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MAGGIE'S FARM |
1988-2017.
Dell’iceberg…la punta. |
Durante il suo Never Ending Tour, abbreviato
anche con la sigla NET, iniziato il 7 giugno 1988 in California e
tuttora in corso, Bob Dylan ha tenuto, a oggi, 2903 concerti. L’ultima
data del 2017 è stata a New York il 25 novembre; la prima del 2018 sarà
a Lisbona il 22 marzo. Dal 1988 a oggi, Dylan non si è mai preso un solo
anno di pausa, tenendo una media di quasi 100 show all’anno. Per
celebrare il trentesimo anniversario di questa infinita installazione
musicale, Samuele Conficoni ha selezionato trenta esibizioni in ordine
cronologico, una per ciascuna annata, in modo tale che ogni singolo anno
sia rappresentato all’interno della lista. La pretesa non è certamente
quella di essere esaurienti (e chi mai potrebbe esserlo?), né quella di
indicare la miglior performance di ogni anno – anche perché è
impossibile farlo, e ciascuno avrebbe le proprie preferenze –, bensì di
presentare al lettore una serie di concerti rappresentativi ciascuno del
tale anno, della particolare fase creativa che Dylan stava attraversando
e della sua evoluzione sui palcoscenici, con un occhio particolare ai
passaggi di Bob in Italia. • #1: 13 ottobre 1988 – Upper Darby, Pennsylvania. La prima, storica data del Never Ending Tour si tenne in California, a Concord, il 7 giugno 1988, con Neil Young ospite alla chitarra in alcuni brani e diversi debutti assoluti di storici brani (“Subterranean Homesick Blues” e “Absolutely Sweet Marie” su tutti). Quell’anno, Dylan si esibisce solo negli States. Il tour autunnale è breve: 6 concerti totali, due a Upper Darby e quattro a New York. Il primo dei due concerti a Upper Darby è speciale. Dylan canta con una voce che sembra provenire dall’aldilà, con un trasporto e un calore sovraumani, snocciolando un capolavoro dopo l’altro: “You’re a Big Girl Now”, “Shelter from the Storm”, “Girl from the North Country”, “Don’t Think Twice”, “Knocking”, “I Shall Be Released”, “The Lonesome Death of Hattie Carroll”, il traditional “Barbara Allen”, “Times” e molto altro. 21 brani totali in poco meno di due ore. Sono due le perle che più colpiscono al cuore: a) la prima esecuzione dal vivo in oltre quattro anni di “With God on Our Side”, brano del 1964, in una versione da brividi di 9 minuti (in questo 1988 il brano viene eseguito in totale 7 volte e contiene una strofa in più: si tratta di una dura accusa agli Stati Uniti per la guerra in Vietnam, argomento che Dylan non aveva mai voluto toccare apertamente prima); b) la chiusura del concerto, che spetta a un brano eseguito raramente e quasi mai alla fine dei concerti, “Every Grain of Sand”, uno dei pezzi più strepitosi della parentesi religiosa di Dylan, scritto nel 1980 e pubblicato nel 1981. In definitiva, questa esibizione è una delle più incredibili di tutta la carriera di Dylan. • #2: 12 ottobre 1989 – New York City, New York. I quattro concerti al Beacon Theatre di New York di quest’anno sono tutti e quattro stratosferici. Dei concerti del 1989 colpiscono in particolare l’inizio rabbioso che ogni show ha e le tante sfumature che Dylan utilizza nell’interpretare i brani, dal pacato e sommesso all’aggressivo ed energico. “Boots of Spanish Leather” diventa il lamento sussurrato di un amante sinceramente dispiaciuto ma profondamente cinico e sprezzante; “Queen Jane Approximately”, tratta dall’album Highway 61 Revisited, altra rarità assoluta che era comparsa per la prima volta nelle scalette durante il tour con i Dead del 1987, è un continuo saliscendi vocale emozionante e allegro; “Gates of Eden” brilla per la sua grandezza poetica e il suo andamento spettrale. Colpiscono le esecuzioni delle rare “Dead Man, Dead Man” e “Man of Peace”, pubblicate rispettivamente nel 1981 e nel 1983, brani che comparivano molto di rado in scaletta e che esplodono grazie al loro ritmo furioso. Anche “Mr. Tambourine Man” è bellissima, piuttosto rimaneggiata nella melodia e nel ritmo, eseguita con sicurezza e ispirazione. “Most of the Time”, appena pubblicata sul disco del 1989 Oh Mercy, viene suonata spesso quest’anno, e anche questa sera è interpretata magistralmente, comparendo come primo brano dell’encore e precedendo la conclusiva “Maggie’s Farm”, sempre graffiante e ispirata. • #3: 8 febbraio 1990 – Londra, Inghilterra. Dei sei concerti che Dylan tiene, nel febbraio 1990, presso il prestigioso e antico teatro londinese Hammersmith Apollo non ce n’è uno soltanto che sia anche solo normale: tutti rasentano il sublime. Scelgo l’ultimo perché a grandi classici riarrangiati si mescolano rarità assolute, come la performance al piano (strumento che, durante il Never Ending Tour, Bob aveva suonato per la prima volta il 20 ottobre 1989 a Poughkeepsie, New York, e che avrebbe suonato molto sporadicamente fino al 2002) di “Disease of Conceit”, dove sul finale Dylan si alza in piedi e canta gli ultimi versi battendo come un ossesso sui tasti neri del pianoforte in una sorta di trance (e, a testimonianza di ciò, si visioni la performance, reperibile su YouTube). Sempre l’8 febbraio compare la seconda e a oggi ultima performance live di “You Angel You”, brano del 1974 suonato per la prima volta qualche settimana prima (14 gennaio 1990) e scomparso per sempre dalle scalette dopo queste due esecuzioni isolate. C’è una “Most of the Time” da pelle d’oca e una “Like a Rolling Stone” che anno dopo anno diventa sempre più strana, sperimentale e spezzata nel cantato di Dylan, un vero e proprio pezzo hip-hop. Questo show londinese è uno dei concerti più stratosferici della carriera di Bob. • #4: 8 agosto 1991 – Buenos Aires, Argentina. I concerti del 1991 sono particolarmente anarchici: lo stesso brano è suonato in modo molto diverso ogni sera, alcune performance risultano addirittura confusionarie, ma nonostante ciò Dylan e la sua band – per ora ancora di tre elementi, tra cui il bassista Tony Garnier giunto nel 1989 ed elemento fisso fino a oggi – non perdono mai il filo del discorso. Lo show si apre con una trionfale “New Morning”, suonata di rado, e in particolare con un assolo di armonica che lascia a bocca aperta (Dylan è probabilmente il più grande armonicista vivente). Il cantato è molto libero e il brano assume i caratteri di un lamento amoroso molto lontano dalla valenza positiva e ottimistica del suo corrispettivo su album. Indimenticabile è soprattutto la seconda canzone in scaletta, uno dei diamanti dell’intero NET 1991: si tratta della performance di “People Get Ready”, storica canzone degli Impressions firmata da Curtis Mayfield, che Dylan aveva già suonato durante le rehearsal per il tour Rolling Thunder Revue del 1975 (qualche minuto di quella versione di prova si può ascoltare nel film sperimentale “Renaldo & Clara”, girato proprio durante quella tournée e uscito nel 1977). Segue una “Shelter from the Storm” sempre da brividi, che ogni anno cambia un po’ nella melodia e nella velocità d’esecuzione. Il traditional “Trail of the Buffalo” è fisso in scaletta da molto tempo ma ogni sera risulta freschissimo, eseguito in maniera convincente e sentita, e ha un arrangiamento che risulta al tempo stesso filologico e innovativo. Il “filotto” anni Sessanta colpisce con una potenza