Bob Dylan e Henry Timrod
di Alessandro Carrera
A proposito del furore sollevato un’altra volta sul presunto plagio di cui
Bob Dylan si sarebbe reso colpevole, ecco un intervento che spero serva a
chiarire le cose. Dylan è quel tale che ha plagiato “Blowin’ in the Wind”
da uno studente del New Jersey, vero?
Iniziamo da un certo Scott Warmuth, il primo ad accorgersi che alcuni
versi di “Modern Times” sono ricavati dalle poesie di un poeta americano
dell’Ottocento di nome Henry Timrod. Lo scandalo scoppia quando la notizia
arriva sul “New York Times” con un articolo di Motoko Rich del 14
settembre 2006: “Who’s This Guy Dylan Who’s Borrowing Lines From Henry
Timrod?” [Ma chi è questo Dylan che prende a prestito versi da Henry
Timrod?]
L’autore dell’articolo non accusa affatto Dylan di plagio, e nemmeno
alzano accuse di plagio alcuni esperti di poesia americana intervistati
dal giornalista del New York Times (l’unica eccezione è un insegnante di
scuola media di Albuquerque, New Mexico, il quale afferma che se “Modern
Times” fosse stato un compito a casa, Dylan sarebbe nei guai; figurarsi la
Terra desolata” di Eliot, allora, con tutti quei versi presi da Dante e da
Baudelaire...). Anzi affermano che si tratta di un onorevole
riconoscimento a un poeta poco conosciuto. Nonostante la sobrietà di
queste affermazioni, si è scatenata la cagnara che, da quando esiste
internet, sembra considerare ogni citazione fatta da Dylan nelle sue
canzoni come un atto che merita un’azione penale. Dylan fa quello che ha
sempre fatto, e in “Modern Times” non prende in prestito più di quanto non
abbia mai fatto in passato (compresi i suoi dischi più classici), ma prima
non c’era internet ed erano in pochi ad accorgersene.
Il poeta in questione è Henry Timrod (1828-1867), nato a Charleston in
South Carolina (dove gli è stato innalzato un monumento), giornalista,
insegnante e convinto sudista (la sua poesia “Carolina” è stata adottata
come testo dell’inno dello stato). Dopo la sua morte per tubercolosi
all’età di 39 anni, le sue poesie sono state raccolte in volume nel 1873.
Dylan è, come ammette in “Chronicles Volume 1”, un grande appassionato
della Guerra di Secessione e, per quanto le sue idee sulla schiavitù e
sulla lotta per i diritti civili siano più che note, non ha mai preso una
posizione manichea sul conflitto che ha contrapposto il Nord e il Sud
degli Stati Uniti. Per questo non deve stupire il suo interesse per un
poeta “confederato” così come non deve stupire il fatto che Dylan che
esegua la canzone “Dixie” (uno degli inni di Confederati) nella colonna
sonora di “Masked & Anonymous”. Anche perché, come “Dixie” era cantata in
tutti gli Stati Uniti, non solo nel Sud, Timrod è stato ampiamente letto
anche anche al di fuori della Carolina. Tra l’altro Dylan non cita le
poesie esplicitamente “sudiste” di Timrod. Prende solo alcuni elementi
puramente lirici, inserendoli nella struttura di tre canzoni di “Modern
Times”.
1) “When the Deal Goes Down”
Dylan, v. 2
Where wisdom grows up in strife
Timrod, “Retirement”
There is a wisdom that grows up in strife,
Dylan, v. 12
Things I never meant nor wished to say
Timrod, “Sonnet XIII”
Things which you neither meant nor wished to say
Dylan, v. 18
Well, I scarcely feel the glow
Timrod, “Two Portraits”
Yourself will scarcely feel the glow
Dylan, v. 22
More frailer than the flowers, these precious hours
Timrod, “A Rhapsody of a Southern Winter Night”
These happy stars, and yonder setting moon,
Have seen me speed, unreckoned and untasked,
A round of precious hours.
Oh! here, where in that summer noon I basked,
And strove, with logic frailer than the flowers…
Dylan, v. 23
You come to my eyes like a vision from the skies
Timrod, “A Vision of Poesy – Part 1”
A strange far look would come into his eyes,
As if he saw a vision in the skies.
