Bob Dylan 1962/2002 - 40 anni
di canzoni
di Paolo Vites
Il libro
di Paolo Vites dedicato a Bob Dylan si intitola: "Bob Dylan 1962/2002 - 40
anni di canzoni" (introduzione di Elliot Murphy).
Si tratta di un'analisi, disco per disco, di tutta la produzione in studio
di Bob Dylan con commenti dei diretti interessati (Dylan compreso),
aneddoti, date di registrazione, analisi critica; in più una appendice a
cura di Alessandro Cavazzuti che seleziona i cento concerti migliori
nell'arco di tutta la carriera di performer di Dylan con breve commento
per ciascuno.
Il libro è uscito in tutta Italia per Editori Riuniti.
L'autore ha voluto gentilmente concedere a "Maggie's Farm" l'onore di
pubblicare in anteprima un capitolo del volume, quello dedicato all'album
"Blood on the tracks" e, di seguito, la scheda dell'anno 1988 relativa ai
concerti, opera di Alessandro Cavazzuti.
Un sentito grazie per questa anteprima da parte di tutti noi di MF che
siamo naturalmente felici di questo privilegio.
Michele Murino
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da "Bob Dylan 1962/2002 - 40 anni di
canzoni"
di Paolo Vites
Blood On The Tracks - (Columbia, 1975)
Tangled Up In Blue / Simple Twist Of Fate / You’re A Big Girl Now / Idiot
Wind / You’re Gonna Make Me Lonesome When You Go / Meet Me In The Morning
/ Lily, Rosemary And The Jack Of Hearts / If You See Her, Say Hello /
Shelter From The Storm / Buckets Of Rain
Pubblicato il 17 gennaio 1975
Registrato agli studi A&R di New
York dal 16 al 19 e dal 23 al 25 settembre e agli studi Sound 80 di
Minneapolis il 27 e 30 dicembre 1974
Foto di copertina di Paul Till
Note di copertina (nell’edizione
originale) di Pete Hamill
Dipinto nel retro copertina di
David Oppenheim
Nota: la seconda edizione ha un
diverso dipinto sempre di Oppenheim e nessuna nota di copertina; una terza
edizione ha il primo dipinto e le note di copertina, mentre l’edizione su
cd ha solo il secondo dipinto
Posizione più alta raggiunta nelle classifiche americane: n. 1.
Musicisti: Bob Dylan (voce, chitarra e armonica); Eric Weissberg, Ken
Odegard, Charles Brown III, Barry Kornfeld, Chris Weber (chitarra); Tony
Brown, Bill Peterson (basso); Richard Crooks, Bill Berg (batteria); Paul
Griffin, Greg Imhofer (tastiere); Buddy Cage (pedal steel).
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“Povera America. Terra dove i poeti muoiono. Eccetto Dylan. Lui è rimasto,
di fronte a noi ed è rimasto vero. Non è il solo, naturalmente; non è il
solo, adesso. Ma di tutti i nostri poeti Dylan è quello che ha preso, in
modo più evidente, il mare in tempesta e lo ha messo in un bicchiere”.
Così Pete Hamill nelle note di copertina di Blood On The Tracks (edizione
originale; il suo scritto è candidato al Grammy nella sezione delle note
di copertina e la Columbia, che l’ha eliminato per sostituirlo con un
dipinto di Dave Oppenheim, fa prontamente marcia indietro ristampando il
disco con le “liner notes” originali, cosicchè esistono tre edizioni di
Blood On The Tracks: una con le sole note, una con il solo dipinto e una
con tutte e due, mentre la ristampa su cd, fino ad oggi, ha soltanto il
dipinto).
A ventisei anni dalla sua pubblicazione si discute ancora se Blood On The
Tracks sia il migliore disco di Bob Dylan, o quanto meno l’unico degno di
stare accanto ai suoi capolavori degli anni Sessanta. I colleghi di Dylan
lo amano alla follia, tanto che Keith Richards ha spesso commentato: “Se
solo Dylan ci desse un altro Blood On The Tracks”.
Per arrivare a tanto Dylan, finalmente giunto a quel “nuovo mattino” che
sta cercando sin dal 1970, è dovuto tornare a New York, o quantomeno
tornare a respirarne l’aria. Terminato il tour con The Band (al cui
proposito Dylan esprimerà solo pareri negativi, dicendo che è stato solo
una inutile ricerca del tempo perduto), nel febbraio ’74 prova a
riallacciare i rapporti con la scena del Village. Dylan è tornato a
viverci nel ‘71, precisamente in MacDougal Street, la casa che sarà al
centro dell’attenzione di AJ Weberman, uno psicopatico autonominatosi
“dylanologo” e leader del “movimento di liberazione di Bob Dylan” (il cui
slogan era “Free Bob Dylan, power to the people”) che frugherà nei bidoni
della spazzatura alla ricerca di prove del fatto che il cantante si è
venduto al sistema, terrorizzerà la moglie e i figli con incursioni nel
giardino di casa e organizzerà addirittura sit-in davanti all’abitazione.
Il tutto si risolverà con un (sacrosanto) tentativo di aggressione da
parte di un Dylan esasperato, che, incrociato Weberman in Elizabeth
Street, nel Village, verrà trattenuto a stento dall’infliggergli un
autentico pestaggio.