e una perfezione rare: “Blowing”, “It Ain’t Me”, “Tambourine” e “Don’t Think Twice” vengono snocciolate una dopo l’altra e risultano perfette. Il concerto si chiude con la bellissima e rassegnata “What Good Am I?” e il classico “Ballad of a Thin Man”, di cui non esiste probabilmente una sola versione delle oltre mille suonate che sia poco convincente. • #5: 15 aprile 1992 – Sydney, Australia. Il NET 1992 vede Dylan alternare serate meravigliose a serate più confuse, sempre qualitativamente alte ma più altalenanti, cosa dovuta forse alla forte dipendenza da alcol che alcuni biografi (Howard Sounes su tutti) sostengono il cantautore abbia attraversato quell’anno. Il concerto del 15 aprile parte fortissimo col classicone blues “Rainy Day Women”, ma a essere strepitosa è la canzone successiva, “Delia”, un brano folk-blues tradizionale reso celebre da Blind Willie McTell, amatissimo da Dylan, che lo avrebbe inciso anche sul proprio disco acustico del 1993 World Gone Wrong. Dylan suona “Delia” nella versione di McTell, diversa da quella leggermente riarrangiata che avrebbe poi inciso su album. Tutto il concerto è meraviglioso e ben orchestrato, grazie a una band sul pezzo (dal 1992 sono in cinque sul palco, Bob compreso) dalla prima all’ultima nota e a un Dylan che sembra avere il potere magico di rendere ogni verso di ogni canzone melodicamente differente da quello appena precedente e da quello appena successivo. I concerti australiani del 1992 sono amatissimi dai dylaniani più accaniti e mostrano come anno dopo anno i brani vengano sempre più decostruiti, spezzettati e accartocciati, fino a diventare canzoni completamente diverse dalla versione originale. Come ebbe modo di definirlo il collega e amico Elliott Murphy, Dylan è il Picasso della musica. Che decida di suonare ogni sera una scaletta diversa, come avveniva nel 1992, o che decida di suonare la medesima scaletta ogni sera per anni, come avviene di recente, ogni singolo brano non sarà mai uguale la sera dopo, come le decine e decine “Cattedrali di Rouen” di Monet e le oltre cinquanta versioni de “Las Meninas” di Picasso sono tutte diverse tra loro: come loro, anche Dylan, dall’inizio della sua carriera a oggi, è alla ricerca di quel “capolavoro sconosciuto” che Balzac tentò di descrivere nell’omonimo racconto. Sempre in questo concerto sono memorabili il tradizionale “Little Moses”, punto fisso di moltissimi concerti del 1992 e del 1993, “Hard Rain” e “Idiot Wind” (questa non veniva eseguita dal vivo dal 1976, viene riproposta per 40 volte nel 1992 e da allora scompare per sempre dai live). Ci sono una “Times” esaltante, una “Absolutely Sweet Marie” che riesce a recuperare le sonorità Blonde on Blonde, e un’accoppiata strepitosa finale con “Ballad” e “Blowing”, la prima gridata e la seconda sussurrata come una preghiera. • #6: 16 & 17 novembre 1993 – New York City, New York. Mi va di barare un po’: trenta concerti per trent’anni di tour sono davvero pochi, e dunque accorpo in un solo punto quattro concerti estremamente simili tra loro tenuti da Dylan al Supper Club di New York il 16 e 17 novembre 1993, pomeriggio e sera, in un locale piccolissimo e in unplugged. Le performance sono decisamente migliori di quelle che avrebbe sfoderato nell’unplugged registrato per MTV esattamente un anno dopo, nel novembre 1994. Le scalette hanno pochi classici, tutti riarrangiati (tra cui “Queen Jane”, “My Back Pages”, “Forever Young”, “I Shall Be Released”), e contengono tantissimi brani folk tradizionali di bluesman statunitensi che Dylan aveva registrato sui due recenti album, Good as I Been to You e World Gone Wrong: troviamo così una struggente revisione di “Delia” e una “Jack-A-Roe” da brividi. Colgono nel segno anche le rivisitazioni unplugged di “One More Cup of Coffee”, rarissima, e di alcuni brani di Oh Mercy, come “Disease of Conceit” e, soprattutto, “Ring Them Bells”, devastante; ma la perla assoluta è una “Tight Connection to My Heart” sublime in chiave acustica, lontana dalla versione mediocre registrata in studio nel 1985. Dylan canta con una voce secca e nasale che non disdegna alcuni picchi in altezza e che tocca moltissimi range, dalla cantilena sognante di una “I Want You” tormentata (questo è, forse, l’unico brano che risulta migliore nell’unplugged MTV dell’anno successivo, anche se non venne poi selezionato nella versione definitiva audio e video, ed è quindi reperibile solo su bootleg) alla preghiera erotica di “I’ll Be Your Baby Tonight”. Jeff Buckley era presente al concerto serale del 17 novembre, giorno del suo compleanno, e Bob lo avrebbe ricevuto nel proprio camerino dopo lo show. • #7: 20 ottobre 1994 – New York City, New York. I tre concerti alla Roseland Ballroom di New York (18, 19 e 20 ottobre 1994) sono tutti e tre meravigliosi, brillanti ed emozionanti. Giocano molto su performance eccelse da parte di Bob e della sua band (ancora cinque elementi totali) e su interpretazioni vocali estreme da parte di Dylan, che si spinge in lamenti nasali graffianti e potenti, a misurare ogni parola di ogni canzone, lasciandosi trasportare senza paura in territori oscuri e pieni di inquietudine. I concerti del 1994 iniziano quasi tutti con “Jokerman”, classico da Infidels (1983), che però in scaletta compare solitamente poco e dopo questa annata diventerà una rarità assoluta; sono i brani che seguono, però, che rendono il concerto del 20 speciale. “If You See Her, Say Hello” è un pianto da tragedia greca, immobile e permeato dalla presenza di un fato ineluttabile, la performance vocale di Bob fredda e disperata; “Watchtower” è il solito treno elettrificato perfetto e potentissimo; poi arrivano altri due classici da Blood on the Tracks, “Simple Twist of Fate” e “Tangled Up in Blue”: i concerti del 1994 sono caratterizzati prevalentemente da performance come queste, ossia lente, dilatate, con lunghi intro, intermezzi e finali strumentali, che allungano la durata di ogni brano, tanto che entrambi i pezzi raggiungono i nove minuti abbondanti. Altri highlight del concerto sono una “Positively 4th Street” impeccabile, una “God Knows” sorprendentemente punk, una “Joey” movimentata, una “Maggie’s Farm” eseguita splendidamente, e una conclusione rock con la riflessiva “My Back Pages” (bellissima l’armonica di Bob) e i due sfoghi finali, “Rainy Day Women” e “Highway 61”. E non mancano gli ospiti speciali: in questi due numeri conclusivi suonano la chitarra al fianco di Bob niente meno che Neil Young e Bruce Springsteen. Concerto esaltante. • #8: 17 dicembre 1995 – Philadelphia, Pennsylvania. La tranche conclusiva di concerti del NET 1995 viene definita da critici e studiosi “Paradise Lost Tour” e vede una serie di esibizioni (per la precisione dieci) in piccoli teatri, dal 7 al 17 dicembre, molto fitte, con due serie di cinque concerti di fila e un solo day off. Patti Smith apre i concerti di Bob e Bob, dalla data del 10 dicembre a Boston, decide di cantare una canzone con lei nel proprio set. Lascia che sia Smith a scegliere: la decisione ricade su “Dark Eyes”, pezzo che chiudeva Empire Burlesque, e che cantata in duo risulta un’esperienza sensoriale indescrivibile. Il concerto conclusivo di questo mini-tour di dicembre è alla Electric Factory di