2) “Workingman’s Blues #2”
Dylan, v. 36
Sleep is like a temporary death
Timrod, “Two Portraits”
The germs of many virtues rest,
Which, ere they feel a lover's breath,
Lie in a temporary death…
3) “Beyond the Horizon”
Dylan, v. 3
In the long hours of twilight ‘neath the stardust above
Timrod, “A Vision of Poesy – Part 01”
In the long hours of twilight, when the breeze…
È tutto qui. Nessun verso viene citato integralmente e letteralmente, sono
tutti rielaborati e posti in un contesto differente. Che è quello che
tutti i poeti fanno tutti i giorni e in ogni poesia che scrivono. Non mi
sembra di dover spiegare quanti versi di Dante sono presi da Virgilio o da
Ovidio, o quanti versi di Leopardi sono riadattati da Petrarca, da Tasso e
perfino da Vincenzo Monti, che nemmeno gli stava simpatico. La poesia non
nasce dal nulla, nasce dalla sensibilità che ci fa cercare i poeti che ci
sono affini e ci spinge a incorporarli nel nostro lavoro, per
irrobustirlo, per arricchirlo, per dargli un passato. T. S. Eliot diceva
che se uno vuole restare poeta dopo i venticinque anni deve sapere da dove
viene e, mi verrebbe da aggiungere, deve sapere da dove vuole venire. E
Pavese diceva che i nostri antenati ce li creiamo noi. Ma c’e molta gente
in giro che evidentemente è ancora convinta che per scrivere basta farsi
una canna e poi i versi vengono da soli. E quel tale che ha diffuso in
internet il già fin troppo citato giudizio secondo il quale Dylan sarebbe
un “piccolo ladruncolo fetente” (“a thieving little swine”,
pool.dylantree.com/phorum5/read.php?1,642969), deve essere uno che in
letteratura inglese non è mai andato molto bene. L’incidente non vale la
pena di essere ulteriormente discusso, e sull’ultimo numero del “New
Yorker” un trafiletto diceva appunto: “Rilassatevi, Dylan è ancora il più
grande autore di canzoni in circolazione, e se non lo sapevate ve lo
diciamo noi, che ha sempre preso da chi gli pareva”. E seguono alcuni
esempi da “Empire Burlesque” eccetera (gli stessi che ho menzionato nelle
note alle mie traduzioni, peraltro). Ma l’accaduto mi spinge a qualche
considerazione che vorrei dividere con i lettori di Maggie’s Farm.
Per molti, Dylan rimane inspiegabile. Non sa cantare, non sa suonare, ed
evidentemente non sa nemmeno scrivere versi: quelli di “Thunder on the
Mountain”, in particolare la strofa sul non poter andare in paradiso per
averci ucciso un uomo una volta, sono stati giudicati una “ridicola
pappetta” da un certo Russ Smith sul New York Press (se li avesse scritti
Nick Cave credo che Smith avrebbe gridato al capolavoro), e Ron Rosenbaum
sul “New York Observer” ha autorevolmente sostenuto che “Modern Times” è
il più insulso disco di Dylan dai tempi di “Self Portrait”. Ora, Ron
Rosenbaum è sempre stato un fervente dylaniano. È lui che ha riportato, in
un’intervista a Dylan nel 1978 per “Playboy”, la famosa frase dylaniana
sul “mercury, thin, wild sound” di “Blonde on Blonde” e degli altri dischi
del periodo. E a giudicare dal numero di volte in cui la cita
probabilmente pensa di detenerne il copyright. O Dylan è quella cosa lì, o
non è. Perché altrimenti il suo giudizio resta incomprensibile,
soprattutto perché non è minimamente motivato. Ora, da quando Dylan è
salito sulle scene, cioè 45 anni fa, c’è sempre qualcuno che, a scadenza
mensile, lo giudica finito, superato, spacciato, atroce, inascoltabile,
una truffa vivente, una gloria del passato, un drogato, un alcolizzato, un
fegato spappolato, un relitto umano, un residuato bellico, una figura
patetica, un caso pietoso, uno spettro ambulante, un ladro, un traditore,
un venduto al miglior offerente. Eppure Dylan è sempre lì, in relativa
buona salute, scrive, canta, incide, pubblica, vende a volte meno, a volte
più, riceve premi e magari a 65 anni gli capita anche di arrivare primo in
classifica. Come direbbe lui stesso, “it ain’t easy to swallow, it sticks
in the throat” [non si può mandar giù, resta in gola davvero].
