbe sorprendente un suo distacco, anche soltanto
intellettuale, dell'intero movimento pacifista, perché ancor oggi imbevuto
di tanto, troppo furore ideologico unilateralmente espresso verso il
"demone America" e assente quando i diritti umani vengono calpestati
altrove.
Probabilmente la sua posizione scorrerà nelle vene delle sue prossime
canzoni. Magari in un passaggio in cui sembrerà parlare di tutt'altro. In
fin dei conti lui resta l'artista che ci dice che There's a dyin' voice
within me reaching out somewhere/ Toiling in the danger and in the morals
of despair…
Corrado Ori Tanzi
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P.S. I passi citati sono tratti da interviste la cui lettura completa è
disponibile su Maggie's Farm
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