Philadelphia. Come molti altri concerti del 1995, l’apertura è affidata a “Crash on the Levee”, registrata a inizio anni Settanta; un altro punto più o meno fisso di queste performance è l’esecuzione di “West L.A. Fadeaway”, brano dei Grateful Dead, band amatissima da Bob; “Dark Eyes” è potente e dolcissima: a conferma di ciò, si visioni il video di tale esecuzione disponibile su YouTube (anche se la performance nel video è di New York qualche giorno prima). A colpire allo stomaco per la bellezza e la potenza emanate sono “Senor”, “Every Grain of the Sand”, una semplicemente perfetta “Desolation Row” acustica con la band, e una “She Belongs to Me” da applausi. Chiusura affidata a una impeccabile “Knocking” (Patti Smith canta anche qui; Bob, come al solito, modifica e stravolge il testo della terza strofa, quella aggiuntiva) e a una furiosa “Rainy Day Women”. Esibizione di qualità altissima, professionale e non priva di picchi emozionali straordinari. • #9: 27 giugno 1996 – Liverpool, Inghilterra. Nel giugno 1996 all’Empire di Liverpool vanno in scena due concerti stratosferici di Nostra Bobbità, il primo dei quali (quello del 26) vede in scaletta anche un brevissimo frammento di “Yesterday”, omaggio ai Beatles, e una conclusione pazzesca affidata a una “Girl from the North Country” spettacolare. Il concerto nel complesso più potente è però il secondo, quello del 27 giugno, sarà per la riproposizione dal vivo di “Seven Days” (outtake degli anni Settanta, suonato diverse volte durante la seconda Rolling Thunder Revue, nel 1976), sarà per una convincente “Under the Red Sky”, ma il livello generale della serata del 27 pare più alto di quella precedente. “Just Like Tom Thomb’s Blues” è una visione mattutina di speranza e ispirazione, “Mr. Tambourine Man” acustica è appassionante e lisergica, “John Brown” (outtake degli anni Sessanta che in quegli anni compare spesso dal vivo) è una pugnalata all’addome, mentre convincono anche “To Ramona” e la rarità “When I Paint My Masterpiece”, davvero splendida in questa forma. Ma a riempire il cuore di bellezza sono – prima della conclusione classica affidata a “Rainy Day Women” – la cover dei Dead, molto presente in scaletta in quegli anni, “Alabama Getaway”, e una “It Ain’t Me, Babe” semplicemente perfetta. Applausi a scena aperta. • #10: 13 agosto 1997 – Hershey, Pennsylvania. Difficile scegliere un solo concerto del 1997, annata con esibizioni di qualità altissima e con scalette piene di variazioni e rarità. Di fronte a una scelta così ardua seleziono l’unico dei due concerti dell’anno (e, in generale, dal 1978 a oggi) che contiene il classico “One of Us Must Know (Sooner or Later)”, tratto da Blonde on Blonde. Il meraviglioso brano era stato eseguito con continuità solo nel tour mondiale del 1978 per poi scomparire dalle scalette; ritorna sorprendentemente il 12 e 13 agosto 1997 come primo dei tre brani degli encore di questi due concerti per poi scomparire di nuovo (e, a oggi, definitivamente). La performance del brano è bellissima anche se un poco confusionaria (evidentemente non era stato provato a sufficienza e non era “fresco” nella mente di Dylan), ma il pezzo risulta comunque notevole e splendido in questa nuova veste rassegnata e contenuta. Prima di questo, in ogni caso, c’erano stati undici brani eccelsi, come l’apertura affidata a un’altra rarità tratta sempre da Blonde on Blonde, “Absolutely Sweet Marie”, una “Ballad of a Thin Man” stupenda e un’altra rarità assoluta, “Tough Mama”, pubblicata nel 1974, qui con testo in parte riscritto. Segue subito un’altra rarità, questa tratta dai Basement Tapes, “You Ain’t Going Nowhere”, e un altro numero forsennato e divertentissimo, “Silvio”, scritta con Robert Hunter dei Dead e pubblicata sul poco convincente Down in the Groove del 1988, che dal vivo risulta godibile e interessante. “Cocaine Blues” è un elemento piuttosto fisso nelle scalette del 1997; ci sono anche “Tangled” e “Simple Twist of Fate”, sempre precise, perfette, e l’interpretazione vocale di Dylan non lascia dubbi su quanto egli sia rapito, aggrovigliato e preso da quelle parole così poetiche. “Highway 61” esplode in un turbinio di distorsioni e si apre l’encore che, come detto, vede “One of Us Must Know” come sorpresa assoluta. Il concerto si chiude poi con due classici eseguiti come al solito benissimo, “Knocking” e “Rainy Day Women”. Wow! • #11: 30 & 31 marzo 1998 – Miami Beach, Florida. Anche in questo caso, come avvenuto per il 1993, accorpo due concerti consecutivi perché simili tra loro sia nelle scalette che nel tipo di performance. In vista del tour primaverile sudamericano, durante il quale avrebbe aperto per i Rolling Stones (con i quali avrebbe suonato “Like a Rolling Stone” in molte date), Bob Dylan tiene due warm-up show al Cameo Theatre di Miami Beach il 30 e 31 marzo 1998, esibizioni molto intime, con tante rarità e piene di esecuzioni straordinarie. Entrambi i concerti si aprono con la rara “To Be Alone with You”; il 30 marzo compare in scaletta la folk ballad “The White Dove” e ci sono tanti brani tratti dal meraviglioso Time Out of Mind, uscito nel 1997, come “Can’t Wait”, “’Til I Fell in Love with You”, “Love Sick”; c’è una meravigliosa “Queen Jane”, una “If You See Her” che porta alle lacrime e una “Born in Time” che oserei definire “definitiva”, migliorata nettamente rispetto alla fiacca versione album, di una poeticità incredibile. Il 31 marzo colpiscono soprattutto “Senor” e “You’re a Big Girl Now”, ma anche “One Too Many Mornings” è brillante; compare anche “Jokerman”, in una versione più pacata rispetto a quelle del 1994-1995, e “Stuck Inside of Mobile” è una perla assoluta. “It Ain’t Me, Babe” è in entrambe le serate semplicemente sbalorditiva. Con queste premesse, il tour sudamericano in supporto agli Stones non poteva che rivelarsi eccezionale. • #12: 9 novembre 1999 – Philadelphia, Pennsylvania. Dal 1999 al (circa) 2002, Bob apre spesso i propri concerti con brani della tradizione folk, blues o gospel statunitense, come “Hallelujah I’m Ready to Go” (che apre questa esibizione), “Duncan and Brady” e “I Am the Man, Thomas”, prova ulteriore (come se non ce ne fossero altre centinaia o migliaia) che Dylan è rimasto e sempre rimarrà fedele a quel filone dal quale proviene e al quale sempre attinge quando compone e si esibisce in concerto. La serata alla Temple University di Philadelphia vede in scaletta un altro classico gospel, “A Satisfied Mind”, che Dylan incise su Saved nel 1980 ma che non aveva mai eseguito dal vivo, e che (a oggi) mai più avrebbe eseguito. L’esecuzione è emozionante, sentita; la voce di Bob negli anni è sempre più graffiante, roca, monotonale, ma dipinge con precisione chirurgica ogni angolo, sillaba o impressione di ogni canzone che esegue, diventando un pennello sottilissimo ma potentissimo. Secondo e terzo brano del concerto sono due pezzi tratti dall’album The Times They Are A-Changing, la sempre attuale “Hattie Carroll” e la dolcissima (ma al tempo stesso amara) “Boots of Spanish Leather”. Compare un altro classico, questa volta della tradizione country, “Folsom Prison Blues” dell’amico Johnny Cash, una esecuzione trionfante e bellissima. Alcuni membri della band si occupano anche dei cori, che risaltano