di Edoardo Tacchi
Portavoce di una generazione, icona della protesta pacifista, coscienza
della controcultura giovanile, simbolo della contestazione studentesca,
profeta del movimento hippy; la pletora di attribuzioni che accompagna da
ormai più di quarant’anni il nome e l’immagine di Bob Dylan presso i canali
d’informazione gravita sempre intorno al medesimo centro: gli anni sessanta
e le battaglie per la pace e i diritti civili. Allo stesso tempo sarà quasi
impossibile per il critico musicale come per il biografo, per gli esegeti
dei suoi versi o i cacciatori di citazioni, rintracciare una conferma o
anche solo un atteggiamento accondiscendente verso queste definizioni nelle
parole dell’autore che, al contrario, è ricorso spesso al silenzio e
talvolta anche al depistaggio pur di evitare l’impegno di una dichiarazione
su queste tematiche.
Così va più o meno da sempre, o meglio, così andava perché, tra la messe di
pubblicazioni dedicate al cantante che sono uscite negli ultimi tempi, sono
ormai disponibili anche al pubblico italiano due opere che gettano
finalmente una luce di verità su quegli anni e sul ruolo che Bob Dylan vi ha
giocato, consentendoci di fare il punto su quella che, comunque, è soltanto
una fase della carriera di questo artista: senz’altro rilevante e di
clamorosa esposizione pubblica ma, almeno per chi scrive, non esaustiva
delle problematiche interpretative legate al suo nome. La prima è il
fortunato volume autobiografico Chronicles (1), sorta di memoire piuttosto
atipico in quanto a struttura e linguaggio, in cui l’autore dismette i panni
del sabotatore del proprio passato e parla in modo franco e talvolta anche
severo degli episodi che ritiene decisivi per comprendere il corso tortuoso
dell’ispirazione lungo la sua carriera artistica; l’altra è il recente film
documentario realizzato con successo da Martin Scorsese (2) che traccia,
seguendo un approccio ricostruttivo ed esauriente, il percorso umano e
artistico compiuto da Dylan fino al luglio del 1966, data spartiacque per il
cantante allorché un serio incidente di moto lo costrinse a un provvisorio
ritiro dalle scene che egli volle poi prolungare, almeno per quanto riguarda
le esibizioni pubbliche, fino al 1974.
Conviene allora cercare di fare chiarezza sulla natura dell’impegno o del
disimpegno politico di Dylan attraverso l’angolatura privilegiata che ci
offrono alcuni degli episodi illustrati o raccontati in queste opere
recenti, sperando così di ricomporre in parte la dicotomia tra la realtà,
complessa se non idiosincratica, della personalità del cantante e la sua
immagine pubblica, modellata sullo stereotipo del “cavaliere senza macchia”
secondo quella prassi che attribuisce agli artisti e in particolar modo ai
musicisti il ruolo di maître à penser.
Il primo fotogramma è offerto dal film di Scorsese e ci porta al 13 dicembre
1963 nell’ampia e affollata sala per ricevimenti dell’Hotel Americana di New
York dove si tiene, organizzata come ogni anno dall’Emergency Civil
Liberties Committee in occasione della ricorrenza del “Bill of Rights”, una
cena con raccolta di fondi durante la quale viene onorata con il “Tom Payne
Award” una personalità che si è distinta nella lotta (la promozione, diremmo
oggi) per la libertà e l’uguaglianza. L’anno prima il destinatario del
premio è stato Bertrand Russell, per il ’63 il prescelto è proprio Bob
Dylan, che si presenta al microfono barcollante e con le facoltà mentali
pesantemente compromesse dall’abbondante quantità di alcool che si è scolato
in precedenza. È un episodio conosciuto e riportato anche dai biografi, sul
quale tuttavia anche gli apologeti più incalliti preferiscono glissare
perché ogni parola del farfugliante discorso tenuto a braccio per
ringraziare il prestigioso comitato dell’onorificenza ricevuta appare
insensata e l’evento si ricorda come l’intervento pubblico forse più