Per via dell’aria di paranoia pura che si respira al Village, nel ’73
Dylan si è trasferito, come abbiamo visto, nella più confortevole Malibu,
in California. Ma, curiosamente, nella primavera del ’74 torna, da solo, a
New York, dove frequenta, “cinque giorni alla settimana per due mesi,
dalle otto di mattina alle quattro del pomeriggio”, come racconta lui
stesso, i corsi di pittura dell’eclettico pittore Norman Raeben, un
personaggio che sugli allievi esercita il fascino di un guru. L’influenza
di questo corso, secondo lo stesso Dylan, sarà enorme, più a livello
lirico che pittorico: “Mi insegnò a fare in modo conscio quello che prima
facevo inconsciamente. Avevo incontrato maghi, ma questo era più potente
di ogni mago che avessi conosciuto. Guardava dentro di te e ti diceva che
cosa eri. E non faceva trucchi”. Di più: “Tornai a casa dopo
quell’esperienza e mia moglie non riusciva più a capirmi. Fu lì che il
nostro matrimonio cominciò ad andare a pezzi. Non capiva di cosa stessi
parlando e io non riuscivo a spiegarmi”.
E' questo un passaggio importante, che segnala i primi elementi di crisi
di un matrimonio che si sta avvicinando al decimo anno e da cui sono
giunti ben quattro figli. Ma, dal punto di vista artistico la
frequentazione di Raeben segna per Dylan una nuova fase nell’esperienza di
scrittore: “Mi insegnò a formulare una linea narrativa non in termini di
struttura temporanea consequenziale, ma mischiando insieme passato,
presente e futuro in modo da ottenere un focus unico sul soggetto in
questione”. Tutto ciò emergerà in modo evidente nelle canzoni raccolte su
Blood On The Tracks. La nuova fase segna inoltre la fine della sterilità
creativa cominciata subito dopo John Wesley Harding e l’addio definitivo
alle immagini visionarie che lo hanno reso celebre negli anni Sessanta e
di cui restava qualche traccia proprio in John Wesley Harding.
A maggio Dylan ritrova al Village il vecchio amico/rivale Phil Ochs: il
grande cantautore è da tempo vittima di una forte dedizione all’alcol,
eppure si sta dando da fare per organizzare un concerto di beneficenza per
le vittime del colpo di stato di destra in Cile. Momento altamente
politicizzato a cui Dylan, stranamente, decide di partecipare, forse più
per riallacciare i rapporti con i vecchi amici (al concerto partecipano
anche Dave Van Ronk e Arlo Guthrie, tra gli altri) che per convinta
adesione politica. Il livello artistico della serata (tenuta il 9 maggio
al Felt Forum di New York) è ben documentato da quella foto in cui si vede
Dave Van Ronk con un enorme bottiglione di vino, sul palco insieme a Dylan
e agli altri. E' l’esibizione di un gruppo di reduci ubriachi e stonati,
in cui Dylan (come del resto gli altri) massacra brani come Deportees,
North Country Blues e Blowin’ In The Wind. Non è questo ciò che Dylan va
cercando e per ora il ritorno a New York sembra suggerire solo incubi e
fantasmi.
Il 20 giugno viene pubblicato il doppio dal vivo Before The Flood,
documentazione del tour con The Band, che segna anche la fine del suo
rapporto con la Asylum. Il 2 agosto ’74 Dylan firma il nuovo contratto con
la Columbia: è il ritorno a casa del figliol prodigo.
A luglio alcune riviste pubblicano gossip su una probabile fine del
rapporto tra Dylan e Sara: i giornali parlano di una relazione con la ex
moglie del musicista John Sebastian (ex Lovin’ Spoonful), e anche di una
relazione con una executive della Columbia, Ellen Bernstein. Non ci sono
prove di tale relazione (ma d’altro canto Dylan riuscirà addirittura a
tenere segreto un matrimonio, quello con Carolyn Dennis, durato ben sei
anni), sta di fatto che la Bernstein è la donna dietro a Blood On The
Tracks, quantomeno dal punto di vista discografico, in quanto presente a
tutte le session e, in un certo senso, produttore esecutivo. Dylan
smentirà apertamente che il disco abbia a che fare con la crisi del suo
rapporto matrimoniale (“Ai tempi ero ancora sposato, come avrei potuto
comporre canzoni che parlano di separazione e di divorzio?”, giustificherà
piuttosto banalmente), ma dichiarazioni come quella del figlio Jakob
faranno trapelare il vero contenuto di Blood On The Tracks: “Amo la musica
di mio padre, naturalmente; mi piace ascoltare dischi come Highway 61 o
Blonde On Blonde. Ma album come Blood On The Tracks non riesco ad
ascoltarli. Quello è mio padre e mia madre che vanno in pezzi. Quale
figlio vorrebbe ascoltare un disco del genere?”.
A metà luglio Dylan si ritira nella sua fattoria nel Minnesota in
compagnia dei figli, ma, ancora una volta, non della moglie. E' qui che
prendono corpo gran parte delle canzoni di Blood On The Tracks scritte,
come vuole la leggenda, su un piccolo libretto di appunti dalla copertina
rossa. Ci sono anche canzoni (intitolate Belltower Blues, There Ain’t
Gonna Be Any Next Time, Where Do You Turn?, It’s Breakin’ Up, I Don’t Want
No Married Woman, Ain’t Funny) che non è mai stato possibile ascoltare,
benchè registrate durante le session dell’album, mentre mancano ancora
Buckets Of Rain e Meet Me In The Morning che verranno composte in seguito
in studio.
Il 22 luglio Dylan va a vedere gli amici Crosby, Stills, Nash & Young che
si esibiscono a Minneapolis. Dopo il concerto, in albergo, canta a Stephen
Stills e al bassista Tim Drummond una decina delle canzoni appena
composte. Entrambi rimangono a bocca aperta. Ad agosto si reca a trovare
nella sua casa di San Francisco il vecchio amico Michael Bloomfield,
l’eroe di Like A Rolling Stone. Ha intenzione di chiedergli di partecipare
alle future incisioni, ma quando esegue il materiale nuovo, in una
impossibile accordatura in Re, senza dargli il tempo di imparare il minimo
necessario, Bloomfield perde la pazienza e gli dice che non se ne fa
niente.