proprio in “Satisfied Mind”. Colpiscono anche “Shooting Star” e “Man of Peace”, rara ma eseguita diverse volte quell’anno; un elemento molto presente in quegli anni è “Not Fade Away”, brano che molti anni prima era stato coverizzato anche dagli Stones; meravigliosa è anche la performance sommessa, quasi più la recita di una poesia, di “Don’t Think Twice”. Il concerto si chiude con una “Blowing” sempre più rimaneggiata e sempre più vicina alla tradizione spiritual dalla quale deriva (Dylan la scrisse nel 1962 ispirandosi alla canzone “No More Auction Block”, cantata dagli schiavi afroamericani che fuggivano verso il Canada), e con una sempre precisa e divertita “Highway 61”. • #13: 19 settembre 2000 – Newcastle, Inghilterra. Con una pratica consolidatasi già dall’anno precedente, anche questo show, come quasi tutti quelli del 2000 e del 2001, inizia con un traditional, “Duncan and Brady”, famoso soprattutto nella versione di Dave Van Ronk, grande amico di Dylan. Segue il classico “Times They Are A-Changing”, Bob è scintillante nei suoi arpeggi e nelle sue pennate di chitarra acustica; segue la rara “Delia”, altro classico della tradizione blues; ma a dare lo scossone definitivo alla serata è una magistrale “Tangled Up in Blue”, sempre magnifica, ogni anno arrangiata in maniera diversa, l’esperimento d’arte più vivo e tra i tanti che Bob ci ha regalato. Le rarità “Country Pie” e “Standing in the Doorway” sono eseguite molto bene: la band, sempre di cinque elementi, Bob compreso, è precisa, schematica, non lascia nulla al caso e rende ogni nota piena di significato. Il canto di Bob è sommesso, un po’ rattristato, ma dal suo timbro rauco escono, come al solito, sfumature e interpretazioni che solo lui può dare. “Standing”, in particolare, è di una tristezza e freddezza uniche, ed emoziona in maniera estrema. Altre rarità sono “Tell Me That It Isn’t True” e “The Wicked Messenger”, riarrangiate e molto più malinconiche rispetto alle loro versioni originali. In mezzo c’è anche una “Stuck Inside of Mobile” colossale. Il finale regala ulteriori magie: gli show del 2000, 2001 e 2002 sono particolarmente lunghi, e l’encore vede una “Like a Rolling Stone” magistrale (d’ora in poi abbreviata in “LARS”), una “Don’t Think Twice” leggerissima e di un cinico da far paura, una “Man of Peace” sempre bella quando viene (molto raramente) eseguita, e una “Forever Young” sussurrata, dolcissima; la conclusione è affidata alla poetica e rumorosa “Highway 61” e all’inno “Blowing”. Uno show deciso, ben levigato, che attraversa tantissimi stati d’animo e generi diversi. • #14: 19 novembre 2001 – New York City, New York. Sono trascorsi appena due mesi dall’attentato alle Torri Gemelle e New York è ancora sotto shock. La patria artistica di Bob – che era arrivato lì nel gennaio del 1961 e ha scritto lì alcune delle canzoni più rivoluzionarie e poetiche di tutti i tempi – è in subbuglio, avvolta da un manto di desolazione e di tristezza. Bob sfodera una performance straordinaria, come se volesse metaforicamente abbracciare la città e la sua gente e accollarsi il loro dolore, lui che continua a possedere una casa lì ma che vive prevalentemente in California da molti anni. Lo show inizia con un altro traditional amatissimo da Dylan, “Wait for the Light to Shine”, un classico della tradizione gospel, e continua con “It Ain’t Me” e “Hard Rain”, entrambe sentitissime. Viene eseguita anche il brano “Searching for a Soldier’s Grave”, reso celebre da Hank Williams, abbellito dai cori della band. “Just Like a Woman” è dolcissima; “Lonesome Day Blues” è un’esplosione sporca e cattiva di rabbia e risentimento, mentre una splendida “High Water” è forse l’highlight dell’intera serata. “Tangled Up in Blue” è al solito lunghissima, sempre più modificata nella melodia e nell’interpretazione rispetto alla versione originale, che è stata cancellata totalmente dalle oltre (a oggi, cioè a fine 2017) 1636 performance. Dylan rispolvera “John Brown”, la canzone anti-militarista di inizio anni Sessanta, proprio quando un attacco all’Iraq da parte degli Stati Uniti è già presentito e fa ipotizzare un’ulteriore conflitto armato nel Medio Oriente. Dylan non parla mai dal palco, ormai da tanti anni, ma le sue scelte in scaletta non sono quasi mai casuali. Dal recentissimo Love and Theft viene eseguita anche “Sugar Baby”, malinconica e cinica. “Things Have Changed”, il brano che gli ha fruttato la “doppietta” Golden Globe e Academy Award (Oscar) a inizio 2001, è ormai elemento fisso delle scalette, una gemma assoluta. A concludere il bellissimo e sentitissimo show sono “LARS”, “Forever Young”, una devastante “Honest with Me”, e l’accoppiata “Blowing” e “Watchtower”, certezze inossidabili in questa annata. • #15: 4 agosto 2002 – Augusta, Maine. Gli show del 2002 raggiungono vette poetiche e musicali incredibili. Anche le scalette continuano a essere piuttosto varie e imprevedibili. Lo show di Augusta inizia con “Humming Bird”, un altro dei classici della tradizione folk con cui Dylan ama aprire i concerti in questo periodo. Segue “The Man in Me”, A splendere è la solita atroce, devastante “If You See Her, Say Hello”, con testo ulteriormente cambiato rispetto ai concerti degli anni precedenti: se già l’armonica iniziale squarcia il cuore, il finale non lascia adito a dubbi e fa sobbalzare: “If she’s passing back this way / and it couldn’t be too quick / please don’t mention her name to me / just the mention of her name makes me sick”, dove “sick” può indicare anche un certo disgusto cinico e freddo nel sentirla nominare, e non per forza un dolore relativo alla mancanza di questa lei. Treni in una corsa folle sono “Tombstone Blues” e “Tangled Up”, mentre la rivelatoria “Tears of Rage”, tratta dai Basement Tapes, conduce davvero – per rifarsi al titolo – alle lacrime. Il violino impazza, le chitarre acustiche fanno saltare e gridare, il ritmo è sempre sostenuto quando deve esserlo e lento e malinconico nei momenti maggiormente riflessivi. “Knocking” è bellissima in questa nuova veste, con accordi leggermente variati e i cori della band, mentre la sciocchina “Never Gonna Be the Same Again”, che su Empire Burlesque non convinceva, qui esplode e diventa una ballata apprezzabile. Colpiscono soprattutto i numeri tratti dal recente Love and Theft, come “Floater”, brano degno di un qualsiasi rapper statunitense, e la travolgente “Summer Days”. “Cold Irons Bound” è il solito diamante incastonato nella rabbia e nella cattiveria che Bob sa trasmettere in alcuni dei suoi pezzi: l’arrangiamento è potentissimo e la performance vocale, roca e ruvida, è da applausi. Concludono le solite “LARS”, “Honest with Me”, “Blowing” e “Watchtower”. Il pubblico saluta contento il Nostro ed esce dalla venue molto soddisfatto. • #16: 24 novembre 2003 – Londra, Inghilterra. Tre concerti londinesi di fila a novembre, questa volta ciascuno in un diverso teatro (Shepherd’s Bush Empire il 23, Hammersmith Apollo il 24, Brixton Academy il 25), chiudono il magistrale NET 2003 (98 date totali). I tre concerti londinesi sono, come al solito, sublimi. Scalette piene di rarità (tutte e tre le sere viene eseguita “Jokerman”, che era assente dagli show dal 1998 e che dopo il 2003 non sarebbe mai più stata