inopportuno e imbarazzante di un’intera carriera. Che aria tirasse in realtà
si sarebbe dovuto capire già dall’inizio, quando, con un nonsense di pessimo
gusto, Dylan si disse dispiaciuto di trovarsi di fronte a tante persone
calve e anziane visto che lui ci aveva messo così tanto tempo a diventare
giovane, ma fu solo poco prima di essere costretto a cedere il microfono che
questo oratore improvvisato e maldestro piazzò la provocazione più grossa,
suscitando il risentimento della platea attonita: «[…] l’uomo che ha sparato
al presidente Kennedy, Lee Oswald, non so esattamente dove - che cosa
pensava di fare - ma devo ammettere onestamente che anch’io ho visto
qualcosa di me in lui. Non credo che la cosa si sarebbe spinta […] così
avanti ma devo anche dirlo che in me ho sentito qualcosa come sentiva lui…
non di arrivare al punto di sparare» . (3)
Erano passate appena tre settimane dai fatti di Dallas, le immagini filmate
da Abraham Zapruder non erano ancora di dominio pubblico ma l’intera nazione
americana era fortemente scossa da ciò che era successo e questo giovanotto
ignorante e maleducato si permetteva di offendere così profondamente
militanti della Sinistra americana che gli apparivano ora sì, imborghesiti
ed edulcorati nel loro radicalismo, ma che erano da molto tempo coinvolti
nelle battaglie per i diritti civili e avevano superato anche gli anni
terribili del maccartismo. L’episodio scatenò polemiche che furono
rintuzzate a fatica dall’artista, con una lettera pubblica di scuse al
comitato e promesse reiterate (ma sembra non mantenute) di rifonderlo dei
contributi che erano venuti a mancare per via del suo intervento.
L’interpretazione più comune vuole che sia stata la sbronza a far uscire
dalla bocca di Dylan quelle frasi tanto insolenti e fuori luogo, ma credo
che proprio l’alcool fosse ciò di cui egli aveva bisogno per sputare fuori
qualcosa che altrimenti non sarebbe riuscito a dire, ma che voleva e doveva
comunque far sapere e che la sua condotta successiva avrebbe reso esplicito:
l’artista non era più disponibile a farsi portavoce di nessuno, tanto meno
di un movimento politico, ed era impossibile catalogarlo sotto alcuna
etichetta ideologica; in sostanza, non ci si potevano aspettare da lui
risposte di alcun tipo perché le sue canzoni e soltanto esse parlavano per
lui.
Comunque si interpreti questo episodio, dopo l’omicidio Kennedy per Dylan
gli equivoci che avevano tenuto in equilibrio il rapporto con il suo
pubblico di allora dovevano ormai sciogliersi, l’incantesimo che aveva visto
il cantante partecipare a manifestazioni di carattere politico e duettare
con Joan Baez, Pete Seeger e gli altri campioni dell’impegno sociale si era
definitivamente spezzato. In effetti nel corso dei mesi precedenti Dylan,
che solo dall’anno prima aveva cominciato a comporre testi con regolarità,
aveva tenuto un profilo molto alto sotto l’aspetto artistico, realizzando
due album e scrivendo almeno una trentina di canzoni, delle quali quasi la
metà erano riconducibili al filone delle topical songs, “canzoni
d’attualità”, come venivano chiamate in quegli anni con un termine appena
più accettabile dell’espressione “canzoni di protesta”, sempre rifiutata
dall’autore: fra tutte, si ricordano almeno The times, they are a-changin’ e
When the ship comes in, che utilizzavano un immaginario biblico apocalittico
per prefigurare imminenti rivolgimenti sociali grazie ai quali ciascun torto
sarebbe stato vendicato e ogni ingiustizia riparata; The lonesome death of
Hattie Carroll e Only a pawn in their game (originariamente The Ballad of
Medgar Evers, dal nome del leader per i diritti civili appena assassinato),
immediatamente adottate dal movimento contro la segregazione razziale;
Masters of war e With God on our side, assurte negli anni a venire al ruolo
di inni nelle campagne contro la guerra in Vietnam (4) .