Il 16 settembre, finalmente, Dylan decide di entrare in studio: su
suggerimento dell’onnipresente Ellen torna al leggendario Columbia Studio
A di New York, adesso ribattezzato A&R Studios, quello che ha visto
nascere i suoi capolavori degli anni Sessanta. Responsabile tecnico è Phil
Ramone, apprezzato produttore sin dai primi Sessanta e negli anni Settanta
l’uomo dietro alla riuscita di There Goes Rhymin’ di Paul Simon, ma è
Dylan, di fatto, a produrre. E' il vecchio John Hammond a chiamare Ramone
solo il giorno prima: “Dylan è in città”, gli dice al telefono, “e abbiamo
bisogno di catturare qualcosa di magico da parte sua”. In un modo o
nell’altro ci riusciranno. I fantasmi di pochi mesi prima sono scomparsi
per lasciare il posto ad alcune delle più brillanti visioni musicali e
liriche della carriera di Dylan: New York è riuscita nella missione.
Dylan chiede personalmente di avere in studio con lui l’ottimo chitarrista
Eric Weissberg e il suo gruppo, i Deliverance, freschi del grande successo
ottenuto con la colonna sonora del film omonimo (in Italia Un tranquillo
weekend di paura) contenente il brano, arcinoto nei Settanta, intitolato
Duelling Banjos. Neanche a dirlo, sarà un disastro. La collaborazione
durerà infatti un solo giorno, il primo: “Fu pazzesco”, dirà Weissberg.
“Non riuscivi a guardargli le dita, perchè suonava con una accordatura che
non avevo mai visto prima (l’accordatura aperta in Re, nda). Non gliene
poteva fregare di meno del sound o di quello che avevamo appena fatto.
Eravamo nella confusione totale perchè pretendeva di insegnarci un pezzo
nuovo mentre un altro veniva fatto suonare in sottofondo. Dicevo, tra me e
me: ricordati, Eric, questo tizio è un genio, e forse questo è il modo di
lavorare dei geni. Ma se fosse stato qualcun altro e non Bob Dylan, me ne
sarei andato su due piedi senza pensarci due volte”.
Il 16 settembre vengono comunque registrati diversi brani, tra cui diverse
take di Tangled Up In Blue e prime prove di Simple Twist Of Fate, If You
See Her Say Hello, Lily, Rosemary And The Jack Of Hearts, Call Letter
Blues (che sarebbe poi diventata Meet Me In The Morning), You’re A Big
Girl Now e brani rimasti a tutt’oggi sconosciuti, come i già citati
Belltower Blues o Ain’t Funny.
Il 17 Dylan abbandona i Deliverance e fa venire in studio solo il loro
bassista, Tony Brown. Il quale non avrà meno problemi: “Bob non fa prove,
Bob crea e basta”, racconta Phil Ramone. “Il bassista mi guardava come a
dire: che cazzo fate? Potete scrivermi gli accordi, mi volete aiutare? Non
serve a niente, gli dicevo, perchè tanto non rifarà una canzone per due
volte allo stesso modo. Una volta cambierà una sequenza di accordi,
un’altra volta passerà al verso successivo saltando il ritornello”.
C’è un altro musicista presente il 17, ed è un ritorno notevole, il
tastierista Paul Griffin, presente alle storiche session di Highway 61. In
quel giorno si lavora a una nuova prova di You’re A Big Girl Now. La sera,
in studio, si presenta una persona speciale, un certo Mick Jagger, e la
seduta finisce a base di alcol e vecchi blues.
Il 18, sempre con i soli Brown e Griffin, Dylan registra Shelter From The
Storm e You’re Gonna Make Me Lonesome When You Go, poi interrompe la
session per andarsene al Bottom Line a vedere un concerto dei Little Feat.
Il 19 settembre è il giorno più fruttuoso: arrivano Lily, Rosemary And The
Jack Of Hearts, Simple Twist Of Fate, Buckets Of Rain (che non è altro che
un rimaneggiamento del brano del folksinger e vecchio amico Tom Paxton,
Bottle Of Wine) e, soprattutto, l’epica Idiot Wind.
Il 23 settembre, su suggerimento di Ellen Bernstein, in studio si aggiunge
Buddy Cage, valente suonatore di pedal steel del gruppo country rock
californiano dei New Riders Of The Purple Sage che hanno da poco
pubblicato una bella ripresa di You Angel You di Dylan nel loro album
Brujo. Sulla traccia base di Call Letter Blues incisa con i Deliverance,
Dylan reincinde un’altra parte vocale con nuove liriche; nasce, infine, un
nuovo titolo, Meet Me In The Morning. Con l’abrasivo apporto della pedal
steel hendrixiana di Cage, sarà l’unico brano registrato con tutti i
Deliverance ad apparire sul disco finale. Anche a You’re A Big Girl Now
viene aggiunta una parte di pedal steel. Le session terminano il 25:
“(Dylan) lavora in modo istintivo”, dirà Ellen Bernstein. “Il livello di
energia, in quelle session, era tremendamente alto perchè con lui non si
torna e ritorna sullo stesso pezzo decine di volte finchè l’energia
scompare. Fu tutto incredibilmente immediato e molto emozionante”. Per
essere stato il soggetto di almeno una canzone, You’re Gonna Make Me
Lonesome When You Go, Ellen deve saperne qualcosa del tasso di emotività
che Dylan mette in quelle registrazioni. “Blood On The Tracks fu un
momento catartico per Dylan”, dirà Phil Ramone”. “Quello era un momento
traumatico per lui, per via dei suoi problemi relazionali, e in quelle
canzoni si stava mettendo a nudo”.