riproposta) e performance solidissime di Bob e della sua band. Moltissimi brani tratti da questi tre concerti sono stati filmati, e i video sono tuttora reperibili su YouTube. La serata del 24 è magica perché, tra le tantissime sorprese, compare “Romance in Durango”, brano pubblicato su Desire che non veniva eseguito dall’11 maggio 1976 a San Antonio, Texas, e che da allora è nuovamente scomparso dalle setlist. Sempre il 24 viene eseguita una fantasmagorica “Tough Mama”, con testo leggermente modificato rispetto all’originale; c’è una “Million Miles” spettrale e colma di inquietudine; non mancano, poi, alcuni classici riarrangiati e dilatati, con la voce di Dylan sempre più cavernosa, bassa e ruvida, un mumble prossimo all’hip-hop, che intona, quasi recitandole, “Hattie Carroll” e le conclusive “LARS” e “Watchtower”. La band è sempre formata da cinque elementi, con Bob alla voce, alla tastiera elettrica (iniziata a suonare con continuità nell’autunno del 2002 e diventata lo strumento principale dal 2003) e all’armonica, con la quale regala alcuni assoli sublimi. Show sensazionale; io consiglio, ovviamente, di ascoltare attentamente tutte e tre le esibizioni londinesi, semplicemente perfette. • #17: 11 giugno 2004 – Manchester, Tennessee. Anche il 2004 è un anno di altissimo livello e di fatica considerevole (111 date totali) per Bob. Al Bonnaroo Festival il Nostro offre al pubblico una performance devastante, regalando anche alcune perle assolute. Si parte con due pezzi rari e pregiati tratti dal suo repertorio, “Down Along the Cove” e “Tell Me That It Isn’t True”, che subito regolano il mood della serata, indirizzando il tipo di performance verso sfumature prettamente country/folk. Ma è il terzo brano della scaletta a lasciare senza parole: Bob esegue una versione meravigliosa (oserei dire la versione definitiva) del classico folk-gospel “Samson and Delilah”, unica performance in assoluto da parte di Dylan di questo brano, reso celebre, tra gli altri, da Dave Van Ronk. L’esecuzione è semplicemente strepitosa, da non crederci. Segue un blues divertente, “Watching the River Flow”; ma subito dopo si ritorna nel country-folk puro, con la cover di “You Win Again” di Hank Williams. E già dopo cinque canzoni è chiaro che si tratta di uno show indimenticabile: e la cosa assurda è che le sorprese non finiscono qui. In scaletta arrivano anche la cover di un brano di Merle Haggard, “Sing Me Back Home”, e un altro classico meraviglioso della tradizione statunitense, “Pancho and Lefty” di Townes Van Zandt, che Bob aveva eseguito sporadicamente tra 1989 e 1993. In mezzo alcuni classici dylaniani, a ricordarci che Bob viene da quelle canzoni di Van Ronk, Haggard e Van Zandt, ma è diventato il più grande proprio perché partendo da quelle ha scritto pezzi inarrivabili: ci sono “Cold Irons Bound”, “Most Likely You’ll Go Your Way”, “Highway 61”, una eccezionale “Blind Willie McTell”, una “Don’t Think Twice” sospirata e, per concludere, la curiosa accoppiata “Cat’s in the Well”, un blues leggerino e divertente che su Under the Red Sky non diceva granché ma che dal vivo convince, e l’immancabile “LARS”. Concerto da brividi. • #18: 21 novembre 2005 – Londra, Inghilterra. Cinque serate di fila (dal 20 al 24 novembre) presso l’intima Brixton Academy di Londra e due concerti a Dublino (26 e 27 novembre) concludono il trionfale NET 2005 di Bob (113 concerti totali nell’anno solare). I cinque show a Londra sono semplicemente sensazionali e consiglio a chiunque di ascoltarli tutti – e, possibilmente, di impararli a memoria. Il NET raggiunge qui uno dei suoi apici assoluti in relazione alla variazione delle scalette e alla versatilità della band: 54 canzoni diverse suonate in cinque sere su un totale di 87 brani eseguiti è semplicemente fantascienza. Se, come già detto, oggi Bob preferisce mantenere una scaletta quasi sempre fissa ed effettuare variazioni sul tema (esplorare cioè tutte le possibili, anche le più imperscrutabili, variazioni sugli stessi brani), nel 2005 era l’opposto: rarità, brani mai eseguiti prima di allora e mai più eseguiti dopo (il 21 Bob fa uscire dal cilindro “Million Dollar Bash”, un brano dei Basement Tapes, che resta a oggi una one-off performance), tanta improvvisazione per quanto riguarda gli arrangiamenti, ma una qualità sempre altissima, oltre, ovviamente, a un divertimento assicurato. Lo show del 21 vede anche alcuni brani eseguiti di rado come “Moonlight”, i classiconi “Times They Are A-Changing” e “It’s Alright, Ma”, “Visions of Johanna” e “Highway 61”, l’allora rarità assoluta “Waitin’ for You” (che venne fatta debuttare questa sera e fu riproposta anche la sera successiva; scomparve poi dalle scalette fino al 2013, quando divenne un elemento fisso del set 2013-2015). Come primo brano dell’encore di tre pezzi ecco un’altra sorpresa assoluta: Bob intona la prima strofa, ritornello compreso, dell’epica “London Calling” dei Clash, proprio nella loro Londra, con il pubblico in visibilio totale (e il video su YouTube dimostra quanto gli spettatori fossero estasiati). La conclusione spetta alle immancabili “Rolling Stone” e “Watchtower”. Anche quest’anno Bob suona sempre e solo la tastiera elettrica, utilizza molto l’armonica e la sua voce è sempre più un roco lamento che sembra provenire dall’oltretomba, che dà alle canzoni vecchie e nuove una consistenza originale e teatrale, con i testi recitati e sussurrati, reinterpretati con un occhio diverso e sempre proiettati nella situazione personale che il cantautore sta vivendo. • #19: 15 luglio 2006 – Pistoia, Italia. Qui entrano in gioco il cuore, i ricordi e le emozioni legati al primo concerto dylaniano della mia vita (ora sono a quota sei, in attesa dei cinque cui assisterò nell’aprile 2018). Al festival Pistoia Blues, in Piazza Duomo, Bob, vestito di bianco e con un cappello da cowboy, sfodera una performance straordinaria, sempre dietro alla sua tastiera elettrica suonata come organo (novità, questa, entrata proprio con il NET 2006). Allora, tredicenne, conoscevo la musica di Bob da un anno, e non nego che il concerto mi sorprese molto. In una pratica che avrei da subito abbracciato e apprezzato totalmente, i classici proposti in scaletta (l’inizio con “Maggie’s Farm”, suonata spesso quell’anno, poi “Times Are A-Changing”, una sublime “Positively 4th Street”, una “It’s Alright Ma” da brividi, una spettacolare “Just Like a Woman”) sono tutti riarrangiati e resi quasi irriconoscibili, in un lavoro picassiano di smembramento e ricomposizione della figura umana e della tela che mi colpì profondamente e cambiò senza dubbio la vita. Un’esperienza paradisiaca resa ancora più memorabile dal cantato spezzato, ruvido e aggressivo di Bob, che modula con leggerezza i brani più dolci e aggredisce con violenza quelli più duri. C’è un brano piuttosto raro in scaletta, “Down Along the Cove”, a cui il pubblico risponde molto positivamente. Bellissima anche “I Don’t Believe You”; “Summer Days” è il solito, sfrenato blues che rende omaggio a Chuck Berry e B.B. King, ma soprattutto a Big Joe Turner; i classici “Ballad”, “Watchtower” e “LARS” sono eseguiti magistralmente, con professionalità e sentimento. Un giorno di snodo nella vita di chi, come me, lì a Pistoia ha