Alle parole erano seguiti anche i fatti: Dylan si era infatti esposto nel
campo dell’impegno civile e politico concedendo interviste a quotidiani e
periodici della sinistra più radicale, accettando l’invito di programmi
radiofonici e televisivi dedicati alle questioni delle libertà civili,
partecipando a importanti manifestazioni politiche come il rally del 6
luglio a Greenwood in favore dell’uguaglianza razziale e, il 28 agosto,
l’oceanica marcia per i diritti civili di Washington, dove si era esibito a
margine del celebre comizio di Martin Luther King. Soprattutto, sempre in
quell’estate, era stato l’attrazione principale del prestigioso Folk
Festival di Newport dal quale era uscito con l’investitura praticamente
universale di nuovo principe della musica folk, erede designato di Woody
Guthrie e degno compagno della “regina” Joan Baez, come risulta dalle
interviste ai protagonisti dell’epoca, preziosamente contenute nel
documentario di Scorsese: «Se davvero esiste un subconscio collettivo
americano, se credete in una cosa del genere, allora Bobby l’aveva colpito
in pieno, c’era sempre una certa risonanza [di lui] in tutti», ricorda il
folksinger Dave Van Ronk, esponente allora tra i più brillanti della canzone
impegnata. Sembrava davvero che stesse per cominciare un’altra storia, che
potesse realizzarsi il desiderio non nascosto di quella comunità di
intellettuali ed artisti della sinistra americana, appena riemersa dalle
persecuzioni e dalle umiliazioni sopportate durante la “caccia alle
streghe”, che aveva trovato proprio nel festival di Newport (nato nel ’59)
un luogo ideale per confrontarsi e ricostruire un’identità intellettuale e
morale (5): quello di affidare la testimonianza dei propri sentimenti e del
proprio impegno sociale al talento di un nuovo portavoce, il giovane bardo
che compone su misura inni di protesta per ogni nuova battaglia . (6)
Invece no: tutto l’impeto politico che aveva animato Bob Dylan nell’estate
di quell’anno si esaurisce nel giro di poco tempo e cessa definitivamente
con l’uccisione del presidente. Per tutto l’inverno il cantante sembra
andare in ritiro, evita accuratamente le manifestazioni per le cause civili,
si sottrae a numerose interviste, dirada le esibizioni, non scrive nuove
canzoni fino alla primavera successiva; quando poi ricomincia a comporre, i
nuovi testi sono più intimistici e poetici, decisamente lontani dalle
tematiche sociali che lo avevano reso una celebrità. Si ripresenta infine a
Newport nel luglio del ’64 con il nuovo repertorio ma si ritaglia un profilo
inferiore, non ottiene l’acclamazione dell’anno precedente, alcuni dei
vecchi compagni non capiscono, storcono il naso e alla fine non nascondono
la loro delusione: il flirt dell’artista con la sinistra sembrava finito,
c’era il timore che l’antico sodale si fosse staccato dalla protesta e
stesse imboccando una strada diversa. Era vero. Dylan si era spinto molto in
avanti ma era determinato a non fermarsi, aveva scritto in brevissimo tempo
una manciata di canzoni impegnate sbalorditive ed aveva ottenuto con
relativa facilità il plauso della comunità folk, ma non si sentiva proprio
coinvolto dalla politica e in fondo non era a una musica di sola
testimonianza che voleva approdare (7) : anche le canzoni d’attualità non
erano altro per lui che uno stadio verso la propria maturazione artistica.
Un performer, un musicista e uno sperimentatore, questo si considerava, solo
questo voleva essere e non sarebbe ritornato sui suoi passi, come confida
oggi alla telecamera del regista: «Stare dalla parte di chi lotta per
qualcosa non significa necessariamente essere un politico […] Volevano farmi
diventare un cantautore specializzato […] non lo sono mai stato […] non era
il mio caso. Io ero una specie di outsider. Ero arrivato in città da
outsider […] Volevano farmi diventare uno di loro, convertirmi al loro
pensiero. Niente da fare».