Il disco è pronto: la Columbia commissiona al giornalista Pete Hamill le
note di copertina e il disco viene dato alle stampe in mezzo milione di
copie. Ma Dylan, ascoltato ancora una volta il risultato, blocca tutto.
Non è sicuro che sia quello il disco che vuole, ma si accorda con la
Columbia, in ogni caso, a far sì che il disco, se non alla fine di ottobre
come concordato, esca subito dopo Natale. Festività che Dylan va a passare
con la madre e i suoi parenti più stretti nella sua fattoria in Minnesota.
Parenti stretti che, naturalmente, includono anche il fratello minore,
David. Personaggio assolutamente discreto che compare nella saga dylaniana
solo nell’episodio di Blood On The Tracks, David Zimmerman vi appare però
in modo decisivo. A lui, infatti, Bob chiede un parere sul disco che sta
per uscire e David è categorico: “Sarebbe meglio rifarlo”.
David, manager di alcuni artisti della locale scena di Minneapolis,
suggerisce al fratello di andare in studio, lì a Minneapolis, con alcuni
musicisti che avrebbe provveduto a trovare lui stesso, e provare a
incidere nuovamente le canzoni che a Dylan sembrano particolarmente
inadeguate. Il problema è che Dylan non ha la chitarra con cui ha
registrato a New York, una Martin modello 1937 0042, dotata di una piccola
cassa, conosciuta fra i musicisti come il “modello Joan Baez” perchè la
folksinger la usa abitualmente e la consiglia a Dylan: molto rara, molto
costosa e molto pregiata. David chiede a uno dei suoi artisti, Kevin
Odegard, che ha già suonato con Dylan in passato, di trovarne una,
mantenendo il riserbo su chi ne farà uso. Odegard ne trova una in un
negozio di strumenti musicali di proprietà di un certo Chris Weber che a
malavoglia affitta lo strumento, ma solo a patto di assistere alle
registrazioni, in modo da tenere sotto controllo la preziosa chitarra.
Weber finirà per suonare su Blood On The Tracks. David Zimmerman, intanto,
ha contattato la più rinomata sezione ritmica di Minneapolis, il bassista
Billy Peterson e il batterista Bill Berg, un affidabile duo capace di
accompagnare musicisti jazz come gruppi rock. Berg, che sta partendo per
la California per cercare fortuna come disegnatore per la Disney, accetta
di fermarsi in studio quando sa che si tratta di Dylan.
Così, in modo assolutamente informale, quasi casalingo, e molto “low
budget”, David mette insieme il cast di musicisti che devono aiutare Bob a
rifare Blood On The Tracks.
Eppure funziona. A differenza di quanto accade nei grandi studi e con i
musicisti di grido, Dylan si trova a suo agio con questi personaggi,
musicisti più per passione che per professione. Fa subito amicizia con
Chris Weber, parlano di chitarre e quando Dylan scopre che Weber è anche
un po’ cantautore, lo invita a suonargli le sue canzoni. Il clima
rilassato produce subito, il primo giorno, una nuova take di Idiot Wind,
più pregnante e ricca di urgenza di quella registrata a New York, con
Dylan che esegue personalmente l’overdub della parte di tastiere, mentre
una nuova versione di You’re A Big Girl Now è meno indolente di quella
precedente, con piacevoli interventi di chitarra flamenco e un forte
spirito jazzy, soprattutto nelle pregevolissime parti di pianoforte.
Il 30 si torna in studio e Dylan vuole affrontare Tangled Up In Blue. Dopo
averla suonata in chiave di Sol, Dylan chiede un parere. “Passabile”,
risponde senza convinzione Odegard. “Mi fulminò con lo sguardo, sibilando:
‘Passabile’?”, racconta lo stesso Odegard, “nello stesso modo in cui in
Don’t Look Back fulmina con lo sguardo il povero Donovan. Credetti di
morire”. Ma Dylan dopo qualche istante, smaltita la rabbia, acconsente:
“Proviamola allora come dici tu”. Odegard consiglia di farla in chiave di
Fa e la cosa funziona splendidamente. Odegard è responsabile anche del
delizioso intro di chitarra che apre ogni nuovo verso, un piccolo riff
rubato a quello del brano Midnight Blues da un disco dei Joy Of Cooking.
Decisamente ispirati, si lanciano in una nuova Lily, Rosemary And The Jack
Of Hearts, non prima dell’avvertimento di David Zimmerman: “E' un brano un
po’ più lungo del solito. Non fermatevi mai. Anche se sembra finita,
continuate a suonare”. Esattamente come ai tempi di Sad Eyed Lady Of The
Lowlands. Quindi tocca a If You See Her, dove è Dylan stesso a suonare la
parte di mandolino. E anche qui emerge una versione molto più ricca
melodicamente di quella originariamente registrata.
Le session sono finite. Dato che la Columbia ha già stampato le copertine,
i nomi di questi eroici musicisti di Minneapolis che hanno dato a Dylan
tanta fiducia nei propri mezzi, non vengono accreditati e, molto più
colpevolmente, i giusti crediti non vengono stampati neanche nella seconda
edizione dell’album, quella con il solo dipinto di Oppenheim. Ma trovano
un posto nella leggenda, così come da rivalutare è il ruolo di David
Zimmerman, che è stato, di fatto, il produttore di Blood On The Tracks:
oltre ai consigli al fratello e l’aver trovato gli uomini giusti, molte
idee musicali, come la parte di batteria in Tangled Up In Blue, sono
frutto della sua iniziativa.