assistito per la prima volta nella sua vita a un’esibizione di Sua Bobbità. • #20: 19 settembre 2007 – Nashville, Tennessee. Ad aprire questo concerto di Bob è Jack White degli White Stripes, da sempre fan del Nostro e che dal vivo, con il suo gruppo, ha spesso eseguito sue cover (si noti in particolare la sua interpretazione di “Isis”, davvero notevole, a inizio anni Duemila). Jack White prende parte anche al set di Bob, chiedendogli di poter suonare con lui niente meno che “Meet Me in the Morning”, blues severo e malinconico di Blood on the Tracks, che Bob mai aveva eseguito dal vivo prima e che mai avrebbe eseguito dopo quella sera. Dylan acconsente, ma a cantare sarà Jack. Bob suona la chitarra elettrica (ha ricominciato proprio quest’anno ad alternare a performance all’organo qualche numero chitarristico, strumento che non suonava dal 2004) e White canta a squarciagola, declamando con forza e rabbia le meravigliose strofe del brano. L’esibizione, al di là di questa rarità inaspettata e assoluta, è di alto livello dall’inizio alla fine. Bob suona la chitarra elettrica anche nei primi tre brani, in “Rainy Day Women”, in una “Don’t Think Twice” sempre magistrale e in una “Watching the River Flow” divertentissima, per poi ritornare all’organo ed eseguire una “You’re a Big Girl Now” sensazionale, che da lamento cupo e cinico si trasforma (quasi) in una presa in giro strafottente della (ex) amata, con un’interpretazione vocale distaccata e volutamente fredda di Bob, che rende questa esecuzione una perla assoluta. Altri diamanti sono “Desolation Row”, “Things Have Changed”, “Most Likely You Go Your Way”, una “Nettie Moore” da lacrime e sangue, tratta dal recente, splendido Modern Times, e una “Masters of War” da pelle d’oca, la voce di Bob cattiva e logorata al punto giusto, che rende il pezzo sempre attuale e mai vecchio. Concludono il meraviglioso show il divertissment “Thunder on the Mountain”, molto amata da Bob, e la solita “Blowing”. • #21: 8 luglio 2008 – Jerez, Spagna. A Jerez, in Spagna, Bob snocciola una delle migliori performance del NET 2008 e mescola brani lenti e riflessivi a blues energici e devastanti. Il concerto inizia con la scatenata “Leopard Skin Pill-Box Hat” e continua con una “If You See Her, Say Hello” come al solito bellissima: il testo negli anni recenti è stato ulteriormente cambiato, e dal 2003 ha una nuova stesura: lei è (forse) sempre a Tangeri, ma lui ha trovato qualcuna al suo posto perché non ama stare da solo, lui non è più sensibile né sta diventando arrendevole, lei ha gli occhi azzurri, i capelli anche e la pelle (a volte la voce) dolce e leggera, e soprattutto, nel finale, Dylan non ammette più la possibilità di rivederla, chiudendo con un lapidario “forse ci sarò, forse no”. Dopo questa bellissima esecuzione c’è un altro blues portentoso, “Rollin’ and Thumblin’”, seguito da una sempre splendida “Tangled”. Il vero highlight della serata è però “Mississippi”, che quando viene eseguita (di rado) è sempre speciale: il fraseggio di Bob è da brividi, il ritmo sempre più spezzato, ogni verso quasi recitato, e la voce di Dylan, ormai roca all’estremo, ha l’aria di quella di un profeta giunto da un’altra epoca. “John Brown” e soprattutto una cullata “Girl from the North Country” splendono, come anche l’altro classico ‘60s, “It’s Alright, Ma”, e la meravigliosa “Nettie Moore”, uno dei diamanti più brillanti di Modern Times, la cui esecuzione dal vivo supera quasi la versione studio. “Summer Days” è un divertimento corale su cui Bob e la band improvvisano riff e jam, mentre “Masters of War” colpisce per la sua severità. La conclusione spetta alla danza infernale di “Thunder” e alla maestosa “LARS”. • #22: 4 aprile 2009 – Monaco, Germania. Il 4 aprile 2009 a Monaco Bob regala alcune perle al proprio pubblico. L’inizio dello show è affidato a “Maggie’s Farm”, eseguita sempre di meno col passare degli anni, che sfodera sempre una certa energia e una certa rabbia in Bob e nel gruppo. Il secondo brano è la sorpresa della serata: “One More Cup of Coffee” è una rarità assoluta, a oggi mai più eseguita dopo quella sera, che caratterizzava la Rolling Thunder Revue del 1975 e che negli anni a venire è stata proposta pochissimo in concerto. La versione che ne dà stasera Bob è sommessa, poetica, quasi una rivisitazione generale degli anni in cui venne composta. Segue un’altra rarità, la Basement Tapes “You Ain’t Going Nowhere”, seguita a sua volta da una performance solidissima della fatalistica “Things Have Changed”. “Just Like a Woman” è il momento pop della scaletta in questi anni, ma a colpire come pugni nello stomaco sono la seducente e spietata “Sugar Baby” (che esecuzione!) e le trancianti “Hattie Carroll” e “Hollis Brown”, durissime, terribili, entrambe tratte dall’album Times They Are A-Changin’ del 1964. “Workingman’s Blues” è un altro episodio dolcissimo, strepitoso sia su disco che dal vivo. La chiusa spetta a “Watchtower”, “Spirit on the Water” (brano meraviglioso, eseguito tantissimo da Bob: pubblicato nel 2006, a oggi, 2017 compreso, è stato suonato già 558 volte), e “Blowing”, che lentamente ritorna a essere un punto fisso dei live, suonata sempre con rapimento, serietà e dedizione. • #23: 18 giugno 2010 – Parma, Italia. Il mio secondo concerto di Bob – al Parco Ducale di Parma, in un’atmosfera raccolta e magica – inizia con un ricordo curioso ed estremamente piacevole: intorno alle 19:30, non appena varcato il cancello d’ingresso, mi imbatto in Dario Fo, elegantissimo, con un abito chiaro e un cappello bianco a tesa larga. Oltre a lui, Premio Nobel per la Letteratura 1997, ci sono altri vip più o meno importanti – tra cui Cesare Cremonini – pronti ad assistere allo show di Bob in un luogo fantastico. L’aria serale è fresca e la luna illumina romanticamente la bellissima venue. Bob inizia con “Rainy Day Women”, a cui fa seguire una splendida “It Ain’t Me” alla chitarra elettrica, leggiadra e quasi strafottente. Ma la vera perla è “Stuck Inside of Mobile”, con Bob sempre alla chitarra elettrica, suonata anche in “Tangled”. La band (ora di sei elementi, Bob incluso) è attentissima a non distrarsi neanche un secondo e ad accentuare ogni verso che Dylan canta. “Just Like a Woman” è dolcissima: Bob lascia cantare parte del refrain al pubblico, e già questa è una notizia, a dimostrazione di come il Nostro sia di buon umore e stia vivendo, già da molti anni ormai, una seconda giovinezza. “Cold Irons Bound” e “Love Sick” sono gli highlight della serata: cupe, aggressive, che non emanano alcuna speranza, lasciano lo spettatore in un limbo di dubbi e paure. A sorpresa Bob suona la dolce e leggera “I Feel a Change Comin’ On”, pubblicata su Together Through Life l’anno precedente, che brilla ed emoziona specialmente nei versi “I’m listening to Billy Joe Shaver / and I’m reading James Joyce / some people they tell me / I got the blood of the land in my voice”, dove Bob si pone, non senza una leggera ironia, come voce del suo Paese, l’America, attingendo sia da cantanti folk e country “popolari” come Shaver sia da letterati “alti” come Joyce. Il Nostro è un crocevia di riferimenti, storie, pulsioni e stili. “Spirit on the Water” e “Thunder” conducono la serata verso la conclusione: a