Questione finita? Manco a dirlo, perché il passo compiuto da Dylan entra in
conflitto con il comune sentire dell’epoca e il suo impegno verso le
tematiche politiche decresce in misura inversamente proporzionale
all’importanza che esse vanno ad assumere nel panorama americano: basta uno
sguardo distratto agli USA della metà degli anni sessanta per capire che le
tensioni sociali che avevano fatto da sfondo al movimento del folk revival
negli anni precedenti, non solo non si sono allentate, ma aprono ferite
sempre più profonde nelle coscienze degli intellettuali, riversando sugli
artisti aspettative sempre maggiori. E’ questo il clima in cui va in scena
il “tradimento” di Dylan: c’è ancora Newport sulla strada del cantante e ci
sono ancora, per fortuna, le immagini del recente documentario a
testimoniarci la sua partecipazione all’edizione del festival del 1965 e le
polemiche che ne nacquero. È un evento molto conosciuto nella letteratura
musicale e sul quale ognuno che vi ha preso parte ha una propria opinione. È
ormai appurato che l’artista venne pesantemente contestato dalla maggioranza
del pubblico a causa del suono elettrificato della sua chitarra e
dell’impianto rock della sua esibizione, durante la quale propose un set
brevissimo, concentrato orgogliosamente sulle nuove, enigmatiche canzoni,
tra le quali spiccava l’allora sconosciuta Like a rolling stone (pubblicata
appena cinque giorni prima); rimane ancora un alone di leggenda
sull’aneddoto che vuole gli organizzatori della manifestazione furenti e uno
di essi, il vecchio amico Pete Seeger, agitare per aria un’ascia con
l’intento di recidere i cavi dell’amplificazione e sabotare l’esibizione.
Newport ’65 segna l’inizio delle numerose contestazioni subite dal cantante,
il primo e il più famoso di una lunga serie di episodi nei quali l’artista
non offrirà al suo pubblico ciò che esso si aspetta e lo indurrà a reagire
con feroci proteste perché non riconoscerà in quello che si trova davanti il
“vero Dylan”, indelebilmente associato alla veste solitaria della
performance, al profilo acustico dell’accompagnamento musicale e,
soprattutto, alle tematiche della protesta. Le contestazioni più clamorose
smetteranno solo con l’incidente di moto dell’estate del ’66, ma nel
frattempo il cantante dovrà sopportare ancora un anno di “martirio” lungo il
faticoso e snervante tour mondiale della primavera, contraddistinto dai
fischi e dalle offese come ben documentano i filmati d’archivio recuperati
da Scorsese. Gli equivoci legati al suo impegno invece si trascineranno
ancora per molto tempo, se è vero che nell’epopea del ’68 e negli anni a
venire le canzoni di Dylan faranno da colonna sonora alla contestazione
studentesca e ancora oggi Joan Baez si sente ripetere la solita, petulante
domanda a ogni happening in cui è chiamata a suonare: «Viene Bobby?» (8).
Bobby non viene mai, come la Baez ben sa ed è ormai ovvio da più di
quarant’anni, durante i quali ha evitato con cura non solo ogni circostanza
politica ma anche la maggior parte degli eventi musicali in cui l’enfasi per
la causa trascende i contenuti artistici; tanto che nel ’69, pur abitando
con la famiglia nella campagna intorno a Woodstock, si guardò bene dal
partecipare al mega-raduno ispirato alla filosofia peace, love and music.
Per Dylan quelli erano gli anni del ritiro dalle scene, di cui il cantante
parla diffusamente nel suo libro, dipingendo con abbondanza di aneddoti ed
iperboli un quadro schizofrenico nel quale egli cercava con tutti i mezzi di
fuggire dalla responsabilità smisurata di cui veniva fatto carico
dall’intera comunità di giornalisti, artisti, vecchi amici e nuovi radicali
che si appellava a lui affinché riprendesse la strada dell’impegno. Non che
mancassero le occasioni per chi avesse voluto cimentarsi in questa arena,
visto che la seconda metà degli anni sessanta rappresentò in effetti il
momento più delicato per gli equilibri sociali negli USA. Le lotte per i
diritti civili si erano radicalizzate e avevano innescato dinamiche di
violenza che avrebbero condotto agli omicidi, mai fino in fondo chiariti,
dei loro, diversissimi, leader politici riconosciuti, Malcom X e Martin
Luther King; l’omicidio nel 1968 di un altro Kennedy, Robert, sembrava, come
già cinque anni prima, stroncare le speranze per una politica compiutamente
riformatrice; nei campus universitari esplodevano nuove ribellioni legate
soprattutto alle questioni del pacifismo; la guerra in Vietnam, in
particolare, con la controffensiva dei Vietcong, conosceva un’escalation che
avrebbe costretto gli USA nel maggio del 1968 ad avviare le prime trattative
di pace e cominciava a dividere l’opinione pubblica mondiale sollevando seri
interrogativi sul ruolo di gendarme del mondo che la nazione americana si
era attribuita.