Blood On The Tracks verrà salutato come un capolavoro assoluto. Di fatto,
le nuove versioni dei brani sono tutte superiori ad eccezione, forse, di
Tangled Up In Blue e di Idiot Wind, che sono quanto meno sullo stesso
livello. Joni Mitchell e Robbie Robertson, ad esempio, dichiareranno di
preferire le versioni newyorkesi, le originali. Ellen Bernstein, poi, è
assolutamente contraria all’utilizzo delle nuove incisioni. Joel
Bernstein, il tecnico delle chitarre di Dylan (in quegli anni al lavoro
anche con Neil Young) racconta: “Quando seppe che David, il fratello di
Bob, aveva detto che era meglio registrare nuovamente il disco con un
nuovo gruppo, fu scioccata. Pensava fosse una pessima idea”.
A meno di possedere un bootleg, è possibile ascoltare alcune delle
versioni originarie almeno in parte sul cofanetto The Bootleg Series: si
tratta di Tangled Up In Blue, Idiot Wind, If You See Her e Call Letter
Blues. La versione newyorkese di You’re A Big Girl Now era già stata
pubblicata nel cofanetto Biograph.
Si tratta ovviamente di giudizi assolutamente soggettivi, in quanto tutte
le versioni di questi brani sono ricche di fascino. Ma nelle incisioni di
New York, oltre ad avere versi molto più autobiografici (specialmente la
seconda), Tangled Up In Blue e Idiot Wind suonano più spontanee, meno
elaborate, ricche di urgenza e di un fuoco interiore che brucia in Dylan,
autentico “sangue gettato nei solchi”. Bello è poi il suono della
chitarra, dove l’accordatura aperta risalta in modo particolare e ricorda
quella tipica di artisti come Joni Mitchell o David Crosby.
Tangled Up In Blue, ad ogni buon conto, andrà incontro a infinite
riscritture, un brano che è ancora oggi materia viva nella mente e nella
voce di Dylan, il quale continua a cambiarne i soggetti, le scene e le
parole: “La versione su Real Live”, dirà Dylan nell’85 a Cameron Crowe, “è
quella più simile a come doveva essere la canzone. Non sono mai stato
soddisfatto (di come è venuta), credo che stessi cercando di farla
assomigliare a un dipinto, dove puoi vedere le parti diverse ma puoi anche
vederne l’insieme. E' quello che ho cercato di fare, con il concetto di
tempo e il modo in cui i personaggi cambiano dalla prima alla terza
persona, e non sei mai sicuro se sta parlando la terza persona o la prima.
Ma se guardi alla cosa nel suo insieme, non è importante. Nella versione
di Real Live l’immaginazione è migliore e molto più simile al modo in cui
avrei voluto che fosse quando la registrai”.
Tangled Up In Blue è ricca di immagini autobiografiche, come la splendida
descrizione dell’atmosfera vissuta da Dylan al Village nei primi Sessanta,
quando dice: “C’era musica nei cafè alla sera / E rivoluzione nell’aria”,
salvo l’ingresso improvviso di Rimbaud, seppur non citato direttamente -
ma chi altri potrebbe essere (peraltro citato direttamente insieme a
Verlaine in You’re Gonna Make Me Lonesome) - a sovvertire l’ordine
temporale e logico della strofa (“Poi lui cominciò a trattare con gli
schiavi / E qualcosa dentro di lui morì”). La figura dell’artista che
lascia la sua musa per darsi a dubbi affari commerciali come la tratta
degli schiavi diventa una parodia di se stesso, visti i tanti riferimenti
fatti negli anni Sessanta alla poesia di Dylan come discendente
direttamente da quella di Baudelaire e Rimbaud, un riferimento al periodo
di ritiro a Woodstock, che in un certo senso coincise anche per Dylan con
la morte artistica.
Ma un verso certamente non è mai cambiato, nelle migliaia di rese dal vivo
che Dylan ha fatto fino ad oggi, una vera dichiarazione di intenti per un
uomo che non ha intenzione di arrendersi mai: “Tutta la gente che
conoscevamo / Ora è soltanto una illusione, per me / Ma io, io sono ancora
on the road / Diretto verso un altro localaccio”. Promessa mantenuta, dato
che Dylan è oggi, da anni, costantemente on the road, diretto a un altro
posto dove suonare.
Idiot Wind, che raggiungerà l’apoteosi nella memorabile interpretazione
catturata su Hard Rain, il vertice assoluto dell’abilità di Bob Dylan come
performer, è un brano pieno di risentimento e rabbia latente: verso
critici e scrittori (“Si inventano storie sulla stampa”), verso la moglie
(“Sei un’idiota, bambina”), verso se stesso (“Siamo degli stupidi: è un
miracolo che riusciamo a sopravvivere”), ricca di fascino melodico
sottinteso, soprattutto nei ritornelli epici che suonano anche come una
dedica all’America (“From the Grand Coulee Dam to the Capitol”).
If You See Her, nella sua prima registrazione, suona troppo scarna e
melodicamente priva di sussulti, mentre nella versione di Minneapolis è di
una bellezza struggente difficilmente rintracciabile in altre canzoni
dylaniane.
You’re A Big Girl Now è fantastica in qualunque versione la si ascolti:
quella crepuscolare, resa languida dal suono della pedal steel, e quella
più ruvida, quasi jazzata, di Minneapolis. E' proprio questo il brano che
fa dire a Dylan che Blood On The Tracks non ha nulla a che fare con i suoi
problemi matrimoniali: “Ho letto che questa canzone dovrebbe parlare di me
e di mia moglie. Vorrei che la gente mi chiedesse le cose prima di andare
a stampare sui giornali quello che viene loro in mente. Questi interpreti
(di me) sono, a volte, degli stupidi stronzi ingannatori. (Questa canzone)
potrebbe parlare di chiunque tranne che di mia moglie, va bene?”.