chiudere è il meraviglioso trittico “Ballad”, “LARS” e “Watchtower”, quest’ultima con Bob nuovamente alla chitarra elettrica. Rientro a casa ancora in trance per questo mio secondo concerto dylaniano emozionante e vibrante. • #24: 12 giugno 2011 – Milano, Italia. C’è un bel po’ di Italia, come detto, in questa lista, perché ci va di raccontare anche di Bob e del suo rapporto con il nostro paese. A questo concerto non potei andare ma, dal resoconto di un caro amico che era lì, dalla registrazione bootleg circolante e dai video reperibili online, è evidente che si tratti di uno dei migliori concerti di quel periodo, superiore alla tournée europea con Mark Knopfler dello stesso autunno (io andai al concerto di Roma del 12 novembre, anche quello, in ogni caso, di ottimo livello). Il concerto milanese dell’Alcatraz è semplicemente sensazionale. Troviamo un Bob in stato di grazia e in una sorta di trance: estrae dal cappello alcune rarità assolute (“When I Paint My Masterpiece” alla chitarra, “Til I Fell in Love with You” e soprattutto una “Visions of Johanna” maestosa) e sembra energico e tormentato: si veda, ad esempio, il video su YouTube con l’esecuzione di “Can’t Wait”, dove Bob cammina su e giù per il palco indemoniato. Gli encore non regalano sorprese ma sono suonati meravigliosamente, con durezza “Watchtower” e con dolcezza “Blowing”, e sigillano magnificamente la serata. In definitiva quello dell’Alcatraz è uno degli highlight dell’anno e in generale del periodo 2010-2012. Bob sarebbe tornato in Italia, come detto, in autunno, con Mark Knopfler come atto d’apertura, e avrebbe toccato Padova, Firenze, Roma e Assago. Personalmente, conservo ricordi bellissimi del concerto romano a cui andai, e in particolare di “Hattie Carroll” e di “Desolation Row”. • #25: 18 ottobre 2012 – San Francisco, California. Dei due bellissimi concerti al Bill Graham Civic Auditorium di San Francisco (17 e 18 ottobre 2012) seleziono il secondo, per le performance sublimi di “Love Minus Zero” e “Hard Rain”, per la rarissima “Chimes of Freedom” (in tempo di elezioni Bob sembra di tanto in tanto riproporre questo inno di libertà e uguaglianza, come fece anche nel 2008, ma non nel 2016), per una aggressiva “High Water” e per la solita bellissima e tristissima “Love Sick”. L’apertura del concerto è affidata al blues divertito di “Watching the River Flow”, mentre la chiusura vede le solite “Ballad”, “LARS”, “Watchtower” e “Blowing” in sequenza. La performance è breve ma intensa: solo 15 brani ma eseguiti benissimo e interpretati magistralmente da Bob e band. Il pubblico risponde con entusiasmo ed energia, e Bob sembra davvero revitalizzato: la voce, sempre più roca e bassa, assume però caratteristiche e sfumature molto particolareggiate, i brani vengono quasi recitati e gli arrangiamenti sono sempre rinnovati e curati per ribadire il legame tra queste canzoni e la grandissima tradizione musicale statunitense e, in parte, europea. Da quest’anno, inoltre, Bob abbandona l’organo e si siede al pianoforte, e questo dà una veste ulteriormente nuova e originale ai brani. Sono tanti i concerti del 2012 che vale la pena di ascoltare, ma quelli di San Francisco risultano particolarmente riusciti. • #26: 6 & 7 novembre 2013 – Roma, Italia. Anche in questo caso, come già avvenuto in altre annate, accorpo due concerti perché simili tra loro e tenutisi nella stessa città e nello stesso club in due giorni contigui. La scaletta fissa – di grande ampiezza e qualità – che Bob ha ideato a metà 2013 subisce una totale e inaspettata modifica nelle due serate romane: all’Atlantico, infatti, Bob esegue due concerti pieni di rarità e sorprese, lasciando a bocca aperta il pubblico italiano della Capitale. (Io non potei andare, e quanto mi sono mangiato le mani!). Il 6 novembre spiccano in particolare “Watching the River Flow”, la sublime “Blind Willie McTell”, la portentosa “Queen Jane”, brano di Highway 61 Revisited (1965), 76° esecuzione dal vivo di un pezzo molto raro e pregiato del repertorio dylaniano, “Just Like Tom Thumb’s Blues”, sempre da Highway 61, “Ain’t Talking” da Modern Times, e soprattutto l’accoppiata da brividi “Most Likely You Go Your Way and I’ll Go Mine” (1966), arrabbiata e cinica, e “Boots of Spanish Leather” (1964), dolorosa e splendida. Ma non finisce qui: sempre il 6 viene eseguita un’altra rarità, “Every Grain of Sand”, come al solito perfetta, uno dei brani più filosofici e poetici di tutto il repertorio di Bob. Chiudono “LARS” e “Watchtower”. La sera dopo Bob regala altre rarità assolute: “Man in the Long Black Coat”, tratta da Oh Mercy, il classicone “Positively 4th Street” (1965), sempre meravigliosa, anarchica e polemica, la sognante “When the Deal Goes Down” (2006), che segue un altro brano tratto da Modern Times, vale a dire “Rolling and Tumbling”. Vengono eseguiti alcuni pezzi che erano in scaletta anche la sera precedente, come “Make You Feel My Love”, “Highway 61”, “Tom Thumb” e “Ain’t Talking”. Nella prima parte del concerto spicca anche “It Ain’t Me”. Come la sera precedente, c’è una intermission di venti minuti dopo “Highway 61”. Nella seconda parte del concerto del 7 spiccano altre sorprese: una “Girl from the North Country” da brividi, una “Under the Red Sky” (rarissima) sognante, e “I Don’t Believe You”, eseguita di rado in anni recenti. Bob cambia anche l’encore: alle “LARS” e “Watchtower” del 6 novembre sostituisce gli altri due classici con cui di solito chiude i concerti, ossia “Ballad of a Thin Man” e “Blowing”. Le due serate romane del 2013 rappresentano i concerti con maggior numero di variazioni e rarità in scaletta dal 2013 a oggi, due performance assolutamente inspiegabili se confrontate con le altre date dello stesso tour, tutte con una scaletta fissa e con variazioni minime di ben pochi brani (comunque “bloccati”) che venivano alternati tra loro. Da ascoltare e riascoltare in loop per settimane, mesi, anni. • #27: 27 agosto 2014 – Fortitude Valley, Australia. Un concerto in una venue estremamente piccola e intima concede alcune variazioni in scaletta rispetto al set fisso e una interpretazione vocale di Bob particolarmente convincente e sentita. Ci troviamo nella periferia di Brisbane, in Australia, al Tivoli, locale piuttosto conosciuto. Se nella prima parte, prima della pausa, Bob si attiene al set fisso, con esecuzioni splendide di alcuni brani (su tutti “Workingman’s Blues” con testo per lunghi tratti riscritto sulla falsariga dell’Odissea, “Waitin’ for You”, da rarità assoluta a brano fisso nel set, “Pay in Blood” e “Love Sick”), nella seconda parte Bob – sempre seduto al suo pianoforte a coda – scombina le carte ed esegue una “Girl from the North Country” da paura, una “Cry a While” divenuta a tutti gli effetti un brano jazz d’altri tempi, una “Tweedle Dee & Tweedle Dum” trasformata in un pezzo melodico e dolce, una “Lonesome Day Blues” graffiante e sporca e, soprattutto, una “Tryin’ to Get to Heaven” triste e sommessa, highlight della serata insieme a “Girl from the North Country” e (come al solito) “Love Sick”. Chiudono in sequenza “Ballad”, “Watchtower” e “Blowing”, e il concerto risulta uno dei più sorprendenti e divertenti di tutto il NET 2014. • #28: 19 novembre 2015 – Bologna, Italia. La