Tutto ciò non era abbastanza per stanare Dylan dall’isolamento e recuperarlo
a una dimensione impegnata della quale non ne voleva più sapere. Non si
ricorda alcuna dichiarazione pubblica su questi eventi, né una canzone che
si presti ad essere interpretata sotto quest’ottica, bisognerà aspettare
quasi quarant’anni per conoscere il suo punto di vista, contenuto in poche
parole laconiche e indifferenti: «Gli eventi di quei tempi, tutta la babele
culturale, mi stavano imprigionando l’anima, mi nauseavano. Capi del
movimento per i diritti civili e leader politici abbattuti a fucilate, chi
montava sulle barricate, la repressione governativa, studenti radicali e
dimostranti contro poliziotti e sindacati, le strade che esplodevano […]
Avevo le più serie intenzioni di stare alla larga da tutto ciò. Ora ero un
padre di famiglia e in quella foto di gruppo non avevo intenzione di
comparire» (9). È difficile riconoscere in questo autoritratto l’immagine
battagliera che fu attribuita a Bob Dylan e che egli ha suo malgrado
incarnato presso il grande pubblico nel corso di tutto questo tempo? Forse,
così l’autore ribadisce con insistenza il concetto: «Io non so che cosa gli
altri avessero per la testa, ma quello di cui stavo fantasticando io era una
vita con un lavoro dalle nove alle cinque, una casa … con una staccionata
bianca e le rose nel cortile sul retro» (10) . Il cantante «aveva poco in
comune, e ne sapeva ancora meno, di una generazione della quale avrebbe
dovuto essere la voce» (11), eppure neanche la riluttanza a esibirsi e il
rifiuto di impegnarsi gli furono sufficienti a evitare quel ruolo di
portavoce della protesta, coscienza della sua generazione, del quale ricorda
ancora tutto il fastidio: «I giornalisti mi mitragliavano di domande e io
gli ripetevo di non essere un portavoce di niente e di nessuno e che ero
solo un musicista. Mi guardavano negli occhi come per trovare tracce di
bourbon e manciate di anfetamine… Poi un articolo avrebbe fatto il giro
delle strade con il titolo: “Il portavoce nega di essere un portavoce”. Mi
sembrava di essere un pezzo di carne gettato ai cani» (12) . Ci vorranno
ancora alcuni anni di lontananza dalle scene, uscite commerciali incerte e,
soprattutto, l’affievolirsi delle tensioni sociali che avevano messo tanto
in evidenza la sua figura, affinché l’immagine pubblica dell’artista assuma
forme più simili a quelle attuali: quando nel ’74 il cantante ritorna a
comporre con frequenza e a esibirsi dal vivo, un grande pubblico si recherà
ai suoi concerti per vedere e ascoltare da vicino un testimone dei sixties,
certamente, ma non con l’ossessione e le richieste di qualche anno prima.
Nessuno chiederà più a Bob Dylan di cambiare il mondo.
L’indirizzo sostanzialmente agnostico del suo impegno non è dunque in
discussione almeno dal ’64 ed è velleitario tastargli il polso per coglierne
i battiti rivoluzionari; tuttavia, se la persona non è più cooptabile per le
nuove battaglie, ciò che rimane a disposizione di tutti è, naturalmente, il
suo canzoniere “politico”, prodotto nel biennio 1962-63, ma in gran parte
ancora attuale e frequentemente saccheggiato da artisti di ogni paese e
lingua: un arsenale di composizioni con le quali, se vogliamo, si può
tuttora andare a “combattere” Bush, come ha fatto un paio d’anni fa Michael
Moore, inserendone ben tre nella soundtrack del suo battagliero Fahrenheit
9/11 (due di esse erano, guarda caso, Masters of war e With God on our side,
l’altra Chimes of freedom).