Call Letter Blues è identica a Meet Me In The Morning, salvo che questa
ultima è molto, molto meglio, con una performance vocale di Dylan
spiritata e grintosa e lo splendido intervento di Buddy Cage alla pedal
steel.
Di Simple Twiste Of Fate non conosco altre versioni, ma tali sono la
perfezione e l’intensità raggiunte da Dylan che non c’è bisogno di altro.
E' un brano quasi cinematografico, il set di un’impossibile storia
d’amore, un incontro fugace e nascosto fra due amanti, con chiari
riferimenti alla relazione adulterina con la Bernstein, parole sputate con
vette di lirismo incantevole e un intervento di armonica devastante. Lo
stesso vale per la lunga ed epica Lily, Rosemary And The Jack Of Hearts:
un altro film, questa volta western, con una lunga galleria di personaggi
e un rubacuori che vince su tutti, il Jack Of Hearts, che potrebbe essere
Dylan stesso.
Di Shelter From The Storm si è invece potuto ascoltare in tempi recenti
una prima versione, inclusa nel film di Cameron Crowe Jerry Maguire, che
sembra avere più raffinatezza e incisività di quella pubblicata su Blood
On The Tracks, che sembra invece svogliata, confusa, senza una direzione
precisa.
Anche quei due gioiellini di semplicità folkie che sono You’re Gonna Make
Me Lonesome e Buckets Of Rain rimangono così come sono, senza alternative,
e sono fotografate per l’eternità nella loro ammaliante semplicità.
C’è un’altra outtake, registrata il 23 settembre a New York, che è stato
possibile conoscere grazie a Biograph, anche se Roger McGuinn l’aveva già
incisa a metà anni Settanta. E' Up To Me, un po’ troppo simile però a
Shelter From The Storm e forse per questo scartata.
Disco fascinosissimo, che ha influenzato, esattamente come fecero i suoi
album della prima metà degli anni Sessanta, un’intera nuova generazione di
musicisti, ricco di soluzioni melodiche impeccabili e soprattutto di
performance vocali che sono tra i vertici della vocalità dylaniana, Blood
On The Tracks rappresenta perfettamente Dylan e la sua età. E' la versione
cruda, amara, “sanguinante” della crisi del progetto matrimoniale che, per
milioni come lui, aveva rappresentato lo “shelter from the storm”, il
rifugio già invocato dai Rolling Stones di Gimme Shelter nel ‘69 da quella
“tempesta” che gli anni Sessanta avevano scatenato sull’America, solo per
rivelarsi essere più pericoloso e mortale di ciò da cui avevano creduto di
sfuggire. “La vita è triste, la vita è una fregatura / Tutto quello che
puoi fare è fare ciò che devi / Fai ciò che devi, e cerca di farlo bene”,
canta non a caso Dylan nella strofa conclusiva dell’ultimo brano di Blood
On The Tracks, Buckets Of Rain.
Mentre il decennio in corso si sta popolando sempre più dei nuovi
menestrelli dalla faccia triste (uno su tutti, James Taylor) che cantano
sommessamente la crisi delle grandi utopie di solo qualche anno prima ma
anche la crisi e la difficoltà delle relazioni stabili fra i due sessi
andando regolarmente al vertice delle classifiche di tutto il mondo, Dylan
scende sul loro stesso terreno e li sbaraglia, dimostrando che, con il
minimo sforzo, se solo ne ha voglia, è ancora il più grande di tutti:
negli anni Sessanta ha messo in fila Beatles e Rolling Stones non appena
si è impegnato, per un paio di dischi e una facciata, a fare del
rock’n’roll. Adesso dimostra che come cantautore intimista e semi
acustico, beh, anche lì non ce n’è per nessuno.
Dopo il “sangue nei solchi” ci sarà una sola altra rivoluzione nella
musica rock capace di spazzare via tutto, e sarebbe stata, di lì a un paio
di anni, quella del punk. Ma Dylan, allora, non sarà più in concorrenza
con nessuno. Lui è diretto a un “tempo fuori dalla mente”. Che se la
vedano gli altri, perchè Blood On The Tracks, rimane, piaccia o no, come
l’ultimo esempio di sfida al mondo da parte di Dylan. Dopo sfiderà solo se
stesso.
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Per saperne di più:
Bob Dylan, Biograph (Sony, 1985)
The Bootleg Series Vol. 1-3 (Sony, 1991)
Come scritto in precedenza, il primo cofanetto contiene la versione
newyorkese di You’re A Big Girl Now, mentre il secondo contiene le
versioni della medesima serie di session di Tangled Up In Blue, Idiot
Wind, If You See Her Say Hello e la prima stesura di Meet Me In The
Morning, con il titolo quest’ultima di Call Letter Blues.
Per chi volesse andare ancora più a fondo, si consiglia il bootleg Blood
On The Tapes.
Le cover imperdibili:
Jerry Garcia Band, Simple Twist Of Fate (da Jerry Garcia Band, 1991)
Dodici minuti di assoluto lirismo musicale. Jerry Garcia, da sempre grande
estimatore di Dylan, ha suonato dal vivo, da solo o con i Grateful Dead,
un’infinità di suoi brani. Questa versione magica, con alcuni assolo di
chitarra da antologia, merita la palma di migliore interpretazione. Nello
stesso disco c’è anche una resa di Tangled Up In Blue, meno bella però.