Nei confronti di Dylan, come del resto nei confronti di molti altri
musicisti degli anni sessanta, c’è tutta una generazione che è cresciuta
con la cultura del sospetto. Non si voleva ammettere che si aveva bisogno
della musica che costoro producevano. Ci si voleva liberare di loro il più
in fretta possibile per poter godere della musica senza dover rendere
omaggio all’artista. Ai musicisti piace fare musica più di ogni altra
cosa; poi magari gli piacciono anche i soldi, il sesso o anche la droga,
ma se sono musicisti davvero viene prima la musica. Ma il rapporto che il
pubblico aveva negli anni sessanta e settanta con il musicista era spesso
simile a quello che ha il tossicodipendente con il suo pusher. Non può
fare a meno di lui, e dunque lo odia. Vorrebbe potersi procurare la roba
senza intermediari, ma non è possibile. Da qui nasceva appunto quella che
ho chiamato cultura del sospetto. Il musicista lo fa per i soldi, lo fa
per vendersi, ci sfrutta, noi povero pubblico, per assicurarsi un
contratto con le multinazionali o per avere un ingaggio a Las Vegas. E poi
chi ci dice che sia proprio lui a scrivere i suoi pezzi? Senz’altro ha un
esercito di ghost writers trattati come schiavi che scrivono per lui,
perché è chiaro che lui non può essere così bravo, è ovvio che ci sta
imbrogliando.
Ho esagerato? D’accordo, ho esagerato, ma il problema è che il mistero
dell’arte, dell’ispirazione, del talento, a volte del genio, mentre nel
caso dell’arte “alta” viene filtrato da secoli da apposite istituzioni
come il teatro, la sala da concerti o il museo, che servono appunto a NON
far spaventare il pubblico borghese che vi accede (se quel pubblico
sapesse che quello che trova lì dentro potrebbe davvero sconvolgergli la
vita non ci entrerebbe nemmeno), nel caso della musica rock è arrivato al
pubblico di massa quasi senza mediazioni, senza schermi protettivi, e ha
quindi generato attaccamenti fortissimi, beatlemania e collezionismo
forsennato, estasi e rapimenti, ma anche una buona dose di angoscia, che
arriva fino a Mark David Chapman che spara a John Lennon perché Lennon gli
è arrivato addosso per così dire allo stato puro, senza gli schermi
protettivi dell’istituzione culturale e della scuola. Chi sono questi
sciamannati sul palco con la chitarra in mano e perché hanno tanto potere
su di me, dopotutto? L’angoscia genera meccanismi di reazione e di difesa,
e supporre che l’artista tanto osannato in realtà sia un “piccolo
ladruncolo fetente” che ruba versi e accordi ai morti è un notevole
tranquillizzante, serve a far rientrare l’intera faccenda nella norma.
Tutto bene, ragazzi, Dylan non è un genio, è soltanto un mediocre come me,
se fossi stato al suo posto sarei stato capace anch’io.
Seconda osservazione. Lo so che da una prospettiva un po’ più cosmica il
fatto di arrivare primi o ultimi nella classifica di Billboard non conta
niente. Ma penso che per un momento sia utile soffermarsi sull’aspetto
sociologico della cosa. Un po’ di anni fa, Greil Marcus aveva scritto un
articolo nel quale citava qualcuno che, difendendo fin troppo la purezza
anticommerciale di Dylan, faceva notare con orgoglio: “Dylan non ha mai
avuto un numero 1 in classifica!” Si riferiva ai 45 giri, ovviamente, ma
il senso era chiaro. Il commento di Marcus era stato: “Beh, che cosa
aspetta? Non è ancora troppo vecchio”. La provocazione era chiara: avere
un numero 1 in classifica fa parte dell’esperienza di essere un artista, è
un risultato che si può raggiungere spesso o non raggiungere mai, ma non è
estraneo o ostile al lavoro che si sta facendo e al senso che gli si vuole
dare. Questo mi sembra un atteggiamento sano nei confronti del processo
artistico e del suo necessario rapporto con il mercato. Ma essere numero 1
come lo è stato Dylan, magari solo per una settimana ma con un disco come
“Modern Times” che, comunque lo si voglia giudicare, va contro a ogni
regola attuale del mercato e a ogni regola di produzione, è qualcosa che
sconcerta. Qualche giorno fa il direttore del dipartimento universitario
dove lavoro (che quando gli ho mostrato il volume delle traduzioni delle
“Lyrics” l’ha contemplato con ammirazione mista a orrore), mi incontra in
ascensore e mi dice: “Quando ho visto che Dylan ha fatto un altro disco di
cui parlano tutti ho pensato: questo significa un sacco di altro lavoro
per Alessandro, non se ne può più, perché quest’uomo non muore una volta
per tutte e non ci lascia in pace?” Scherzava, certo, ma l’umorismo è un
modo di deflettere le cose alle quali non sappiamo dare una spiegazione.
