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BOB DYLAN E IL 1975: IT AIN'T ME

di Samuele Conficoni

Pubblicato su Music Map a fine maggio 2019 (link: http://www.musicmap.it/news/new.asp?id=14341 )

Nell’estate del ’75, mentre sta registrando Desire, Bob Dylan compare spesso all’Other End, locale underground di New York che proprio in quel periodo cambia nome in Bitter End, con Ramblin’ Jack Elliott e Bob Neuwirth. Da qualche settimana gli ronza nella testa un’idea: assemblare un gruppo di artisti itineranti che, esibendosi, si spostino attraverso gli Stati Uniti e il Canada. Dopo anni trascorsi lontano dai palcoscenici, nel 1974 Dylan organizza una tournée trionfale con la Band. Registra (nel ’74) e pubblica (nel gennaio del ’75) Blood on the Tracks, e pochi mesi dopo si mette già a lavorare su Desire. Il 30 ottobre 1975, dopo alcune settimane di prove, Dylan si imbarca nella “Rolling Thunder Revue”, un tour che, suddiviso in due parti, sarebbe terminato a Salt Lake City il 25/05/1976, giorno successivo al suo 35° compleanno. Nel suo nuovo documentario, Rolling Thunder Revue: A Bob Dylan Story by Martin Scorsese, in uscita per Netflix il 12 giugno, Martin Scorsese sceglie di concentrarsi sul ’75.

In quelle settimane frenetiche, tra luglio e settembre, Dylan contatta musicisti, poeti, attori e registi teatrali. Chiama Bob Neuwirth, Sam Shepard, Allen Ginsberg, Joni Mitchell. Invita Joan Baez, quella che aveva introdotto Dylan al grande pubblico nei primi Anni Sessanta. I due avevano spesso condiviso il palco ed ebbero probabilmente una storia d’amore tra ’63 e ’64. Nella primavera del ’65, però, mentre Dylan percorre lo UK in tournée, era chiaro che tra i due si fosse rotto qualcosa. Il regista Pennebaker, mentre sta filmando quello che sarebbe diventato Don’t Look Back, riprende Dylan che batte a macchina e che, concentrato e silenzioso, ignora Baez che gli canta “Love Is Just a Four-Letter Word”. La surreale scena venne definita da Alessandro Carrera un crudele e involontario esempio di cinéma verité. Ora Dylan prova a ricucire un rapporto ormai logoro. I due salgono sul palco ogni sera e cantano insieme alcuni brani.

Da quel tour ’65 ogni cosa è cambiata, sia in Dylan sia nella gente e nel mondo intorno a lui. Nel frattempo Dylan si è sposato, ha avuto figli e il suo matrimonio è in crisi. Ritiene conclusa l’esperienza live con la Band, con la quale si sarebbe esibito ancora una volta nel 1976, a San Francisco, per “The Last Waltz”, l’ultimo concerto del gruppo, prodotto da Robbie Robertson e filmato proprio da Martin Scorsese. Per il gruppo che lo accompagnerà nel nuovo tour, Dylan decide di ingaggiare Mick Ronson, chitarrista degli Spider from Mars di David Bowie, conosciuto al Bitter End, Scarlett Rivera, violinista di strada scoperta da Dylan stesso, che aveva partecipato, solo poche settimane prima, alle sessioni di registrazione di Desire, e il bassista Rob Stoner, anche lui confermato da Dylan a seguito di quelle stesse sessioni. Ci sono poi T-Bone Burnett, Luther Rix, Steve Soles e Howie Wyeth. Un giovanissimo Larry Sloman è incaricato da Rolling Stone di seguire la tournée.

I musicisti salgono a turno sul palco eseguendo il proprio set. Dylan, accompagnato da una band denominata Guam, ne tiene due, uno a metà spettacolo e uno alla fine, durante i quali esegue alcuni brani da solo o in duetto con Baez. Apre tutti gli show con “When I Paint My Masterpiece”, indossando di tanto in tanto una maschera che toglierà solo nel finale del secondo brano, “It Ain’t Me, Babe”. Per buona parte dello show il suo viso è tinto di bianco. “Non sono io”, canta Dylan quando il suo spettacolo è appena iniziato. Interpreta il pezzo con ferocia e cinismo. Sembra voler dire al pubblico che al centro non vi è lui ma solo le sue canzoni. Sembra volerlo ribadire ancora una volta e ancora più chiaramente di quanto non avesse già fatto nel corso dei tour ’65 e ’66.