Indigo Girls, Tangled Up In Blue (da The Times They Are A-Changin’, Volume
1, 1991)
Le due “ragazze indigo” hanno riportato in auge la miglior tradizione
della folk music negli anni Ottanta e Novanta. Questa loro resa di Tangled
si caratterizza per la robustezza rock e lo splendido apporto della slide
guitar.
Cassandra Wilson, Shelter From The Storm (da Belly Of The Sun, 2002)
La jazz vocalist di colore, probabilmente la più dotata ed espressiva
cantante emersa dalla musica americana negli ultimi dieci anni, rilegge il
brano in modo soffuso, emozionante e decisamente bluesy (ma anche con
accenti jazzy).
Paolo Vites
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da "Bob Dylan 1962/2002 - 40 anni di canzoni"
di Alessandro Cavazzuti -
1988
Il 1988 apre una nuova era nell’approccio live di Dylan. Non più
accompagnato da gruppi di nome (come nei due anni precedenti), niente più
coriste (dopo averle utilizzate per dieci anni, con l’eccezione del 1984),
Dylan si presenta sul palco con una formazione essenziale: basso (Kenny
Aaronson), batteria (Chris Parker), e chitarra (G.E. Smith). Questa
impostazione sarà mantenuta (con l’aggiunta successiva di una seconda
chitarra) fino ad oggi.
Inizia quello che i fan (e non solo) chiamano il Never Ending Tour,
definizione, peraltro, sempre rifiutata da Dylan. Al di là delle etichette
rimane il fatto che dall’88 ad oggi abbia eseguito una media di cento
concerti l’anno. Il 1988 è uno dei miei preferiti. Gli arrangiamenti sono
essenziali, immediati, senza fronzoli; il suono è duro, energico, le
performance vocali sono intensissime, spesso splendidamente sopra le
righe. Per la prima volta nella sua carriera Dylan si fa accompagnare da
una seconda chitarra nell’esecuzione dei brani acustici.
Berkeley, Greek Theater
10 giugno 1988
Terzo concerto del tour e senza dubbio uno dei migliori. Fin dall’attacco
con Subterranean Homesick Blues l’energia che si sprigiona è tremenda. La
chitarra di Smith è essenziale, efficace e Dylan, dal canto suo, è
inesorabile, intenso, la voce è dura e ispiratissima. Potrei ascoltare
questa versione di Joey mille volte e la voglia non mi passerebbe. G.E.
comanda le operazioni, volgendosi spesso verso il batterista (come si
osserva nel video del concerto), detta i ritmi e dà l’impressione di
essere totalmente preso dal mood che si sta creando. Dylan è immobile
davanti al microfono, la sua voce trafigge da quanto è potente e
inesorabile. Adrenalina pura, che continua a scorrere con Absolutely Sweet
Marie, poi ancora con Tangled Up In Blue, in cui è Dylan, stavolta, a
trascinare la band in una versione molto tirata, dove si distingue
l’ottimo lavoro al basso di Aaronson. San Francisco Bay Blues è puro
divertimento, Lakes Of Pontchartrain (un tradizionale) è cantato con
passione e grande attenzione. Gates Of Eden in versione elettrica è
maestosa, con un ottimo lavoro di Parker alla batteria. Da segnalare, tra
l’altro, la presenza di Neil Young alla chitarra solista per tutta la
seconda parte del concerto.
Cincinnati, Riverbend
22 giugno 1988
Di questo concerto apprezzo l’approccio un po’ meno aggressivo, rispetto
alla maggior parte degli altri ma non per questo meno d’impatto. La vis
comunicativa di Dylan è intatta. Wild Mountain Thyme è un vero capolavoro,
in cui la voce evocativa e malinconica fa tornare alla mente la versione
eseguita più volte nel ‘75 con Joan Baez. L’interpretazione di Ballad Of A
Thin Man è intensa quanto beffarda, decisamente sopra le righe. Barbara
Allen è forse ancora più ispirata della (pur bellissima) versione del
primo luglio a Long Island (di cui parleremo oltre). Il modo in cui Dylan
esegue You’re A Big Girl Now è fuori da ogni regola e difficile da
descrivere. Malinconico all’inizio (senti quasi il lamento di un uomo
ferito), poi gradualmente più aggressivo, fino a suonare quasi clownesco
nell’ultima strofa. Genio assoluto.
(Disponibile su nastro o cd-r).
Long Island, Jones Beach
1 luglio 1988
Questo concerto costituisce un ottimo esempio del nuovo approccio live di
Dylan, molto diretto ed essenziale. G.E. Smith costruisce le melodie che
Dylan costantemente aggredisce con la voce, spesso stravolgendole.
L’unicità di questo concerto risiede nel set acustico. Mama You Been On My
Mind è sorprendente, Hattie Carroll è un altro capolavoro. Barbara Allen è
delicata, i versi accarezzati dolcemente dalla voce di Dylan.
Hollywood, Greek Theater
4 agosto 1988
Davanti al pubblico di Los Angeles, Dylan e la band offrono un’esibizione
di altissimo livello. Hallelujah (di Leonard Cohen) è splendida,
avvolgente, con la chitarra di Smith che offre a Dylan l’adeguato tappeto
sonoro. Misurata e quasi dolce It’s Alright Ma (I’m Only Bleeding). Ogni
verso di Lakes Of Pontchartrain è cantato con cura e un senso di rispetto
verso questo genere di canzone tradizionale. Dylan ne eseguirà non poche
nel corso di questo tour. Tra le altre, la già citata Barbara Allen,
Eileen Aroon (riarrangiata originariamente dai Clancy Brothers), I’ll Be
Around (anche questa eseguita in questo concerto).
(Disponibile su nastro o cd-r).