La “tenuta” di Dylan è precisamente uno di quei misteri che continueranno
a tormentare tutti coloro che sono convinti che “Dylan non ha più fatto
niente di buono a partire da...” (aggiungete voi l’anno o il titolo del
disco), o che magari non ha mai fatto niente di buono neanche prima.
Non mi è rimasto spazio per parlare di “Modern Times”, che va molto al di
là di queste considerazioni. Ma un’idea del disco ve la siete fatta, e a
questo punto della sua carriera Dylan non ha bisogno di altre recensioni,
semmai di interventi meditati e che hanno bisogno di tempo per essere
pensati. Ho letto molte recensioni, alcune belle e acute (in particolare
Peter Stone Brown su “Counterpunch”, Michelangelo Matos su “City Pages” di
Minneapolis e Thom Jurek su “All Music”). Sto aspettando che Greil Marcus
scriva qualcosa. Per ora so che ha giudicato “Modern Times” un po’
“leggero”, ma ha fatto anche notare che Dylan è l’unico che può
pronunciare la parola “proletariat”, come fa in “Workingman’s Blues #2”,
con la stessa naturalezza con cui direbbe “baby”. Per il momento vorrei
solo confessare che sono stato tra i primi a sentire “Modern Times”, alla
fine di maggio, ma ero vincolato dalla promessa di non dirlo a nessuno e
ho dovuto mantenerla. L’ho sentito una volta sola, senza conoscere i
titoli dei brani e senza poter capire bene i testi, per cui l’avevo
semplicemente assorbito come una sola lunga canzone. Mi era piaciuto
moltissimo e quando poi ho avuto modo di sentirlo bene ho potuto
riconfermare il giudizio (anche “The Levee’s Gonna Break”, che al primo
ascolto mi era sembrata musicalmente non eccelsa, ha guadagnato ai
ripetuti ascolti), ma due melodie in particolare mi erano sembrate
qualcosa di straordinario, tra le più belle che Dylan avesse mai composto.
È ovvio che si trattava di “Workingman’s Blues #2” e di “Ain’t Talkin’”.
In particolare la prima delle due mi pareva affondare in qualcosa di molto
profondo, una struttura musicale antica e solidissima. Era così. La strofa
di “Workingman’s Blues #2” è basata all’incirca sulle stesse armonie del
“Canone” di Johann Pachelbel, uno dei brani più celebri del barocco
tedesco. Un altro furto del piccolo ladruncolo fetente? No, intanto perché
sono solo gli accordi, non la melodia. E poi può anche darsi che il
riferimento non sia del tutto conscio. Il “Canone” di Pachelbel lo si
sente molto in America in tempi natalizi ed è facilissimo che la sua
architettura armonica rimanga in testa anche senza accorgersene. E poi,
per chiudere con questa faccenda dei plagi, vorrei citare proprio Scott
Warmuth, la persona che ha scoperto i riferimenti a Timrod in “Modern
Times” (a proposito, fate l’anagramma di “Modern Times” e trovate “Timrod
Semen”, seme di Timrod, ma è una coincidenza, sia chiaro): “Date pure le
opere complete di Timrod a un gruppo di persone a caso, e nessuno se ne
uscirà con una canzone di Bob Dylan”.
Alessandro Carrera
|