scaletta fissa che Bob propone dal 2013 ammette pochissime variazioni e sono rare le serate in cui Dylan scombina totalmente il proprio repertorio live. Le due serate bolognesi – io fui presente a entrambe, nel meraviglioso Auditorium Manzoni, piccolissimo teatro (soli 1234 posti), una delle venue più intime in cui Dylan ha suonato in tempi recenti – non vedono alcuna sorpresa, come anche le due successive tappe italiane, all’altrettanto meraviglioso Arcimboldi di Milano, concerti che chiusero trionfalmente il NET 2015. La seconda delle due serate a Bologna è però più solida e compatta della prima: la magistrale apertura di “Things Have Changed” è ancora più potente, “She Belongs to Me” mette i brividi per l’interpretazione vocale convintissima di Bob, che sta al centro del palco e regala un assolo di armonica splendido; colpisce la sinatriana “What’ll Do”, che dimostra le qualità vocali ancora molto spiccate in un Bob allora 74enne; le due gemme di Tempest “Duquesne Whistle” e “Pay in Blood” si bilanciano, la prima dolce e sognante e la seconda aggressiva e durissima. Anche “Melancholy Mood”, a dividerle, è eseguita benissimo. A “I’m a Fool to Want You” e “Tangled Up” segue una intermission di venti minuti, altra tappa fissa del set 2013-2015, pausa poi abbandonata dal 2016 in avanti. Dopo questa pausa arriva la gemma della serata: una “High Water” semplicemente pazzesca, sempre più buia e inquietante, che sembra prendere piede da una piantagione del Mississippi degli Anni Venti (e infatti il brano è dedicato e ispirato alla vita e alla musica di Charley Patton). “Early Roman Kings” è un altro di quei brani blues vecchio stile dove Bob – sempre rigorosamente al pianoforte a coda – e band si divertono da matti; le sinatriane “Why Try to Change Me Now?”, “The Night We Call It a Day”, “All or Nothing at All” e soprattutto “Autumn Leaves” risplendono e dimostrano quanto questa nuova fase crooner di Dylan, iniziata con la pubblicazione di Shadows in the Night nel 2015, sia convincente e importante. “Spirit on the Water”, brano del 2006, è sempre ben eseguita ed è, a quanto pare, una delle fissazioni di Bob. A chiudere il concerto c’è un encore spettacolare formato da “Blowing” e da una “Love Sick” semplicemente spaziale. Qualche mese prima, sempre nel 2015, in estate, Bob aveva tenuto un concerto altrettanto memorabile a Lucca – anche in quel caso andai – e lì eseguì, a differenza di Bologna (e anche di Milano), una “Simple Twist of Fate” magnifica, che consiglio ai lettori di recuperare. In definitiva il 2015, pur senza sostanziali sorprese di scaletta, a cui Bob ci aveva abituato nei primi 25 anni di NET, si conferma una delle migliori annate di tour della sua carriera: ogni brano è studiato alla perfezione, le variazioni sul tema sono minuscole ma infinite e la band è affiatata come poche altre volte prima. • #29: 13 ottobre 2016 – Las Vegas, Nevada. Nella tarda mattinata del 13 ottobre 2016 arriva la notizia che in tanti aspettavano e in cui da tempo si sperava: da Stoccolma giunge l'annuncio che Bob Dylan è stato insignito del Premio Nobel per la Letteratura “per aver creato nuove espressioni poetiche all'interno della grande tradizione della canzone americana”. Come sappiamo, Dylan, sempre restio a partecipare a cerimonie pubbliche e molto poco propenso a (far) parlare di sé, avrebbe ritirato la medaglia con i suoi tempi, in una cerimonia privata insieme ai membri dell'Accademia di Svezia, a Stoccolma, il 1° aprile 2017, quando il suo tour toccò la capitale svedese, e avrebbe fornito la “Nobel Lecture” qualche mese dopo, nel giugno 2017, al fine di incassare il premio in denaro. Poche ore dopo l'incredibile e sensazionale annuncio del 13 ottobre, Dylan si esibisce al Cosmopolitan di Las Vegas e, anche se non parla del Nobel, si avverte il clima delle grandi occasioni. Fuori dal teatro, infatti, sono stati installati schermi LED su cui compare una scritta con le congratulazioni a Mr. Bob per lo strepitoso traguardo. La scaletta, da qualche anno un set fisso che ammette pochissime variazioni, non vede grosse novità, ma in compenso Bob (probabilmente non a caso vista la serata speciale che sta vivendo) decide di rispolverare la chitarra elettrica (non la suonava dal 9 novembre 2012 a Chicago, Illinois) e concede una performance da brivido di "Simple Twist of Fate" (su YouTube è reperibile un video incompleto che rende bene l'idea di quanto sia stata epica l'esibizione). Bob è in forma smagliante: apre con “Rainy Day Women”, esegue una “Don't Think Twice” perfetta e melanconica, poi dà spazio a un altro classico degli anni Sessanta, una “It's All Over Now, Baby Blue” da applausi. “Tangled Up in Blue” è il solito esperimento in divenire dal 1974 a oggi, mentre “Lonesome Day Blues” è una cavalcata da ballare e cantare a squarciagola. Solo un brano sinatriano in scaletta, e Bob tiene per la chiusura proprio quello, una dolcissima versione di “Why Try to Change Me Now?”, non prima, però, di aver concesso al pubblico le meravigliose “Ballad” e “Blowing”. Concerto che entra di diritto nella meravigliosa storia del NET, sia per la performance solida e attenta sia per la notizia del Nobel giunta da pochissime ore. • #30: 1 aprile 2017 – Stoccolma, Svezia. Il primo concerto del NET 2017 coincide con la visita in Svezia di Bob dopo l’assegnazione del Nobel di qualche mese prima. Finalmente Bob decide di ritirare la medaglia e lo fa attraverso una cerimonia privata qualche ora prima dello show a Stoccolma (avrebbe suonato in città anche la sera dopo). Dopo aver ritirato il premio in una stanza d’albergo, senza la presenza della stampa, e dopo aver suonato qualche brano per gli Accademici di Svezia (così ha scritto il membro permanente Sara Danius sul suo blog e riferito in un’intervista qualche giorno dopo), Bob, in serata, sfodera una grande prestazione di fronte agli stessi Accademici, che sono presenti in prima fila al Waterfront di Stoccolma. La scaletta è sempre quella fissa che da diversi anni, con qualche leggero cambiamento, si mantiene. Bob suona l’armonica solo in “Tangled Up in Blue” e, curiosamente, questa sarebbe rimasta l’unica performance all’armonica in tutto il NET 2017 (mai Bob aveva suonato meno volte l’armonica in un’annata di tournée). Ma una sorpresa, e grossa, in scaletta c’è: Bob esegue “Standing in the Doorway”, da Time Out of Mind, 1997, meravigliosa e disperata: è la 58° performance in totale del brano, che mancava in scaletta dal 2005, gemma preziosa forse concessa proprio per via del fatto che gli Accademici che lo hanno insignito del Nobel sono tutti presenti al concerto. Il resto dello show è magistrale, con i soliti brani sinatriani eseguiti in maniera impeccabile e la voce di Bob sempre a metà tra un roco lamento e un falsetto disperato. Tanti i classici, dalla sublime “Don’t Think Twice” alla compatta e sempre presente (e sempre un po’ tagliata, inevitabilmente) “Desolation Row”, fino alle solite “Tangled Up” e “Blowing”. Risaltano, come sempre, i brani di Tempest: “Pay in Blood” è sublime ed emana una cattiveria e un’intensità rare, mentre “Long and Wasted Year” è una meravigliosa poesia recitata con rammarico e devozione. E ora non ci resta che aspettare l’inizio del tour 2018. |