New York, Radio City Music Hall
17 ottobre 1988
Siamo agli ultimi concerti del tour: la voce di Dylan è più roca, ha perso
un po’ di brillantezza, ma non certo incisività e intensità. Questo è
probabilmente il migliore dei cinque concerti newyorchesi alla Radio City
Music Hall. L’energia si sprigiona soprattutto nei brani elettrici.
Subterranean Homesick Blues è tirata come poche altre volte, quasi Dylan
voglia mettere subito in chiaro cosa c’è da aspettarsi per il resto del
concerto. Bob Dylan’s 115th Dream è fulminante, senza pause, con G.E. che
detta i tempi indiavolati delle strofe. Wagoner’s Lad (tradizionale) è un
altro esempio della profonda dedizione di Dylan verso questo genere di
canzoni. Dopo un’intensa Don’t Think Twice, It’s Alright, Dylan non smette
di suonare e introduce, con Smith, gli accordi di Knockin’ On Heaven’s
Door, aprendola in versione acustica, per trasformarla in elettrica in
corso d’opera, con un crescendo irresistibile.
(Disponibile in versione completa su nastro o cd-r, in versione incompleta
in cd).
Atri concerti raccomandabili:
11 giugno, Mountain View (disponibile su nastro o cd-r)
20 luglio, Columbia (disponibile su nastro o cd-r)
19 ottobre, New York
Alessandro Cavazzuti
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da "Bob Dylan 1962/2002 - 40 anni di canzoni"
In una carriera, discograficamente parlando, cominciata esattamente
quarant’anni fa e che si snoda attraverso oltre trenta album di canzoni in
studio più numerosi dischi dal vivo e diverse compilation spesso
arricchite di preziosi inediti, Bob Dylan, parafrasando la sua When I
Paint My Masterpiece, non ha ancora dipinto il suo capolavoro.
Ne ha disseminati parecchi, e alcuni di essi hanno cambiato per sempre la
faccia della musica popolare del Novecento, ma la sua musa è ben lungi
dall’aver detto l’ultima parola.
Perché quella di Bob Dylan è una scommessa per la vita, non il mero
calcolo commerciale di un musicista come la storia del rock ce ne ha dati
a centinaia, più o meno bravi.
Ripercorrere l’opera discografica di Bob Dylan, come questo libro si
prefigge per la prima volta in Italia analizzando uno per uno tutti i suoi
dischi in studio, raccontandone la genesi attraverso una documentazione
storica rigorosa, anedotti e testimonianze dei diretti protagonisti (Dylan
incluso), è un affascinante viaggio attraverso la storia dell’America, dai
primi anni Sessanta ai giorni nostri.
Dalla marcia su Washington guidata da Martin Luther King, a cui Dylan
prese parte, all’esplosione di una coscienza musicale e poetica che mise
in ombra persino i Beatles, approdando al “ritiro nel privato” proprio
mentre intorno a lui esplodeva la rivoluzione ‘acida’ dei figli dei fiori,
passando attraverso la crisi dei rapporti di coppia e quindi nella
riscoperta di un patrimonio spirituale universale, fino alle umoristiche
visioni, ma ricche di inquietanti presagi, del suo ultimo album,
l’acclamato Love & Theft (uscito in una data che nessuno dimenticherà mai
più, l’11 settembre del 2001, rivelando un tempismo degno di un
Nostradamus), Bob Dylan non ha mai smesso di cantare l’America e il suo
ruolo di uomo in cerca della verità all’interno di essa.
Biografia, analisi musicale, anedottica: questo libro è un approccio
diverso e appassionato all’uomo che, giustamente, è stato messo a fianco
di nomi come Jack Kerouac, Allen Ginsberg e Walt Whitman nel ruolo scomodo
ma esaltante di espressione più alta e sincera dell’America moderna.
Un’appendice che seleziona, su circa 2mila documentazioni, i cento
migliori concerti dal vivo di Bob Dylan, contribuisce a fornire un
ritratto completo dell’artista, che spesso sul palco ha mostrato di
trovarsi più a suo agio che nelle fredde mura di uno studio di
registrazione.
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L'autore
Paolo Vites è nato a Lavagna
(Genova) e vive a Milano.
Attualmente è redattore del
quotidiano online Il Sussidiario.net dal settembre 2010. In precedenza ha
collaborato con le maggiori testate musicali italiane, tra cui Buscadero e
Mucchio Selvaggio, con l’americana “On The Tracks”, con diversi quotidiani
nazionali ed è stato redattore del mensile musicale “JAM – Viaggio nella
musica” dall’ottobre 1996 al luglio 2009.Ha intervistato i massimi artisti
internazionali, da Paul McCartney a Patti Smith, da James taylor a Joe
Strummer, da Donovan a Sheryl Crow. Ha pubblicato monografie dedicate a
Bob Dylan, Patti Smith, Clash e Cat Stevens e collaborato alle
enciclopedie rock di Arcana, Editori Riuniti e Baldini e Castoldi. E’ uno
dei curatori della mostra “Good Rockin’ Tonight, storie di 50 anni di
rock”, presentata al Meeting di Rimini nel 2004. Insieme a Walter Gatti,
Riro Maniscalco e Stefano Rizza è autore di “Help! Il grido del rock”,
raccolta di testi di canzoni commentate (Itaca, 2008). Nel dicembre 2008
ha pubblicato “Do you believe in magic?, la strada verso casa" (Gruppo
Editoriale l'Espresso), sua prima raccolta di racconti brevi. Nel maggio
2011 ha pubblicato “Un sentiero verso le stelle, sulla strada con Bob
Dylan (Pacini Editore, 2011). E’ autore dei fascicoli che accompagnano le
discografie complete di Francesco De Gregori e di Antonello Venditti per
Il Corriere della Sera.
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