Dylan vuole che le sue canzoni camminino da sole, che non siano mai subordinate alla figura del loro esecutore o compositore. Esse esistono al di là della parte che lui sceglie di interpretare. Siamo di fronte a uno dei tanti tentativi di Dylan di mascherarsi dietro un travestimento, dietro alla sua stessa arte. La maschera che Dylan decide di indossare in quel biennio viene applicata anche al nome stesso del tour. Le “Rolling Thunder”, infatti, erano missioni di bombardamento effettuate dagli Stati Uniti sul Vietnam durante la presidenza Johnson tra 1965 e 1968 e Guam è il nome di un’isola situata nell’Oceano Pacifico, in Micronesia, dove aveva sede una base militare statunitense che fornì supporto aereo alle operazioni terrestri in Vietnam. Che Dylan volesse dire finalmente la sua su quella guerra assurda che si avviava alla conclusione, della quale non aveva mai parlato pubblicamente? Non lo sapremo mai. Quando, agli albori del “Never Ending Tour”, nel 1988, eseguirà alcune volte “With God on Our Side”, il brano avrà una strofa in più che riguarda il Vietnam, scritta, però, dai Neville Brothers e non da Dylan. Il mistero permane.

Partendo il 30 ottobre da Plymouth, Massachusetts, Dylan sembra inoltre fornire al pubblico e ai critici un indizio. È a Plymouth che nel 1620 sbarcarono dalla Mayflower una trentina di puritani inglesi, i Padri Pellegrini, che erano partiti dalla Plymouth britannica. Uno degli scopi della Thunder sembra essere quello di celebrare alcuni strati sociali e gruppi etnici degli Stati Uniti ghettizzati dagli europei, operazione totalmente in contrasto con la storia dei Pilgrims. Dylan si occupa della richiesta di scarcerazione di Rubin Carter, più noto come Hurricane, pugile nero incriminato anche se innocente. Dedicherà proprio a Carter l’ultima serata del tour ’75, al Madison Square Garden di New York, l’8 dicembre, e la prima del ’76, all’Astrodome di Houston, il 25 gennaio. Nelle prove pre-tour Dylan suona “The Ballad of Ira Hayes”, canzone di Peter LaFarge dedicata a un soldato nativo americano. Se i Pilgrims, come scrive Carrera, hanno voluto fare dell’America «una cosa loro», Dylan, come riteneva Ginsberg, stava tentando di recuperarla. Nel frattempo, però, lei iniziava le celebrazioni per il suo duecentesimo anniversario, che sarebbe scoccato nel 1976.

Dal 1988 in avanti Dylan avrebbe perseguito in maniera ancor più metodica questa filosofia di mascherarsi dietro alle canzoni. Il suo “tour senza fine” sembra essere al tempo stesso diverso e identico ogni sera. I brani, solo loro, devono essere al centro. «Trovo la religiosita` e la filosofia nella musica», afferma Dylan nel 1997. «Queste vecchie canzoni sono il mio vocabolario e il mio libro di preghiere». Quello che ha sempre cercato di fare, nel 1975 come nel 2019, è rinunciare alla propria persona per lasciare al pubblico la sua arte soltanto. Il fatto che, durante il tour ’75, Dylan diriga Renaldo & Clara, un film sperimentale dove Dylan è interpretato da Ronnie Hawkins e Dylan interpreta la rockstar Renaldo, è un’ulteriore prova di tale mascheramento e del tentativo di leggere la realtà da più punti di vista, metodo che Dylan stava applicando a sé e ai suoi lavori a quel tempo.

Nel film, pubblicato nel 1978 e oggetto di critiche feroci, si incrociano performance dal vivo del ’75, finzione cinematografica, con la storia d’amore tra Renaldo (Dylan) e sua moglie Clara, interpretata da Sara Dylan, e piano politico, concernente la richiesta di scarcerazione di Carter. Due momenti del film sono particolarmente incisivi, quando Dylan intervista un gruppo di afroamericani in merito a Carter e quando incontra alcuni nativi che gli rivelano che Rolling Thunder per loro significa “il vero che parla”. In sottofondo Dylan canta “People Get Ready” di Curtis Mayfield, eseguita durante le prove del tour, sorta di sigillo dell’intero progetto. Il tentativo di recuperare l’America passava necessariamente da questo. Non sono io, però, quello che cerchi, ribadisce Dylan con forza. Ed è già da un’altra parte.