Per quanto riguarda Dylan, il suo interesse è dirottato altrove e si rimane
delusi se ci si aspettano esplicite rivelazioni sul suo pensiero politico o
sulla sua visione del mondo: l’artista è portatore di un punto di vista
senza dubbio penetrante e originale sugli uomini e sulle cose, ma certo non
coerente e non organico con niente che non sia riconducibile all’arte
rappresentativa e performativa dello scrivere canzoni e del cantarle. Anche
i suoi testi più ispirati non sono funzionali a esprimere un pensiero
strutturato, sostanzialmente omogeneo, preesistente alle canzoni e coerente
negli anni; egli non costruisce melodie per sostenere concetti, casomai sono
questi che si sviluppano attorno alle forme musicali che esplora con
quotidiana perseveranza. Per questo Bob Dylan non solo non è un politico, ma
non è neanche un filosofo prestato alla canzone, i suoi modelli non sono Che
Guevara o Jack Kerouac, rivoluzionari o visionari, e nemmeno gli amici Allen
Ginsberg e William Burroughs, poeti e scrittori, ma il “padre del country”
Jimmie Rodgers o il “bluesman del diavolo” Robert Johnson; questa è la
cultura “alta” per Dylan, una cultura in cui trovano posto solo canzoni e
interpreti, così da perseguire quello che sembra essere il suo obiettivo
artistico principale: «chi canta deve farti credere in quello che ascolti»
(13). Considerata la sua vicenda, sembra che l’abbia realizzato.
Soltanto dalla comprensione di tanti aspetti possiamo dunque dare una
spiegazione alla questione del “disimpegno” di Dylan, un nodo inestricabile
in cui convergono la spigolosità del suo carattere, certamente, ma anche
l’orgogliosa consapevolezza del proprio talento musicale, il disincanto
verso la capacità di incidere nei processi sociali e, soprattutto, la difesa
ostentata e fiera del proprio irriducibile individualismo. Che poi anche
questi aspetti contribuiscano a descrivere un’altra parabola americana,
questa è davvero un’altra storia.
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1 Bob Dylan, Chronicles, Volume 1, Feltrinelli, 2005. D’ora in poi
Chronicles.
2 No direction home, Bob Dylan, dvd di Martin Scorsese, Paramount, 2005.
3 Cito dalla trascrizione del discorso di Dylan riportata integralmente da
Robert Shelton, Vita e musica di Bob Dylan, Feltrinelli, 1987, p. 147.
4 Conviene ricordare che il movimento per i diritti civili, in un certo
senso anticipando quella che sarà poi la mobilitazione degli artisti
americani contro l’intervento in Vietnam, «fu un singing movement, che si
servì in modo organizzato della musica e delle canzoni» (Alessandro
Portelli, Canzone politica e cultura popolare in America. Il mito di Woody
Guthrie, Derive Approdi, 2004, p. 274, ed. or. De Donato, 1975).
5 Per un inquadramento generale sul rapporto tra la cultura politica della
sinistra americana negli anni cinquanta-sessanta e il movimento del
cosiddetto folk-revival, cfr. il volume tuttora fondamentale di A. Portelli,
Canzone politica e cultura popolare in America, cit.
6 Il messaggio artistico di Guthrie «era stato raccolto e rinnovato da una
nuova generazione di interpreti; tra cui il più dotato apparve subito Bob
Dylan, che nei primi anni Sessanta lo andò a trovare diverse volte
stigmatizzando un’ideale consegna del testimone» (V. Castronovo, L’età
dell’oro, prefazione ad A. Portelli, Canzone politica e cultura popolare in
America, cit., p. 8).
7 Ci sono del resto fondati dubbi sul fatto che, perseguendo tale obiettivo,
la sua visione politica sarebbe riuscita a varcare certi limiti propri
dell’intellettuale americano, dato che «[…] anche le sue canzoni di più
aspra protesta mancano sempre di una prospettiva, di una possibile fonte
collettiva di nuovi rapporti umani, […] di nuova organizzazione della
società. […] Dylan non riesce, come invece Guthrie, a superare la prigione
americana dell’individualismo, a sentirsi parte di un tutto più grande del
suo io.» (A. Portelli, Canzone politica e cultura popolare in America, cit.,
p. 285)
8 E’ solo uno dei tanti aneddoti che la cantante americana riferisce nella
bella intervista concessa al regista newyorchese per il suo documentario.
9 Chronicles, cit. pp. 99-100.
10 Ivi, p. 107.
11 Ivi, p. 105.
12 Ivi, p. 109.
13 La frase di Dylan è riferita da Greil Marcus, studioso di cultura
popolare americana, nel suo articolo Una vita da Dylan, “Rolling Stone”, n.
16, 2005, p. 107.
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